Bonafede: “Il sovraffollamento è ormai diventato un’emergenza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2019 Il Guardasigilli ha parlato del suo piano per l’edilizia penitenziaria per “accelerare gli interventi di manutenzione straordinaria e ordinaria”. “La situazione delle carceri è tragica su tutto il territorio nazionale e il sovraffollamento rappresenta un’emergenza”. A dirlo è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al termine dell’audizione davanti al comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) rispondendo a una domanda sulle recenti tensioni registrate in alcuni istituti italiani. “Ogni giorno apprendiamo di episodi molto gravi - ha ricordato il Guardasigilli. Noi siamo per la certezza della pena, chi sbaglia deve pagare e non sempre in passato è stato così. Detto questo, la detenzione deve avvenire con finalità rieducativa perché solo attraverso un vero percorso rieducativo si tutelano il detenuto e la società quando il detenuto sarà fuori”. Il ministro ha sottolineato il problema del sovraffollamento: “È un’emergenza sotto tutti i punti di vista ma la soluzione non può essere uno svuota carceri visto che è dimostrato che rientrano subito dopo, in assenza di autentici percorsi di rieducazione si esce e si torna a delinquere”. Il guardasigilli ha spiegato che per superare le criticità intende aumentare il numero degli agenti di polizia penitenziaria. “Un Corpo - ha evidenziato - che è stato dimenticato negli anni passati: nel 2019 è prevista l’assunzione di 1.300 agenti”. Poi ha parlato del suo piano per l’edilizia penitenziaria, spiegando che è stata “costituita una task force al ministero e sono state introdotte norme che permettono maggiore flessibilità e accelerazione per gli interventi di manutenzione straordinaria e ordinaria”. Bonafede ha spiegato che stanno anche lavorando alla possibilità di costruire nuove carceri ed è già a buon punto l’individuazione di caserme dismesse. “Stiamo impiegando forze, energie e soldi, ma - ha concluso - è chiaro che non abbiamo la bacchetta magica”. Il sovraffollamento, come denunciato su queste pagine, ha raggiunto un numero esorbitante. Gli ultimi dati, aggiornati al 31 dicembre, registrano una lieve diminuzione rispetto ai mesi precedenti. Ma Rita Bernardini del Partito Radicale ha spiegato che non sono dati entusiasmanti. “C’è poco da gioire della diminuzione di 347 detenuti tra novembre e dicembre 2018 - sottolinea l’esponente radicale -, perché è dovuta presumibilmente ai permessi che vengono concessi per le festività natalizie e di fine anno”. Bernardini snocciola i dati e denuncia che 93 istituti ospitano 37.122 detenuti che vivono in 26.092 posti regolamentari, con un sovraffollamento medio del 142,27%, “pertanto - evidenza - il 62,22% dei detenuti patisce un sovraffollamento del 142,27%”. L’esponente del Partito Radicale sottolinea anche che tutti i dati “sono falsati dai 4.500 posti inagibili calcolati dal Ministero della Giustizia nella capienza regolamentare”. Rita Bernardini ricorda che l’Italia è ancora sottoposta al monitoraggio europeo la sentenza della Cedu del 29 gennaio 2013 relativa al Caso Cirillo contro Italia (No. 36276/ 10). Perché è importante questo caso che ha determinato la condanna dell’Italia per la mancanza di cure subite dal detenuto nel carcere di Foggia? L’esponente radicale risponde che in questo caso la Corte europea ha stabilito un legame diretto tra l’assenza di cure regolari e il problema strutturale del sovraffollamento carcerario. Polizia penitenziaria: circolare Dap fa chiarezza su pernottamenti in caserma agvilvelino.it, 10 gennaio 2019 Il pernottamento in caserma degli agenti di Polizia Penitenziaria dovuto alle turnazioni è e rimane assolutamente gratuito. È quanto chiarisce una nota della Direzione generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 7 gennaio scorso, specificando che la gratuità va interpretata “soltanto per il tempo strettamente necessario all’espletamento dei compiti istituzionali, compiuti i quali il posto letto dovrà risultare libero da ogni effetto personale”. Rimane invece il pagamento dei soli oneri accessori (consumi di acqua, luce, riscaldamento, ecc.) “nel caso in cui l’utilizzo delle camere di pernottamento sia invece esclusivo e continuativo”, come avviene per gli appartenenti alle altre Forze Armate e alla Guardia di Finanza. La circolare pone fine ai dubbi interpretativi dovuti ad un’erronea stima del Legislatore sul numero degli alloggi interessati dal Decreto Legge 16 ottobre 2017 n. 148 (800 invece di oltre 4.400), che ha portato ad una copertura finanziaria per l’anno 2018 notevolmente inferiore a quella necessaria (345mila invece di 1,9 milioni di euro). Tali dubbi avevano consigliato il DAP a sospendere la riscossione degli oneri accessori dovuti per l’uso degli alloggi collettivi di servizio a partire dal 16 ottobre 2017. Ora, sciolti i dubbi e “al fine di non incorrere in danni erariali”, con il provvedimento è stata ripristinata, con decorrenza dal mese di febbraio 2019, la trattenuta mensile ordinaria per i suddetti oneri; inoltre, per recuperare le quote arretrate dalla sospensione ad oggi, è stata concessa al personale la possibilità, su richiesta, di una dilazione fino ad un massimo di 36 rate mensili. La giustizia è l’utile del più forte di Giorgio Varano* huffingtonpost.it, 10 gennaio 2019 Da tempo ormai un’antica e terribile considerazione, pronunciata da Trasimaco ne “La Repubblica” di Platone, è diventata una verità: la giustizia è l’utile del più forte. Negli ultimi anni tutti i governi hanno indicato, di volta in volta, le priorità della giustizia, identificandole con il proprio utile elettorale, o hanno evitato di decidere per interessi elettorali su questioni di difficile digeribilità per il “popolo” (non ultima la marcia indietro sulla riforma dell’ordinamento penitenziario del governo Gentiloni). Ma l’utile indicato da Trasimaco è tale solo per il più forte del momento, per chi quindi è al potere, mentre è in realtà “un danno proprio di chi ubbidisce e serve”, con la conseguenza però che “i sudditi fanno l’utile di chi è più forte e lo rendono felice servendolo, mentre non riescono assolutamente a rendere felici se stessi”. Infatti, chi invocava riforme autoritarie, ora che le ha ottenute non vede la propria voracità placata, ma passa oltre cercando altri settori in cui continuare ad urlare la propria rabbia. Con le ultime campagne populiste, a suon di “post-riforme” o “tweet-riforme” che dir si voglia, i cittadini sono stati incattiviti e resi idrofobi, e illusi da una politica che ha identificato le cause di una presunta incapacità di rendere una giustizia serena e rapida nella mancanza di strumenti di repressione che vengono quindi puntualmente aggravati e innovati, quando in realtà tutto questo è dovuto solo alla disorganizzazione e alla cronica mancanza di fondi, problemi irrisolti perché non consentono un cinico e immediato utile elettorale. E non fa niente che anni di riforme di questo tipo, nel settore giustizia, non solo non hanno avuto alcun successo verificabile, ma anzi hanno visto statisticamente certificata la propria inefficacia. Tutto questo nuovo modo di svolgere la politica è l’amara conseguenza della liquidità del consenso elettorale, che si gioca su una finta e costante emergenza, scintilla di ogni decisione, anche di carattere sistematico o presunto tale. È la dinamicità degli spostamenti elettorali, alle volte incomprensibile, a comportare una isteria collettiva della politica su qualsiasi argomento. Altro carburante alla populistica inesorabilità delle scelte è il limite del doppio mandato, o comunque l’incertezza della ricandidatura. Questo comporta la necessità, per i leader politici o futuri tali, di aumentare la propria visibilità nell’immediato con proposte o scelte definitive e drastiche, che quasi sempre o non reggeranno alla distanza o sono tali solo sulla carta, una carta pasticciata che nessuno può vedere o discutere, ma che solo alcuni possono votare, o meglio devono votare in aule che ormai sono assimilabili ad un “bivacco di manipoli” di non tanto antica memoria. La giustizia, un prezioso bene comune su cui occorrerebbe una riflessione sedimentata con tutti gli addetti ai lavori, viene fatta invece vivere come un bene altrui, un privilegio che con i suoi lacci e lacciuoli, la sua retorica, i suoi meccanismi datati, impedisce la piena realizzazione della giustizia anelata da un popolo inferocito dalla propria mancata realizzazione sociale ed economica. La riforma della prescrizione, o meglio la controriforma con il blocco della stessa dopo la sentenza di primo grado, ha visto l’unanime critica del mondo degli addetti ai lavori, gli avvocati penalisti, i magistrati, il Consiglio Superiore della Magistratura, tantissimi professori universitari, tutti inascoltati da una politica fragile, ostaggio del proprio esigente elettorato, al quale non si può dire che così facendo i processi dureranno all’infinito e che proprio coloro che avranno interesse a ritardare la definitività delle proprie condanne ne trarranno beneficio. Ma questa politica pare avere solo una missione: galleggiare fino al prossimo mandato elettorale, per tentare di riaverne un altro e magari di avere più potere. Il problema è che c’è una distanza siderale tra essere opposizione ed essere governo, ed ancor più grande è la distanza tra essere governo ed essere contemporaneamente rappresentanti di un elettorato fortemente disomogeneo che chiede conto quotidianamente sui social ai propri rappresentanti, interessati a quanto pare più al conto “social” che al conto sociale delle proprie scelte. La ricetta della politica? Quella che mette in atto da tempo: privatizzare gli utili elettorali e socializzare tutte le perdite. Tanto gli utili vengono incassati subito, le perdite nel mondo dei diritti, nell’economia, nell’informazione, nella tenuta sociale, invece verranno fuori con il tempo, quando magari al governo ci saranno altri a cui addebitarle. *Avvocato penalista, responsabile comunicazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane “L’avviso” della Consulta sul decreto sicurezza Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2019 L’intervento di Cartabia sulla firma del Colle che Salvini usò come “scudo” Alla presentazione dei volumi su “I presidenti della Repubblica: il capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana” (di Cassese, Galasso, Melloni) era presente Sergio Mattarella. E chi era con lui racconta che il presidente abbia apprezzato un passaggio dell’intervento di Marta Cartabia in cui - parlando del potere di firma presidenziale - ha fatto chiarezza dopo le dichiarazioni di Salvini a proposito del decreto sicurezza. Nel pieno della polemica con i sindaci, il leader leghista si era fatto “scudo” del timbro del Colle come a tacitare sia il dissenso politico che i dubbi di costituzionalità. Un’operazione che, dalle parole della vicepresidente della Consulta, sembra del tutto impropria. A riguardo di emanazione dei decreti legge o promulgazione delle leggi, Cartabia ha specificato si tratta di “atti solo formalmente presidenziali” che “sono espressioni dí scelte di altri organi costituzionali” e dunque nulla hanno a che fare con le opinioni del capo dello Stato. Inoltre, “l’apposizione della firma svolge solo un controllo di validità, volto a rilevare solo i più macroscopici vizi di illegittimità costituzionale, con ciò distinguendosi dal più penetrante controllo svolto dalla Corte, complementare e non sovrapponibile a quello del presidente”. Dunque, per Salvini chiamare in causa la firma del Colle non gli fornirà alcuno “scudo” in vista dei ricorsi alla Corte. Prescrizione, ecco perché Mattarella non ha ancora firmato il decreto di Francesco Damato Il Dubbio, 10 gennaio 2019 Il presidente della Repubblica non ha ancora firmato, per la promulgazione, la legge cosiddetta “spazza corrotti” faticosamente approvata dalle Camere, in particolare a Montecitorio in via definitiva il 18 dicembre scorso. È quella che contiene la norma che modifica l’articolo 159 del codice penale e dispone che “il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado”. È la fine, contestatissima pure all’interno della maggioranza, della prescrizione: la fine anche per l’imputato che venisse assolto e vedesse appellato il verdetto dall’accusa, senz’altro limite al processo se non quello purtroppo generico dell’articolo 111 della Costituzione. Che parla solo di “ragionevole durata”. Quanto poi ragionevole possa o debba essere la durata di un processo, non si sa. E francamente non si sa neppure chi possa stabilirlo: forse la Corte Costituzionale, se le dovesse capitare di occuparsi del problema, al primo ricorso ricevuto tramite la magistratura per qualche vertenza giudiziaria aperta da un cittadino non disposto ad accettare la sua condizione di imputato a vita. Il presidente della Repubblica, che è anche un fine giurista ed è stato giudice costituzionale prima di essere eletto al vertice dello Stato, sta riflettendo evidentemente su questo e forse anche altri aspetti della legge così fortemente voluta dai grillini: una bandiera, per loro, quasi come quella del cosiddetto reddito di cittadinanza. Una bandiera contrastata, all’interno della maggioranza gialloverde, dai leghisti. I quali definirono per bocca del ministro della pubblica amministrazione e celebre avvocato Giulia Bongiorno “una bomba atomica” la supposta della fine della prescrizione, riuscendo solo a strappare agli alleati di governo l’impegno - che, in verità, si ha difficoltà a trovare nel testo della legge approvata dalle Camere- a rendere operativa la sospensione senza limite della prescrizione dall’anno prossimo, in modo da tentare, quanto meno, una riforma generale e rasserenante del processo. Non solo da presidente della Repubblica e da giurista Sergio Mattarella merita tutta la comprensione dell’osservatore politico per il tempo di riflessione che si è dato. E che scadrà costituzionalmente il 18 gennaio, al compimento cioè del trentesimo giorno dall’approvazione della legge. La riflessione di Mattarella merita tutta la comprensione possibile pure per via della sua doppia funzione, voluta anch’essa dalla Costituzione, di presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il quale ultimo, richiesto di un parere dal ministro della Giustizia durante il percorso della legge, ha espresso il suo dissenso, anche su aspetti diversi dal più clamoroso costituito dalla sospensione all’infinito, cioè della soppressione, della prescrizione con l’arrivo della prima delle tre sentenze consentite dal nostro sistema giudiziario e istituzionale. Il parere negativo, e per certi versi dirompente, del Consiglio Superiore della Magistratura fu formulato all’unanimità nella competente commissione. E a maggioranza dal plenum, che se ne occupò, votando, solo il 19 dicembre, cioè il giorno dopo l’approvazione definitiva della legge alla Camera: con un calendario, diciamo così, sfortunato per chi avrebbe voluto fare ancora qualcosa in Parlamento per porre rimedio alla incresciosa situazione, ma fortunato per il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede. Che però adesso attende forse con ansia non inferiore, se pure di segno contrario a quella degli avvocati, dei leghisti nella maggioranza e delle opposizioni parlamentari, le conclusioni della lunga, e per ciò stesso significativa riflessione che ha voluto concedersi, o imporsi, il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella ha dimostrato nei suoi quasi quattro anni del mandato presidenziale, dei setti affidatigli dalla Costituzione, di essere ben disposto a firmare in fretta le carte che gli arrivano sulla scrivania quando ne condivide o comunque accetta il contenuto, o l’urgenza che qualche volta l’accompagna. È accaduto non più tardi della fine dell’anno scorso, quando per evitare il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio ha firmato la legge di bilancio limitandosi poi a lamentare, nel messaggio televisivo di San Silvestro, la “grave compressione” subita dall’esame parlamentare. “Grave” per Mattarella, “dolorosa” per il presidente grillino della Camera Roberto Fico in una lettera di buon anno affidata al giornale della Confindustria Sole 24 Ore. Cnf: “Legittima difesa purché nella Costituzione” di Errico Novi Il Dubbio, 10 gennaio 2019 “Le nuove norme sulla legittima difesa possono essere considerate utili a rafforzare il diritto dell’aggredito alla tutela giurisdizionale, a condizione che vengano applicate secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata”. Il presidente del Cnf Andrea Mascherin prova a mettere ordine nella discussione sulla legge cara alla Lega. Lo fa nella lunga audizione di ieri alla Camera, dove il testo attende il via libera definitivo. Presenta le valutazioni dell’avvocatura ai deputati della commissione Giustizia insieme con Vinicio Nardo, componente dell’Organismo congressuale forense. Da Mascherin arriva anche un richiamo alla “necessità che venga lasciato intatto il margine di discrezionalità del giudice”, quando l’azzurra Giusy Bartolozzi gli chiede se non sarebbe preferibile il testo di Forza Italia, in cui si considera in ogni caso non punibile chi spara in risposta a un’intrusione nel proprio domicilio. Nardo solleva invece un allarme “di sistema”, relativo al rischio che alcune norme della nuova legittima difesa “favoriscano il passaggio dal monopolio statale dell’uso legittimo della forza alla licenza data a ognuno di difendere il proprio ranch”. Oltre un’ora di analisi e valutazioni che forniscono però risposte chiare su temi continuamente al centro della polemica politica. Non a caso Mascherin dichiara fin dall’inizio di non voler aderire “né alla posizione di chi ritiene che stiamo per proclamare un nuovo far west, né a quella di chi si illude di poter evitare che casi simili siano comunque oggetto di indagine”. Dopodiché il presidente del Cnf spiega sotto quale aspetto “le norme in esame richiederanno un’interpretazione sempre costituzionalmente orientata”. Ricorda in particolare che la disciplina già in vigore sulla “difesa legittima” fissa “all’articolo 52 del codice penale due principi cardine che devono essere sempre tenuti presenti anche nei commi successivi: la non punibilità della reazione richiede che quella reazione sia necessaria e che il pericolo sia attuale”. Tutte le parti successive della disciplina - sia quelle già previste come “la necessità che non vi sia desistenza” sia “le parti che ora vengono introdotte” come “la non punibilità in caso di intrusione con violenza o uso di armi” - vanno “in ogni caso riportate alla necessità e all’attualità. Nel momento in cui l’interpretazione delle norme avverrà in questo senso costituzionalmente orientato”, osserva Mascherin, “si potrà dire che si tratta di modifiche non pericolose. Se ne potrà così scorgere anche l’utilità della ratio: facilitare l’esercizio del diritto alla difesa giurisdizionale e valorizzare il principio di non colpevolezza”. Il presidente del Cnf fa notare come l’altra modifica- chiave della “nuova” legittima difesa, ossia la non punibilità in caso di “grave turbamento”, non faccia altro che “formalizzare una tendenza giurisprudenziale più volte ribadita: quella che riconosce la legittima difesa putativa. Naturalmente”, ricorda il presidente del Cnf, “tale previsione non potrà comunque mai escludere l’apertura di un’indagine su chi reagisce a un’aggressione o a un pericolo”. L’analisi del presidente del Cnf si incrocia con quella di Vinicio Nardo, componente dell’Ocf e della Camera penale di Milano, che da una parte richiama i deputati sulla “diminuzione dei reati contro il patrimonio” e su una “giurisprudenza che già oggi tende a non punire chi reagisce a situazioni come quelle che la nuova legge intende tutelare”, e che dall’altra parte esprime il timore di conseguenze “sull’idea stessa dello Stato e del monopolio nell’uso della forza”. Nardo segnala “l’introduzione di automatismi sul ritiro del porto d’armi, che eliminano la discrezionalità oggi riconosciuta alle autorità di polizia: se queste ultime, da sempre titolari esclusive dell’uso legittimo della forza, non possono più togliere la licenza del possesso di armi, si afferma il principio di uno Stato in cui ciascuno difende il proprio ranch”. E anche passaggi delle nuove norme come quelli “sulla scusabilità per lo stato di agitazione” possono “favorire l’affacciarsi di questa diversa idea di Stato”, secondo il componente dell’Ocf. Sia Mascherin che Nardo richiamano i deputati della commissione Giustizia sul fatto che la riforma della legittima difesa introduce il pagamento delle legali con il meccanismo del patrocinio a spese dello Stato. “Si rischia paradossalmente di restringere la cerchia degli avvocati disponibili ad assumere la difesa di chi è indagato per eccesso colposo”, fa notare il rappresentante dell’Ocf. Perché, come spiega Mascherin, “non si può pensare che l’avvocato debba obbligatoriamente aderire alla quantificazione prevista dalle norme sul patrocinio, oltre che ai tempi notoriamente lunghissimi per le liquidazioni”. E in generale, il presidente del Cnf ricorda che “se l’obiettivo è rafforzare il diritto costituzionale alla difesa in giudizio, la strada maestra da percorrere è quella di riconoscere in Costituzione il ruolo dell’avvocato”. Campania: laurearsi nelle carceri, ora si può di Luciana Pennino napoliflash24.it, 10 gennaio 2019 Per la prima volta nel Sud Italia, le persone soggette a reclusione potranno ambire a conseguire la laurea. Il 15 Gennaio avrà inizio il primo anno accademico dell’Università Federico II in carcere e nelle prime settimane di Febbraio si attiveranno i corsi. Il Polo Universitario Penitenziario della Campania nasce dalla collaborazione tra l’Università di Napoli Federico II e il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, iniziata già da alcuni anni con la firma del primo Protocollo di cooperazione e declinata attraverso una serie di attività nelle quali sono stati impegnati vari Dipartimenti dell’Ateneo. Nell’anno appena concluso è stata rinnovata questa sinergia con la firma da parte del Rettore, Prof. Gaetano Manfredi, e del Provveditore, Dott. Giuseppe Martone, di una nuova Convenzione che ha come oggetto principale proprio il Polo Universitario. Chi ha avuto a che fare con la realtà carceraria sa bene quanto l’istruzione e lo studio siano determinanti per ottenere una sana riabilitazione, l’aumento del livello di autostima e la garanzia di condizioni di vita dignitosa per coloro che sono temporaneamente reclusi. Su quest’argomento così rilevante sento la Prof. Marella Santangelo, Professore Associato in Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, nonché Delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario della Campania. Perché arriviamo dopo molti anni rispetto, per esempio, alle realtà del Nord Italia? Direi che le condizioni dei territori si riflettono naturalmente anche sulle carceri. Voglio citare un solo esempio: la Casa di reclusione di Bollate, a Milano, è considerata a livello nazionale e internazionale uno degli istituti di pena modello d’Europa, questo per la tenacia e la capacità della direzione che nel tempo si è assunta enormi responsabilità pur di sperimentare nuove forme di vita detentiva, ma anche perché la società civile ha risposto compatta alla richiesta di collaborazione, attraverso proposte di lavoro, offerta volontaria di professionalità, scelte di investire economicamente sulle persone recluse e sull’Istituto. Ecco, credo che a Napoli siamo ancora molto lontani da tutto questo, benché ci sia una nuova generazione di direttori molto capaci e motivati. Quindi la nascita, oggi, del Polo Universitario in Campania è un segno estremamente significativo che diamo come Ateneo e come Amministrazione Penitenziaria. Tale Polo è fisicamente ubicato nella casa di reclusione di Secondigliano, dove sono state predisposte due sezioni dedicate una all’alta sicurezza e una alla media sicurezza, per i soli detenuti uomini oltre che di Secondigliano stesso, anche di Poggioreale, di Santa Maria Capua Vetere e di Carinola. Le donne detenute, invece, che si sono iscritte, restano nella Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Gli iscritti totali sono circa 80, distribuiti su diversi Corsi di Laurea. Per loro, la Federico II ha deciso l’esonero dal pagamento delle tasse. Quali sono stati, Professoressa, i Corsi di Laurea più scelti? L’offerta formativa dell’Ateneo è di tutti i corsi di laurea, a meno di quelli a numero chiuso nazionale come Medicina e Architettura, per oggettive difficoltà sulle quali si sta lavorando. I corsi di laurea con il maggior numero di iscritti sono Giurisprudenza e i corsi triennali in Scienze Nutraceutiche e Scienze erboristiche; ci sono poi Sociologia, Urbanistica e Economia e altri ancora. Come si svolgeranno le lezioni? Una parte delle lezioni regolarmente svolte dai docenti nei vari Dipartimenti sarà registrata e inviata in Istituto; la presenza fisica di professori e/o tutors verrà garantita con una certa continuità. Stiamo inoltre lavorando con gli esperti di Federica Weblearning affinché, al più presto, sia possibile individuare una forma di connessione protetta per gli studenti detenuti, in modo che possano anche loro collegarsi e avere accesso a un patrimonio molto vasto di lezioni e materiali vari. L’obiettivo è quello di assicurare una didattica completa ed equivalente a quanto accade per gli studenti liberi. Chi saranno i docenti? È importante precisare che i colleghi presteranno la loro opera volontariamente, nel senso che le ore di lezione in carcere saranno in aggiunta al carico orario di ciascuno di noi, e avranno l’ausilio fondamentale dei tutors, ovvero di alcuni giovani laureandi o specializzandi che hanno partecipato a un bando di Ateneo per il supporto allo studio. Rovigo: “A scuola di libertà”, il carcere entra a scuola rovigooggi.it, 10 gennaio 2019 Coinvolgente esperienza per gli studenti del Bernini di Rovigo che hanno ascoltato le esperienze di tre ex detenuti del carcere di Padova. Studenti ed ex detenuti a confronto. Due ore intense sono state quelle vissute dagli studenti di 4A/L il 20 dicembre nell’ambito del progetto “A scuola di libertà”, dove si è tenuto un incontro con tre ex detenuti del carcere di Padova, accompagnati dalla dottoressa Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e Giustizia. Lo scopo è stato quello di rendere gli studenti consapevoli di quanto sia facile fare scelte sbagliate nella propria vita e di quanto sia doloroso vivere privi della libertà. La dottoressa Favero ha sottolineato che nessuno deve sottovalutare i rischi di comportamenti avventati e che ognuno deve assumersi la responsabilità dei propri errori. Gli studenti hanno ascoltato con grande attenzione il racconto delle singole esperienze ed hanno percepito il dolore misto a vergogna di chi stava parlando, a dimostrazione di quanto il peso delle colpe non abbandoni mai chi le ha commesse. L’incontro è stato arricchito da un dibattito, senza dubbio costruttivo, durante il quale gli ex detenuti, rispondendo alle domande ed alle riflessioni degli studenti, hanno avuto il coraggio di “mettere in piazza” le loro vite disastrate senza cercare alibi. I ragazzi, dopo aver ascoltato chi ha vissuto l’esperienza del carcere, sono usciti sicuramente con la consapevolezza di cosa non fare per evitare di imboccare una strada devastante per se stessi e per le proprie famiglie. A scuola di libertà con l’esperienza degli ex detenuti al carcere di Padova (Il Gazzettino) Anche l’attività didattica può dare strumenti non solo per imparare i concetti di giustizia, pena e riabilitazione, ma anche per conoscere cosa significhi il carcere, e riflettere sull’educazione alla legalità, alla responsabilità e al dialogo contro i pregiudizi. È questa l’esperienza che lo scorso 20 dicembre hanno vissuto gli studenti di 4a A/L dell’istituto tecnico per geometri Bernini di Rovigo nell’incontro con tre ex detenuti nel carcere Due Palazzi di Padova, accompagnati per l’occasione dalla presidente della Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia Ornella Favero. L’incontro è stato organizzato nell’ambito del progetto A scuola di libertà e ha avuto lo scopo di rendere gli studenti consapevoli di quanto sia facile fare scelte sbagliate nella vita, e di quanto sia doloroso, poi, vivere senza libertà. “A scuola di libertà” insegna, a scuola, a imparare a conoscere il carcere, per promuovere la sicurezza sociale fondata sulla prevenzione, la responsabilizzazione, la solidarietà e lo scambio di esperienze. La presidente Favero, così, ha ribadito che nessuno può sottovalutare i rischi di comportamenti avventati e che è dovere di ognuno assumersi la responsabilità dei propri errori. Gli studenti hanno ascoltato con grande attenzione le esperienze presentate, contrassegnate da dolore e vergogna perché il peso delle colpe non abbandona mai chi le ha commesse. L’incontro è diventato un dibattito durante il quale gli ex detenuti hanno risposto alle domande e alle riflessioni degli studenti, e hanno contribuito a costruire una coscienza critica, senza alibi, come valore necessario alla prevenzione della devianza tra gli adolescenti. L’iniziativa A scuola di libertà - La scuola impara a conoscere il carcere ha il patrocinio della Fondazione Cariparo. Roma: i pm “perizia da rifare per la donna che ha ucciso i figli a Rebibbia” di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 10 gennaio 2019 “Perizia da integrare, o meglio ancora da rifare”. Va approfondita, forse riscritta, la prima conclusione psichiatrica che ha tratteggiato lo stato mentale di Alice Sebesta, la detenuta tedesca che il 18 settembre ha ucciso a Rebibbia, gettandoli dalle scale, i figlioletti Faith di 6 mesi, e Divine di 19. La perizia che concludeva sulla piena capacità di intendere e di volere della donna al momento del fatto, firmata dallo psichiatra Vincenzo Mastronardi, docente de La Sapienza in pensione, ieri, durante l’incidente probatorio a piazzale Clodio, è stata contestata dalla procura che l’ha ritenuta insufficiente e parziale, al punto da definirla “negligente”. Il consulente non avrebbe preso in considerazione la storia clinica della donna, che soffre di un disturbo psicotico dall’adolescenza, soffermandosi solo sulla presunta intossicazione da marijuana di tre settimane prima. L’esperto, infatti, aveva specificato che la detenuta, un mese prima del duplice delitto, avrebbe abusato di stupefacenti. Ma non potendosi ritenere tossicomane cronica, la sua capacità sarebbe stata scontata. Lo psichiatra, anzi, aveva sostenuto la “deliberata assunzione di stupefacente in dose massiva”, basandosi su dichiarazioni della stessa detenuta. Il gip Antonella Minunni, acquisita la perizia e le consulenze delle parti, e recepite le contestazioni effettuate in aula allo specialista dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal pm Eleonora Fini, e anche dalla difesa della Sebesta, si è riservata di decidere su un’integrazione o sul rinnovo dell’accertamento. La perizia di Mastronardi cozza, infatti, con quella iniziale depositata dallo psichiatra Alessio Picello consulente dei pm. L’esperto aveva ritenuto la detenuta incapace di intendere al momento dei fatti, per un grave disagio mentale. Anche il difensore della Sebesta, l’avvocato Andrea Palmiero, ha sempre evidenziato il dramma psicologico della donna, ricoverata per anni in ospedali psichiatrici in Germania. Dello stesso avviso il suo consulente, lo psichiatra forense Gabriele Mandarelli. “Li ho uccisi per salvarli dalla mafia e dai pedofili”, si era giustificata la mamma dopo il dramma. La psichiatra della Asl RN12 che l’avrebbe dovuta visitare su sollecito della direzione del carcere, è ora indagata per omissione di atti di ufficio. Milano: l’udienza e gli interpreti inadeguati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 gennaio 2019 Il processo celebrato con l’interprete messo a disposizione del Tribunale dagli imputati. Si esce dalla surreale videoconferenza in inglese dalla Nigeria di due testi nel processo per corruzione a carico di Eni e Shell, e viene da chiedersi: ma se il Tribunale ha dovuto rassegnarsi a mandare via l’interprete per inadeguatezza rilevata tanto dai pm quanto dai difensori, e chiedere agli imputati della Shell di “prestare” per questa udienza il proprio stuolo di traduttrici (che al pari di Eni integra la squadra di mega avvocati e super consulenti mobilitata ad ogni udienza di questo processo attorno a un affare da 1,3 miliardi di dollari), allora che cosa succederà ogni giorno nei processi “normali” dove non ci sono imputati ricchi e super difesi? Dove bisogna tradurre lingue meno comuni dell’inglese? Ad esempio nel girone infernale delle “direttissime”, là dove la corretta ricostruzione della dinamica di un fatto in strada può fare la differenza tra la condanna ad anni di carcere o l’assoluzione? Ieri l’interprete inizialmente chiamata dai giudici nemmeno si presenta, la seconda ingaggiata all’ultimo momento va subito ko, e per le prossime udienze il Tribunale, “vista la difficoltà di trovare” interpreti affidabili, chiede a Shell se possa continuare a prestargliele (no grazie, risponde Shell, in futuro le nostre traduttrici servono a noi). Ci si rivede per la prossima videoconferenza tra una settimana in aula. Forse. Perché a Milano ci sono solo tre aule “attrezzate”, si fa per dire: ieri le voci arrivavano poco, male, disturbate, e il collegamento era faticoso e instabile, proprio come solitamente (e inutilmente) lamentano i legali nei processi di mafia. Non una gran bella figura italiana in Nigeria. Che pure, però, ci mette del suo quando in udienza l’Eni lamenta che l’organismo anticorruzione della Nigeria abbia convocato nella propria sede i testi nigeriani due giorni prima “in preparazione della testimonianza”. Protestano i legali Eni già sulle barricate per alcune incongruenze formali nei dati identificativi dei testi, asserendo la non neutralità della circostanza in quanto la Nigeria è parte civile contro Eni e Shell. I giudici rispondono di non aver modo di capire se i nigeriani abbiano intrattenuto quei pre-contatti coi testi “nell’ambito di un’attività meramente organizzativa” della videoconferenza oppure “in anomale attività integrative d’indagine non delegate”: per il futuro invitano comunque i pm milanesi a chiedere alla Nigeria di riformulare le proprie lettere di convocazione, per evitare che sembrino “fuorvianti”. Napoli: “film in cella, polemica assurda” di Luigi Nicolosi Il Roma, 10 gennaio 2019 L’ex narcos interpreta un agente a Poggioreale, il garante dei detenuti Ciambriello: “Pensiamo al reinserimento sociale”. “Una polemica surreale”. Il giudizio di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, è tranchant. Il professore replica così all’indomani della bufera sollevata dai sindacati di polizia penitenziaria che non avevano affatto gradito la presenza di Pietro Ioia, ex narcos di Forcella, nei panni di “secondino” nel nuovo film prodotto da Matteo Garrone, di cui alcune scene sono state girare la scorsa settimana all’interno della casa circondariale di Poggioreale: “L’unico rischio è che Ioia si ritrovi a essere oggetto di una strumentalizzazione, forse involontaria o forse no, ad ogni modo vedremo quali saranno le battute previste per il suo copione. Quanto ai baschi azzurri, non è purtroppo la prima volta che diffondono comunicati sopra le righe”. Il Garante regionale dei detenuti esprime dunque con parole chiare il proprio punto di vista sulla querelle: “Garrone, lo sappiamo bene, è un maestro del cinema e in questa circostanza è stato abile a usare Ioia nella classica “legge del contrappasso”. Resta però da capire cosa di preciso gli farà dire. Spero che siano quantomeno delle parole congrue, che non finiscano per alimentare ulteriori tensioni”. Ciambriello riserva quindi una tirata d’orecchie ai sindacati Osapp e Uspp, che due giorni fa avevano duramente attaccato Ioia: “Come garante - ricorda - sono ormai abituato ai loro comunicati spesso sopra le righe, la mia impressione è che manchi proprio un’idea di futuro e di inserimento sociale per gli ex detenuti. Per loro un uomo che ha commesso un reato, anche dopo aver scontato la condanna, quasi sempre resta inchiodato a una sorta di fine pena mai. Queste persone non devono essere osteggiate, bensì incoraggiate. E se recitare una parte in un film può rappresentare un passo in avanti in quest’ottica che ben venga. La tossina del male deve essere estirpata già in carcere applicando ogni giorno la Costituzione”. Ciambriello lancia quindi un appello accorato proprio agli agenti del corpo di polizia penitenziaria: “Cerchiamo di non esasperare ulteriormente gli animi. Proviamo invece a mettere in risalto anche le cose positive, soprattutto nell’ottica del reinserimento sociale degli ex detenuti”. Sul punto, la strada da percorre è purtroppo ancora molto lunga: “Ma - precisa il professore Ciambriello - alcuni miglioramenti si stanno già vedendo. In molte carceri della Campania, Poggioreale e Secondigliano compresi, si stanno avviando sempre più progetti di coinvolgimento dei detenuti in lavori di pubblica utilità, spesso di pari passo con dei percorsi di formazione culturale. L’obiettivo dev’essere quello di coltivare sempre di più il bello e mi pare che il Dap stesso stiamo sempre più facendo proprio questo principio”. Tutto bene quindi? Non proprio: “Le note stonate non mancano - avverte il Garante regionale - a preoccuparmi in questo momento sono soprattutto le cifre relative ai suicidi in cella e alle centinaia di casi di malasanità carceraria. Statistiche che nel 2018 anche in Campania hanno rivelato un non trascurabile incremento. È arrivato il momento di archiviare al più presto la stagione dei rimpalli di responsabilità e decidersi a cambiare passo una volta per tutte”. Napoli: carceri, la “guerra tra poveri” che non cambierà il sistema di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 10 gennaio 2019 La foto che ha mostrato Pietro Ioia attivista per i diritti dei detenuti, nei panni di un agente penitenziario, ha scatenato una furiosa polemica che ha coinvolto i principali sindacati della Polizia penitenziaria, il regista Matteo Garrone e il Ministero della Giustizia. Il motivo? Garrone sta girando un film a Napoli dal titolo “Nivea” che tratterà anche il tema della vita in carcere. Una piccola parte sarà interpretata proprio da Ioia che da ex detenuto, ironia della sorte, vestirà la divisa di un agente della polizia penitenziaria. Immediata la reazione del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) e del Sindacato polizia penitenziaria (Spp): “Mentre un narcotrafficante fa l’attore a Napoli con la divisa della polizia penitenziaria, non sarebbe mai successo che per interpretare il maresciallo Rocca dei carabinieri venisse scelto nemmeno un ladruncolo qualsiasi. Abbiamo toccato il fondo a testimonianza che il nostro corpo, per effetto di scelte politiche e provvedimenti del Dap e del ministro della giustizia, è considerato di serie z. Da domani, a partire dalle carceri di Abruzzo e Molise, prenderà il via una mobilitazione del sindacato senza precedenti con un tour e sit-in davanti ai principali istituti di pena del paese. Ci fa semplicemente sorridere il tentativo di recuperare credibilità messo in atto dal ministro Bonafede. Rispetto a questa situazione che vede gli agenti di polizia penitenziaria fare le comparse e i detenuti gli attori, noi diciamo basta e chiamiamo i colleghi alla mobilitazione per rifiutare il ruolo di vittima di detenuti-carnefici. Un sussulto di dignità che dobbiamo anche per la memoria di tanti colleghi che si sono tolti la vita non reggendo lo stress di condizioni di lavoro e di vita di gran lunga peggiori dei carcerati. Siamo convinti che a furia di dire bugie e di fare promesse, solo perché il carcere non rientra nel cosiddetto ‘contratto di programma’ tra Lega e Movimento 5 stelle, questi atteggiamenti si ritorceranno come un boomerang contro chi li pratica nel disprezzo dell’impegno, del sacrificio di migliaia di lavoratori in divisa”, ha dichiarato Aldo Di Giacomo, segretario generale del Spp. Non si è fatta attendere la risposta di Ioia: “Le mie lotte di civiltà e il rispetto per il diritto non vogliono essere spunti per provocare guerre fra poveri, detenuti e guardie penitenziarie. Non ho avuto pregiudizio nell’indossare la vostra uniforme. Chi la infanga è chi usa violenza per imporla e non per chi denuncia gli abusi. Chi denuncia, delegando alla giustizia il compito di stabilire ciò che è giusto o illecito, dimostra senso civile”. Intanto dagli uffici di via Arenula, sede del Ministero di Grazia e Giustizia, sembrerebbe che il Ministro Alfonso Bonafede non abbia dato molto interesse alla questione e dai suoi collaboratori sarebbe trapelata questa affermazione: “Ci occupiamo di giustizia e non di casting”. Ecco, tutta la questione è davvero paradossale. In un paese in cui il sistema giustizia è al collasso, i processi durano anni e molti di essi non giungono a sentenza, dove le carceri esplodono e al loro interno sono calpestati i diritti umani, dove il potere giudiziario è molto forte e spesso supplente a quello politico, ci siamo trovati di fronte ad una querelle del genere a causa di un film. Ed è davvero assurdo che a litigare siano le vittime di questo sistema inefficiente e inefficace, ovvero i detenuti (ex, in questo caso per Ioia) e gli agenti della Polizia penitenziaria. Mentre chi dovrebbe fornire una soluzione, ovvero la politica - quindi l’attuale esecutivo - non solo ha dimostrato una sorta di indifferenza ma si è soltanto impegnata a varare leggi che hanno aumentano e inasprito le pene, che hanno stravolto in peggio il principio della prescrizione e che come obiettivo futuro si è posto quello di costruire più carceri (senza considerare che nel fatidico “contratto” di governo, delle carceri, non si parla neppure). Dunque, il vero dramma è proprio questo. Sarebbe necessario che l’intera comunità penitenziaria ne prenda coscienza e tutta unita si rivolga agli esponenti del governo giallo - verde affinché le cose cambino sul serio. Del resto i dati parlano chiaro e si basano su studi compiuti dai migliori studiosi del mondo: un sistema penale più leggero, una giustizia che funzioni (garantendo la certezza della pena e del diritto), un carcere efficace e che realmente punti alla riabilitazione del detenuto, fanno risparmiare soldi e risorse contribuendo alla diminuzione della recidiva. Un bene per la società intera, aspetti che anche i media dovrebbero spiegare all’opinione pubblica. Non è un caso che questi sono stati i pilastri dell’ultima riforma della giustizia varata da Donald Trump e accettata in modo bipartisan dagli esponenti politici americani. Un esempio di civiltà e ragionevolezza che purtroppo è arrivato, come troppe volte accade, da un altro paese. Non siamo neanche più in grado di prendere spunto da ciò che di meglio sta accadendo nel resto del mondo. Trieste: Peppe Dell’Acqua “la città contro gli homeless? no, resta quella di Basaglia” di Angela Azzaro Il Dubbio, 10 gennaio 2019 Dopo il caso del vicesindaco che ha buttato le coperte di un senzatetto, la risposta di uno dei protagonisti della riforma della 180. “Ripartiamo dal sogno e dall’utopia, e dalla possibilità di sognare insieme. È questa la risposta che dobbiamo dare ai fatti come quello che ha visto coinvolti il vicesindaco leghista di Trieste, Polidori, e il signore rumeno che vive per strada a cui ha buttato le coperte vantandosene”. Peppe Dell’Acqua è uno dei protagonisti della riforma basagliana della psichiatria, una riforma che continua a dispetto del clima politico e culturale che si vive oggi nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia e più in generale in Italia. Più di quarant’anni fa è arrivato a Trieste ed è ancora in prima fila a difendere quella che, più che mai di questi tempi, potremmo definire una rivoluzione: le persone con problemi di salute mentale fuori dai manicomi, le case autogestite, una idea diversa della cura e del welfare. Forse anche per questo Dell’Acqua è spiazzante nel leggere quello che è accaduto e che ha destato la riprovazione di tutto il Paese. “È gravissimo - dice - ma non è Trieste, non è la Trieste dove la riforma basagliana vive ancora”. “Dobbiamo - spiega - cambiare il modo che abbiamo di raccontare la realtà, cambiare la narrazione fondata sul rancore e su “tutto va male”. Lo dico soprattutto a chi di mestiere fa il giornalista”. Un lavoro che lui porta avanti anche con la collana 180. Archivio critico della salute mentale per la casa editrice Ab di Merano. Insomma, secondo lei come è possibile che proprio a Trieste, la città di Basaglia e degli ultimi, un assessore si vanti di aver buttato le coperte di un homeless? Il governo di questa città ha poco a che fare con quella che lei, e anche io, chiamiamo la rivoluzione di Franco Basaglia. Credo che 40 anni di riforma della psichiatria, per quanto diffusa, non possano pretendere di cancellare il fascismo presente nella nostra società. Ma mettere insieme le due cose non va bene. Trieste non è il suo assessore, non è chi la governa. Come descriverebbe allora Trieste? Trieste è il luogo dove i cittadini hanno reso possibile la riforma della psichiatria. Certo, allora, ci furono delle resistenze, ma del resto la chiusura dei manicomi con tutto quello che ne derivava fu un bel colpo rispetto alla cultura di allora. Eppure la città fu capace di accogliere quell’esperienza, di farla penetrare nella società. Basaglia, quando raccontava di Marco Cavallo - la statua di cartapesta, portata in processione dai “matti” in giro per la città - diceva: “In fondo è stata una violenza”. Ma una buona parte dei politici di allora, come il democristiano Michele Zanetti, ci credettero. Ma ora che cosa è cambiato? Da un certo momento in avanti si è iniziata a costruire una cultura del risentimento, del rancore anche a partire da situazioni che non sono gravissime. Si è costruita una narrazione in cui tutto viene descritto come un fallimento, come senza speranza. Quando intervistano le persone per strada, resto stupito per come prevalga l’egoismo, un sentimento di sé che non prevede l’altro. Nascono così il populismo, l’odio. Colpa della povertà? Certo che questo problema esiste. Ma non basta a giustificare il risentimento che la maggior parte delle persone ha introiettato. Lo stesso giornalismo si fonda sul dare cattive notizie. Sembra che altrimenti non si possa fare informazione se non dicendo che tutto va male. Quando si parla dell’Italia e degli italiani, per esempio, risultano i peggiori in tutto: chissà poi da dove le prendono quelle classifiche… Ecco, io penso che dobbiamo ribellarci a questa narrazione, la dobbiamo ribaltare. Partiamo dal fatto di cronaca in questione: lei come lo racconterebbe? La racconterei dicendo che a Trieste ci sono pochissimi homeless e che quelli che ci sono possono ancora godere di un welfare che neanche questa amministrazione smantella. Di recente abbiamo stabilito un rapporto con il dipartimento di salute mentale di Los Angeles, sono venuti da noi a studiare il nostro sistema. Non potevano credere che qui le persone con problemi di salute mentale non fossero segregate e che non ci fossero homeless. Non so cosa potranno fare in una grande città come la loro, ma Trieste è ancora considerata un esempio. C’è poi stata anche una risposta immediata della città che, in una gara di solidarietà, ha portato nuove coperte a chi dorme all’aperto... Sì, non so se siano cattolici o laici, ma sono tanti giovani che hanno risposto all’ossessione, chiamiamola così, per la pulizia di Polidori. Senza contare che un assessore, se c’è un problema lo risolve, invece di fare come un bambino che, dopo aver mangiato il panino, pensa di pulire il tavolo, buttando le briciole per terra… Cambiare la narrazione, ribaltarla. Come dobbiamo fare? Dobbiamo costruire reti mettendo in relazione le varie esperienze, rilanciando utopia e sogno, un sogno da condividere. Noi abbiamo deciso di rilanciare il Forum salute mentale, un sito in cui denunciare le cattive pratiche, ma soprattutto - come dicevo prima - raccontare le esperienze che invece funzionano e sono tante. Insieme a Massimo Cirri abbiamo messo in scena uno spettacolo, (Tra parentesi) la vera storia di una liberazione per raccontare il fermento che portò alla legge 180. Un altro modo per far conoscere una storia e per resistere. Sono passati tanti anni da quando arrivò a Trieste? Era il 1971, avevo sentito parlare di Basaglia, ma non avevo ben chiaro che cosa stesse facendo. Ma allora bastava sapere che si stava rivoluzionando l’idea di salute mentale e di cura, e dal Sud si partiva in tre con una 500. Bastava ciò l’idea di sogno e di utopia, proprio quelle che dobbiamo far rivivere oggi. Matera: Capitale europea della cultura, al lavoro anche i detenuti sassilive.it, 10 gennaio 2019 L’ articolo 21 della Costituzione definisce e tutela la libertà di stampa. Nell’ordinamento penitenziario, invece, è la norma che regola l’accesso al lavoro esterno dei detenuti, la seconda tappa del percorso previsto dalla legge Gozzini per accompagnare i carcerati verso il reinserimento sociale già durante l’espiazione della pena. È grazie a questa norma che quattro detenuti accederanno al lavoro esterno presso la Fondazione Matera Basilicata 2019, servendo la comunità impegnata nella straordinaria avventura della capitale europea della cultura. Attraverso il lavoro esterno, preceduto da un percorso di formazione, i detenuti hanno la possibilità di essere protagonisti del proprio reinserimento, acquisire delle competenze, esprimere ciò che hanno di più profondo, migliorare la qualità della vita, propria e di chi lavora con loro, riacquisire dignità e autostima, scegliere una cultura differente rispetto a quella criminosa di provenienza, diventare persone diverse. Nello specifico i detenuti potranno lavorare alla pulizia e alla manutenzione del complesso del Casale, alla piccola manutenzione degli uffici, ad attività di supporto logistico per il trasporto di piccoli materiali, sorveglianza di aree aperte al pubblico, collaborazione agli allestimenti. A questo scopo oggi pomeriggio è stata firmata una convenzione tra Amministrazione penitenziaria e Fondazione Matera Basilicata 2019. Sono intervenuti il presidente della Fondazione Salvatore Adduce, Giuseppe Palo, Funzionario di staff del Provveditore per la Puglia e la Basilicata, Michele Ferrandina, Direttore della Casa Circondariale di Matera, Walter Gentile, Responsabile dell’Area pedagogica, il Comandante Capo Ballisario Semeraro, Agostino Riitano, project manager supervisor della Fondazione, Paola Lopes, project manager della Fondazione, Giovanni Oliva segretario generale e Danilo Lista del segretariato generale della Fondazione. “Abbiamo convenuto con il direttore Ferrandina - commenta il presidente della Fondazione Salvatore Adduce - che il carcere fa pienamente parte del contesto urbano. Purtroppo si rendono necessarie certe barriere ma nel limite del possibile cerchiamo di ridurle: portando detenuti al lavoro esterno, svolgendo attività culturali dentro le mura. Proprio perché anche in questo caso si possano inverare il nostro slogan. Open future. Un futuro aperto”. Il direttore Ferrandina ci spiega che “l’attività di formazione e di lavoro esterno si svolge in base a una nuova modalità prevista dall’ordinamento penitenziario per l’articolo 21: il lavoro volontario di pubblica utilità. Anche in questo caso, ovviamente, resta necessaria l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza” Questa azione sociale rientra nella collaborazione tra la Fondazione Matera Basilicata 2019 e l’Istituto penitenziario materano, a partire dai valori del dossier di candidatura, come il coraggio e l’accessibilità, e del concetto di “cittadinanza culturale” che vede nell’abitante permanente o temporaneo di Matera 2019, e quindi anche nel detenuto, non un semplice fruitore bensì un co-produttore dei contenuti culturali. La Casa Circondariale di Matera diventa quindi uno dei luoghi della produzione culturale di Matera 2019. Un altro filone importante è proprio quello delle produzioni culturali. In autunno ha già avuto luogo in carcere il progetto Shame Lab, ideato e condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, inserito nel più ampio progetto teatrale di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 “La poetica della vergogna”, co-prodotto da #reteteatro41, network di quattro compagnie teatrali lucane, e Fondazione Matera Basilicata 2019 in partnership con Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, Artopia (Fyrom), Qendra Multimedia (Kosovo). Una riflessione intensa, condivisa e raccontata attraverso gli scatti fotografici del Web Team di Matera 2019 che documenta gli incontri di Antonella Iallorenzi con i detenuti. Il progetto - partito a metà settembre - si è concluso il 23 novembre con un esito finale aperto al pubblico, dopo un percorso con i detenuti sul tema della “vergogna” e sarà dunque un’ulteriore tappa della ricerca sulle declinazioni della “vergogna”. Nell’ambito del progetto “La poetica della vergogna”, il carcere di Matera diventerà inoltre un luogo di fruizione della programmazione culturale di Matera 2019, con la possibilità per i cittadini permanenti e temporanei di entrare in contatto con tale realtà e poterla guardare in modo diverso. Il teatro della Casa Circondariale ospiterà infatti la fase di produzione e il debutto del progetto previsto a marzo 2019 con la creazione di una performance di teatro e danza, “Humana vergogna”, con la regia di Silvia Gribaudi ed un cast selezionato tra i partecipanti nazionali ed internazionali al Workshop diretto da Radoslaw Rychcik (Campi Salentina 3-7 novembre 2018) e alla residenza artistica di Skopje (26 novembre-15 dicembre 2018) diretta da Sharon Fridman, Silvia Gribaudi e Jeton Neziraj. Siena: detenuti in lavori di pubblica utilità, c’è la bozza di convenzione canale3.tv, 10 gennaio 2019 Approvata dalla giunta comunale di Siena una bozza di convenzione tra Comune e Ministero di Giustizia per l’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità. Le persone in stato di detenzione nella casa circondariale di Siena potranno svolgere attività lavorative extra murarie per la protezione ambientale e per il recupero del decoro di aree verdi e spazi pubblici nonché attività inerenti la raccolta dei rifiuti, la protezione civile compreso il piano neve. Lo prevede la bozza di convenzione tra il Comune di Siena e il Ministero di Giustizia approvata ieri, 3 gennaio, dalla giunta comunale su proposta del sindaco Luigi De Mossi. Il programma, in fase sperimentale, prevede che i soggetti in stato di detenzione con specifiche caratteristiche possano scegliere anche lavori di pubblica utilità. Alla base dell’accordo, il fatto che “il Comune di Siena intende svolgere un ruolo attivo e di supporto per l’attuazione delle politiche volte al reinserimento dei detenuti” per offrire “opportunità lavorative, gratuite, per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, ai permessi o licenze”, si legge nella delibera. Un obiettivo che verrà formalizzato dal Comune di Siena e dal Ministero di Giustizia e con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e con il Tribunale di Sorveglianza competente per territorio, con il protocollo di intesa in cui si stabilisce che le finalità dell’accordo sono, tra le altre, quelle di incrementare le opportunità di lavoro e formazione tra detenuti e internati, anche in forma di volontariato, per la tutela dell’ambiente ed il recupero del decoro di spazi pubblici e aree verdi; favorire e stimolare l’avvio di progetti che coinvolgano la popolazione carceraria nella corretta gestione dei rifiuti; favorire l’attività di protezione civile, compreso il piano neve. Il protocollo, una volta sottoscritto da tutte le parti, avrà una durata triennale. Fossano (Cn): l’appello del Vescovo “facciamo lavorare i detenuti” di Luigina Ambrogio lafedelta.it, 10 gennaio 2019 Dopo la messa celebrata in carcere. La Garante Rosanna Degiovanni invita anche ad offrire occasioni di volontariato in attività sociali e culturali. Sabato 22 dicembre, alla vigilia di Natale, il vescovo Mons. Piero Delbosco ha celebrato messa nel carcere di Fossano, accolto con affetto e gratitudine dai detenuti. Un incontro che non lo ha lasciato indifferente: nei giorni successivi ci ha chiesto di lanciare un appello alle aziende del territorio perché si impegnino ad offrire lavoro agli ospiti del Santa Caterina. “Ci sono norme specifiche che consentono ai detenuti di uscire per lavorare- dice -; altre prevedono agevolazioni a chi li assume; lancio un appello alle aziende del Fossanese perché cerchino di utilizzare queste opportunità. Il lavoro è uno strumento indispensabile per il reinserimento sociale, non solo da un punto di vista economico ma anche per la restituzione di dignità”. La garante dei detenuti Rosanna Degiovanni invita le associazioni e gli enti sul territorio a proporre occasioni di volontariato. L’attività di volontariato è ne importante per chi è in carcere; offre loro l’occasione di uscire, di conoscere la città, di socializzare, di rendersi conto di com’è cambiato il mondo in questi anni. Chi intende avvalersi di questa opportunità può contattare la garante dei detenuti, Rosanna Degiovanni, scrivendo una mail (garante.detenuti@comune.fossano.cn.it) oppure telefonando in Municipio (0172.699614) e chiedendo di essere messo in contatto con l’Ufficio specifico. Mantova: “Sapori di Libertà”, quando l’arte del pane si impara in carcere osservatoriosocialis.it, 10 gennaio 2019 Un laboratorio artigianale di panificazione per i detenuti della Casa Circondariale di Mantova. È il progetto inaugurato dall’Associazione Libra Onlus nell’ambito dell’iniziativa “Sapori di Libertà”. Realizzato con il recupero e la ristrutturazione di spazi inutilizzati del penitenziario di via Poma, il laboratorio è l’occasione per coinvolgere i detenuti in un percorso di reinserimento sociale attraverso una concreta formazione e qualificazione professionale. L’attività sarà gestita da Libra Onlus in collaborazione con Mantova Pane di Cristian Sarzi Amadé, e avrà un legame diretto con il territorio mantovano, attraverso la creazione di una cooperativa sociale, la Sapori di Libertà, che produrrà e venderà all’esterno - a mense scolastiche, ristoranti, case di riposo - i prodotti da forno realizzati nel laboratorio. Il progetto avrà inoltre una doppia valenza sociale, poiché ogni anno parte del ricavato della cooperativa sarà devoluto al Centro di supporto alle vittime di reato (Csvr) di Mantova e ad altre realtà assistenziali del territorio. Diritti umani. Ecco l’istantanea della situazione nel 2018 e le prospettive per il nuovo anno La Repubblica, 10 gennaio 2019 Il libro di Amnesty International in libreria. Attraversa regioni geografiche e temi trasversali del 2018 e immaginare il futuro: i conflitti noti e non, il commercio di armi, i diritti economici, di donne e migranti. Con una panoramica sulle violazioni dei diritti umani, sulle lotte degli attivisti e sulle sfide vecchie e nuove, “La situazione dei diritti umani nel mondo. Il 2018 e le prospettive per il 2019” (il libro pubblicato da Amnesty International, 15 euro, 176 pagine) attraversa regioni geografiche e temi trasversali per scattare una foto del 2018 e immaginare il futuro: i conflitti noti e meno noti, il commercio di armi, i diritti economici e sociali, la libertà d’espressione online e offline, i diritti delle donne e dei migranti. Proprio le donne sono state le protagoniste di un anno di lotte per i loro diritti ma anche per difendere le loro comunità e le persone più vulnerabili. Per questo sono state prese di mira, vessate, attaccate. “Hanno cercato d’intimidirci ma non ci sono riusciti”, ha dichiarato Nonhle Mbuthuma, un’attivista del Sudafrica. I difensori dei diritti umani, uomini e donne, non arretreranno di un passo finché i princìpi della Dichiarazione universale dei diritti umani, sanciti 70 anni fa, non saranno garantiti a tutti. Amnesty International è al loro fianco. “La situazione dei diritti umani nel mondo”. Il libro è l’evoluzione del tradizionale Rapporto annuale di Amnesty International. Più agevole e insieme più ricco di dati e immagini, questo volume è un riferimento indispensabile per attivisti, ricercatori, avvocati, giornalisti, rappresentanti delle istituzioni, associazioni e per tutte le persone che credono che il cambiamento sia possibile. Il volume è arricchito dall’introduzione di Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, e da un approfondimento sull’Italia dei ricercatori dell’Ufficio regionale per l’Europa di Amnesty International, Elisa De Pieri e Matteo De Bellis. La nascita dell’”uomo forte”. “Assistiamo a un’epoca in cui un’economia globale indebolita ha lasciato spazio all’ascesa di personaggi politici boriosi, che utilizzano atteggiamenti machisti, misoginia, xenofobia e omofobia, per fornire l’immagine del leader come ‘uomo fortè. Uno scenario che riflette quello dell’ascesa del fascismo negli anni Trenta, preceduta da un periodo di recessione economica e culminata negli orrori dell’Olocausto; la risposta a tutto ciò fu la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel 2018 abbiamo visto molti di questi ‘leader forti’ cercare d’indebolire il principio stesso di uguaglianza, pietra angolare delle norme sui diritti umani. Hanno cercato di demonizzare e perseguitare le comunità già emarginate e vulnerabili. Tuttavia, quest’anno nessuna lotta per l’uguaglianza ha avuto tanta risonanza e visibilità quanto quella per i diritti delle donne”. (Kumi Naidoo, Segretario generale di Amnesty International) Cos’è Amnesty International. È un’organizzazione non governativa indipendente, una comunità globale di difensori dei diritti umani che si riconosce nei princìpi della solidarietà internazionale. L’associazione è stata fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson, che lanciò una campagna per l’amnistia dei prigionieri di coscienza. La visione di Amnesty International è quella di un mondo in cui a ogni persona siano riconosciuti tutti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e da altri atti sulla protezione internazionale dei diritti umani. Se l’odio antisemita diventa “normale” dentro e fuori gli stadi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 10 gennaio 2019 Dalle immagini di Anna Frank utilizzate per deridere agli inni al Vesuvio contro i napoletani: bisogna agire perché la barbarie non diventi banalità quotidiana. Ormai sta diventando normale. Tragicamente normale. Ordinaria amministrazione. Odio antisemita quotidiano. Insulti razzisti in razione giornaliera. Dentro gli stadi, fuori degli stadi. Persino durante le feste. Sui muri delle città. Come è capitato ieri a Roma, dove energumeni della curva (presumibilmente, ma che conta? È uguale per tutti) giallorossa hanno voluto oltraggiare le tifoserie nemiche con un volantino con su scritto: “Lazio, Napoli, Israele, stessi colori, stesse bandiere: merde”. Dove l’inserimento bianco e azzurro, del tutto fuori contesto calcistico, della bandiera di Israele nell’insulto collettivo sembra rafforzare l’offesa ai napoletani e ai laziali; siete come gli ebrei. La stessa logica, chiamiamola così, che ispirò il gesto dei tifosi laziali quando lasciarono con intenti di derisione immagini di Anna Frank nella curva giallorossa. Come offendiamo i romanisti? Paragonandoli agli ebrei, come se il riferimento a una ragazza inghiottita nell’inferno della Shoah fosse il massimo dell’insulto. Come offendiamo laziali e napoletani? Paragonandolo agli ebrei, il massimo dell’insulto secondo loro, il colmo dell’abiezione, sempre secondo loro. Idiozia quotidiana. Demenza ordinaria. Antisemitismo e odio antiebraico di tutti i giorni. Antisemitismo normalizzato. La normalizzazione del razzismo è la cosa peggiore, contro la normalizzazione del razzismo c’è da combattere l’unica battaglia che va combattuta. Non è questione di ordine pubblico - Non è questione di ordine pubblico. Se in un’allegra festa per l’anniversario della nascita della Lazio un gruppo di teppisti si allontana dalla compagnia festosa per aggredire i poliziotti e ferirne dieci, c’è qualcosa di malato in questa follia quotidiana. Se ad ogni trasferta del Napoli si intonano inni al Vesuvio per “lavare con il fuoco” i napoletani, c’è qualcosa di troppo normalizzato in questa perversione. Se il giocatore di colore della squadra avversaria viene aggredito con i “buuu” e addirittura fatto bersaglio di lancio di banane, allora la questione travalica i confini dell’ordine pubblico, dei Daspo, della sicurezza degli stadi. Fuori dagli stadi - La stragrande maggioranza delle urla becere antisemite avviene fuori degli stadi. I “nemici” vengono assassinati fuori degli stadi, come a Milano. I poliziotti vengono aggrediti fuori degli stadi, come è avvenuto a Roma, e sempre più spesso con la collaborazione degli ultras delle fazioni opposte, unite dall’odio per le forze dell’ordine, odiate guardiane del “sistema”. Nessun provvedimento per il mantenimento dell’ordine pubblico, ovviamente doveroso e necessario in sé, può però contrastare da solo questa orribile banalizzazione dell’antisemitismo, questo odio per l’ebreo ridotto a una “merda” da oltraggiare insieme agli odiati avversari calcistici. Come se fosse normale, scontato, accettabile. Come se fosse una ragazzata un po’ spinta. No, la mascalzonata antisemita non è banale, l’insulto razzista non è normale. A questa deriva va posto un argine. Perché anche la barbarie non diventi banalità quotidiana. Migranti. Accordo trovato nel governo dopo il vertice convocato nella notte di Dino Martirano Corriere della Sera, 10 gennaio 2019 Salvini: “Di questi temi mi occupo io”. Faccia a faccia tra il premier e i due leader della maggioranza dopo il via libera all’accoglienza a 15 migranti sbarcati a Malta. L’ira del leader leghista. L’accordo europeo sui 49 migranti trattenuti a largo di Malta da 19 giorni mette a dura prova la tenuta del governo. E alla fine, con Matteo Salvini che continua a non mollare (“Non autorizzo arrivi, le scelte si condividono”), è alta la posta nella maggioranza gialloverde per imporre la linea dell’accoglienza di alcuni nuclei familiari di naufraghi concordata con la Ue dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il chiarimento, a tratti ruvido, tra Conte e Salvini, avviene nella notte: a Palazzo Chigi, tra le 23 e l’una, è infine andato in scena l’incontro imposto dalla Lega a Palazzo Chigi anche su un tema caro ai grillini come il reddito di cittadinanza. Per questo alla fine ha partecipato anche Luigi Di Maio. Salvini al termine del vertice è stato il più lesto a dichiarare: “Non cambio idea. Non ci sarà nessun arrivò in Europa, anzi faccio due passi in avanti. Non ci sarà alcun arrivo in Italia finché l’Europa non rispetterà l’impegno di prendersi i 200 immigrati sbarcati la scorsa estate a Pozzallo”. L’appello di Conte - Il premier Conte ha dunque fatto un appello al commissario Ue Dimitris Avramoupols affinché siano rispettati i patti sul ricollocamento ma ha anche aggirato l’ostilità di Salvini prospettando che i migranti in arrivo da Malta saranno accolti dalla Chiesa Valdese. “D’ora in poi - ha chiosato Salvini - meglio incontrarsi prima che dopo: l’immigrazione la gestisce il ministro dell’Interno”. Eppure, per tutta la giornata, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti (Lega) aveva provato a tenere una porta semiaperta: “Il governo non è a rischio ma la vicenda non è risolta”. Mentre il M5S, in grande imbarazzo, aveva inviato in soccorso di Conte il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano: “Il presidente del Consiglio è Giuseppe Conte e la politica migratoria è competenza del governo, non di un singolo ministro”. Il ruolo di Bruxelles - A causa del braccio di ferro tra Conte e Salvini, da Bruxelles si è appreso che l’Italia era l’unico degli otto Paesi che hanno partecipato all’accordo a non avere ancora comunicato quanti migranti accoglierà. La soluzione, dunque, ricalca lo schema utilizzato ad agosto per gli immigrati sbarcati dalla nave Diciotti, poi ospitati dalla Caritas e non nei centri controllati dal ministro dell’Interno. E proprio per questo fonti del Viminale hanno ricordato che all’esito del caso Diciotti solo l’Irlanda ha accolto la quota di immigrati stabilita in sede Ue. L’annuncio dello sbarco a Malta dei 49 immigrati l’ha dato in mattinata il premier Joseph Muscat. Poi sono arrivate le note dell’ong Sea Watch (“L’Unione europea rilascia i suoi 49 ostaggi”) e dell’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, che ha elogiato le autorità maltesi e gli otto Paesi Ue. Da quel momento, Matteo Salvini, impegnato a Varsavia nel vertice con i sovranisti, ha scatenato la sua offensiva.”#Salvininonmollare” ha resistito tra i primi 5 hashtag di Twitter: “Non cambio idea, non si molla!”. E poi di corsa in aereo a Roma per il vertice notturno con Conte e Di Maio. Che però non ha sanato le divisioni interne al governo. Migranti. Sui monti l’accoglienza crea lavoro e sviluppo di Serena Tarabini Il Manifesto, 10 gennaio 2019 Il sistema Sprar ha contribuito anche a ridare vitalità ai territori montani, ora con il decreto sicurezza molte esperienze virtuose rischiano la chiusura. Pettinengo è un paese della provincia di Biella di 1500 abitanti, a 800 metri di altezza, sospeso a metà fra l’arco alpino e la pianura padana: fino a qualche anno fa circa 600 persone lavoravano alla Liabel, il famoso marchio per la maglieria intima. Dal 2000 la fabbrica tessile è stata chiusa, la crisi ha prodotto disoccupazione, il territorio è cambiato. I primi profughi arrivano nel 2011: una cinquantina di africani che vengono ospitati per due mesi in una Villa dell’800, sede dell’associazione Pacefuturo Onlus. Nel 2014 la Prefettura chiede di accogliere altri migranti: l’associazione apre un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) con 15 ragazzi. Oggi l’associazione Pacefuturo Onlus accoglie 110 persone nei Comuni di Pettinengo e Ronco Biellese in collaborazione con l’amministrazione comunale e la parrocchia. Ma non solo. con la barra puntata sulla valorizzazione delle risorse umane l’associazione ha saputo sviluppare in maniera creativa il modello di accoglienza, allestendo una rete economico-sociale che ha intrecciato le vite dei migranti con la rinascita del paese. Grazie alla collaborazione con le associazioni La Piccola Fata di Pettinengo e Tessituraeoltre di Asti si è ripresa la tradizione locale aprendo una scuola di artigianato che insegna a tessere, a cucire e a lavorare la ceramica. In un laboratorio di apicoltura uno dei richiedenti asilo, a cui nel frattempo è stato riconosciuto lo status di rifugiato con un permesso di cinque anni, è stato assunto dall’associazione Pacefuturo. In montagna grazie al lavoro di volontariato dei migranti sono stati riaperti oltre 15 chilometri di sentieristica. L’associazione - tra stipendi, vitto e alloggi affittati e i servizi che svolge a favore dei richiedenti asilo - ridistribuisce nel paese oltre 50mila euro al mese. Il Cas è ancora un punto di riferimento, ma alcuni ragazzi cominciano anche a vivere nelle case. E nonostante sia un territorio in crisi, con poco lavoro, alcuni rifugiati sono riusciti a rimanere, lavorando come boscaioli o nell’assistenza agli anziani. Un lavoro continuativo e costante che è riuscito a coinvolgere non solo strutturalmente ma anche emotivamente la comunità locale scardinando l’iniziale ostilità fino a portare, nel luglio 2015, l’intero paese di Pettinengo (compresi sindaco e parroco) ad attivarsi nella ricerca di alternative concrete per un gruppo di cittadini maliani che aveva ricevuto il decreto di espulsione. La Valcamonica nel 2011, nel pieno dell’ondata migratoria successiva alle primavere arabe, salì agli onori della cronaca nazionale e internazionale per un centinaio di rifugiati che vennero confinati dal governo a Montecampione, a 1800 metri di altezza in una situazione di isolamento e inattività totale. Nel 2015 si verificarono gravi episodi di intolleranza e razzismo orchestrati da Casa Pound e un corteo di protesta organizzato dalla lega Nord. Ma nonostante questi precedenti è la stessa Valle oggi ad offrire un modello di accoglienza. Il progetto consiste in una rete che si estende su tutto il territorio della Valle Camonica e della provincia di Brescia, fornendo a quasi 400 beneficiari vitto, alloggio principalmente in piccoli appartamenti, assistenza legale e sanitaria, accompagnamento ed orientamento sui servizi presenti sul territorio, percorsi di formazione, volontariato ed inserimento lavorativo, corsi di italiano. Artefice l’associazione K-Pax, partner operativo della rete SPRAR che ha ottenuto questo risultato grazie all’impegno di molti volontari e la collaborazione coraggiosa di comuni del bresciano che hanno sottoscritto un accordo con la provincia e la comunità montana. Il lavoro dell’associazione non si è fermato alla micro-accoglienza ma ha promosso una serie di iniziative innovative tra cui l’apertura della “Soffitta del re”, un negozio dell’usato aperto a tutta la comunità, la sistematizzazione del riciclo degli abiti usati che vengono anche commercializzati in grosso, e la ristrutturazione e riapertura di un hotel, valorizzando la vocazione turistica del territorio e creando posti di lavoro per residenti italiani e per alcuni beneficiari dei progetti sprar; queste attività nel tempo non solo sono riuscite a raggiungere l’autonomia economica ma forniscono un surplus che in seguito viene reinvestito. Il Consorzio Fantasia è un insieme di piccole cooperative sociali che opera nell’appennino tosco-emiliano, nella Cisa. Ha iniziato ad occuparsi di richiedenti asilo nel 2011, durante quella che era stata chiamata “emergenza Nord-Africa”, per poi nel 2014 costituire due Sprar assieme a delle amministrazioni locali, come Berceto. Comuni piccoli, frammentati, di poche centinaia di abitanti, e grandi distanze tra di loro, e i soliti problemi: disoccupazione, spopolamento che il turismo estivo non riesce a contrastare. Ecco quindi che per i richiedenti asilo si individuano le case vuote o abbandonate sulla quale si stipulano contratti d’affitto che cominciano a far circolare qualche soldo in più. Per i servizi aggiuntivi (istruzione, supporto legale e psicologico) dei migranti vengono impiegate persone del luogo, in alcuni casi anche soggetti fragili che possono rendersi utili accompagnando i migranti in un processo di integrazione che comporta fra le altre cose lo svolgimento di piccoli lavori utili alla comunità: piccole ristrutturazioni, pulizie, manutenzione del verde. Parte anche una collaborazione con i nuovi agricoltori della zona, giovani che hanno deciso di tornare alla campagna e le cui acerbe imprese agricole hanno bisogno anche dell’aiuto dei migranti che vi svolgono i loro tirocini. Sono solo alcuni esempi di come il sistema Sprar abbia rappresentato non solo un’evoluzione in positivo del meccanismo di accoglienza ma anche un’opportunità di sviluppo per i territori montani. Con l’approvazione del Decreto sicurezza queste ed altre esperienze sono a rischio. A Pettinengo si respira già aria di chiusura. All’interno dell’associazione Pacefutura stanno cercando di fa quadrare i conti, ma al momento non è stata trovata una soluzione che permetta di far continuare il progetto. I richiedenti asilo passeranno a un altro gestore e non in montagna. Un’occasione persa anche per i giovani e le persone anziane del territorio che avevano trovato impiego. Gli operatori dell’associazione K-Pax faranno il possibile per mantenere i servizi di inclusione sociale e integrazione, ma non sono intenzionati a passare a un meccanismo di accoglienza su grandi numeri al quale obbliga la riduzione dei fondi. Le attività lavorative come il riciclo e la gestione dell’hotel continueranno perché hanno raggiunto l’indipendenza economica, ma non se ne avvieranno altre. Il decreto sicurezza cambierà la vita anche la Consorzio Fantasia di Berceto: le restrizioni introdotte sui richiedenti asilo, la scomparsa della misura della protezione umanitaria ridurranno gli inserimenti dell’80%. Questo priverà il territorio dell’indotto dovuto agli affitti e alle retribuzioni delle figure professionali e non impiegate nel sistema di accoglienza. Oltre che, come negli altri casi, sottrarre al sistema d’accoglienza un meccanismo che stava dimostrando efficacia, sostenibilità e riproducibilità. E umanità. La montagna che rinasce con i migranti, di Mauro Ravarino A 1.250 metri di altitudine, davanti al Monviso, il comune di Ostana è stato ripopolato dai richiedenti asilo. Che hanno rimesso in moto l’agricoltura. Ostana guida la riscossa del mondo dei vinti. Dimostra che lo spopolamento della montagna non è un morbo endemico, che lassù si progetta un futuro migliore e si sperimenta un’accoglienza vera. “Sono fuggito dalla persecuzione religiosa in Pakistan, una volta arrivato in Libia ho attraversato il mare e sono stato salvato da Open Arms”. Rashid, 34 anni, ha gli occhi lucidi, la sua è una vita avventurosa, troppo per una persona così mite. La racconta mentre controlla le capre Cashmere e due alpaca. Qui, davanti alla vetta del Monviso, in località Durandin, a 1.650 metri d’altezza fa il pastore, gli piace, ma a Marot, nel suo Paese, era un elettricista, fino a quando la sua bottega fu assaltata. La sua comunità ahmadi è perseguitata e non difesa dal governo di Islamabad. Nel 2010, due moschee Ahmadiyya sono state vittime di un violento attacco terroristico compiuto dai taleban pakistani, con oltre ottanta morti. Ora, Rashid, spera di ottenere il ricongiungimento familiare: “Vorrei mi raggiungessero mia moglie e i miei due figli”. Dipenderà tutto dalla commissione che valuterà la sua richiesta di asilo. La rinascita di Ostana, in provincia di Cuneo, a 1.250 metri d’altezza all’ombra del Re di pietra, parte da lontano. E porta per buona parte la firma di Giacomo Lombardo, stazza imponente, suoneria del telefono Se chanto, la canzone occitana per eccellenza. Attuale sindaco del comune, la prima volta è stato eletto nel 1985 quando la sua amministrazione decise di puntare sul rilancio della montagna, sulla tutela del paesaggio e delle tradizioni. E in questo la testardaggine del mondo dei vinti, ovvero quello dei piccoli contadini e dei montanari ritratto da Nuto Revelli, è servita per invertire la rotta, resistere allo spopolamento e trovare validi motivi di esistenza, senza dover aspettare i villeggianti estivi. Nel 1918, la popolazione ostanese contava 1.124 unità, si viveva di agricoltura, poi la guerra, il mito delle fabbriche e del benessere urbano portarono al lento spopolamento della Alta Valle Po. “Molti, una volta arrivati a Torino preferivano fare i rigattieri, i fèramiù, intorno a Borgo Dora, mio padre resistette in fabbrica solo due mesi”, racconta Lombardo. Intanto, in montagna il borgo moriva ma fortunatamente non veniva toccato dalla speculazione edilizia che comprometteva altri paesi. A cavallo tra gli 80 e 90 la popolazione era precipitata a cinque abitanti. Sono gli anni in cui è ambientato il film in lingua occitana “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Diritti, ispirato alla storia di un pastore fiammingo e della sua famiglia, in fuga dal gasdotto costruito nella sua valle, che provò a trovare rifugio qui. “Sono anche gli anni in cui parte il lento rilancio del borgo: migliorano le infrastrutture, viene potenziato l’acquedotto e incentivate le ristrutturazioni che rispettino lo stile architettonico montano. Immaginiamo un vero sviluppo sostenibile. Il bello porta così il bello”. Il 22 gennaio 2016 è nato Pablo, trent’anni dopo l’ultimo bambino nato a Ostana. I genitori Silvia Rovere e Josè Berdugo Vallelago erano arrivati sui monti della Valle Po nel 2011, dopo aver raccolto l’opportunità di gestire un nuovo rifugio - l’attuale Galaberna, salamandra in occitano - messa a bando dal Comune. “Prima lavoravo a Torino occupandomi di progetti internazionali di sanità pubblica e ambientale, ma volevo cambiare vita. Avevamo già in tasca un biglietto per l’isola di Reunion, dove avevamo trovato un impiego. La proposta che arrivò dalla Valle Po ci fece modificare i piani. Quando giungemmo in borgo, Clara aveva due anni e Alice quindici giorni, qualche valligiano ci diede pochi mesi di sopravvivenza, siamo qui da sette anni e non siamo pentiti”. Così piccola, così intatta, ma allo stesso tempo moderna nel suo paesaggio di pietra. Ostana, un meraviglioso balcone di fronte al Monviso, è un borgo laboratorio. Qui, la rivoluzione è stata “un balzo di tigre verso il passato”, come scriveva Walter Benjamin, forte delle sue profonde radici occitane il comune cuneese ha provato a progettare la montagna del futuro. Non tutti i passaggi sono stati indolori. Quando l’amministrazione comunale ha scelto, per motivazioni fermamente umanitarie, di accogliere dei richiedenti asilo, una petizione di 173 firme (la stragrande maggioranza di persone che non vivevano a Ostana) si scagliò contro la decisione. Il 27 dicembre 2016 ci fu un’assemblea concitata, fuori c’erano i carabinieri. “È stata una prova dolorosa, ma con mio marito ci siamo detti che non potevamo tirarci indietro, d’altronde noi eravamo stati accolti, non potevamo non accogliere”, racconta Silvia Rovere. L’amministrazione tirò dritto e due anni dopo il bilancio dell’esperienza è totalmente positivo. Ora sono sei i richiedenti asilo, tutti pakistani, ospitati a Ostana e sono parte integrante della comunità dove hanno imparato l’italiano e giornalmente lavorano, alcuni in Comune, per esempio per la manutenzione dei sentieri, (Ali, 20 anni, Shehbaz, 33, Kashif, 32), due all’agriturismo A nostro Mizoun - Rashid e la sorella Qurtulain - e uno di loro alla Galaberna, si chiama Umair, 32 anni: “Arrivo da Rawalpindi, dove lavoravo in un concessionario Toyota, ma lì la vita era insostenibile per le violenze in cui si incorreva; sono arrivato in Italia dopo un viaggio di sei mesi, passando per Turchia e Grecia. Qui, ho trovato la pace”. Marilena, che tutti chiamano “la nonna”, organizza periodicamente pranzi di comunità in cui si mescola cibo occitano e pachistano e canti di diverse lingue. “L’inserimento è stato graduale ma costante, non possiamo nemmeno comprendere quanto abbiano sofferto questi ragazzi e quale sia la situazione nel loro Paese”, racconta Enrica Alberti, consigliera comunale che si occupa direttamente dei progetti che riguardano i migranti e quelli del futuro del borgo. Origine ligure, laurea in scienze e tecnologie alimentari, un lavoro in giro per l’Europa, anche lei è una nuova montanara, avendo deciso di trasferirsi a Ostana dopo un campo di Legambiente. Qui, non distante dalle sorgenti del Po, è nato qualcosa di nuovo. Il sindaco Lombardo - che nel 2015 ha ricevuto il premio per la buona politica dedicato al sindaco pescatore Angelo Vassallo ucciso dalla camorra - lo sintetizza così: “Nello scambio umano e culturale tra vecchi abitanti, conoscitori del territorio, e nuovi, portatori di un sapere alto (spesso laureati), è nata una nuova società”. Una realtà in movimento. Tra il 2009 e il 2014 c’è stato un investimento pubblico, grazie a bandi europei e regionali, pari a 4,6 milioni di euro; almeno 10 milioni di euro sono stati gli investimenti privati. Tra il 2013 e il 2015 è stata recuperata l’intera borgata Sant’Antonio-Miribrart. Ostana è un borgo vivo, dove si può frequentare la scuola di cinema di Giorgio Diritti e Fredo Valla e, presto, il Monviso Institute, centro di ricerca universitario e laboratorio di sostenibilità; oppure visitare “Il bosco incantato”, oasi didattica sensoriale. È un piccolo paese che ha preservato l’architettura montana fornendo opportunità produttive: “L’Orto di Ostana”, l’azienda agricola di Serena Giraudo, neo-montanara con il marito Andrea, il negozio, aperto nel 2014 in contemporanea a un’ala del Comune, un rifugio, un agriturismo, una locanda. A questi si aggiungerà nel 2019 il panificio Quel Po di pan, con produzione e vendita in tutta la Valle, di Flavio Appendino, 32 anni, e Chiara Pautasso, 23 anni, due giovani che hanno deciso di trasferirsi in montagna. Nel 2015 sono stati, invece, inaugurati i locali del Centro Culturale Lou Pourtun e della Foresteria. Il Centro è gestito dall’associazione Bouligar (“diamoci da fare” in occitano) animato da alcuni giovani come Serena e Marita, educatrice che ha deciso di trasferirsi in montagna nella casa dei nonni. A Ostana, parafrasando una delle possibilità che Revelli aveva prospettato ne Il mondo dei vinti, è stato salvato il salvabile prima che il genocidio della montagna si compisse. Non solo, è diventato il laboratorio di un mondo migliore. A misura d’uomo e natura. Migranti: L’accusa di Oxfan: “a Lesbo trattati da bestie” Il Dubbio, 10 gennaio 2019 L’Ong pubblica il rapporto “Vulnerabili e abbandonati”. Centinaia di donne incinte, minori non accompagnati, sopravvissuti alle torture e agli abusi sono costretti nel pieno dell’inverno a vivere in condizioni “disumane” nei campi profughi delle isole greche. È la denuncia contenuta nel rapporto “Vulnerabili e abbandonati” diffuso da Oxfam, attraverso le testimonianze di migranti a cui viene negato il diritto a un’accoglienza dignitosa, come conseguenza del collasso del sistema di identificazione e di protezione, dovuto alla mancanza di personale qualificato e a processi burocratici kafkiani. Nel dossier, vi sono le voci di madri mandate via dagli ospedali a soli quattro giorni da un parto cesareo e che si sono ritrovate a vivere in una tenda assieme ai figli appena nati; il documento riporta anche le testimonianze di minori e donne sopravvissuti a violenze sessuali e ad altri traumi, che sopravvivono in campi profughi dove regolarmente avvengono risse e dove di conseguenza i due terzi di chi è costretto a viverci afferma di non sentirsi mai al sicuro. Nel campo di Moria - che contiene il doppio di persone che potrebbe accogliere - vivono ammassate centinaia di persone, con un solo medico per quasi tutto il 2018, incaricato dalle autorità di Lesbo di provvedere all’identificazione e al primo soccorso delle circa 2.000 persone, che arrivavano ogni mese sull’isola. L’inverno, poi, ha portato una pioggia incessante a Lesbo e la tendopoli è diventata una vera e propria palude di fango, con le temperature che nelle prossime settimane si abbasseranno ancora sotto lo zero portando la neve. In cerca di qualsiasi fonte di calore le persone stanno iniziando a bruciare tutto quello che trovano, inclusa la plastica. Portano stufe improvvisate e pericolose dentro alle tende, rischiando la vita. Droghe. Lo spinello della discordia tra Lega e M5S di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 gennaio 2019 Il senatore grillino Matteo Mantero presenta un ddl per la depenalizzazione della cannabis. Il ministro Fontana “Non è previsto nel contratto, piuttosto è una provocazione”. Depenalizzazione dell’autocoltivazione di marijuana per uso ricreativo in forma personale o associata, sul modello dei Social club spagnoli, e depenalizzazione della detenzione di cannabis per uso personale; innalzamento del quantitativo di Thc contenuto nella cannabis light commercializzabile legalmente (da 0,2% a 1%). È quanto previsto dal disegno di legge presentato al Senato da Matteo Mantero, uno dei cinque senatori del Movimento 5 Stelle dissidenti rispetto al decreto Sicurezza, e rilanciato dal blog di Beppe Grillo. Non è esattamente quanto promesso in campagna elettorale dai grillini, non è affatto quanto sollecitato dalla Direzione nazionale antimafia (contrariamente a quanto sostiene il senatore Mantero) e non è certo il testo proposto dall’Intergruppo parlamentare presieduto da Benedetto della Vedova (a cui aderirono molti pentastellati, da Di Battista a Fico a Di Maio) che normava la legalizzazione di tutta la filiera di produzione, trasformazione e commercializzazione della cannabis, e non solo dell’autocoltivazione, sul modello di molti Stati esteri come il Canada, il Colorado, Washington, l’Oregon, l’Alaska, il distretto di Columbia e recentemente anche la California. Come caldeggiato, appunto, dai magistrati antimafia. E men che meno assomiglia alla proposta di legge di iniziativa popolare depositata nel 2016 da Radicali Italiani e dall’Associazione Coscioni che, in più, decriminalizza anche l’uso di tutte le altre sostanze stupefacenti. Ma sarebbe pur sempre un inizio. Peccato però che probabilmente il ddl non andrà più lontano dell’annuncio: “Le proposte sulla legalizzazione dell’uso della cannabis non sono concordate. Si tratta infatti di un tema che non è nel contratto del governo e che non è nell’agenda della Lega - chiude il discorso il ministro per la Famiglia e le Disabilità, Lorenzo Fontana, che detiene la delega alle “politiche antidroga” - Ci sorprende quindi che vengano presentati disegni di legge che sembrano più provocazioni che altro”. Il ministro leghista si riferisce anche ad altri due diversi ddl depositati qualche mese dal senatore pentastellato Lello Ciampolillo che prevedono la depenalizzazione della coltivazione di 4 piante di marijuana, per uso terapeutico in uno dei due testi e ricreativo nell’altro. Mantero spiega il perché della sua iniziativa direttamente dal blog di Grillo: “In molti sono d’accordo che sia insensato perseguire chi si fuma uno spinello, visto che la marijuana non fa male come invece l’alcool e il tabacco. Anzi, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista “Scientific Reports”, affiliata di Nature, l’alcool ha un indice di pericolosità 114 superiore alla cannabis, seguito da eroina, cocaina e tabacco. Storicamente - prosegue Mantero - non è mai stata registrata alcuna morte dovuta all’uso di derivati della canapa”. Il senatore 5 Stelle ricorda che “le organizzazioni criminali controllano la produzione, la trasformazione e la vendita di ogni tipo di sostanza proibita, i trasformatori e gli intermediari”, e che la “Dna nella sua relazione annuale del 2015 diceva che dalla cancellazione del reato di produzione e vendita delle droghe leggere, che rappresenta più della metà del mercato degli stupefacenti, il risparmio generato ammonterebbe a quasi 800 milioni di euro”. Un mercato però difficilmente scalfibile solo con l’autocoltivazione. Nel testo depositato dal senatore Mantero è prevista la non punibilità della coltivazione personale di un numero massimo di tre piante di marijuana di sesso femminile, quelle che producono le cime psicoattive, e la coltivazione in forma associata “attraverso enti senza fini di lucro, sul modello dei cannabis social club spagnoli cui possono associarsi solo persone maggiorenni e residenti in Italia, in numero non superiore a 30”. Il tutto previa “comunicazione all’ufficio della Prefettura”. Inoltre, secondo la proposta, nel testo unico 309/90 verrebbe annoverata tra le condotte lecite la detenzione “non subordinata ad alcun regime autorizzatorio” di una piccola quantità di cannabis: 15 grammi in casa e 5 grammi fuori. Resta invece sanzionabile il piccolo spaccio di cannabis (contrariamente a quanto promesso), anche di “quantità inferiori ai limiti stabiliti”. Viene invece depenalizzata la cessione gratuita a una persona maggiorenne di “una modica quantità di cannabis inferiore ad un grammo e dei prodotti da essa derivati” purché nei limiti di quantità massima e nelle modalità consentite. Alla proposta plaudono i Radicali italiani mentre il Pd è ancora fermo a “non ci sono droghe di serie A e B, sono tutte pericolose”, come afferma Stefano Pedica che chiede un referendum prima di legiferare “su un tema così importante”. Niente paura, Salvini ha già deciso: “Non c’è sul contratto”. Gran Bretagna. Via le sbarre alle finestre delle celle, sono troppo “punitive” di Giuseppe Gaetano Corriere della Sera, 10 gennaio 2019 Rivoluzione in arrivo nelle prigioni britanniche. Le parole “detenuti” e “celle” sostituite con “persone” e “stanze”: secondo uno studio finanziato dal governo favoriranno la riabilitazione dei detenuti. Mai più sbarre alle finestre nelle future prigioni di Sua Maestà. La novità dopo uno studio finanziato dal governo britannico, messo in guardia dagli effetti negativi della tetra immagine della “gabbia” sulla psiche e, dunque, sul recupero dei detenuti. Anzi, presto costoro non saranno neanche più chiamati così. Stop alle sbarre - Le sbarre, orizzontali o verticali, saranno tutte sostituite da doppi vetri rinforzati e infrangibili, ancora più sicuri per chi teme che la riforma rappresenti un invito alla grande fuga: lo prevede un progetto triennale finanziato dai contribuenti, che rivedrà così l’architettura dei nuovi penitenziari in costruzione, per aumentare le chance di riabilitazione di chi sta scontando un reato “normalizzando il suo ambiente di vita”. Non è solo un problema di linguaggio politically correct, ma soprattutto una questione psicologica. Del resto con i nuovi sistemi di videosorveglianza, le grate hanno perso ogni funzione pratica, conservando però il significato simbolico di luogo deputato esclusivamente alla penitenza più che, come dovrebbe essere, a un’occasione di riscatto nei confronti della società e di se stessi. Un altro piccolo passo avanti dunque nell’ammodernamento del sistema carcerario occidentale dai tempi della palla al piede, del pigiama a righe e dei lavori forzati, che rendeva gli ospiti dei penitenziari più simili a schiavi in una miniera che a delle persone bisognose (anche) di essere rieducate, per il loro e nostro bene. Il glossario - Ma non è finita. Per far fronte alla dilagante violenza, in particolare a Londra (l’ultimo efferato omicidio martedì sera: un 14enne ucciso con 7 coltellate per aver tamponato un’auto con lo scooter), il Regno Unito vuole ripensare anche il “vocabolario carcerario”. Le parole che usiamo nei differenti sinonimi sono importanti, circoscrivono un orizzonte di senso ed esprimono una visione del mondo. E così Yvonne Jewkes, docente di criminologia all’Università di Bath, sta conducendo in questi giorni un secondo studio - anch’esso finanziato insieme al primo dai contribuenti con quasi 700mila euro - per stabilire se usare i termini “uomini” e “stanze” al posto di “detenuti” e “celle” non possa a sua volta favorire, tramite il meccanismo dell’autostima, il reintegro nel tessuto sociale. “Trattare i detenuti con fiducia, rispetto e dignità - sostiene il professore - li incoraggia a investire nel loro futuro, a progettare il domani”. Le teorie sono state già messe in pratica nella prigione di Berwyn, la più grande dell’Inghilterra, inaugurato l’anno scorso e che a regime ospiterà oltre 2000 criminali di categoria C a basso rischio. A dirla tutta le progressiste teorie di Jewkes contemplerebbero anche pc portatili, bar con tè caldo e panini, camere singole, più ore d’aria in cortile e libere uscite. Ma si rende conto da solo che, con tanta magnanimità, l’opinione pubblica lo sbranerebbe. Egitto. 15 anni di carcere per un leader della rivolta del 2011 askanews.it, 10 gennaio 2019 Un tribunale penale del Cairo ha condannato oggi a 15 anni di reclusione una nota figura della rivolta egiziana del 2011. Ahmed Douma, questo è il suo nome, è già rinchiuso in carcere dopo aver subito nel 2015 una condanna all’ergastolo poi ridotta a 15 anni di prigione. Lo ha detto una fonte giudiziaria. In carcere dal 2013, Douma è stato accusato di coinvolgimento nella violenza scoppiata sulla scia della rivolta popolare, sfociata con la caduta del presidente Hosni Mubarak durante la cosiddetta primavera araba. Douma, è stato condannato per “raccolta, possesso di coltelli e attacco con Molotov contro membri delle forze armate e di polizia”, come ha detto la fonte giudiziaria. I giudici lo hanno anche accusato di aver vandalizzato edifici pubblici, compresa la sede del Consiglio dei ministri. Nel 2015, durante un primo processo, era stato condannato all’ergastolo per 25 anni. Ma nell’ottobre 2017, la Corte di Cassazione egiziana ordinò un nuovo processo. Alla fine Douma venne condannato a “15 anni di carcere e sei milioni di sterline (290.000 euro) di multa”, ha detto la stessa fonte.