Verona e Genova: altri due suicidi e ricomincia la triste escalation di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2019 Sono già sei i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. nel 2018 furono 67. Escalation di suicidi in carcere nel giro di 24 ore. È passato poco più di un mese dall’inizio dell’anno e già siamo giunti a sei suicidi per un totale di 14 decessi nelle patrie galere. Gli ultimi due suicidi, avvenuto nell’arco di poche ore, riguardano due giovani detenuti di origine africana. Uno a Verona e l’altro al Marassi di Genova. A Verona è il segretario nazionale per il Triveneto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe a darne notizia. Giovedì scorso, un detenuto trentenne di origini nigeriane, entrato a gennaio, si è tolto la vita impiccandosi. Nulla hanno potuto i pur tempestivi interventi dei poliziotti, che pure lo avevano portato nell’immediatezza nell’infermiera dove gli è stato fatto un massaggio cardiaco con defibrillatore senza esiti. Poco più tardi, sempre nello stesso carcere, un altro detenuto maghrebino è stato portato in codice rosso all’ospedale per aver ingerito pile e lamette. Triste, invece, l’epilogo di un detenuto ventiduenne di origine marocchine. È stata dichiarata, in ospedale, la sua morte cerebrale dopo aver tentato di togliersi la vita nel carcere Marassi a Genova impiccandosi nella sua cella. È stato soccorso dagli agenti di polizia penitenziaria, sul posto è intervenuto il personale medico sanitario che ha portato il 22enne in condizioni gravissime all’ospedale San Martino di Genova dove è deceduto nonostante i tentativi di rianimazione. A pensare che qualche giorno fa, proprio i sindacati di polizia avevano denunciato il grave sovraffollamento del Marassi con 730 detenuti su una capienza di 546 posti, sottolineando che nel solo 2018, nelle carceri ligure, hanno sventato 30 tentativi di suicidio. Come detto, 6 sono i suicidi dall’inizio dell’anno. Ancora, prima, martedì scorso, un detenuto di 67 anni si è ucciso nel carcere sardo di Uta. A darne notizia è stata Mara Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. “Apprendere della morte volontaria di una persona - ha affermato Caligaris - genera sempre dolore e sgomento tanto più se questo avviene dietro le sbarre. È un monito che richiama tutte le Istituzioni ad agire unitariamente per scongiurare episodi tragici di autolesionismo. Sappiamo - continua la presidente di Sdr - che non sempre è possibile prevedere questi atti né scongiurarli in extremis come spesso Agenti e Sanitari fanno. Occorrono però più progetti mirati e iniziative che devono rendere meno afflittiva la pena”. Poi ha sottolineato: “Il carcere racchiude accoglie tante fragilità personali difficili da gestire. Molte non sono neppure capaci di manifestare apertamente il disagio. Ecco perché diventa indispensabile la presenza di programmi e attività molteplici con personale (Agenti, Educatori, Psicologi) adeguato ai bisogni”. Caligaris conclude con un auspicio: “Occorre una maggiore attenzione da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare le condizioni di vita dentro le strutture e promuovere la realizzazione di Case di Accoglienza alternative agli Istituti di Pena”. In Italia i suicidi in carcere sono un fenomeno in crescita costante. Nel corso dell’anno appena concluso sono state 67 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un penitenziario. Nel 2017 erano state 52 e l’anno precedente 45. Nel corso degli ultimi diciannove anni - come indicano le statistiche pubblicate da Ristretti Orizzonti, i suicidi oltre le sbarre sono stati oltre mille, per la precisione 1.059. In totale i decessi (per tutte le cause) sono stati, nello stesso periodo, 2.898. Corleone: “nelle carceri situazione intollerabile, non possiamo essere conniventi” gonews.it, 9 febbraio 2019 Carcere e giustizia: per migliorare la condizione dei detenuti e la vita all’interno delle carceri sarà indispensabile recuperare il pensiero di Alessandro Margara, il “giudice della riabilitazione”, occorrerà “ripartire dalla Costituzione”. Ha preso il via questo pomeriggio, venerdì 8 febbraio, la due giorni dedicata alla figura di Alessandro Margara, il magistrato ispiratore della riforma penitenziaria, “che fu sempre in prima linea per i diritti delle persone private della propria libertà”. Due giornate volute dal garante dei detenuti. L’incontro di questo pomeriggio ha registrato una insolita partecipazione di pubblico: affollata la sala delle Feste, con giovani seduti ai piedi delle pareti, riempita anche la adiacente sala delle Collezioni, dov’è stato possibile seguire gli interventi su un maxischermo. “Viviamo un momento di rottura costituzionale”, di fronte al quale “non ci sarebbe perdonata connivenza o passività”, dice Corleone nel suo intervento. Il sovraffollamento delle carceri “come situazione strutturale”, la dilagante “retorica del popolo, il quale secondo la Costituzione può esercitare la propria sovranità entro forme e limiti previsti, altrimenti si fa un abuso e nel nome del popolo si possono compiere tanti delitti”. È arrivato il tempo di contrapporsi a queste tendenze, prosegue Corleone, al “pericolo di utilizzare il diritto penale come strumento per colpire i nemici sociali. I principi del garantismo liberale - aggiunge - sono messi profondamente in discussione. Quando un ministro dichiara che una persona “dovrà marcire in carcere”, siamo di fronte a una violazione della Costituzione, all’articolo 27”. Corleone ricorda l’impegno di Margara, “massimo teorico della critica al proibizionismo sulle droghe” e richiama la sua “linea di intransigenza, che oggi dobbiamo riuscire a tradurre in atti”, in un momento nel quale “dobbiamo constatare il fallimento dell’ipotesi riformista sulle carceri. Dobbiamo trovare i punti per denunciare l’intollerabilità della situazione”. Il carcere non deve diventare “una discarica sociale. Non mi sentirò tranquillo - chiude Corleone - se alla fine del mio percorso come garante dei detenuti, per il quale fortemente si adoperò Margara, che l’aveva ricoperto prima di me, non si potrà consegnare una condizione di vita e di dignità delle persone in carcere che sia adeguata alle parole di Sandro Margara”. Nel pomeriggio di oggi sono stati anche illustrati i lavori dei laboratori tematici su “Città e sicurezza”, “Opg e Rems”,”41bis e ergastolo”, “Droghe e carcere”, “Gli spazi della pena”, “Donne e carcere”, “Alternative al carcere, giustizia di comunità e giustizia minorile” e “Immigrazione e sicurezza”. In apertura sono intervenuti Antonietta Fiorillo e Beniamino Deidda. I lavori riprenderanno per tutta la giornata di domani, al Cenacolo di S. Apollonia (via San Gallo, 25), con le relazioni “Meno stato e più galera” di Luigi Ferrajoli; “Moralità e diritto” di Tamar Pitch; “Il carcere dopo Cristo” di Stefano Anastasia. Alle 15.30 avrà luogo la tavola rotonda sul tema “La giustizia nella crisi della democrazia: un manifesto per ripartire dalla Costituzione”, coordinata da Laura Zanacchi. Il prologo del convegno, si è tenuto questa mattina, nella sala delle Collezioni di palazzo Bastogi, con la presentazione del progetto di empowerment women in transition-wit “Donne in carcere”, promosso dalla Società della Ragione, con il sostegno del progetto otto per mille della chiesa evangelica valdese, che ha coinvolto le donne detenute e gli operatori di Sollicciano e del Don Bosco di Pisa. Il progetto Wit si colloca in continuità con una ricerca fra le donne detenute condotta nel 2013. Quella ricerca si concentrava sulla differenza femminile, come osservatorio per leggere la realtà del carcere e proporre azioni di trasformazione (valide per donne e per uomini). Il progetto attuale è stato accolto positivamente dalle detenute, tanto da far ritenere che sia utile ripetere questa esperienza in altri penitenziari. Stanze dell’amore in carcere: la situazione in Italia e nel mondo di Aldo Maturo* studiocataldi.it, 9 febbraio 2019 I colloqui intimi in carcere o “camere dell’amore” sono ammessi in moltissimi Stati. In Italia ci sono diverse proposte ad alto livello istituzionale per risolvere il problema. È possibile conciliare le esigenze di sicurezza degli istituti penitenziari - evitare che si possano introdurre pistole, coltelli, oggetti atti ad offendere, droga, telefonini e tutto quanto è noto agli operatori di polizia penitenziaria - con il diritto all’affettività dei detenuti? È possibile ipotizzare la predisposizione, nelle carceri, di stanze dell’affettività o “camere dell’amore” dove il detenuto possa soggiornare con la sua famiglia o con la sua compagna per ore senza il controllo visivo del personale di custodia previsto dall’art. 18 dell’ordinamento penitenziario? Evidentemente la risposta deve essere affermativa se 31 Stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa autorizzano con varie procedure le visite affettive dei detenuti. Ricordiamo, tra gli altri, Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, ed Austria. In Germania e Svezia ci sono miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia. Avviene anche nella cattolicissima Spagna (in Catalogna dal 1991) che è il Paese d’Europa con il maggior numero di detenuti, circa 70.000, stipati in 77 carceri. È considerato partner colui o colei che si presenta regolarmente ai colloqui ordinari, che hanno luogo ogni fine settimana. Ne usufruiscono quasi tutti i detenuti e gli incontri sono permessi anche fra persone dello stesso sesso. In Olanda le visite avvengono in locali appositi o anche in cella. La Danimarca autorizza visite settimanali di un’ora e mezza. In Canada le visite fino a 72 ore avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In Finlandia e Norvegia c’ è un sistema di congedi coniugali. In Croazia e Albania, invece, gli istituti di pena concedono incontri non controllati della durata di quattro ore. In America, fin dagli anni 90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una sex worker (lavoratrice del sesso). Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico, ma la carrellata potrebbe continuare. In Italia la proposta è stata rinverdita di recente dagli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una supercommissione di esperti del mondo del carcere voluta dal Ministro Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. Per l’affettività in carcere, ha proposto l’istituto della “visita”, diversa dal “colloquio” da svolgersi senza il controllo visivo e/o auditivo del personale di sorveglianza. La “visita” dovrebbe svolgersi in “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, separate dalla zona detentiva, con pulizia affidata ai detenuti, e da svolgersi in un “opportuno lasso temporale”. In Parlamento giacciono due progetti di legge, uno al Senato e uno alla Camera. Disegno di Legge 1587 Senato (XVII Legislatura terminata il 28.12.2017) - Per il senatori firmatari dei tre articoli della proposta di legge i detenuti e gli internati hanno diritto a un incontro al mese di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il proprio coniuge o convivente senza alcun controllo visivo, da svolgersi in locali per consentire relazioni personali ed affettive. Il secondo articolo amplia il principio per i detenuti già condannati ed ospiti quindi delle Case di Reclusione prevedendo che hanno diritto a trascorrere mezza giornata al mese con la famiglia, in apposite aree presso le case di reclusione. Disegno di Legge C1762 Camera (XVII Legislatura, terminata il 28.12.2017) - Per i Deputati firmatari i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di 24 ore con le persone già autorizzate a fare colloqui. La visita si svolge in locali adibiti e realizzati a tali scopi per permettere l’affettività. La visita si svolge senza il controllo visivo ed auditivo da parte del personale di custodia. Lo scoglio dell’art. 18 L. 354/75 e profili di costituzionalità - Il Magistrato di Sorveglianza di Firenze, su ricorso di un detenuto, aveva sollevato profilo di costituzionalità dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario (che prevede il controllo a vista e non auditivo del colloquio) perché questo impediva di avere rapporti intimi anche sessuali con il coniuge o con persona legata da rapporto di convivenza. L’eccezione era corredata da una lunga serie di motivazioni e richiami agli articoli della Costituzione (art. 2, art.3, art. 27, art. 29, art. 32) nonché richiami a Raccomandazioni del Parlamento Europeo adottate dal Consiglio d’ Europa l’11.1.2006 che ha stabilito che “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali. La sentenza della Corte Costituzionale n. 301/2012 - La Corte, nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.18, ha ribadito che il controllo a vista del personale di custodia non mira ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo partner ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari per prevenire reati. L’eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l’obiettivo perseguito, perché per le visite occorrerà predisporre una disciplina che stabilisca termini, modalità, destinatari, numero, durata, misure organizzative. La Consulta ha poi richiamato l’attenzione del legislatore sul problema dell’affettività in carcere anche per le indicazioni provenienti dal paragone con tanti Stati nel mondo che riconoscono al detenuto una vita affettiva e sessuale intramuraria. Ha ricordato che gli artt.8/1 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, prescrivono agli Stati di permettere i rapporti sessuali all’interno del carcere anche tra coppie coniugate (Corte Europea dei Diritti dell’uomo, sentenze 4.12.2007, Dickson contro Regno Unito, e 29.7.2003, Aliev contro Ucraina). La soluzione dei permessi premio - Attualmente, in Italia, il sistema utilizzato per mantenere relazioni anche intime con il proprio partner è quello dei permessi premio, periodo da trascorrere in famiglia che il magistrato di sorveglianza concede al detenuto meritevole. È noto, però, che il beneficio non è esteso a tutti i detenuti ma solo ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi. I permessi non servono a coltivare solo interessi affettivi ma anche culturali, non possono superare complessivamente 45 giorni all’anno per una durata non superiore a 15 giorni per ciascuna autorizzazione. Sono esclusi dal beneficio gli imputati in custodia cautelare o che si trovino in altre limitazioni giuridiche previste dall’ordinamento penitenziario. Nel 2017 sono stati concessi 34.000 permessi premio, badando bene che il dato statistico è comprensivo di quei detenuti che hanno usufruito di più permessi. Stanze dell’affettività, le prime esperienze in Italia - In Italia le “stanze dell’affettività” già esistono, in via sperimentale, nel carcere di Milano Opera e, pare, di Milano Bollate, anche se non è nota la precisa organizzazione interna di tali spazi. Sono formate da una cucina, un frigorifero, un tavolo con le sedie, un divano con un televisore. Per un giorno intero le persone ammesse potranno parlare, prendere un caffè, giocare, abbracciarsi e baciarsi come una famiglia normale dimenticando di essere dentro un carcere. Al beneficio sarebbero ammesse 16 famiglie per incontrarsi in una piccola casa dotata da microtelecamere nascoste (ma la loro presenza deve essere nota agli occupanti) che vengono seguite a distanza dal personale di custodia. Sono gli educatori, ogni anno, a selezionare i nuclei familiari più sofferenti, proposti al Direttore, per beneficiare di questi colloqui. Il ruolo della Polizia Penitenziaria - Al momento non è ben chiaro quale dovrà essere il ruolo del personale di polizia penitenziaria e degli altri operatori nella gestione di questo “servizio” né, è da ritenere, potrà assistere agli incontri con telecamere nascoste come nel citato esperimento soft di Milano. D’altra parte se quello dell’affettività e dell’intimità è un diritto che contribuisce a stabilizzare l’equilibrio psicofisico della persona, bisognerà valutare come risolvere il problema per tutti quei detenuti che non hanno legami affettivi all’esterno e che quindi non sono ammessi a usufruire di normali colloqui. Al 31 dicembre scorso erano presenti in carcere circa 57.000 detenuti. Si tratta di una popolazione detenuta, molto giovane (il 54% ha meno di 40 anni) e spesso senza una famiglia (il 39% è celibe/nubile, quindi senza moglie, amica/o, amante, fidanzata/o), che non riesce ad usufruire di benefici ben più importanti, quali ad esempio le misure alternative al carcere. Sarà un bel problema per la Direzione trovare una risposta anche per quei detenuti stranieri (circa il 35%) - ma la cosa riguarda anche tanti italiani single o abbandonati dalle famiglie - che presenteranno la “domandina” per essere ammessi, come gli altri, alle “stanze dell’affettività” o “love room”. Di sicuro le esperienze degli altri Stati potranno aiutare a trovare delle linee guida che possano contemperare le opposte esigenze. La sicurezza, la dignità del personale di custodia, l’affettività dei reclusi. *Avvocato “Noi, madri detenute, abbiamo bisogno dei nostri figli” Redattore Sociale, 9 febbraio 2019 Un’indagine sulle recluse madri nelle carceri di Firenze e Pisa. Tra i tanti aspetti approfonditi dalla ricerca, quello sulla lontananza dei figli, vista da tutte le recluse come fattore di stress. “Il contrasto fra l’esigenza di avere contatti coi familiari e la macchina burocratica è particolarmente duro”. “I servizi sociali non favoriscono le visite dei figli ai genitori in carcere”. È una delle tante testimonianze di una madre nel carcere fiorentino di Sollicciano, contenuto all’interno del rapporto conclusivo del progetto pilota di empowerment per donne detenute “Women In Transition - WIT” promosso da Società della Ragione col sostegno dell’otto per mille della Chiesa Valdese. Tra i tanti aspetti approfonditi dalla ricerca, quello sulla lontananza dei figli, vista da tutte le recluse come fattore di stress, sia tra gli operatori del carcere, sia fra le donne detenute. Uno stresso dovuto alla lontananza forzata e ancora di più alla preoccupazione di chi possa prendersi cura dei bambini in loro assenza. “È stato uno shock, prima di tutto lasciare i miei figli a casa, l’unica cosa che a me premeva era quello” ha detto una reclusa. La ricerca ha raccolto le testimonianze delle detenute del carcere Sollicciano di Firenze e del carcere Don Bosco di Pisa. Il problema più pressante è quello di come mantenere i rapporti con i figli che sono rimasti fuori. I colloqui e le telefonate diventano un assillo. Negli ultimi anni qualcosa è stato fatto per favorire le telefonate, venendo incontro soprattutto alle esigenze delle persone straniere, che incontrano particolari difficoltà a mettersi in contatto con i familiari lontani. Tuttavia, è spiegato nella ricerca, il contrasto fra l’esigenza di avere contatti coi familiari (a volte drammatica quando la detenuta è il sostentamento della famiglia) e la macchina burocratica, è ben presente, ed è particolarmente duro per le straniere, che possono contare solo sulle telefonate visto che i figli vivono lontano. Dice una di loro: “Io telefono per dieci minuti e per sette la bambina piange, abbiamo solo tre minuti per parlare, non si capisce niente. Una volta a settimana, per noi stranieri è dura”. E un’altra detenuta: “Lavoro con la psicologa per andare in permesso a trovare mia figlia di 8 anni. Suo padre non vuole portarla qui in carcere logicamente, ha ragione da una parte. Noi siamo divorziati, quindi è più difficile, non c’è nessun contatto, nessun rapporto tra me e lui”. E un’altra reclusa ancora: “La persona detenuta è vista come malata incurabile ed è bene che il bambino non abbia contatto, non si coglie la positività della continuità del rapporto, ma solo l’aspetto negativo del bambino che in modo traumatico viene portato dentro il carcere. Può anche non essere piacevole per il bambino, ma va valutato cosa è meglio, il rapporto coi genitori o cosa? Si dice: voi proteggete il genitore, noi il minore, ma non sono interessi confliggenti!” Dalla ricerca, che non riguarda soltanto le detenute madri ma tutti gli aspetti realtivi alle donne in cella, è stata avanzata una proposta rivolta alle istituzioni giudiziarie e penitenziarie, ma anche alla Regione e agli enti locali: promuovere occasioni formative “trasversali” (con operatori di diversa funzione) su un nuovo modello di carcere “risocializzante e responsabilizzante” e sui percorsi di empowerment, individuale e ambientale, prendendo spunto dai risultati di questo progetto. Progetto europeo per prevenire la recidività dei crimini sessuali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2019 Presentato a Viterbo punta al trattamento terapeutico dei sex offenders in carcere. Prevenire la recidività dei crimini sessuali è possibile. L’altro ieri nella sala stampa dell’Asl di Viterbo, alla presenza del direttore Generale della Struttura Daniela Donetti, del Direttore della Casa Circondariale di Viterbo Pierpaolo D’Andria, del Direttore del V° Ufficio del Provveditorato Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise del Ministero della Giustizia, del Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, moderatore Sergio Babudieri della Onlus SIMSPe si è tenuta la presentazione del progetto europeo PR.O.T.E.C.T. - Prevenzione, valutazione e Trattamento dei sex offenders negli istituti penitenziari europeo, finalizzato alla creazione di un network per la condivisione di buone pratiche e sviluppo di innovazione a livello europeo. La lodevole iniziativa nasce dalla necessità di prevenire la recidività dei crimini sessuali non solo attraverso la repressione e la pena ma anche e soprattutto attraverso l’intensificazione del trattamento terapeutico dei sex offenders in carcere, con l’obiettivo di creare un Protocollo condiviso da tutti i partner europei. Il fenomeno dei crimini sessuali viene percepito dalla comunità in modo particolarmente abietto e questo in molti Paesi si è tradotto in un incremento del livello della pena per rispondere alla richiesta di maggiore protezione sociale. Ma la detenzione dei sex offenders senza un accurato intervento terapeutico è destinata al fallimento, in quanto il reo è certamente predisposto a ricompiere il crimine una volta scontata la pena e uscito dal carcere. In questo contesto dove si necessita l’intensificazione della prevenzione e della protezione dagli abusi sessuali. Il Consiglio Europeo con la Convenzione del 25 ottobre 2007 ha indicato l’importanza di lanciare dei programmi che prevengano la recidività del reato e il progetto PR.O.T.E.C.T. si inserisce in questo quadro specifico. Gli obiettivi del progetto infatti sono: mappare lo stato dell’arte a livello europeo, analizzando le pratiche attualmente esistenti nei paesi Ue, con specifico focus sui paesi partner del progetto (Italia, Portogallo, Croazia); prevenire la recidività dei reati sessuali attraverso lo sviluppo di un protocollo di trattamento internazionale del detenuto, nato dalla condivisione di strategie tra i partner. Lo scopo è quello di creare Unità Operative Funzionali “Ofus” sperimentali (Operational Functional Units) incentrate sulla “giustizia riabilitativa”, la quale verrà testata almeno in 6 istituti penitenziari europei selezionati; formare le persone in diretto contatto con i detenuti sex offenders, organizzando 2 corsi da 20 ore (uno per tutti i lavoratori/ operatori/ medici/ polizia penitenziaria e uno per gli altri detenuti) modellati attorno ad un approccio “comportamentale” con lo scopo di ridurre lo stigma e il pregiudizio nei confronti dei sex offenders, aumentando la conoscenza e la consapevolezza della malattia mentale. Il Protocollo verrà portato avanti nelle carceri selezionate e condiviso online. La formazione svilupperà il trattamento dei sex offenders su 3 livelli interconnessi tra loro: per approfondire una specifica conoscenza della condizione dei sex offenders; per incrementare capacità professionali e non professionali nel trattamento; per essere in grado di gestire esperienze ed emozioni. I corsi di formazione verranno replicati nei 6 istituti penitenziari europei selezionati e nello specifico il Protocollo verrà testato su 100 detenuti per crimini sessuali; 12 Direttori, 12 Commissari di polizia, 120 agenti di polizia penitenziaria, 60 medici, 30 infermieri, 30 volontari o altri operatori dei 6 istituti penitenziari selezionati che verranno coinvolti nel progetto; 120 altri detenuti verranno coinvolti nei corsi di formazione allo scopo di ridurre lo stigma e saper gestire la convivenza in carcere. All’importante appuntamento erano presenti tra gli altri Paola Montesanti dell’Ufficio Servizi Sanitari del D.A.P., Alfredo De Risio coordinatore scientifico del progetto, il professor Bruno Aragao dell’Università do Minho, il professor Marino Bonaiuto della Sapienza di Roma e la dottoressa Andrea Bruno di Healthi City Ngo. “Basta politici sopra la legge”. “Giudici lenti”. Botta e risposta tra magistrati e Bonafede di Francesco Grignetti La Stampa, 9 febbraio 2019 Nella cerimonia per i 110 anni dell’Anm il presidente Minisci fa riferimento al caso Diciotti. Gelo con il ministro. Che l’atmosfera non sia delle più amichevoli per il ministro Alfonso Bonafede, alla cerimonia peri 110 anni dalla fondazione dell’Associazione nazionale magistrati, lo si capisce subito. Lui entra in sala da solo, mentre poco più in là il presidente dell’associazione, Francesco Minisci, e i diversi rappresentanti delle istituzioni fanno ala al Capo dello Stato. Freddi i saluti. Iniziano poi gli interventi e Minisci nemmeno lo cita. È un fatto: con la vicenda Salvini, i rapporti tra politica e giustizia sono tornati al grado più basso. E le parole dei due protagonisti, pur dietro la cortesia istituzionale, tradiscono la tensione. “Non lasciateci soli”, è l’appello del presidente dell’associazione magistrati. Lo dice tra gli scrosci della sala. Sono tre le solitudini che Minisci lamenta: nel contrasto ai reati, nel fronteggiare una crisi economica “che spesso si scarica sui palazzi di giustizia”, nel soddisfare la domanda dei cittadini su “temi e materie sempre più attuali, ma scarsamente regolamentati”. Temi come le questioni etiche, ad esempio il fine vita. Allo stesso tempo, Minisci riafferma orgogliosamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, e che nessuno, neppure un ministro a caso, può ritenersi al di sopra della legge. “Tra i compiti che la Costituzione assegna ai magistrati - scandisce - vi sono il dovere e l’obbligo di svolgere indagini e accertamenti nei confronti di tutti, senza esclusioni”. Ecco, se queste erano le richieste (e le aspettative) dei magistrati, Bonafede la vede diversamente e lo anticipa evocando il “franco confronto”. Il Guardasigilli, che si autodefinisce “organo di cerniera tra la sfera dell’indirizzo politico e la sfera della giurisdizione”, veste i panni del guastafeste e ci va giù pesante, ammonendo i magistrati presenti, almeno un migliaio: “Secondo un’approfondita indagine, promossa dalla Scuola superiore della magistratura, il 71,3% dei cittadini intervistati fa risalire la lentezza della giustizia italiana anche all’inadeguatezza dell’operato dei magistrati. Come ministro non posso e non voglio restare indifferente a questi dati”. E ancora: “Sono 15,6 milioni gli italiani (il 30,7% della popolazione adulta) che, secondo il rapporto Censis 2018, negli ultimi due anni, hanno rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria, volta a far valere un diritto, perché sfiduciati”. Certo, Bonafede condivide l’allarme dei giudici per le carenze pazzesche negli organici, nelle strutture, nelle procedure. Ma aggiunge il punto di vista di un governo populista: “È indubbio che il canale ordinamentale di dialogo e di reciproco riconoscimento tra la magistratura e la società si è alterato”. La stoccata finale arriverà da una citazione di Piero Calamandrei, “il quale riteneva che il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici e in generale tutti i pubblici funzionari fosse il pericolo dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica. Per il burocrate, gli affanni dell’uomo vivo che sta in attesa non contano più”. Da registrare un unico applauso di cortesia al termine. Fake news sulle “toghe rosse”. In rete la campagna di odio contro i giudici di Catania di Nadia Ferrigo e Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 9 febbraio 2019 Magistratura Democratica discute se chiudere il profilo Facebook. La segretaria: “Ci intimidiscono per zittirci, non possiamo cedere”. “Prendete i nostri commenti e disseminateli ovunque. Forum online, sezione commenti dei maggiori giornali nazionali e locali, social network. La nostra è una guerriglia culturale”. La chiamata alle armi di Vox News, sito di propaganda sovranista e xenofoba con Rambo in home page, non è passata inascoltata. Un paio di post per lanciare una campagna contro “le toghe rosse” che parte dal caso Diciotti e investe gran parte della magistratura, bollata come “di sinistra” e anti Salvini. Il 24 gennaio, dopo l’invio al Senato della richiesta di autorizzazione a procedere, Vox News annuncia “l’inizio di un’offensiva che si farà durissima” e “un tentativo di colpo di Stato delle magistrature rosse”. In particolare, “secondo alcune informazioni, il tribunale dei ministri di Catania sarebbe composto da 3 membri di Magistratura Democratica, la corrente di minoranza della magistratura. Di estrema sinistra. La stessa alla quale appartiene Patronaggio, il procuratore di Agrigento da cui partì l’indagine. Un partito di sinistra della magistratura - legato al Pd - sembra interessato a processare il leader del primo partito italiano. E che vuole riaprire i porti attraverso una decisione non legislativa, ma giudiziaria. Questo è un colpo di Stato”. A dispetto del logo “fact checking” che campeggia accanto al testo, la notizia è una bufala. Nessuno dei quattro magistrati citati è iscritto a Magistratura Democratica. Ma tanto basta per costruire la teoria cospirazionista e “suffragarla” con una fantomatica lista di seimila toghe rosse (su circa ottomila magistrati). Nei giorni successivi Vox News pubblica un paio di aggiornamenti: le toghe rosse del caso Diciotti sono due e non quattro (comunque un falso), la lista viene rimossa “per evitare fraintendimenti”, restano la tesi di fondo (“le toghe rosse vogliono rovesciare la democrazia”) e la foto del procuratore Patronaggio (il volto sinistramente cerchiato) in piedi con altre persone mentre ascolta Renzi. Come si trattasse di un comizio del Pd. In realtà la foto risale alla fine del 2017 quando Renzi (all’epoca segretario Pd) assieme all’allora guardasigilli Orlando andò a visitare la “stanza della memoria”, l’ufficio del palazzo di giustizia di Agrigento dove lavorava il giudice Rosario Livatino ucciso dalla mafia nel settembre 1990. Patronaggio era lì, ovviamente, in quanto padrone di casa. Falsità e mistificazioni diventano il carburante di una campagna d’odio con centinaia di tweet ogni giorno, che si propaga da quel momento su migliaia di blog e profili social, nella stragrande maggioranza con nomi di fantasia corredati da bandierine italiane e simbologie fasciste. Alcuni nomi: @stopinvasione, @noalrazzismocontrogliitaliani, @litaliasiamonoiitaliani. La tecnica è quella di ottenere visibilità andando a rimorchio dei profili social di mass media e politici, oppure direttamente sulle pagine dei “nemici”, o intercettando i trend topic del momento. Tra i duemila e i diecimila follower, di piccola-media portata. Perfetti per propalare la “guerriglia culturale” con tweet tipo “Magistratura Democratica, il partito degli immigrazionisti schiavisti europeisti disposti a tutto”. E per portarla in casa dei magistrati progressisti. Ovvero sul profilo Facebook di Magistratura Democratica. Fino a un paio di settimane fa riservato a una ristretta platea di addetti ai lavori, adesso travolto da messaggi infamanti e violenti. Nelle mailing list interne di Magistratura Democratica si è aperto un dibattito. Una parte degli iscritti propone di chiudere il profilo Facebook, perché “non possiamo difenderci da una azione organizzata con tecniche professionali”. La segretaria di Md, Mariarosaria Guglielmi, non ci sta: “C’è un clima di intimidazione indegno di un Paese europeo. L’attacco orchestrato ad arte ha l’obiettivo di recludere la magistrature in stanze chiuse lasciandola senza voce. Ma non possiamo cedere”. Cascini (Csm): “Il governo ci ascolti, non butti via i riti alternativi” di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2019 “Confidiamo che gli operatori del diritto possano essere ascoltati. A maggior ragione nel momento in cui parlano con una voce sola. Il mio auspicio è che il governo, nel ritoccare il processo penale, segua le indicazioni offerte in modo condiviso dall’Associazione magistrati e dall’avvocatura. A cominciare dal rafforzamento dei riti alternativi, che tutti gli studiosi da anni indicano come la via maestra per ridurre i tempi della giustizia penale”. Giuseppe Cascini, togato del Csm espresso da Area ed ex segretario dell’Anm, ha appena ascoltato l’intervento del guardasigilli Alfonso Bonafede all’evento organizzato dall’Associazione per i propri 110 anni. Il ministro assicura che i suoi uffici “sono già impegnati a scrivere la riforma che renderà più veloci i processi”. Ma intanto un primo segnale in arrivo è l’eliminazione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. La legge in questione è a un passo dall’approvazione definitiva. “Abbiamo segnalato le diverse criticità che una simile modifica comporterebbe”, spiega Cascini, che ha firmato il parere del Consiglio superiore sulla riforma dell’abbreviato. “Un segnale in controtendenza rispetto alla strada indicata da noi magistrati insieme con tutti gli altri operatori del diritto: rafforzare i riti alternativi, anziché indebolire l’unico che già funziona davvero”. È ragionevole pensare che si arrivi a una riforma del processo condivisa da governo, magistrati e avvocati? Farei una premessa. Tutte le discussioni sulla giustizia penale partono sempre da un dato di fondo: c’è un numero eccessivo di processi, e per questo la macchina giudiziaria non è in grado di rispondere in tempi celeri. Il secondo punto, su cui tutti gli studiosi insistono da 30 anni, da quando è entrato in vigore il modello accusatorio, è che l’unica via d’uscita per assicurare il buon funzionamento della giustizia penale è il rafforzamento dei riti alternativi. Nelle intenzioni di chi scrisse la riforma dell’ 88, avrebbero dovuto applicarsi ai due terzi dei procedimenti. Non è andata così. Ed è per questo che il sistema tende a restare ingolfato. Adesso il legislatore dice: non va bene che, grazie al rito abbreviato, chi doveva prendere l’ergastolo se la possa cavare con 30 anni, quindi eliminiamo l’abbreviato per quei reati più gravi. Vuol dire appunto andare in controtendenza rispetto alle considerazioni che tutti gli operatori del diritto ripetono e che ho appena ricordato. Quindi un punto d’incontro fra la politica e chi sta nelle aule di giustizia è impossibile? Io aspetto con interesse le proposte del governo, che il ministro ha appena annunciato come imminenti. Dico solo che dalla legge sull’abbreviato arriva un segnale che va nella direzione esattamente contraria a quella auspicata da magistrati e avvocati. La politica è sempre più scettica rispetto a interventi che l’opinione pubblica potrebbe considerare troppo morbidi? Tutti gli studiosi di sociologia criminale insegnano che la deterrenza non viene dall’entità della pena minacciata ma dalla celerità della pena effettiva. È quest’ultima ad aver effetto dissuasivo. Una sanzione applicata in tempi rapidi, a breve distanza dal fatto, è meglio di una pena più aspra, declamata, ma che non arriva in modo tempestivo. E perché questo discorso non passa? Io dico semplicemente che se il legislatore non segue quel tipo di politica criminale, si allontana dal principio di realtà. Ci si accontenterebbe di emanare grida, mentre noi abbiamo bisogno di risposte che siano effettive. L’Anm è pronta a insistere, in modo condiviso con l’avvocatura penale, su alcune priorità, come i riti alternativi e la depenalizzazione, anziché sollecitare altri interventi che invece agli avvocati non piacciono, come la reformatio in peius. Condivide la strategia? Sì, sono d’accordo con le scelte dell’Associazione. Ecco, direi proprio che in questo caso l’Anm si lascia guidare dal principio di realtà. Ognuno degli operatori del diritto ha le proprie idee, su tanti aspetti diverse, per la riforma del processo. Ma è assai più efficace un’indicazione che arrivi in modo condiviso da magistrati e avvocati. Sarebbe bene che governo e Parlamento prendessero atto di tali indicazioni, che riconoscessero il valore e l’attendibilità di proposte concordate dai protagonisti della giurisdizione. Ecco perché la strategia scelta dell’Anm è giusta. Nel parere che lei ha redatto con un altro consigliere, Ciambellini, e che il plenum del Csm ha approvato a larga maggioranza, si segnala come senza l’abbreviato si rischi di avere un problema di effettività della pena proprio per quei reati da ergastolo. Sarebbe così sia perché i procedimenti diverrebbero assai più lunghi sia perché proprio questo allungamento esporrebbe in molti casi alla scadenza dei termini di custodia cautelare. Cioè ci troveremmo di fronte al paradosso per cui una riforma orientata a ottenere più rigore produrrebbe l’effetto opposto. Con l’abbreviato chi è accusato di reati gravi non uscirebbe dal carcere se non dopo decenni. Senza, c’è il rischio che quelle stesse persone tornino libere perché il processo non è finito. È così. Nel parere ricordiamo che in certi casi a determinare condanne non adeguate è la combinazione fra lo sconto di pena previsto dall’abbreviato e gli effetti delle attenuanti. Basterebbe intervenire su queste ultime, anziché rinunciare al rito che oggi viene adottato nei due terzi dei procedimenti su reati da ergastolo... Sarebbe così sia perché i procedimenti diverrebbero assai più lunghi sia perché proprio questo allungamento esporrebbe in molti casi alla scadenza dei termini di custodia cautelare. Cioè ci troveremmo di fronte al paradosso per cui una riforma orientata a ottenere più rigore produrrebbe l’effetto opposto. Con l’abbreviato chi è accusato di reati gravi non uscirebbe dal carcere se non dopo decenni. Senza, c’è il rischio che quelle stesse persone tornino libere perché il processo non è finito... È così. Nel parere ricordiamo che in certi casi a determinare condanne non adeguate è la combinazione fra lo sconto di pena previsto dall’abbreviato e gli effetti delle attenuanti. Basterebbe intervenire su queste ultime, anziché rinunciare al rito che oggi viene adottato nei due terzi dei procedimenti su reati da ergastolo. L’obiezione è: si tratta di poche migliaia di processi, non ne vale la pena... Ma sono processi che finirebbero tutti nelle corti d’assise, le quali ne sarebbero pericolosamente appesantite. Spesso si tratta di omicidi legati al traffico di droga o di armi: se alcune posizioni non potranno più essere definite con l’abbreviato, avremo tanti maxiprocessi. E con i maxiprocessi il rischio di scadenza termini di custodia cautelare si moltiplica. Anche da questo punto di vista, come si vede, si otterrebbe un effetto opposto a quello cercato dal legislatore. La ricerca di maggiore severità è cattiva consigliera... C’è un altro problema molto serio: quello dei collaboratori di giustizia. Oggi l’incentivo a collaborare viene proprio dalla possibilità di ottenere gli sconti di pena previsti dall’abbreviato e di poter evitare di stare in giudizio insieme con gli altri imputati. Se eliminiamo quell’incentivo, ci troveremmo di fronte a un problematico calo delle collaborazioni. Tutti questi alert arrivano da chi sta nelle aule di giustizia e sono rivolte a una compagine governativa molto giovane: proprio questo non dovrebbe far sperare di trovare maggiore ascolto? Sono sempre state l’ambizione e la speranza coltivate dalla magistratura. Il contributo di riflessione che si continua a offrire, sia da parte del Csm che dell’Associazione magistrati, si ispira proprio a tale approccio collaborativo. Non pretendiamo di adottare noi le soluzioni normative, ma crediamo che se la magistratura e l’avvocatura riescono a trovare insieme strade ragionevoli, sarebbe saggio prestare ascolto. Caso Diciotti. I criteri per valutare la condotta del ministro di Valerio Onida Corriere della Sera, 9 febbraio 2019 Il Senato si esprimerà sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini: dovrà vagliare anche questioni di ordine giuridico, non solo politico. Il voto che il Senato si accinge ad esprimere sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini coinvolge valutazioni di ordine politico ma anche di ordine giuridico-costituzionale. L’autorizzazione è richiesta dall’art. 96 della Costituzione per poter procedere nei confronti dei ministri per reati “commessi nell’esercizio delle loro funzioni”. Nel caso specifico, non vi è dubbio che le condotte per le quali il Tribunale dei Ministri ha ritenuto di dover chiedere l’autorizzazione a procedere, ritenendo che esse possano configurare reati come il sequestro di persona, abbiano tale qualificazione. La legge costituzionale, come è noto, prevede che la Camera competente possa, con delibera a maggioranza assoluta, negare l’autorizzazione solo “ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. La valutazione della assemblea non concerne quindi la fondatezza o meno dell’accusa (e di riflesso l’eventuale “fumus persecutionis”, cioè il sospetto di un’accusa artificiosamente sollevata, che si ravvisi nell’iniziativa della magistratura), ma esclusivamente la riconducibilità o meno della condotta addebitata al perseguimento da parte del ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, di un interesse costituzionale dello Stato (per ipotesi, la sicurezza) o comunque di un interesse pubblico ritenuto in concreto “prevalente” sugli interessi lesi dal reato ipotizzato. È una valutazione schiettamente politica, secondo cui il fatto, ancorché in sé costituente reato secondo la legge, non debba essere perseguito. Non si tratta tanto di una vera e propria “immunità”, cioè della sottrazione a priori agli organi giurisdizionali del potere-dovere di perseguire e punire i reati commessi dai titolari di certe cariche pubbliche, come avveniva per le immunità parlamentari di antica tradizione, previste anche dalla nostra Costituzione fino alla riforma del 1993, e miranti a tutelare il libero esercizio della funzione parlamentare; o come ancor oggi avviene per il Presidente della Repubblica, che per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni “non è responsabile”, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Qui è affidata in esclusiva alla assemblea parlamentare una valutazione per cui, anche se il fatto in sé costituisca reato, essa ritenga l’agire del ministro giustificato dalla prevalenza dell’interesse pubblico, e quindi lo sottragga alle normali conseguenze processuali e sanzionatorie. Si tratta di qualcosa di analogo alle “garanzie funzionali” che assistono, ad esempio, gli appartenenti ai servizi segreti, che possono essere autorizzati dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dall’autorità delegata a compiere atti costituenti reato, quando questi vengano ritenuti “indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi”. Il reato dunque c’è, anzi in questi casi è espressamente voluto e autorizzato, ma non è punibile perché sussiste una “causa di giustificazione”, analoga allo stato di necessità o all’esercizio di un diritto o all’adempimento di un dovere, che secondo il codice penale costituiscono cause di non punibilità di condotte di per sé integranti ipotesi di reato. Ma - attenzione - una siffatta autorizzazione non può concernere qualsiasi condotta delittuosa. La nostra legge (art. 17 della legge n. 124 del 2007) stabilisce che l’autorizzazione non può essere data “se la condotta prevista dalla legge come reato configura delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone”. Così, per esempio, l’agente dei servizi può essere autorizzato a commettere un furto, o un falso, ritenuto necessario per il conseguimento delle finalità istituzionali, ma non a uccidere o a torturare. Inoltre deve trattarsi di condotte “indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili”, costituenti “frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti”, ed “effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi”. Nel caso dei reati ministeriali non si tracciano espressamente limiti di questa natura, e la valutazione è rimessa al Parlamento anziché alla magistratura. Ma questa valutazione non può non essere basata su analoghi criteri di comparazione di interessi e di proporzionalità. Non sarebbe pensabile che la “preminenza” dell’interesse dello Stato o dell’interesse pubblico valga anche quando siano compromessi interessi di “valore costituzionale” superiore, come la vita o l’incolumità delle persone. Così, nessuno potrebbe pensare di giustificare la condotta di un ministro il quale, per perseguire l’interesse pubblico alla protezione dei confini dello Stato da ingressi non autorizzati, ordinasse di uccidere o di ferire. Nel caso concreto, dunque, non solo la valutazione rimessa all’assemblea dovrebbe essere compiuta individuando l’interesse pubblico perseguito dal ministro: e nella specie non è difficile supporre che i parlamentari che sostengono il Governo possano ritenere che il ministro abbia agito in vista di un siffatto interesse, mentre i parlamentari dell’opposizione potrebbero naturalmente esprimere una valutazione politica opposta, ritenendo che l’interesse pubblico avrebbe dovuto condurre a una condotta diversa. Ma in ogni caso, ai fini del giudizio di “preminenza” dell’interesse pubblico, anche il Senato non dovrebbe omettere di valutare (come ha osservato Luca Masera in “Questione Giustizia”)se siano stati lesi interessi di per sé di “valore” superiore, anche dal punto di vista costituzionale, come quelli che si riconducono al rispetto di diritti umani fondamentali, e se siano stati rispettati criteri di proporzionalità. Perché senza la zona grigia la camorra può sparire di Raffaele Cantone Il Mattino, 9 febbraio 2019 Le parole sulla “zona grigia” che consente alla camorra di trasformarsi in potenza economica, pronunciate all’inaugurazione dell’anno giudiziario del procuratore generale Luigi Riello, toccano un nervo scoperto. A Napoli, come più in generale in tutte le città dalla pervasiva presenza di organizzazioni criminali, il fiancheggiamento della borghesia mafiosa (o para-mafiosa) è purtroppo fondamentale. La forza di ogni organizzazione mafiosa degna di questo nome, infatti, sta proprio nella capacità di muoversi all’interno di un sistema di relazioni esterno rispetto all’angusto contesto delinquenziale di provenienza. Per riuscire nell’intento, i sodalizi devono riuscire a insinuarsi nel terreno non mafioso, nella parte sana, quindi, del tessuto economico, e quanto più sarà profonda e radicata la penetrazione, tanto più potranno sperare in un duraturo successo. Com’è ovvio, soprattutto in una società complessa come la nostra, questo intento richiede la complicità di una serie imprescindibile di figure professionali, senza le quali il denaro ricavato dalle attività illecite rimarrebbe inutilizzabile come un pacco di banconote fuori corso. Dove potrebbe andare un gruppo di camorristi, spesso abituati al massimo a esibire minacciosamente le loro pistole, senza un libero professionista pronto a far risultare una provenienza lecita al denaro in loro possesso o un consulente finanziario capace di investire (e moltiplicare) il capitale di partenza? Che cosa sarebbero i soldi ricavati dalle estorsioni o dalla droga senza un prestanome, magari un imprenditore dalle buone maniere e incensurato, disponibile a farlo apparire come proprio? Tuttavia non si tratta solo di ripulire il denaro o di farlo lievitare: in prospettiva questa operazione è indispensabile in particolar modo per sviluppare le condizioni in grado di assicurare quel consenso sociale che rappresenta la vera benzina di ogni gruppo dalle connotazioni mafiose. Trasformare la semplice disponibilità economica in posti di lavoro, ad esempio, rafforza la capacità di presa della camorra sulla società, in particolare nelle aree segnate da una maggiore precarietà esistenziale e occupazionale. Diversi anni fa l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, all’epoca procuratore a Palermo, imputò alla borghesia mafiosa la principale responsabilità della persistenza di Cosa nostra in città. Le sue parole provocarono non poche polemiche, specialmente da parte di chi vi vedeva una indiscriminata criminalizzazione di una intera classe sociale. A prescindere da come la si pensi, e dando per scontato che le generalizzazioni sono un errore, è, però, innegabile che senza una zona grigia di complemento, le mafie sarebbero destinate a morire o quanto meno velocemente a rimpicciolirsi. D’altronde lo ha dimostrato il terrorismo politico: un fiancheggiatore può contare quanto un affiliato entrato in clandestinità, anzi in molte circostanze anche di più. Credo che questa constatazione possa essere pacificamente estesa anche ai semplici conniventi, a quanti fingono di non domandarsi (e non sapere) da dove proviene il denaro che gestiscono o di cui curano gli interessi. Il momento repressivo è fondamentale nella lotta alle mafie, ma da solo non basta; c’è assoluta necessità che la società civile faccia la sua parte. È troppo comodo lamentarsi della presenza della criminalità e contestualmente sottovalutare il circuito di complicità dei colletti bianchi o peggio ancora esserne sfiorato, come se la cosa non avesse rilievo! Ecco perché non si può che condividere quanto detto dal procuratore Riello sulla necessità di una rivoluzione culturale capace di rendere coscienti della gravità della situazione. Ed ecco perché recidere il legame perverso fra camorra e colletti bianchi è decisivo. Ogni organismo per sopravvivere ha bisogno di ossigeno. Non dimentichiamo mai che alla camorra l’ossigeno lo forniscono anche (e forse soprattutto) tanti insospettabili (non so quanto inconsapevoli). Cucchi, “esami sbagliati” e “telefonate sparite” di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 febbraio 2019 Processo bis. Masciocchi: “Dal corpo sezionata e analizzata parte di colonna sana, senza lesioni”. Un “unico evento” traumatico recente - “verificatosi entro 7-15 giorni dalla morte” - e molto importante, “non riconducibile cioè ad una semplice caduta”, sarebbe la causa delle due fratture vertebrali riscontrate sul corpo di Stefano Cucchi. Fratture - della vertebra sacrale S4 e della parte superiore della vertebra lombare L3 (soma, quest’ultimo, che, nella parte opposta, presentava gli “esiti cicatriziali” di una vecchia frattura ormai rinsaldata) - riscontrate perfino dalle lastre effettuate all’ospedale Fatebenefratelli dove venne visitato il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto al Pertini una settimana dopo, ma non dai consulenti e dai periti medico legali durante il primo processo. A confermarlo ieri in udienza davanti alla I Corte d’Assise di Roma è stato Carlo Masciocchi, tra le altre cose professore ordinario di radiologia dell’Università dell’Aquila ed ex presidente della Società Italiana di Radiologia Medica, che ha spiegato a fondo su quali evidenze scientifiche si basa il suo giudizio. Nel giugno 2015, su richiesta dell’avvocato Fabio Anselmo, legale dei Cucchi, Masciocchi studiò l’Rx del Fatebenefratelli fornito in formato jpeg e le immagini Tac total body eseguita sul cadavere il 23 novembre 2009, arrivando a concludere ciò che poi, nel corso del processo bis, è stato confermato dagli stessi carabinieri “pentiti”: ossia che Stefano aveva subito un forte trauma che gli aveva spezzato la schiena. Ma c’è soprattutto un particolare davvero inquietante che è stato confermato dal luminare di radiologia durante l’interrogatorio del pm Giovanni Musarò: nel corso del primo processo Cucchi (non ancora conclusosi) che vede alla sbarra cinque medici del Pertini, i consulenti medico legali del pm Vincenzo Barba (i professori Tancredi, Arbarello, Carella e Cipolloni), che hanno sostenuto la presenza una sola frattura vertebrale e di vecchia data, lo hanno fatto sulla base di una Risonanza magnetica effettuata sul cadavere riesumato circa 40 giorni dopo la morte (esame che, secondo Masciocchi, non può rivelare nulla su un corpo senza vita e per di più eviscerato, perché si basa sulla rilevazione dell’attività vitale dei tessuti molli). Mentre il collegio peritale nominato allora dalla III Corte d’Assise di Roma (Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla e Luigi Barana: tra loro nessun radiologo) arrivarono alla stessa conclusione dopo aver effettuato una Cone Beam (sorta di panoramica sofisticata usata dai dentisti) “su un tratto di colonna vertebrale sezionato e prelevato dal cadavere che comprendeva le vertebre L5, L4 e la parte inferiore della L3, ossia quella dove non c’era la frattura”. Nessuno dei consulente risulta indagato, ma la scoperta ha lasciato di stucco anche il pm Musarò che ha aperto un fascicolo integrativo al processo bis riguardante il depistaggio. Ed è proprio in questo ambito che si può inscrivere la deposizione del maresciallo Davide Antonio Speranza, all’epoca dei fatti in servizio presso la stazione Quadraro. Dopo la morte del giovane, gli venne chiesto di redigere un’annotazione che poi gli venne corretta. “Scrissi la seconda sotto dettatura diretta del maresciallo Mandolini (tra gli imputati, ndr)”, ha raccontato ieri riferendo di essere stato poi ascoltato nei giorni successivi anche dal comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali. Ultimo particolare, riferito in aula dal capo della Squadra mobile, Luigi Silipo: i Cd con le registrazioni e i tabulati delle conversazioni non trascritte del 2009, le prime dopo la morte di Cucchi, non si trovano più. “Che fine abbiano fatto - ha detto Silipo - non lo so”. Processo Cucchi, il carabiniere: scrissi la nota sotto dettatura di Edoardo Izzo La Stampa, 9 febbraio 2019 Sono passati nove anni dalla morte di Stefano Cucchi, ma la vicenda non è affatto chiusa. Ieri pomeriggio è toccato al maresciallo dei carabinieri, Davide Antonio Speranza, salire sul banco dei testimoni. Un’audizione ricca di significato: il giovane militare è colui che aveva firmato due atti contenenti l’indicazione delle condizioni di salute di Cucchi a seguito dell’arresto, avvenuto il 16 ottobre 2009, per questioni di droga. La prima annotazione, nonostante risultasse datata nel giorno della morte di Stefano, come raccontato ieri in aula da Speranza, “fu redatta dopo la sua morte e retrodatata perché pensai che si trattasse di un atto che avrei dovuto redigere alla fine del servizio”. L’accusa di calunnia e falso - Ancora più grave quanto accaduto in occasione della seconda annotazione, scritta il 27 ottobre 2009, che, ha spiegato ancora il testimone, fu “dettata dal maresciallo Mandolini” ossia uno dei militari imputati. Al sottufficiale dell’Arma vengono contestati i reati di calunnia e falso. Proprio Mandolini, infatti, “quando lesse la prima annotazione, disse che non andava bene e che avrei dovuto cestinarla, ma non lo feci”. Due atti diametralmente opposti, con il primo che affermava che “Cucchi era in stato di escandescenza” e il secondo in cui si leggeva che il geometra romano “non lamentava nessun malore né faceva alcuna rimostranza in merito”. Del fatto che le due annotazioni fossero diverse e che la seconda era stata fatta sotto dettatura - cosa non menzionata né davanti al pm Vincenzo Barba (rappresentante dell’accusa nel primo processo) né in Corte d’Assise nel primo dibattimento - Speranza ha sostenuto che fu “perché ho ritenuto fosse irrilevante. Adesso che è uscito tutto sui giornali, ci ho pensato su”. Nell’udienza del processo a carico di cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati ascoltati anche il capo della Squadra Mobile di Roma, Luigi Silipo, e Carlo Masciocchi, professore ordinario di Radiologia dell’Università dell’Aquila e nel 2015 consulente della difesa Cucchi. Masciocchi, ex presidente della Società italiana di Radiologia Medica, incalzato dal pm Giovanni Musarò, ha ribadito che sul corpo del giovane “sicuramente c’erano due fratture vertebrali” a livello lombo-sacrale, entrambe “recenti” e “contemporanee”. Nell’altro filone di indagine, quello sui “depistaggi”, è indagato il generale Alessandro Casarsa. All’ufficiale è contestato il reato di falso. Verona: corriere dell’eroina suicida dietro le sbarre Il Mattino di Padova, 9 febbraio 2019 L’avevano arrestato i carabinieri del Nucleo investigativo di Padova il 12 gennaio scorso in una piazzola di sosta lungo l’A4 nel Veronese, stava portando in città 20 chili di eroina. L’altro ieri Adelaja Abodunrin, 40 anni, nigeriano, si è tolto la vita nel carcere veronese di Montorio dove si trovava in attesa di giudizio. Aveva provato a togliersi la vita anche il giorno del suo arresto e per questo era stato portato in Psichiatria. Martedì, il giorno prima dell’insano gesto, il tribunale del Riesame gli aveva negato la libertà. Non ha retto il peso di questa decisione, soffriva molto la detenzione. Si è impiccato in cella pochi attimi prima della perquisizione delle camere di detenzione. Il blitz come detto era scattato il 12 gennaio scorso, i carabinieri avevano avuto una soffiata sul passaggio di un grosso carico di eroina stipato in un camion di trasporto merci. E la segnalazione si è rivelata esatta. Il tir era in sosta nel parcheggio dell’area di servizio dal pomeriggio fino a sera tarda. I carabinieri padovani erano appostati e attendevano il corriere che doveva prendere la droga. È arrivato lui, il nigeriano a bordo di un taxi alle 22. Aveva con sé un borsone nero che ha consegnato all’autista, salendo anch’egli sul mezzo pesante. Nola (Napoli): si costruirà davvero un carcere senza sbarre, con campi sportivi e teatro? di Ciro Pellegrino fanpage.it, 9 febbraio 2019 Il nuovo penitenziario campano la cui realizzazione è prevista a Nola (Napoli) in località Boscofangone nell’idea di chi l’ha progettato, dovrebbe essere un istituto moderno, sul modello di quelli scandinavi, dove scontare la pena non significa uscire peggio di come si è entrati. Circolano da almeno due anni delle immagini su come dovrebbe essere: campi sportivi, celle senza sbarre e teatro. Ma sarà davvero così? Qualche giorno fa è stata diffusa la notizia della costruzione di nuovi penitenziari in Italia allo scopo di decongestionare le strutture attuali, da sempre sovraffollate. E siccome fra le tante emergenze quella delle carceri riguarda anche la Campania con gli istituti di Poggioreale e Secondigliano (maschili) Pozzuoli (femminile) da sempre sovraffollati, Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in audizione alla Commissione Giustizia alla Camera, ha ricordato che in provincia di Napoli sorgerà una nuova prigione. Dove? A Nola, in località Boscofangone. La notizia, ovviamente, non è di oggi: sono almeno 3 anni che si parla di quell’area e in effetti ci sono già state delle linee d’indirizzo su come sarebbe dovuta sorgere la nuova casa circondariale. Era stato l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) a parlare di struttura di nuova concezione. Il modello di riferimento del progetto era quello del carcere norvegese di Halden ad Oslo. Dunque niente sbarre alle finestre, niente mura perimetrali, disponibilità di celle singole, campi sportivi e piscina, teatro, aule e laboratori per le attività ricreative e per apprendere un mestiere. Molto verde e un sistema di videosorveglianza sofisticatissimo. Siccome alcune aziende specializzate sono state invitate a presentare i loro progetti, da anni ormai girano molti rendering, ovvero progetti al computer fatti da studi di architettura e ingegneria edile. Quello della Tecnicaer, una delle aziende che ha presentato una ipotesi progettuale (valore circa 100 milioni di euro) è tornato di attualità. Tuttavia nel frattempo sono cambiate le cose: è cambiato il governo, è cambiata anche una certa percezione del Paese rispetto alle questioni relative alla sicurezza. E ora del carcere di Boscofangone si parla non perché potrebbe diventare una struttura all’avanguardia, un penitenziario-modello nel Paese punito dalla Corte di Strasburgo per le pietose condizioni delle sue carceri, ma perché oggi sembra scandalosa l’idea di strutture sportive, lavorative o sociali all’interno degli istituti di pena con obiettivo il recupero dei detenuti. Tuttavia: è il caso di dire che le immagini circolate in queste ore siano effettivamente del carcere che sarà realizzato? La risposta è no. Si tratta di una ipotesi progettuale. Al momento (novembre 2018) occorre bonificare l’area da vecchi ordigni bellici. Quindi è tranquillamente il caso di dire che siamo all’anno zero. È possibile anche intuire che un governo Lega-M5S non sarebbe favorevole ad una struttura penitenziaria indicata da molti come “un resort per delinquenti” o addirittura “carcere di lusso”. Gli agenti di polizia penitenziaria dal canto loro invece chiedono da tempo di realizzare prigioni che non siano invivibili per chi è ospitato e per chi vi opera. Nel progetto di Nola, si legge nella nota dello studio di progettazione che ha concepito la proposta, “forte è la consapevolezza che il percorso di rieducazione e reinserimento nella società civile del detenuto, passi anche attraverso l’umanizzazione dell’ambiente e la flessibilità degli spazi, che devono essere riconfigurabili in funzione di possibili scenari di sviluppo futuri”. Dunque 1.200 detenuti dovrebbero avere 95mila metri quadrati di spazio e strutture all’avanguardia per scontare la loro pena senza un “supplemento di Golgota”. Napoli: Radicali ed ex detenuti in piazza per il Garante cittadino dei detenuti di Fabrizio Ferrante ottopagine.it, 9 febbraio 2019 Mercoledì 13 febbraio i Radicali per il Mezzogiorno Europeo e gli Ex detenuti organizzati di Napoli (Ex Don) daranno vita a un sit-in all’esterno di Palazzo San Giacomo. La manifestazione, che inizierà alle 9:30, è stata indetta nel giorno in cui approderà in consiglio comunale la questione relativa all’istituzione del garante dei detenuti della Città Metropolitana di Napoli. Una battaglia che ha visto Radicali ed ex detenuti in prima linea tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 (iniziativa propedeutica alla delibera di giunta in materia dello scorso agosto) con una raccolta firme all’esterno, in particolare, del carcere di Poggioreale e che adesso arriva nei palazzi istituzionali. Il garante cittadino, nelle intenzioni dei proponenti, andrebbe ad affiancare quello regionale in una città come Napoli che, da sola, conta circa 3500 ristretti nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Nisida. Tale figura è inoltre già esistente in altre città (come Roma, Cagliari e Reggio Calabria) alcune delle quali con minori criticità rispetto al capoluogo campano. A Napoli, ad esempio, nel solo carcere di Poggioreale sono ristretti 2204 detenuti (dato al 31 gennaio) in 1565 posti disponibili. Nel 2018 in questo carcere si sono verificati cinque suicidi, con inoltre un ultimo tentativo di gesto estremo posto in essere da un ristretto, risalente a pochi giorni fa. L’avvocato Raffaele Minieri, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani ed esponente di spicco dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, è stato l’ideatore della proposta del garante dei detenuti per la Città Metropolitana di Napoli. Con queste parole Minieri ha presentato il sit-in di mercoledì prossimo e ha spiegato le ragioni per cui è necessario procedere all’istituzione del garante cittadino: “La prima discussione sul garante cittadino dei detenuti era prevista per il 29 gennaio, cioè a distanza di quasi sei mesi dalla proposta dell’assessore (quello alle politiche sociali, Roberta Gaeta). Come Radicali Italiani e Radicali per il Mezzogiorno Europeo riteniamo che l’istituzione non solo sia necessaria ma anche urgente visto il sovraffollamento enorme e la gravità della situazione. La dignità degli esseri umani detenuti e degli stessi agenti della penitenziaria non può essere violata per alcuna ragione. Speriamo che il consiglio decida nel più breve tempo possibile e vigileremo affinché ciò avvenga. Non vogliamo correre il rischio che la questione venga dimenticata o considerata secondaria, perché è di centrale importanza per il rientro nella legalità del sistema penitenziario”. Coi Radicali per il Mezzogiorno Europeo saranno in piazza all’esterno del Municipio partenopeo, anche gli ex detenuti organizzati di Napoli. A proposito del sit-in e sul garante dei carcerati napoletani si è così espresso il leader degli ex detenuti napoletani, Pietro Ioia: “Come presidente dell’associazione Ex detenuti organizzati di Napoli, dico chiaramente che la figura del garante cittadino ci vuole assolutamente. Specialmente qui a Napoli dove abbiamo il carcere più affollato d’Europa. Noi abbiamo Poggioreale con oltre 2.200 detenuti, abbiamo Secondigliano che è anch’esso affollato. Se un garante cittadino non si fa a Napoli, dove si dovrebbe fare? Dobbiamo impegnarci per far sì che questa figura venga istituita al più presto perché qui abbiamo il peggior carcere d’Europa. Il garante insomma ci vuole, anche se non sarà Pietro Ioia ma sarà un’altra persona l’importante è che questa figura sia creata. Qui i familiari dei detenuti abbondano, non hanno notizie sui loro cari e un garante cittadino può essere utile anche per aiutare i familiari in questo senso come spesso capita a me di fare. Mercoledì parteciperemo al sit-in all’esterno di Palazzo San Giacomo per far capire che vogliamo il garante cittadino dei detenuti e lo vogliamo a tutti i costi”. San Gimignano (Si): proteste dei detenuti, Cenni (Pd) richiede incontro urgente sienafree.it, 9 febbraio 2019 La parlamentare del Pd interviene sulle proteste dei detenuti del carcere di San Gimignano e chiede visita alla struttura. “Sono molto preoccupata della situazione del carcere di Ranza. Da anni seguo le vicende della casa di reclusione di San Gimignano. Più volte mi sono occupata dei problemi legati alle condizioni di vita dei detenuti e a quelle lavorative della polizia penitenziaria. A partire dalla mancanza di personale che costringe gli addetti a turni difficili, passando per le difficoltà dell’impianto idrico, fino alla mancanza, per lungo tempo, di una direzione stabile. Ho presentato atti parlamentari e incontrato più volte i rappresentanti della polizia e della dirigenza. Ho visitato ripetutamente Ranza. L’ultima occasione, poco meno di un anno fa, con il sottosegretario Cosimo Ferri, per discutere, tra le altre cose, del progetto di una lavanderia. Anche nelle scorse settimane ci sono state interlocuzioni informali con gli uffici competenti in Toscana. Quanto leggo, anche questa mattina, mi conferma l’esistenza di una criticità che va affrontata. Ho già chiesto un incontro con i rappresentanti sindacali degli agenti di custodia e oggi, oltre a confermare tale richiesta, formalizzerò istanza per poter visitare la struttura il prima possibile, come nelle mie prerogative di parlamentare”. Con queste parole, Susanna Cenni, parlamentare del Pd alla Camera, interviene sul carcere di Ranza, dopo le proteste dei detenuti della casa di reclusione di San Gimignano. Ivrea (To): il carcere tra le proteste dei detenuti e quelle degli agenti di Francesco Curzio rossetorri.it, 9 febbraio 2019 Dalla relazione di fine mandato del “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale” importanti indicazioni su come diminuire la violenza e promuovere attività utili al reinserimento all’interno della Casa Circondariale di Ivrea. Periodicamente, e negli ultimi mesi con una certa frequenza, si torna a parlare della situazione del carcere di Ivrea, o Casa Circondariale. Prima per la scarsa igiene delle strutture idriche, poi per il sovraffollamento, ora per il cronico mancato funzionamento dell’impianto antincendio. Nell’ultimo Consiglio Comunale di Ivrea di dicembre 2018 è stata approvata una mozione di Viviamo Ivrea che impegna il Comune a verificare costantemente la situazione e promuovere incontri con tutti gli attori del “pianeta carcere”. Nei giorni scorsi una delegazione composta dal Consigliere Regionale PD Cassiani e da due esponenti dell’Ass. Adelaide Aglietta ha visitato la struttura e confermato le carenze strutturali. A Ivrea per fortuna è presente, e Ivrea è tra le prime città ad averlo istituito, un Garante dei detenuti (ufficialmente Garante dei diritti delle persone private della libertà personale), fino al 2018 Armando Michelizza, che recentemente ha presentato una relazione di fine mandato (5 anni), prima di passare il testimone alla nuova Garante, Paola Perinetto, e tale relazione è molto utile per capire le problematiche e le criticità presenti in questa comunità chiusa e impermeabile, anche se collocata a pochi metri dalle nostre case. Michelizza non nasconde che il problema principale, a parte le carenze strutturali e di manutenzione, è la mancanza di una convinta strategia di riqualificazione e di offerta di opportunità per detenuti che, lasciati a se stessi, ricadono con troppa frequenza nella recidiva. Un carcere concepito solo per punire produce, sembra un paradosso, meno sicurezza di uno che investa invece nella educazione e nella speranza per il recluso. Di qui l’invito al Consiglio Comunale a sostenere tutte le persone che all’interno del carcere operano in tal senso: “il Consiglio Comunale, a cui è principalmente rivolta questa relazione, stia vicino e sostenga le persone che dentro al carcere hanno una visione “educativa”. Ce ne sono, a iniziare dalla Direzione, ma sono contrastate e hanno bisogno del sostegno della comunità esterna.” Il problema prioritario resta quello del lavoro esterno e certo la fase economica non aiuta ma sarebbe molto utile anche sviluppare le possibilità di volontariato esterno, che danno un senso di utilità, sono richieste dai detenuti e previste dalla Legge 9 agosto 2013, n. 94 che estende la possibilità del permesso anche a persone che “possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgersi presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”. Già esistono convenzioni con la Caritas, la Biblioteca, il gattile ma si potrebbero incrementare ulteriormente. Che la situazione non sia accettabile, anche se si tratta di una casa Circondariale, lo dicono le continue denunce di malcontento e stress da parte delle guardie penitenziarie e i casi, in continuo aumento, di disagio e violenza, anche su se stessi, dei detenuti. Negli ultimi anni si sono verificati 4 casi di suicidio, tanto da porre il carcere di Ivrea negli ultimi posti tra quelli italiani. Vale la pena di riportare le parole di Michelizza: “C’è violenza in carcere? Ogni tanto mi sento fare questa domanda che trovo, francamente, ingenua. Una ingenuità incolpevole, perché nasce dalla non conoscenza, ma anche da poca riflessione. Sì ce n’è tanta, fisica e verbale. Violenza su sé stessi, soprattutto. Per protesta, per ottenere un trasferimento in un carcere più vicino ai famigliari, per cento altri motivi, perché non ci si sente ascoltati. Sciopero dell’alimentazione e del bere, ci si taglia il corpo, si inghiottono lame e pile e altro, si inscenano suicidi che a volte purtroppo riescono. Se l’ambiente è deprivato di opportunità e prospettive, se si sta male, ma il futuro immaginabile è anche peggio o si comincia a pensare che la libertà sarà una breve pausa fra successive detenzioni, il disagio è altissimo. Rispetto ai venti anni di insegnamento nei corsi professionali in carcere che svolsi dal 1985 al 2005, ho notato un pesantissimo aggravarsi del disagio psicologico, mentale, in tutte le carceri del Paese. Non sto assolvendo il nostro carcere. Sto dicendo che è una organizzazione che produce violenza e, con rarissime isole di luoghi e di tempi. Sto accusando un sistema che rischia di distruggere persone. Persone detenute e persone che vi lavorano. Perché la violenza è veleno e fa male a tutti. Certo la violenza, da qualsiasi parte giunga e su chiunque si eserciti, va sanzionata. E quella esercitata dalle persone detenute viene sanzionata quasi sempre, non sempre quella di altri. Certo gli organici sono insufficienti e non tutte le posizioni sono coperte, ma occorrerebbe chiedersi quanto sia la qualità del lavoro a rendere pericoloso e nocivo questa attività. Penso che la ricerca della sicurezza attraverso il controllo ossessivo non avrà mai organici sufficienti e la frustrazione non diminuirà, con rischi di vittimismo contagioso. Credo che solo una qualità profondamente diversa del tempo, della vita trascorsa lavorando e restando detenuti possa ridurre tensioni, frustrazioni, vittimismi e violenze.” Nella parte finale del documento Michelizza ricorda che nel 2016 per opera dell’allora Ministro Orlando si tenne un lungo e fruttuoso confronto racchiuso nella cornice degli Stati generali dell’Esecuzione Penale. “Per un anno, dal maggio 2015 all’aprile 2016, vi è stata la maggior consultazione pubblica in questo Paese, che io ricordi. Centinaia di persone, forse più di mille, con diverse esperienze, professionalità, riferimenti culturali, condizioni sociali, hanno lavorato, si sono confrontati, hanno studiato e capito esperienze in atto in altri Paesi. Magistrati, operatori penitenziari, volontari, docenti universitari, persone detenute, persone che furono detenute, garanti, economisti, psicologi, architetti, medici, pedagogisti, psicoterapeuti, avvocati, costituzionalisti, giuristi, studenti, politici … cittadini. Divisi in 18 gruppi di lavoro tematici, hanno prodotto uno straordinario studio e proposte per rendere meno distruttivo e fallimentare il nostro sistema penale. Non ricordo altre esperienze di costruzione così culturalmente ricca e partecipata di una politica e di provvedimenti di legge. Ecco, mi dicevo, così si fa”. E poi? Cambiano gli assetti politici, la paura della perdita di consenso, aumentano le parole d’ordine forcaiole e tutto viene accantonato. Ora non possiamo far altro che sperare che, cambiati i tempi, quel gran lavoro venga ripreso e valorizzato. La relazione è molto estesa e merita di essere letta per intero, compresi gli allegati con documenti su iniziative realizzate nella Casa di Ivrea e a livello nazionale. L’incertezza sul futuro del nostro carcere è dato anche dalla prossima partenza della Direttrice senza che sia stato nominato un sostituto e naturalmente il ruolo della Direzione è decisivo, anche se non unico responsabile, del clima e delle attività all’interno della Casa. Ora per i detenuti, e anche per le Guardie, questo è un carcere da cui cercare di essere trasferiti, e questo rientra a pieno titolo nei problemi sociali della città di Ivrea. Modena: riprende la pubblicazione di “Ulisse”, il giornale dei detenuti modenatoday.it, 9 febbraio 2019 Il nuovo numero, uscito dopo una pausa, parla di responsabilità. La redazione, una ventina di persone coordinate da 4 volontari, è già al lavoro sul prossimo, dedicato alla paura del fine pena. “Sono molti gli stranieri e proviamo a spiegare loro cosa è cambiato fuori, con il decreto sicurezza”. Circa una ventina i redattori che prendono parte al progetto editoriale, trattando di temi che riguardano molto da vicini la loro condizioni, anche per stimolare riflessioni personali. Dopo una pausa di poco meno di un anno, il giornale dei detenuti del carcere di Modena ha ripreso le pubblicazioni. “Ulisse”, questo il nome del foglio, prende vita nell’omonima sezione della Casa circondariale Sant’Anna che, dall’ottobre del 2014, accoglie i detenuti della prima sezione per coinvolgerli in corsi, attività ricreative e culturali proposte da educatori e volontari. Nella Sezione Ulisse, nata da un’idea della direttrice del carcere Rosa Alba Casella, ci sono una piccola biblioteca, una sala video, una stanza per la preghiera, giochi, riviste e la redazione del giornale. “Sono una ventina i detenuti che vi partecipano- racconta Pier Giorgio Vincenzi, volontario in carcere dal 2002 e coordinatore della redazione del giornale- Non sono sempre le stesse persone perché quella di Modena è una Casa circondariale e il cambiamento è veloce. Per noi, ovviamente, è un grande impegno perché ogni volta si ricomincia, ma questo lavoro ci dà grande soddisfazione”. Il giornale esce ogni 2-3 mesi circa, “pubblichiamo quando abbiamo tutto il materiale”, e viene diffuso all’interno del carcere e on line, in pdf, sul sito buonacondotta.it. “Buona condotta” era il nome del giornale realizzato dall’associazione Gruppo Carcere Città Modena nato alla fine degli anni Ottanta per portare il carcere in città, facendolo uscire dall’isolamento, e la città nel carcere, perché lo riconoscesse come una parte di sé. Realizzato interamente dai volontari, “Buona condotta” è uscito due volte l’anno tra il 2007 e il 2016 e si rivolgeva alla città, era infatti un foglio allegato a Vivo Modena. “Poi i volontari non hanno più avuto la forza di portarlo avanti - racconta Vincenzi. Da quell’esperienza è nato “Ulisse” che, a differenza di “Buona condotta”, è fatto quasi esclusivamente di testimonianze dei detenuti”. Per scegliere i contenuti, “e stimolare la discussione”, la redazione- composta dai detenuti e da quattro volontari, oltre a Pier Giorgio ci sono Cristina, Simona e la direttrice Giulia Bondi- si riunisce una volta alla settimana, nella Sezione Ulisse. “Il lunedì ci troviamo per discutere, parlare, lanciare idee, leggere gli scritti prima della pubblicazione- spiega il coordinatore- ma c’è anche un secondo incontro, al mercoledì, in cui vediamo i singoli che hanno intenzione di scrivere, ma hanno difficoltà a mettere le parole su carta. Qualche volta, in particolare con le persone straniere, ho ascoltato il loro racconto e l’ho scritto per loro”. Il numero di gennaio è dedicato al tema della responsabilità. “L’idea era di parlare sia della responsabilità personale dei detenuti, tema che è stato sviscerato tanto che la maggior parte degli articoli parlano di questo, sia della responsabilità delle istituzioni nei loro confronti - racconta Vincenzi - ma questo secondo aspetto è rimasto nell’ombra. È difficile trattarlo dentro il carcere, ci sono forti resistenze”. Il numero è già disponibile in pdf sul sito www.buonacondotta.it ed è stato diffuso in carcere, “anche se i detenuti vorrebbero che uscisse all’esterno”. Ora la redazione è al lavoro sul prossimo numero, il cui tema “Chi ha paura del fine pena?” ha già sollevato una discussione viva. “Nella prima sezione, quella che di giorno in quello che sarebbe l’orario di lavoro, si svuota perché tutti scendono nella Ulisse, su 40 detenuti gli italiani sono nove - afferma Vincenzi - e ci sono grosse differenza nell’attesa del fine pena tra italiani e stranieri. A questi ultimi, stiamo cercando di spiegare cosa potrebbe succedere loro quando saranno fuori, con il Decreto Salvini e le nuove normative”. Nella Casa circondariale di Modena ci sono 486 detenuti (la capienza è di 369 posti), le donne sono 36, gli stranieri 315 (dati al 31 gennaio 2019 ministero della Giustizia). Modena: “Sognalib(e)ro”, serata finale al Teatro delle Passioni di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 9 febbraio 2019 Venerdì 8 febbraio alle 20.30 nella sala di via Carlo Sigonio le premiazioni dei vincitori del concorso letterario per le carceri e una piece teatrale con detenuti attori. Ingresso libero. Si conclude venerdì 8 febbraio con la serata finale - fra premiazioni, letture e teatro - il premio letterario “Sognalib(e)ro” per carceri italiane, promosso dal Comune di Modena con Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno di BPER Banca. Obiettivo: promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari dimostrando che possono essere strumento di riabilitazione (principio sancito dalla Costituzione). L’appuntamento, a ingresso libero per tutti fino a esaurimento posti, si svolge al Teatro delle Passioni di via Carlo Sigonio a Modena con inizio alle 20.30. Il programma della finale, con le prime valutazioni sull’esperienza che volge al termine, è stato presentato venerdì 1 febbraio a Palazzo Comunale di Modena da Gianpietro Cavazza, vicesindaco di Modena e assessore alla Cultura, con Giordano Bruno Ventavoli, giornalista, responsabile di Tuttolibri del quotidiano La Stampa, direttore e ideatore del Premio. Cavazza, che aprirà la serata presentando il progetto, ha ricordato che “Leggere e scrivere sono atti di libertà, che possono attraversare i muri mettendo in comunicazione il dentro e fuori dal carcere, in un progetto di grande valore umano, culturale e sociale”. Ventavoli, che condurrà la serata di venerdì 8 febbraio, si è detto colpito positivamente “dall’entusiasmo che mi veniva comunicato dai laboratori in carcere, dove i partecipanti hanno letto con passione e impegno almeno tre libri a testa, in un Paese dove si legge pochissimo”. Ha partecipato alla presentazione Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche, che ha espresso soddisfazione per il percorso fatto auspicando continuità, e con lui Nicoletta Saporito, per la Casa circondariale di Modena, Eugenio Tangerini, dirigente Relazioni esterne e responsabilità sociale di BPER Banca, e Stefano Tè, regista del Teatro dei Venti, che nella serata porta in scena una rappresentazione teatrale frutto di un progetto condotto nelle carceri di Modena e Castelfranco Emilia, con detenuti attori. Proprio a questi saranno anche affidate le letture delle classifiche e delle motivazioni del voto dei detenuti giurati per la sezione Narrativa, e di brani dei vincitori della sezione Inediti. Tre sono i premiati di quest’ultima, da tre diverse carceri: uno per la poesia, uno per il racconto e uno per il romanzo, che verrà pubblicato in e-book da Giunti. La casa editrice donerà alle biblioteche delle carceri partecipanti 1.500 libri dal catalogo Giunti Bompiani. Sarà, invece, la casa editrice civica digitale “Il Dondolo” del Comune di Modena a pubblicare in e-book una antologia degli scritti inediti presentati per il concorso. Altri libri, che saranno donati dagli organizzatori, saranno scelti dall’autore affermato vincitore della sezione narrativa tra quelli che indicherà come i libri “della sua vita”, quelli che più gli sono piaciuti o che più lo hanno “toccato”. Ai vincitori va anche un attestato e una medaglia del Comune di Modena, che saranno consegnati dal vicesindaco Gianpietro Cavazza. Seguirà la consegna, da parte del vicedirettore generale Eugenio Garavini, del Premio Bper Banca all’autore scelto dai gruppi di lettura in carcere. Spazio poi al teatro con la rappresentazione di “Padri e Figli/primo studio”, nuova produzione Teatro dei Venti in collaborazione con Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, la Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia (il teatro in carcere è sostenuto anche dal Comune di Modena). In scena, gli attori del carcere con gli attori e allievi attori del Teatro dei Venti. Sono invitati a Modena, per la serata finale, l’autore vincitore per la narrativa (si doveva scegliere tra “L’arminuta” di Donatella di Pietrantonio, Einaudi; “Una storia nera” di Antonella Lattanzi, Mondadori e “Perduto in paradiso” di Umberto Pasti, Bompiani) e membri della giuria (diretta da Ventavoli e composta dagli scrittori Antonio Manzini, Elena Ferrante e Walter Siti, con Antonio Franchini, scrittore e direttore editoriale di Giunti editore). Sono stati 96 i detenuti dei gruppi di lettura in carcere che hanno partecipato alle due sezioni del premio “Sognalib(e)ro”. Ventisei gli scritti presentati e otto gli istituti aderenti (Modena, Milano - Opera, Trapani - Cerulli, Torino - Lorusso e Cutugno, Brindisi, e tre femminili: Pisa, Pozzuoli e Roma Rebibbia - Stefanini). Armando Punzo: 30 anni nel carcere di Volterra per spezzarne le sbarre klpteatro.it, 9 febbraio 2019 “Io dico che queste mura sono strane; prima le odi, poi ci fai l’abitudine. E se passa abbastanza tempo, non puoi più farne a meno: sei istituzionalizzato”. Nel bellissimo film “Le ali della libertà” l’ergastolano Red, interpretato da Morgan Freeman, prova a spiegare il legame sfuggente che si crea tra un detenuto e l’istituto in cui è recluso. Le parole di Red esprimono la condizione alienante di chi, rimasto in carcere per troppi anni, finisce per temere il mondo esterno e rifiutarlo. Eppure il drammaturgo e regista Armando Punzo, quasi 60 anni, metà dei quali trascorsi come direttore artistico nel carcere di massima sicurezza di Volterra, ribalta il concetto proiettandolo su di sé: “Non mi pare che i miei attori siano istituzionalizzati; fuori dal carcere sono in grado di cavarsela egregiamente. Semmai sono io che non saprei concepire la mia vita professionale e artistica fuori da Volterra. Il carcere è una realtà pervasiva. A vincolarmi è soprattutto il tipo di lavoro che ho svolto in questi anni. Con attori senza una struttura o una cultura specifica. Con un approccio all’arte diretto, senza filtri”. Nel 1988 la Compagnia della Fortezza a Volterra è stata uno dei primi progetti di teatro in carcere in Italia. È vero che in una prigione si trova una maggiore autenticità? È una semplificazione. L’assenza di sovrastrutture caratterizza chiunque non abbia alle spalle una scuola di teatro. Io sin dall’inizio ho cercato questo tipo di autenticità. Ma non mi spingo ad affermare che il carcere è il luogo della spontaneità, mentre fuori dal carcere c’è l’ipocrisia. Quali sono dunque le particolarità di quest’esperienza? Viviamo tutti dentro un recinto. Non è la dimensione del recinto che conta, quanto la nostra capacità di evadere attraverso l’immaginazione. Siamo liberi nella misura in cui attribuiamo all’arte un potere immaginifico, una capacità di ridefinizione della realtà. L’arte è metamorfosi. Ciò che conta è essere aperti ai mutamenti, cambiare lo sguardo sul mondo, aumentare la capacità critica mettendo in discussione sé stessi, gli stereotipi e il principio d’autorità. Come si avvia questa metamorfosi? La rivoluzione parte dal pensiero, precisamente dal linguaggio. Bisogna diffidare di chi mette in contrapposizione fantasia e realtà affermando la priorità di quest’ultima. Certi schematismi imprigionano. Ad esempio la televisione esprime una realtà capace solo di affermare sé stessa. Propone orrore e violenza con lo scopo di vendere. Io cerco da trent’anni di mettere in crisi la realtà attraverso la poesia. Questo aiuta a dimenticare il carcere. È questa la mia rivoluzione. Come ci riesce? Affinando il percorso artistico. Negli ultimi anni abbiamo analizzato Shakespeare, che è un vero e proprio archetipo dell’uomo occidentale contemporaneo. Noi ci illudiamo di essere originali, depositari di un pensiero innovativo. In realtà la filigrana di tutto ciò che diciamo o pensiamo si trovava già nelle opere e nei personaggi di Shakespeare oltre quattro secoli fa. Borges, invece, mostra un nuovo modo di ragionare, di pensare, che porti a evadere dalla realtà e dal presente. Ecco perché qualcuno dei miei attori, quando si è trovato in mano Borges, ha concluso che Shakespeare, al confronto, era ‘a pazziella ‘mman ‘e creatur: un gioco da ragazzi. È questa sorta di evasione il senso di “Beatitudo”, lo spettacolo dei trent’anni che portate al Menotti di Milano da stasera al 10 febbraio? Ultimamente cerchiamo di misurarci con drammaturgie da costruire. Con testi, cioè, che non nascono per il teatro. I personaggi di Borges arrivano da tutte le epoche a rappresentare l’universo. Funes, ad esempio, cerca di emanciparsi dalla propria memoria per ridefinire il mondo attraverso le parole. Esce da sé per vivere altre possibilità. È questa la mia idea di teatro: spazzare gli stereotipi attraverso il potere dell’immaginazione. La bellezza come beatitudine, appunto. Uno spettacolo brutto è dannoso non perché assopisce lo spettatore, ma perché lo riconduce a sé stesso e ai problemi di tutti i giorni. Invece il teatro come esperienza estetica permette di evadere da sé, crea buchi nella realtà, produce cortocircuiti. Non è importante ciò che avviene in scena, ma ciò che accade dentro noi stessi. Si tratta di tornare alla realtà con il valore aggiunto di quest’esperienza estetica. E invece per lei qual è il valore aggiunto di questi trent’anni a Volterra? Che cosa resta del primo impatto con il carcere? Tanti; quando pensano ai detenuti, si aspettano di vedere degli animali in gabbia. Io inizialmente immaginavo di dover interagire con persone stanche, indolenti, impigrite da uno stallo che si ripeteva di giorno in giorno. Mi sbagliavo. Mi si è aperto un mondo. Devo dire che qualche resistenza però l’ho incontrata. Anche da parte degli agenti, che per un po’ hanno pensato che fossi un pazzo, oppure un infiltrato della camorra. Questo non solo perché sono originario di Napoli, ma anche perché, trent’anni fa, il carcere di Volterra era pieno di affiliati al boss Raffaele Cutolo. Invece, subito dopo, tutto è stato più straordinario di quanto avessi potuto pensare. Ho trovato in carcere quella Napoli da cui fuggivo. Ho trovato il sud dell’Italia, ma anche il Sud del mondo: indiani, pachistani, russi, slavi, rumeni, moldavi, albanesi, africani, cinesi… Una compagnia internazionale che forse solo Peter Brook si può permettere. Ci sarà un motivo se in carcere c’è tutto questo Sud. E così, grazie al teatro, il massimo della chiusura è diventato il massimo dell’apertura. Lo scopo del mio lavoro era dimenticare le sbarre. A questo serve il teatro: a trovare un altro linguaggio rispetto al parlare quotidiano. Non ci si può limitare ad argomenti come le donne, lo sport, la famiglia, la malattia o la politica. Lo scopo del teatro è cambiare i connotati alla realtà. Nelle sue opere lei dà molta importanza all’elemento visivo e musicale. È questo il senso dei costumi appariscenti, realizzati per lo più da sarti cinesi. Infatti quando alcuni di loro vengono scarcerati, la nostra costumista va nel panico. Anche le scenografie rimandano all’acqua, alla natura, trasmettono un senso di pace estatica e di silenzio. Il tempo, poi, è dilatato dalle musiche di Andrea Salvadori, non a caso fresco di premio Ubu. Le musiche sono partitura drammaturgica. Il teatro diventa luogo d’incontro, al netto delle proprie autobiografie. Che cosa intende per autobiografia? Esaltare l’inesaltabile. Raccontare menzogne a sé stessi. Far diventare straordinario ciò che straordinario non è. Davvero lei non ha un maestro di riferimento? Mai avuto un maestro. Chi ce l’ha spesso passa la vita a cercare di ucciderlo. Ma lei è un maestro per i suoi attori… No. Semmai un riferimento. È per questo che entra negli spettacoli come attore? Una volta restavo dietro le quinte. Da qualche tempo invece entro anch’io in scena perché non passi l’idea che i nostri spettacoli siano storie di detenuti. Sarebbe limitante. Anzi offensivo. Che messaggio esprime “Beatitudo”? L’importanza del sogno che s’impone sulla realtà. Eliminare il superfluo che intasa la vita procurando morte e distruzione. Svelare spazi inesplorati. Questo è lo scopo che ci siamo dati in questi trent’anni. E vogliamo continuare così: imprevedibili, fantasiosi, camaleontici. Migranti. La sfida delle ong: “Pronte a tornare nel Mediterraneo” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 febbraio 2019 Da Msf a Open Arms: “I porti chiusi non possono fermarci. Ma serve un nostro sistema di allerta”. Il dubbio su cosa fare non li ha mai sfiorati, neanche per un momento: continuare a salvare i migranti nel Mediterraneo. Come farlo, vista la politica dei porti chiusi del governo italiano e l’incapacità dell’Europa a trovare un accordo comune sulla distribuzione dei richiedenti asilo, è argomento sul quale i volontari delle varie ong italiane e straniere discutono tra loro ormai da settimane. Consapevoli di avere di fronte a sé una nuova sfida: la necessità di costruire un proprio sistema di monitoraggio e allerta del Mediterraneo centrale, una struttura indipendente visto che, come denunciano in molti, “abbiamo la sensazione di essere tagliati fuori dalla Guardia costiera italiana, che comunque ci rimanda alle autorità libiche”. È chiaro da tempo che casi come quello che di recente ha visto protagonista la nave della tedesca Sea Watch sono diventati ormai la norma e quindi destinati a ripetersi. Una minaccia che non spaventa più di tanto le ong, ma che inevitabilmente le costringe a prendere le misure con la nuova realtà: “Sappiamo che potremmo dover affrontare dei lunghi standoff, periodi nei quali potremmo restare per giorni bloccati in mare in attesa di una destinazione”, ammette da Marsiglia Avra Fialas, responsabile comunicazione della ong Sos Mediterranée, un network franco-italo-tedesco-svizzero che insieme a Medici senza frontiere è stata a lungo presente nel Mediterraneo con la nave Aquarius, la prima a rimanere bloccata a giugno del 2018 dal nuovo corso inaugurato dal ministro degli Interni Matteo Salvini: sette giorni in mare prima di avere l’ok per fare rotta verso la spagnola Valencia. Scaduto a dicembre il contratto con il vecchio armatore, la ong è alla ricerca di una nuova nave per ripartire: “Siamo a buon punto”, spiega Fialas. “Stiamo cambiando modello operativo, ma anche la nave dovrà avere caratteristiche diverse rispetto al passato, servono spazi più ampi sotto coperta dove alloggiare i migranti e più spazio anche per acqua e viveri. Ma occorre anche uno staff più numeroso, con più medici e psicologi”. Ufficialmente il 4 febbraio è cominciata la nuova missione della spagnola Open Arms, che però non ha potuto lasciare il porto di Barcellona dove è ferma dal 14 gennaio per mancanza dell’autorizzazione da parte della guardia costiera. “Una situazione assurda” spiega il capomissione, Riccardo Gatti, appena sceso dalle nave dove nel frattempo si svolgono lavori di normale manutenzione. “Il governo ci vieta di partire affermando che i porti sono chiusi e che non avremmo le misure di sicurezza adeguate. Ma sono solo pretesti”, prosegue Gatti. “Purtroppo i governi continuano a inasprire la lotta alle ong violando leggi e trattati, ma noi dobbiamo tornare in mare il prima possibile. Esserci è l’unico modo per testimoniare quanto succede”. L’impressione è comunque che l’atteggiamento genrale verso le ong sia ormai cambiato. Nel 2016 le accuse lanciate dall’agenzia europea Frontex diedero il via alla campagna di pesanti sospetti, quando non di vera criminalizzazione, delle ong, proseguita poi nel 2017 con il Codice voluto dall’allora ministro Pd degli Interni Marco Minniti e successivamente dalle affermazioni del capo politico del 5 Stelle Luigi Di Maio, che parlò delle navi che soccorrono i migranti come “taxi del mare”. Per non parlare delle accuse circa presunte connivenze tra ong e scafisti, condite da altrettanto pesanti sospetti sui loro bilanci. Dopo che nessuna delle inchieste aperte finora ha mai visto un’aula di tribunale, essendo state tutte archiviate, l’aria è cambiata. Lo si vede dalle manifestazioni di sostegno, sempre più affollate, che si susseguono a Barcellona come a Siracusa. Ma anche da una ripresa delle donazioni, che ha invertito una tendenza cominciata tre anni fa. “Improvvisamente non eravamo più gli angeli del mare, come fino ad allora eravamo descritti”, spiega Annalaura Anselmi, direttore raccolta fondi di Msf. “Nel 2017 abbiamo registrano una riduzione del 7% nella raccolta fondi, pari a circa 4 milioni di euro. Una flessione riconducibile alla campagna di aggressione nei nostri confronti. Ma già nel 2018 c’è stata una ripresa dei contributi, segno che i nostri sostenitori hanno compreso il lavoro che facciamo e continuano a mostraci fiducia”. Anche Msf sta studiando come tornare al più presto in mare. E la stessa cosa vale per l’altra ong tedesca, Sea Eye, bloccata a gennaio al largo di Malta insieme a Sea Watch e la cui nave Professor Albrecht Penck è pronta a ripartire da Palma di Maiorca. Ma è chiaro a tutti che se non si viene avvisati in tempo dei barconi che si trovano in difficoltà, intervenire diventa ancora più complicato. “Oggi più che mai è stato completamente demolito sistema di soccorso, dalla costruzione degli strumenti di monitoraggio e allerta alle navi che dovrebbero intervenire”, denuncia Marco Bertotto, di Msf. “Una volta c’erano le navi della guardia costiera, della missione europea Sophia, la Nato, i mercantili e le ong. Oggi di tutto questo è rimasto ben poco e per di più la Guardia costiera non si avvale pilò delle ong, anzi cerca di ostacolarle”. Un’analisi che trova d’accordo la portavoce di Sea Watch in Italia, Giorgia Linardi, per la quale “il sistema di allerta non sta più funzionando come un tempo, quando a Guardia costiera chiamava direttamente le navi. Adesso abbiamo l’impressione di essere tagliati fuori dalle informazioni rispetto ai soccorsi”. La sfida allora, per quanto difficile, è provare a costruire un proprio sistema di avvistamento e allerta. “Qualcosa c’è, come ad esempio Alarm Phone (la piattaforma di volontari che trasmette gli Sos ricevuti, ndr) o come gli aerei “Moonbird” di Sea Watch e Colibrì, ma è chiaro che da soli non possono bastare”. Brasile. Ma Bolsonaro è un presidente democratico? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 9 febbraio 2019 Ha vinto le elezioni facendo imprigionare il rivale. Lula è in cella. Giorni fa è stato condannato ad altri 12 anni di prigione. Il magistrato che lo ha inquisito è il braccio destro di Bolsonaro. Esistono le prove dell’innocenza di Lula. Tutto questo non turba nessuno? In un paese confinante col Venezuela, e molto più potente del Venezuela, e cioè in Brasile, recentemente si è insediato un presidente riconosciuto da tutti i governi occidentali, il quale ha vinto le elezioni solo grazie all’arresto di quello che avrebbe dovuto essere il suo concorrente, e che tutti i sondaggi davano per vincente; e l’arresto del suo concorrente è stato determinato dall’iniziativa di un magistrato che subito dopo le elezioni è entrato nel governo del nuovo presidente con un ruolo rilevantissimo. Il nuovo presidente, come sapete, si chiama Jair Bolsonaro; il suo rivale, imprigionato, è l’ex presidente Lula: il magistrato protagonista di questa specie di rivoluzione, o di putsch, si chiama Sergio Moro, ed è un allievo dei magistrati italiani del vecchio pool di “Mani pulite”. La questione venezuelana però è al centro di molte polemiche e appassiona i giornali e le Tv. La questione brasiliana non interessa nessuno. Tanto che un paio di giorni fa è passata quasi sotto silenzio la notizia che l’ex presidente Lula, che è in prigione, ha subìto una nuova condanna, in primo grado, ad altri 12 anni di carcere, che si aggiungono ai 12 ai quali era stato condannato l’anno scorso, in secondo grado. Lula ha 72 anni e sembra che la magistratura, ispirata o guidata direttamente da Sergio Moro, intenda tenerlo in cella fino ai suoi 96. Di cosa è accusato Lula? Di corruzione, ovviamente. Avrebbe ricevuto in regalo dai suoi corruttori un appartamento al mare (prima condanna) e avrebbe avuto pagati i lavori di ristrutturazione di un appartamento in campagna per 30 mila euro (seconda condanna). Lui si dichiara innocente e non si limita, come succede in genere, a invocare la mancanza assoluta di prove. Va oltre: porta le prove della sua innocenza. Che sono queste: è dimostrato che l’appartamento al mare non è mai appartenuto a lui ma è sempre appartenuto alla società che è accusata di averlo corrotto (dunque la tangente non esiste), ed è pacifico che neanche l’appartamento in campagna appartiene a lui. Gli accusatori sostengono che sarà pure così, ma lui è stato visto una volta (una volta) entrare nell’appartamento al mare, e varie volte entrare in quello in campagna (che in realtà è di un suo amico). Non credo che ci possano essere molti dubbi sul fatto che si tratta di una persecuzione giudiziaria. Organizzata con uno scopo preciso: impedirgli di partecipare alle elezioni che avrebbe vinto. Non mi pare che ci sia niente di democratico in questa situazione. Tantopiù che il giudice accusatore si è insediato al governo dopo averlo arrestato. Come mai tutto ciò non ha provocato una protesta nel mondo, e anche un po’ di indignazione nei governi occidentali e nella stampa? Credo che la spiegazione stia dell’ondata di giustizialismo che in Italia è tempestosa ma che sta dilagando un po’ in tutto l’Occidente. Il senso comune, e soprattutto l’opinione dei giornali e degli opinion leader, è molto semplice: la magistratura ha ragione la politica ha torto, il sospetto, soprattutto il sospetto verso un politico, vale una prova. In Italia successe qualcosa del genere venticinque anni fa, con Tangentopoli. E periodicamente ci sono dei pezzi di magistratura che rilanciano l’esperimento. Del resto il nostro è il paese che ha raso al suolo per via giudiziaria la prima Repubblica, ha eliminato i suoi principali leader (Craxi, soprattutto, ma anche Andreotti, Forlani, e molti altri), e nella seconda Repubblica, sempre per via giudiziaria, ha azzoppato diversi suoi protagonisti (a partire da Silvio Berlusconi). Per questo da noi sarebbe logico aspettarsi una maggior attenzione allo scandalo brasiliano. Anche se qui i magistrati hanno colpito soprattutto forze e leader nemici della sinistra e lì in Brasile, invece, è successo il contrario. Tuttavia non riesco a immaginare come i partiti italiani di centrodestra possano non ribellarsi al colpo di mano del duo Bolsonaro-Moro. Il rischio è che il Brasile diventi una specie di laboratorio della nuova democrazia giudiziaria. È un paese adatto: perché democraticamente è fragile, perché ha una recente tradizione autoritaria, e tuttavia è un grande paese, che ha un ruolo notevolissimo in Occidente. Potrebbe usare questo ruolo per diventare pesce pilota del nuovo corso. Compito che l’Italia non ha la forza, ancora, per assumere. Cina. Il giudice e l’algoritmo: l’intelligenza artificiale arriva nei tribunali di Simone Pieranni Il Manifesto, 9 febbraio 2019 La corsa cinese alle nuove tecnologie coinvolge anche la giustizia. Intervista con il professore Renzo Cavalieri della Ca Foscari. In Cina l’intelligenza artificiale viene ormai applicata anche nel mondo giudiziario: per raccogliere prove, per uniformare le sentenze. Senza alcun dibattito in merito. La corsa cinese all’intelligenza artificiale si ammanta di progressi reali e di propaganda. Nelle ultime settimane la stampa locale ha sottolineato il peso che i sistemi di Ai avranno all’interno del sistema giudiziario, nel lavoro delle corti, nelle procedure e nella raccolta delle prove. Per andare al di là della propaganda e comprendere davvero l’impatto che l’Ai può avere sul sistema giudiziario e più in generale nell’ambito legislativo cinese abbiamo intervistato Renzo Cavalieri, professore di diritto dell’Asia Orientale presso l’Università di Venezia Ca Foscari e avvocato presso lo studio legale Bonelli Erede. Partiamo dal primo punto: in che modo l’Ai può aiutare la giustizia cinese? Il primo modo è il più semplice ed è quello cui sono destinati tutti i tribunali del mondo, ovvero il progressivo utilizzo di sistemi di Ai per quel lavoro che viene considerato di cancelleria; si tratta di un impiego di tipo pratico, ed è una delle tante dimostrazioni di quanto la Cina corra anche più rapidamente del previsto. In queste mansioni di cancelleria, in un senso più ampio, anche processuale, la Cina sta andando molto veloce e dalle aree sperimentali si diffonderà a tutto il sistema giudiziario cinese. Poi c’è un altro argomento, diverso, ovvero l’uniformazione delle linee giurisprudenziali: in questo caso l’Ai è strumentale a un atteggiamento tipico della Cina, ovvero la centralizzazione dell’interpretazione di norme che prima era invece affidata alla Corte suprema. Oggi in questo modo, come in una due diligence aziendale, ci sono red flags che avvisano circa deviazioni rispetto alla norma. In questo modo si stabilisce una sorta di uniformità del diritto. Questo utilizzo che mira a uniformare tutte le sentenze, può dunque essere letto come una ulteriore forma di accentramento? Stiamo parlando di sistemi basati sull’unità dei poteri dello stato: noi occidentali abbiamo l’idea che tra legislatore, amministratore e giudice ci siano delle dinamiche di un certo tipo, tra poteri indipendenti separati almeno formalmente e a volte in conflitto tra di loro: in questo senso una ingerenza attraverso l’AI sull’indipendenza dell’interpretazione della legge da parte dei giudici, per noi è inconcepibile. Usare l’Ai obbligando i giudici a basare la propria decisione sui database consegnati con i dettagli del caso e segnalando ai superiori quando ci siano degli scostamenti è una forma di violazione dell’indipendenza della magistratura piuttosto palese. Aggiungerei: non tanto della magistratura in sé, quanto della libertà del singolo giudice nell’applicazione della legge. C’è un ulteriore aspetto che riguarda i processi: come avverrà l’utilizzo dell’Ai in questi casi? È un po’ presto per dirlo: è vero che ci sono questi primi casi - che rientrano anche nell’ambito puramente propagandistico - in cui l’Ai è utilizzata a 360 gradi. Al riguardo - dato che parliamo di prove - emerge immediatamente il tema dell’ammissibilità. Il discorso è sempre lo stesso: in un sistema che non ha una divisione reale dei poteri non ci sono grandi dinamiche conflittuali tra procuratori, giudice e avvocati, ma solo esigenze di efficienza. Quindi l’ammissibilità della prova diventa un problema quando una delle parti obietta. Ma se non obietta nessuno? Non dubito che nei regolamenti della Corte suprema finiranno per essere ammesse nuove forme di prove, elettroniche o virtuali. In Cina al momento c’è molta fiducia nell’Ai, non c’è il minimo spirito critico. L’ultima modifica della costituzione, del resto, con la creazione della commissione nazionale di supervisione ha dimostrato la povertà di dibattito che c’è al momento. Per tutto quanto riguarda il processo penale non c’è alcun tipo di confronto, nessuno osa. In un sistema così poco garantista non c’è ad esempio il tema della compatibilità di questi sistemi con i diritti sanciti dalla costituzione. In Cina - e in Occidente - si discute molto del sistema dei social credit. In che modo però questi eventuali dettami amministrativi saranno o potranno essere recepiti dal legislatore cinese? La commissione di supervisione introdotta a marzo si basa sull’idea di un potere tout court che di fatto risponde al presidente, anche se c’è un richiamo all’Assemblea nazionale. Il sistema dei crediti sociali viene dunque interpretato come una specie di strumento amministrativo. Non è detto che debba essere creata una legge o potrebbero decidere di farla dopo un po’ di anni di sperimentazione come hanno fatto con la pianificazione delle nascite. Al momento è ancora presto per dire se ci sarà una centralizzazione del sistema. Secondo me è uno strumento che viene visto come un apparato sanzionatorio, in cui sono previste sanzioni non equiparabili a tutto quanto regola il penale. Credo che tutto sia gestito come rapporto tra cittadino e amministrazione: va da sé che in un paese come il nostro - ad esempio - tutto questo non sarebbe concepibile. E per quanto riguarda la privacy dei cittadini? C’è stata di recente una legge a proposito, ma il sistema dei crediti sociali prevede ingerenze per quanto riguarda i dati personali. I cinesi cominciano a considerare con attenzione il tema. Da tutta la riflessione e la necessità di preservare la privacy è completamente esentato il governo: non ci si pone nemmeno il problema che il governo possa raccogliere dati sui cittadini. In Cina c’è ormai una sensibilità orientata al tema del valore economico e in ogni caso quello che vale per le aziende - o per i cittadini - non vale per il potere. Gli strumenti per reagire ad atti illegittimi in teoria ci sono, ma non funzionano, specie se a livello di giudici nessuno rileva contraddizioni. Russia. “Noi perseguitati”, cinquemila Testimoni di Geova in fuga di Giuseppe Agliastro La Stampa, 9 febbraio 2019 Circa cinquemila Testimoni di Geova hanno dovuto lasciare la Russia temendo per se stessi e per i propri figli, oltre cento stanno affrontando cause penali per la loro fede e almeno ventiquattro sono dietro le sbarre in attesa di giudizio. A meno di due anni dall’inizio della persecuzione del gruppo cristiano da parte delle autorità russe, il rappresentante dell’Associazione europea dei Testimoni di Geova, Yaroslav Sivulsky, ha illustrato la tragica situazione in un incontro con la stampa a Mosca. Un evento organizzato anche con l’obiettivo di mostrare solidarietà a Dennis Christensen, che il tribunale di Oryol mercoledì ha condannato a sei anni di reclusione per il solo fatto di appartenere alla comunità dei Testimoni di Geova. Quella di Christensen è la prima pena detentiva inflitta in Russia a un fedele dell’organizzazione religiosa nota per le prediche porta a porta e per il rifiuto del servizio militare. L’accusa, per quanto possa sembrare assurdo, è quella di “estremismo”. I precedenti Nell’aprile del 2017 la Corte Suprema russa aveva infatti bollato come “estremista” l’organizzazione dei Testimoni di Geova, disponendo il sequestro dei suoi beni a favore dello Stato. Questa sentenza è stata voluta dal ministero della Giustizia, ma secondo molti rappresenta una palese violazione della Costituzione russa, che garantisce la libertà di culto. Il motivo delle persecuzioni pare però essere politico. La Chiesa ortodossa russa appoggia apertamente Putin, e alcuni studiosi vicini al Patriarcato di Mosca dipingono i Testimoni di Geova come una minaccia alle istituzioni statali e ai valori tradizionali. Alcuni difensori dei diritti umani, come Valery Borshchev del Gruppo di Helsinki, temono che ora siano prese di mira anche altre minoranze religiose. A dicembre Putin aveva definito “una cosa completamente insensata” accusare di estremismo i gruppi religiosi. Le parole del leader del Cremlino avevano fatto sperare in un’apertura, ma di fatto nulla è cambiato negli ultimi mesi. Secondo Aleksandr Verkhovsky, a capo dell’Ong Sova, almeno altri sei Testimoni di Geova sono stati incriminati in Russia dopo le dichiarazioni di Putin. E appena due giorni fa il ministero dell’Interno ha annunciato l’arresto di altri credenti nella regione di Khanty-Mansiisk, in Siberia Occidentale, e in quella della Mordovia, in Russia Centro-Occidentale. In entrambi i casi non è chiaro quante persone siano finite in manette. Afghanistan. Le “Bambine senza paura” per un mondo migliore Vita, 9 febbraio 2019 Il progetto della Ong italiana in Afghanistan ha vinto il bando “Brave Actions For a Better World” della Only the Brave Foundation. Obiettivo sostenere le minori in carcere a Kabul e Herat. Con il progetto “Bambine senza Paura” Ciai è stato uno dei due Enti vincitori del bando “Brave Actions For a Better World” indetto alla fine dello scorso anno da Otb (Only the Brave) Foundation. “È un grande senso di soddisfazione quello che accompagna questo traguardo. Siamo molto grati a Otb Foundation”, dice Paola Crestani, presidente Ciai Onlus. “Ci dà l’opportunità di riprendere a pieno l’operatività in Afgahnistan al fianco delle bambine in carcere. Queste bambine così coraggiose, sono per noi un’emergenza sempre viva e improrogabile”. Il progetto “Bambine senza Paura” che Ciai svilupperà a Kabul ed Herat, fornisce supporto legale e psicologico e attività educative a bambine afghane detenute nelle carceri minorili. Sono accusate di aver commesso “crimini contro la morale”; in realtà, la loro unica colpa è quella di essersi sottratte, fuggendo, a matrimoni forzati anche con uomini molto anziani o ad altri tipi di violenza. Presente in Afghanistan dal 2014, Ciai ha maturato una solida esperienza sulle problematiche minorili in generale e sulla situazione dei minori in carcere, lavorando a stretto contatto con partner locali particolarmente attivi e consolidando la relazione con le Istituzioni del Paese. Negli ultimi anni la complessa situazione politica afghana ha molto limitato la presenza delle ong italiane sul territorio e la disponibilità dei donor al sostegno dei progetti. Ciai è riuscita a proseguire, seppure con attività ridotte, la propria presenza nel Paese, mantenendo vivo il progetto nelle carceri. Oggi il supporto di Otb Foundation consente di poter aumentare il numero di attività e di beneficiarie. Una grande opportunità per non abbandonare queste “Bambine coraggiose”. “Il processo di identificazione dei vincitori non è stato semplice”, commenta Arianna Alessi, vice presidente della Fondazione Otb. “Ciò che ha fatto pendere l’ago della bilancia a favore del progetto Bambine Senza Paura di Ciai è sicuramente il coraggio dei beneficiari diretti nel tentativo di uscire da una situazione imposta dal contesto sociale in cui hanno avuto la sfortuna di crescere”. Guatemala. Sindacalisti in carcere per aver firmato un contratto di Ester Crea labourstart.org, 9 febbraio 2019 Sindacalisti arrestati per aver fatto il loro mestiere: negoziare e siglare un contratto di lavoro. Nel mondo accade anche questo. La storia, che ha del singolare rispetto ad altri casi che su Conquiste vi abbiamo raccontato, arriva dal Guatemala. Spesso, in molti Paesi, le proteste di lavoratori, gli scioperi, le manifestazioni, sono culminate con l’arresto dei leader sindacali che le avevano organizzate. Ma la vicenda dei sindacalisti guatemaltechi finiti in carcere per aver firmato un contratto collettivo appare addirittura kafkiana. In effetti, il Guatemala da mesi sta attraversando una crisi istituzionale che è divenuta sempre più grave. E il governo di Jimmy Morales sta via via aumentando le persecuzioni nei confronti dei leader delle comunità locali, degli attivisti, dei giornalisti e dei sindacalisti. Tra questi ultimi figurano Luis Alpirez Guzmán, segretario generale dell’Unione Sindacale dei Lavoratori della Salute del Guatemala (Sntsg), e Dora Regina Ruano, della stessa organizzazione. Entrambi lo scorso 17 gennaio sono stati arrestati e detenuti in carcere fino al 28 gennaio. La loro colpa? L’aver contrattato e sottoscritto un contratto collettivo tra il sindacato ed il Ministero della Salute nel 2013. L’attuale governo, però, li ha accusati di “abuso di potere” poiché il Ministero della Salute non aveva sufficienti risorse per tenere fede agli obblighi cui sarebbe stato tenuto in base al nuovo contratto collettivo. Attualmente i due sindacalisti non sono più in prigione, ma entrambi sono ancora agli arresti domiciliari. L’Unione Sindacale dei Lavoratori della Salute del Guatemala e l’Internazionale dei Servizi Pubblici hanno lanciato una campagna urgente per domandare che il governo guatemalteca lasci cadere immediatamente tutte le accuse contro Dora Regina Ruano e Luis Alpirez Guzmán e cessi la repressione intrapresa nei confronti dei leader delle comunità locali, degli attivisti, dei giornalisti e dei sindacalisti. Algeria. Sei mesi di carcere per una foto su Facebook di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 febbraio 2019 Per aver pubblicato questa foto, scattata con un amico, sul suo profilo Facebook, il 7 febbraio Hadj Ghermoul - attivista della Lega algerina per i diritti umani e del Comitato nazionale per la difesa dei diritti dei disoccupati - è stato condannato dal tribunale di Mascara a sei mesi di carcere e a una multa per “offesa alle pubbliche istituzioni”. Il “quinto mandato” è quello cui la coalizione di partiti al governo intende ricandidare, nonostante le precarie condizioni di salute, l’ottantunenne presidente Abdelaziz Bouteflika. Ghermoul è stato fermato il 27 gennaio nella città di Tizi e portato in una stazione di polizia. È rimasto in cella due giorni. Ghermoul ricorrerà in appello. Amnesty International ha chiesto l’annullamento delle accuse e l’immediato proscioglimento.