Carceri, incentivare la “giustizia riparativa” di Riccardo De Facci* Il Manifesto, 8 febbraio 2019 L’”emergenza carcere” inquieta l’opinione pubblica e rischia di favorire quella che sembra la più ovvia delle soluzioni: costruire più carceri. Al 31 dicembre 2018, si trovavano nelle carceri italiane poco meno di 60mila detenuti, 10mila in più rispetto ai posti disponibili. Quasi altrettante erano le persone in misura alternativa alla detenzione. Pesano le leggi “carcerogene” come la legge 309 sulle droghe e la legge Bossi-Fini sull’immigrazione. Il 30% dei detenuti è punito per violazione della legislazione sulle droghe (vecchia ormai di 30 anni) contro il 15% della media europea. Circa un terzo dei detenuti sono stranieri. Il carcere, nel nostro paese, colpisce soprattutto i più poveri. Per reati economico-finanziari sono rinchiusi lo 0,4% dei detenuti contro una media europea dieci volte superiore; in Germania il numero di detenuti per reati in materia di droghe è pari a quello dei detenuti per reati economico-finanziari. Le condizioni di vita nei penitenziari sono spesso insostenibili. Nel 2018 sono morte in carcere 148 persone, 67 per suicidio. Il carcere non incide significativamente sul rischio recidiva, cioè sulla possibilità che una persona già condannata commetta un nuovo reato, e lascia senza sostegno la persona che ha scontato la pena: un detenuto su quattro, all’uscita dal carcere, non sa dove andare. È per queste ragioni che operatori della giustizia e organizzazioni della società civile riflettono da tempo su un nuovo approccio al reato e alla pena. Come Cnca incontriamo tanti ragazzi in “messa alla prova” e molti adulti, specie tossicodipendenti, ospitati nelle comunità in alternativa alla detenzione. Pur non essendoci dati certi, si ipotizza che le misure alternative e di accompagnamento all’uscita dal carcere producano un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%. La “giustizia riparativa” è un modello che tende a coinvolgere in una rielaborazione comune la vittima, se disponibile, il reo e la comunità in cui il reato è avvenuto. È un’opzione politica ed etica, prima che operativa. Chiede al reo di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti e di porre rimedio alla sofferenza provocata, anche attraverso l’incontro con la vittima, se possibile; quest’ultima non viene lasciata sola, con il suo dolore, ma aiutata nell’elaborare il senso di ciò che ha patito; la comunità partecipa come collettività che ha subito il reato e, nello stesso tempo, che ha le risorse per favorire la “riparazione”. Un lavoro connesso a una serie di pratiche di prevenzione del reato, soprattutto in contesti e situazioni “difficili” che producono responsabilizzazione, mediazione dei conflitti, attività tra pari (il gruppo classe in caso di bullismo, ad esempio). In Italia siamo agli albori. Il Governo precedente aveva promosso una riflessione importante sulla giustizia riparativa all’interno degli Stati Generali dell’esecuzione penale, che purtroppo non si è tradotta in innovazioni legislative. Ora si tratta di fare un grande investimento collettivo su questo approccio innovativo. Crediamo che si debba riprendere la riflessione istituzionale aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale; destinare finanziamenti adeguati, oggi del tutto insufficienti, per implementare interventi di giustizia riparativa e misure alternative al carcere; costruire sui territori luoghi di collaborazione tra uffici della giustizia territoriali con tutti i soggetti del terzo settore e della comunità locale interessati; implementare iniziative di formazione per formare facilitatori dei processi di giustizia riparativa. Il Governo scelga se perseguire l’approccio “più carceri e buttiamo la chiave” o produrre, realmente, maggiore sicurezza. *Presidente Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) Papa Francesco: “Ogni carcerato deve poter sperare nel reinserimento” interris.it, 8 febbraio 2019 Francesco ha incontrato il personale, sia dipendenti che volontari, del carcere “Regina Coeli”. “Ognuno deve avere sempre la speranza del reinserimento”. Lo ha detto oggi Papa Francesco, incontrando nell’aula Paolo VI i 600 agenti di custodia, medici, educatori, amministrativi, cappellani e volontari della casa circondariale “Regina Coeli” di Roma. Il bisogno di umanizzare le carceri - Il Santo Padre si è soffermato sul carcere come “luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità”. “È un luogo - ha aggiunto - dove tutti, Polizia Penitenziaria, Cappellani, educatori e volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale”. Una buona collaborazione tra i diversi servizi nel carcere, ricorda ancora Papa Francesco, “svolge un’azione di grande sostegno per la rieducazione dei detenuti”. Ma per la “carenza di personale” e il “cronico sovraffollamento”, “il faticoso e delicato lavoro rischia di essere in parte vanificato”. E qui il Papa fa appello “all’equilibrio personale” e alle “valide motivazioni” del personale carcerario, che vanno “costantemente rinnovate”, per sopportare “lo stress lavorativo determinato dai turni pressanti e spesso la lontananza dalle famiglie”, che appesantiscono un lavoro che già di suo “comporta una certa fatica psicologica”. Il Vescovo di Roma ha sottolineato che “le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi di violenza e di illegalità, dove imperversano le cattiverie umane”. “Perché loro e non io?” - Secondo il Papa, per “l’inconscio collettivo”, i detenuti “sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso”, perciò è importante non dimenticare - il suo appello - “che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, non hanno famiglia, non hanno mezzi per difendere i propri diritti”. Egli ha quindi lodato le esperienze che dimostrano che “il carcere, con l’aiuto degli operatori penitenziari” può diventare “veramente un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita”. Grazie, ricorda il Pontefice, a “percorsi di fede, di lavoro e di formazione professionale, ma soprattutto di vicinanza spirituale e di compassione, sull’esempio del buon Samaritano, che si è chinato a curare il fratello ferito”. Un atteggiamento di prossimità, conclude Papa Francesco, “che trova la sua radice nell’amore di Cristo” e “può favorire in molti detenuti la fiducia, la consapevolezza e la certezza di essere amati”. Infatti, aggiunge alzando gli occhi dal testo scritto, ogni pena, sempre, “deve avere la finestra aperta per la speranza”. Perché una pena senza speranza, spiega il Papa, “non serve, non aiuta, provoca nel cuore sentimenti di odiosità, tante volte di vendetta e la persona esce peggio di come è entrata”. Infine il Papa ha ricordato che, quando era arcivescovo di Buenos Aires, andava spesso in visita in carcere. “Sempre ho avuto una sensazione quando entravo nel carcere: perché loro e non io? Mi ha fatto tanto bene quello. Perché loro e non io? Avrei potuto essere lì... e no, il Signore mi ha dato una grazia che i miei peccati e le mie mancanze siano state perdonate e non viste, non so. Ma quella domanda aiuta tanto: perché loro e non io?”. Carcere, luogo di riscatto di Enrico Lenzi Avvenire, 8 febbraio 2019 Il Papa al personale di Regina Coeli: voi curate le ferite di chi ha sbagliato. “Ogni pena non può essere chiusa, ma deve essere una finestra aperta”. Il carcere è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità”. É il passaggio centrale del discorso che papa Francesco ha pronunciato nell’udienza concessa al personale della casa circondariale Regina Coeli di Roma. “Esprimo a ciascuno la riconoscenza mia e della Chiesa per il vostro lavoro accanto ai reclusi - ha detto ancora il Papa -: esso richiede fortezza interiore, perseveranza e consapevolezza della specifica missione alla quale siete chiamati”. All’udienza erano presenti circa 600 persone, accompagnati dal cappellano padre Vittorio Trani e dalla direttrice del carcere Silvana Sergi. A tutti Francesco ha voluto ricordare come il loro impegno non sia legato al solo compito di far scontare la pena a chi ha sbagliato, ma di essere “chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale”. Una sottolineatura importante che pone sotto una luce differente l’operato del personale del penitenziario: non semplici carcerieri, ma persone chiamate a porsi accanto ad altre persone che hanno commesso degli errori per “un’azione di grande sostegno per la rieducazione dei detenuti”. Ma nel suo discorso pur chiedendo che il carcere “diventi un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita”, non nasconde alcune oggettive difficoltà: “Lo stress lavorativo determinato dai turni pressanti e spesso la lontananza dalle famiglie sono fattori che appesantiscono un lavoro che già di per sé comporta una certa fatica psicologica- sottolinea Francesco. Pertanto, figure professionali come le vostre necessitano di equilibrio personale e di valide motivazioni costantemente rinnovate”. Del resto, aggiunge subito il Papa “siete chiamati non solo a garantire la custodia, l’ordine e la sicurezza dell’istituto, ma anche molto spesso a fasciare le ferite di uomini e donne che incontrate quotidianamente nei loro reparti”. “Le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate - ribadisce nel suo discorso il Papa, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi dove imperversano le cattiverie umane”. Allo stesso tempo, “non dobbiamo dimenticare che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, non hanno famiglia, non hanno mezzi per difendere i propri diritti, sono emarginati e abbandonati al loro destino. Per la società i detenuti sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso”. Al contrario, prosegue il Pontefice, “ogni pena, non può essere chiusa, deve avere sempre “la finestra aperta” per la speranza, da parte sia del carcere sia di ogni persona”. Anche per gli ergastolani, perché “una pena senza speranza non serve, provoca nel cuore sentimenti di rancore, di vendetta, e la persona esce peggio di come è entrata”. Un incontro quello di ieri in Aula Paolo VI che suggella- è stato il saluto del cappellano padre Vittorio Trani - “quasi un completamento” della visita del Pontefice nel carcere di Trastevere il 29 marzo scorso, in occasione del Giovedì Santo. Un carcere dalla “finestra” aperta L’Osservatore Romano, 8 febbraio 2019 “La pena, ogni pena, non può essere chiusa, deve avere sempre “la finestra aperta” per la speranza, da parte sia del carcere sia di ogni persona”. Incontrando in Vaticano giovedì mattina, 7 febbraio, gli agenti di custodia del penitenziario romano di Regina Coeli, Papa Francesco ha detto senza mezzi termini che “ognuno deve avere sempre la speranza del reinserimento parziale”, anche “gli ergastolani”. Integrando il testo preparato con una considerazione personale, il Pontefice ha confidato infatti di pensare proprio a questi ultimi e al lavoro in carcere. “Dare, fare lavori - ha spiegato - ma sempre la speranza del reinserimento” per chiunque deve scontare una condanna. Perché per Francesco “una pena senza speranza non serve, non aiuta”; al contrario “provoca nel cuore sentimenti di rancore, tante volte di vendetta, e la persona esce peggio di come è entrata”. Ecco allora la necessità, sempre, di “far sì che ci sia la speranza” e di “aiutare a vedere sempre al di là della finestra, sperando nel reinserimento”, ha raccomandato il Papa rivolgendosi direttamente agli agenti di custodia. “So che voi lavorate tanto - ha detto loro in proposito - guardando questo futuro per reinserire ognuno di coloro che sono in carcere”. Un servizio che esige impegno: perciò, ha assicurato loro, “vi accompagno con il mio affetto, che è sincero. Io ho tanta vicinanza con i carcerati e le persone che lavorano nelle carceri”. E tornando con la memoria al ministero svolto a Buenos Aires, ha ricordato che “nell’altra diocesi andavo spesso al carcere; e adesso ogni quindici giorni, la domenica, faccio una telefonata a un gruppo di carcerati in un carcere che visitavo con frequenza. Sono vicino”. Il motivo lo ha spiegato ancora una volta: “sempre ho avuto una sensazione quando entravo nel carcere: “perché loro e non io?”. Questo pensiero mi ha fatto tanto bene. Perché loro e non io? Avrei potuto essere lì, e invece no, il Signore mi ha dato una grazia che i miei peccati e le mie mancanze siano state perdonate e non viste, non so”. Da qui l’esortazione a rivolgersi spesso quella domanda “perché loro e non io?”, che “aiuta tanto” a comprendere che il carcere oltre a essere “luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza” ha anche “molto bisogno di attenzione e di umanità”. Una convinzione ribadita anche in una lettera inviata nei giorni scorsi a un gruppo di detenute argentine. “Voi siete private della libertà, ma non della dignità o della speranza”, ha detto alle donne, molte delle quali sono madri. “Non dovete lasciarvi cosificare - ha raccomandato loro - non siete un numero; siete persone che generano speranza”. Una pena afflittiva di Gabriella Imperatori Corriere del Veneto, 8 febbraio 2019 La sentenza dei medici, per il nuotatore veneto colpito dalla pistola dalla follia di due venticinquenni, è di quelle che sembrano irreversibili. Manuel, a causa di una “lesione midollare completa”, allo stato attuale delle conoscenze non camminerà più. Aveva tutto per immaginare un futuro brillante: gioventù (19 anni appena), bellezza, una carriera sportiva che faceva di lui una stella nascente, una famiglia che lo sosteneva in tutto, una fidanzatina che, solo per un gioco del destino, non ha seguito la sua sorte. Nulla faceva presagire quel che poi è accaduto: un proiettile sparato da una moto fantasma nel cuore di una notte romana. Spetta alla polizia, ora che sono stati individuati gli autori del tentato omicidio, appurare con certezza se si è trattato, come loro affermano, di uno scambio di persona, o di altri motivi come si era ipotizzato, e alla magistratura stabilire cosa meritano questi colpevoli. Per ora, prevalgono la commozione e la solidarietà. Un incidente può capitare a tutti, per destino, per imprudenza, per condizioni avverse della natura. Una malattia incurabile può provocare una piega tragica nella vita, anche se talvolta la forza d’animo riesce a superare l’ineluttabilità del dramma facendo sviluppare interessi che lo sublimano. Un po’ com’è accaduto a Bebe Vio, che è diventata un simbolo, e a Sammy, il 23enne vicentino affetto da una malattia rarissima che produce un invecchiamento fisico precoce, ma ha lasciato la mente libera di costruirsi una vita alternativa e non priva di soddisfazioni. Per Manuel non sappiamo ancora tutto sulle cause che stanno cambiando il corso della sua esistenza. Forse per sempre. Ma il suo coraggio, la speranza che la fisioterapia possa compiere un miracolo, o che i progressi della scienza possano risvegliare gli “ordini cerebrali” fino a farli arrivare alle estremità per ora immobili del ragazzo, non vanno abbandonate. Resta il punto oscuro del perché possano succedere atti di violenza estrema, spesso senza ragione alcuna che non sia l’egoismo, la gelosia, la vendetta, perfino la noia, come nel caso dei due ragazzini colpevoli della fine orribile di un innocuo clochard. Come si sa, non tutti sono stati d’accordo con la sentenza che evitava la galera ai due minorenni. Di carcere in verità si discute molto: se vada potenziato o trasformato, se sia efficace o meno. La reclusione ha di sicuro alcuni scopi fondamentali: la privazione della libertà per evitare la reiterazione dei reati; l’esempio; il reintegro del colpevole tramite il lavoro, lo studio, il pentimento. Raramente si parla anche della necessità dell’afflizione. Soffrire per il male fatto è necessario per elaborarlo e trasformarsi. Certo non deve significare essere rinchiusi a “marcire in cella”, a vivere in ambienti sovraffollati, a condividere i servizi igienici in modo disumanizzante. Insomma anche l’afflizione carceraria dev’essere resa possibile in modo da migliorare, non da peggiorare il detenuto. Ma, come scrisse Dostoevskij, la colpa dev’essere scontata per tutto il tempo necessario a cambiare, non ridotta o evitata per assurdo buonismo neanche se i colpevoli sono giovanissimi. Espiare è un diritto del colpevole, benché difficile da capire e accettare. Non solo una punizione. La sicurezza è accesso ai diritti di Sergio Moccia Il Manifesto, 8 febbraio 2019 La sicurezza è la promessa fondamentale della Sovranità e nello stato sociale di diritto, prefigurato nella Costituzione italiana, si connota in egual misura per profili di derivazione liberale e solidaristica. Il governo della sicurezza non può ridursi alla soddisfazione della pur basilare esigenza di protezione dalla criminalità, da un lato, e, dall’altro, per i soggetti svantaggiati, nella soddisfazione dell’essenziale esigenza di protezione dai processi di criminalizzazione, ma deve intendersi nel senso dell’assicurazione del godimento pieno dei diritti fondamentali. In realtà, la prerogativa pubblica della sicurezza corrisponde al bisogno di essere garantiti nell’esercizio di tutti i propri diritti: diritto alla vita, al libero sviluppo della personalità, diritti di espressione e di partecipazione, e così via. La crisi della gestione della sicurezza riflette un sistema della giustizia inefficace, causa di sentimenti diffusi di insicurezza. In realtà, l’intervento repressivo viene sempre più valorizzato come mera risorsa simbolica e rivela l’incapacità di garantire livelli soddisfacenti di sicurezza. Quindi avanti con “leggi manifesto”, com’è ormai tradizione, ad esempio, in rapporto agli inasprimenti della disciplina del furto ed all’ampliamento dell’ambito della difesa legittima. Il termine sicurezza non viene, per lo più, declinato in un’accezione molto significativa: garantire la sicurezza di accesso ai propri diritti. È naturalmente doverosa la tutela della sicurezza rispetto a chi aggredisce; ma è altrettanto doverosa la tutela della sicurezza rispetto a chi da posizione estrema, ai margini, dev’essere posto nella condizione di non essere esposto al rischio di reati. I migranti sbattuti per strada sono soggetti marginali per i quali il “reddito da lavoro dipendente” dalla criminalità organizzata o dagli schiavisti del lavoro nero, può costituire una prospettiva di soddisfazione di bisogni essenziali, in un contesto di grave mancanza di alternative. In effetti, dal punto di vista giuridico, ma anche psicologico, sicuri dovrebbero essere, innanzitutto, i soggetti titolari di diritti fondamentali, in particolare di quelli universali, che spettano non solamente alle persone fisiche fornite di cittadinanza dello Stato in cui si trovano, ma a tutte quelle che si trovano nel territorio di uno Stato civile. La verità è che un numero enorme dei titolari dei diritti e la maggior parte dei territori a rischio sono esclusi dalla sicurezza. Una volta che ci si è dimenticati di garantire la sicurezza dei diritti di un certo numero di soggetti vulnerabili appartenenti a gruppi marginali o “pericolosi” - stranieri, tossicodipendenti, poveri, disoccupati - le persone vulnerabili e senza alcun potere, che soffrono lesioni dei loro diritti umani, sociali ed economici vengono considerati solo quali potenziali aggressori dei diritti dei soggetti socialmente protetti. Una vera sicurezza per tutti potrà aversi allora attraverso un’effettiva applicazione della Costituzione. Se questa strada non è intrapresa, se sale il livello della disuguaglianza e della violenza strutturale nella società, non vi saranno le condizioni sufficienti per l’esistenza di un diritto delle garanzie, ma solo per un modello giuridico autoritario ed emergenziale, qual è quello che si sta affermando. Si tratta di un modello pseudo-efficientistico che si rifiuta di apprendere e, invece di cercare soluzioni realmente efficaci, aumenta solo la risposta repressiva a detrimento della legalità costituzionale e della stessa sicurezza. Ciambellini (Csm): “La riforma del rito abbreviato manderà in tilt le Corti d’assise” di Errico Novi Il Dubbio, 8 febbraio 2019 “Ci sono elementi di criticità che abbiamo ritenuto di segnalare. Ma non si tratta di possibili profili di illegittimità costituzionale, piuttosto di ricadute sulla quotidianità della giustizia italiana e in particolare sui carichi di lavoro delle corti d’assise”. Michele Ciambellini, esponente di Unicost, è il togato del Csm che, insieme con il consigliere di Area Giuseppe Cascini, ha materialmente redatto il parere di Palazzo dei Marescialli sulla “riforma” del rito abbreviato. Una legge che pare destinata a ottenere il via libera definitivo in Senato nel giro di poche settimane. Potrebbe entrare in vigore al massimo per Pasqua (a Palazzo Madama pare destinata a passare senza modifiche) ed escluderebbe la possibilità di accedere al rito abbreviato per tutti i reati puniti con l’ergastolo, dunque di passare in diversi casi dal “fine pena mai” a 30 anni di reclusione. “Una scelta legittima del legislatore, come la Corte costituzionale ha già stabilito”, chiarisce Ciambellini. Anche se in qualche caso potrebbe costare, alla persona accusata, un ergastolo “ostativo”, cioè senza prospettive di reinserimento sociale? Prima di tutto la Consulta ha già affermato che il Parlamento potrebbe anche arrivare a eliminare i riti alternativi senza contravvenire ai principi costituzionali, al di là di ipotesi di riforma che fossero manifestamente irragionevoli. Riguardo all’eventuale preclusione di benefici che consentano, dopo anni, il reinserimento del condannato, va detto che secondo la Corte costituzionale il fine rieducativo della pena richiesto dall’articolo 27 della Carta non si realizza solo con il reinserimento extra carcerario, ma può avvenire anche all’interno degli istituti di reclusione. Fino a oggi, insomma, il giudice delle leggi ha ritenuto l’ergastolo compatibile con la Costituzione. Ma mi faccia precisare ancora una cosa. Prego… Il Csm in ogni caso non esprime pareri sui provvedimenti per additare precise cause di incostituzionalità. Al più segnala possibili profili di illegittimità che sottopone comunque al Parlamento senza ergersi a filtro: su questo il presidente della Repubblica ha già pronunciato parole nettissime. Tanto è vero che anche per il parere relativo alle modifiche sul rito abbreviato, abbiamo casomai messo a disposizione dei rilievi basati sull’esperienza della macchina processuale e riguardanti gli effetti pratici della riforma. Che appesantirebbero il carico della giustizia penale? Vede, eliminare l’abbreviato per i reati da ergastolo significa gravare di un maggior numero di processi le corti d’assise. Oggi chi è accusato di delitti puniti anche col carcere a vita opta nel 70-80 per cento dei casi per l’abbreviato. Vuol dire che solo negli ultimi due anni, i Tribunali italiani hanno potuto lasciare la trattazione di oltre un migliaio di questi procedimenti a un singolo giudice, che li ha definiti in due o tre udienze al massimo e ha potuto depositare la sentenza nel giro di 40 giorni. In tutto, un impegno, per il sistema giudiziario, di 3 o 4 mesi. Sa cosa significa se per tutti questi casi, spesso di omicidio, si devono invece mettere in campo le corti d’assise? Cosa succede? Che ci vogliono almeno un paio d’anni per ogni processo. Un tempo sestuplicato in cui vanno impiegati due togati e una giuria popolare. In diverse circostanze, le differenze di pena rispetto a quanto sarebbe avvenuto con l’abbreviato non risulterebbero molto evidenti. Un esempio? Nel caso di alcuni gravi reati, il ricorso all’abbreviato consente semplicemente di evitare, al condannato, che i primi 6 mesi siano scontati in regime di isolamento diurno, ma comunque resterebbe l’ergastolo. Il presidente della commissione Giustizia del Senato, Ostellari, ritiene marginale lo svantaggio dal punto di vista deflattivo rispetto alla maggiore deterrenza che si avrebbe senza gli sconti di pena consentiti dall’abbreviato... Su questo, torno a dire, il Csm non ha mosso alcuna osservazione. Ci limitiamo, nella delibera approvata, a ricordare che se diverse centinaia di procedimenti continuassero a essere definiti con l’abbreviato, le corti d’assise potrebbero restare concentrate sui processi indiziari, che richiedono un impegno maggiore. Parliamo di alcune centinaia di processi penali l’anno risparmiati: vorrebbe dire avere più forze per i casi a maggior peso specifico della giustizia italiana. Avete suggerito soluzioni alternative? Assolutamente sì. Oggi, per omicidi senza aggravanti generiche, l’abbreviato consente di ridurre la pena a 16 anni o anche più in basso: si potrebbe diminuire l’effetto di tale riduzione. Si eviterebbero pene non adeguate senza appesantire le corti d’assise, tutt’altro che sfaccendate. La legge “spazza-corrotti” e lo Stato sleale di Ruggero Navarra* Il Secolo XIX, 8 febbraio 2019 Il 16 gennaio è stata pubblicata la legge “spazza-corrotti”, il cui obiettivo è ben riassunto nel suo nomignolo. Con questa legge la giustizia penale ha subito molte modifiche, alcune anche fortemente contestate dall’avvocatura, dalla magistratura e dal mondo accademico. Tra queste, una prevede l’inserimento di delitti come corruzione e peculato tra quelli per cui la condanna definitiva, salvo sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, è immediatamente eseguita con la detenzione in carcere. Per i non addetti ai lavori, questa potrebbe apparire come la più ovvia delle conseguenze, al punto di domandarsi perché ciò non accadesse anche prima della “spazza-corrotti”. La risposta è che esiste una norma per cui le pene detentive sino a quattro anni devono essere scontate in carcere solo se il condannato non può essere ammesso a una misura alternativa di espiazione all’esterno. Si tratta di misure, come l’affidamento ai servizi sociali, nate con lo scopo di favorire la rieducazione e la risocializzazione del reo, abbattendo il tasso di ricaduta nel reato e i costi sociali che ne derivano. L’opportunità di chiedere una misura alternativa aspettando la risposta senza entrare in prigione è però esclusa per reati particolarmente gravi. Con la “spazza-corrotti” i condannati per corruzione o peculato dovranno seguire questo iter più rigoroso. Si tratta di una scelta politica, di contrasto al fenomeno criminale, che può essere non condivisa, ma che è legittima al pari di altre. La tecnica legislativa ha però posto, non è chiaro se consapevolmente, un problema che riguarda il comportamento dello Stato nei confronti di chi ha già affrontato il processo e ha subito una condanna definitiva. È normale che uno Stato cambi le proprie regole, anche nell’amministrazione della giustizia; tutti devono prenderne atto e comportarsi di conseguenza. In questo caso, però, le nuove regole incidono sulla libertà anche di persone che non hanno più alcuna possibilità di cambiare scelte difensive fatte sulla base di norme più favorevoli. L’osservazione più spontanea potrebbe essere frettolosamente forcaiola, chiudendo il discorso con un sano “la musica è cambiata. Il tema che si pone, però, non è se sia giusto o meno esigere la “certezza della galera” anche per corrotti e corruttori. Si tratta, piuttosto, di domandarsi se sia accettabile che lo Stato, pur dinanzi a dei condannati, possa cambiare le carte in tavola quando il gioco, per loro, è già terminato. Ci si deve chiedere in sostanza, se le regole che lo Stato adotta o modifica per contrastare i reati possano avere anche la paradossale conseguenza di rendere sleale la stessa giustizia. *Membro della Camera penale di Genova “Ernesto Monteverde” Pavia e il suo Osservatorio Antimafie di Rosalia Cannuscio La Repubblica, 8 febbraio 2019 pavia A Pavia, ormai da quasi dieci anni, opera l’Osservatorio Antimafie, nato nel 2009, grazie a un incontro con Nando Dalla Chiesa, fondatore di Omicron. La fondazione dell’Osservatorio si è innestata sul lavoro organizzativo e di ricerca di un gruppo di studenti del Coordinamento per il diritto allo studio - Udu Pavia che, sin dal 2005, si è occupato della sensibilizzazione e informazione alla cittadinanza sulla criminalità organizzata e sulle diverse forme di contrasto: culturali, di prevenzione e di repressione. È proprio nel 2005 che il Coordinamento fondava a Pavia un circolo Arci intitolato “Radio Aut”, richiamandosi a Peppino Impastato, e dava il via a una rassegna annuale sulla lotta alla criminalità organizzata, intitolata “Mafie: Legalità e Istituzioni”, oggi dedicata a Vittorio Grevi. Qualche anno dopo, nel 2009, studenti e cittadini hanno deciso di portare alla luce un tema scomodo, ben prima che la notizia finisse sulle prime pagine di tutti i giornali, facendo ottenere a Pavia, una città del Nord, il poco onorevole primato del primo direttore di una Asl arrestato per mafia. La rassegna “Mafie: Legalità e Istituzioni” è ormai un appuntamento fisso che ogni anno a ottobre porta a Pavia giornalisti e magistrati, scrittori e uomini di cultura: Roberto Saviano, Roberto Scarpinato, Nicola Gratteri, Armando Spataro, Alberto Nobili, Salvatore Borsellino, Marco Travaglio, Nando Dalla Chiesa, Antonio Ingroia, Roberto Pennisi, Nicola Tranfaglia, Maurizio Romanelli, Ilda Boccassini, Raffaele Cantone, Gianni Speranza, Antonio Pergolizzi, Antonello Caputo, Rocco Mangiardi, Isaia Sales, Salvo Vitale, Pina Maisano Grassi, Alessandra Cerreti, Gian Carlo Caselli, Michele Prestipino, Nino Di Matteo, Maria Falcone, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza, Gianni Barbacetto, Luigi Ferrarella, Francesco La Licata, Cesare Giuzzi, Paolo Biondani, Saverio Lodato, Giovanni Tizian e Attilio Bolzoni sono soltanto alcuni dei nomi che in questi anni sono venuti nella nostra città per parlare di mafia. Perché di mafia e antimafia non si parla mai abbastanza. A conferma di ciò, dai nostri interventi nelle scuole, è emerso un forte desiderio da parte degli studenti di colmare un vuoto di conoscenze sul fenomeno mafioso testimoniato dai risultati allarmanti delle rilevazioni statistiche svolte in 31 classi di licei prestigiosi. Ragazzi preparati e brillanti in tutte le materie sanno poco o nulla della mafia, dai suoi personaggi più remoti sino ai protagonisti delle cronache più recenti. Ad un questionario da noi somministrato, riguardante i principali protagonisti del fenomeno (Riina, Provenzano, Andreotti, Chiriaco e Neri, etc.) e del suo contrasto (Falcone, Borsellino, Impastato) le risposte totalmente sbagliate oscillano tra il 65 e il 93%, dimostrando che c’è davvero bisogno di un lavoro culturale e formativo per la conoscenza e sensibilizzazione sul fenomeno mafioso. Essere giovani e vivere al Nord non sono certo scusanti o attenuanti verso l’indifferenza. Tali circostanze non possono e non devono farci arroccare sui soliti, vecchi pregiudizi: la mafia c’è, esiste anche tra noi. La mafia è al Nord come al Sud. Probabilmente chi entra a far parte dell’Osservatorio “ha la smaniosa sensazione di dover fare qualcosa, e di non riuscire a trovare pace fin quando non la realizza, o almeno tenta di farlo”. Per tale motivo riteniamo indispensabile mettere a disposizione le nostre conoscenze e le nostre parole per aiutare a diffondere il più possibile la cultura della legalità, per creare consapevolezza attorno al fenomeno mafioso, intervenendo con progetti e laboratori nelle scuole e organizzando iniziative nelle aule universitarie e negli spazi cittadini. Perché fare lotta alla mafia richiede solo un minimo di coscienza civile che ci faccia capire quanto sia fondamentale agire e reagire. E tale necessità si può declinare in molteplici azioni, alla portata di tutti: vigilare, raccontare, denunciare, dire di no. É un imprescindibile dovere di solidarietà umana che abbiamo nei confronti di chi la mafia la guarda negli occhi ogni giorno, proprio come il magistrato Nino di Matteo, che non necessita di presentazioni, a cui nel 2017, congiuntamente all’amministrazione comunale, abbiamo conferito la cittadinanza onoraria, un gesto così simbolico, ma forte e concreto, per esprimergli solidarietà. Oggi siamo orgogliosi e onorati di poter annoverare Di Matteo tra gli appartenenti alla comunità cittadina pavese dopo averlo ospitato lo scorso anno nella nostra rassegna “Mafie: legalità e istituzioni”. Noi abbiamo iniziato con sforzi infinitamente più piccoli, proporzionati alle nostre capacità e possibilità e l’abbiamo fatto per dimostrare che il compito di salvaguardare la vita democratica del Paese è affidato a tutti. Ognuno per quello che può. Caso Diciotti. Salvini attacca i giudici: “Calpestata la Costituzione” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 febbraio 2019 Il ministro dell’Interno accusato di sequestro di persona: “Ho difeso l’interesse dell’Italia. I ritardi nello sbarco dovuti alla controversia internazionale in atto”. L’attacco ai giudici, che i suoi portavoce avevano preventivamente negato, si può leggere a pagina 8 della memoria inviata da Matteo Salvini alla giunta del Senato: “L’impostazione del tribunale di Catania calpesta le più elementari regole del diritto internazionale e della nostra Costituzione, invadendo poi una sfera di esclusiva prerogativa dell’attività di governo”. Ma a prescindere dai giudizi dell’indagato sui magistrati che hanno chiesto l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, per come il tribunale dei ministri ha impostato il proprio atto d’accusa l’autodifesa di Salvini potrebbe leggersi come una confessione. Con allegata una dichiarazione del vicepremier Luigi Di Maio che precisa di aver sottoscritto l’operato di Salvini “nelle vesti di capo politico della forza di maggioranza relativa”, cioè in quanto leader dei Cinque Stelle; una puntualizzazione rivolta ai senatori del proprio partito, prima ancora che al Senato nel suo insieme. Nel suo documento il titolare del Viminale ricorda che sui naufraghi raccolti dalla nave militare Diciotti le autorità marittime avevano ingaggiato “una guerra” con Malta, che prima aveva dirottato i migranti verso l’Italia e poi non aveva concesso il permesso di sbarco com’era suo dovere. Inoltre era in corso una controversia con le autorità di Bruxelles, dopo che il 28 giugno il Consiglio europeo aveva auspicato uno “sforzo condiviso” degli Stati per accogliere le persone “salvate in mare”, sebbene “su base volontaria”. Oggi Salvini ricorda che con la “nota verbale” inviata il 19 agosto 2018 il governo italiano aveva avvertito: “Solamente un’azione decisa da parte delle istituzioni europee potrà consentire di superare le attuali difficoltà che impediscono l’individuazione di un porto di sbarco delle persone soccorse dalla Diciotti”. E sostiene che “l’oggettiva necessità di attendere la risoluzione della controversia internazionale ancora in atto ha comportato l’inevitabile dilatarsi del tempo e il prolungamento dello scalo tecnico sino al 24 agosto, allorquando si è tenuta la riunione in ambito europeo, in attesa delle cui conclusioni non poteva permettersi lo sbarco se non se nel contesto della intavolata trattativa in sede europea”. In sostanza, il ministro ammette che non concesse il permesso di scendere per via della trattativa in corso, ed è esattamente ciò che il tribunale gli contesta: alla base della decisione non c’erano problemi tecnici o di ordine pubblico bensì, accusano i giudici, “la volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo”. Tuttavia le conclusioni del 28 giugno del Consiglio europeo non si erano tradotte in “atti concreti di modifica della normativa”, e dunque “non legittimavano il ministro a disattendere le convenzioni internazionali ancora vigenti in ordine al soccorso in mare”. Salvini controbatte che “i rimedi necessari alla soluzione della controversia (quindi il presunto sequestro di persona ipotizzato dal tribunale, sulla cui sussistenza il ministro si astiene da ogni considerazione, ndr) rientrano nell’ambito del perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente garantito, nonché del preminente interesse pubblico a un corretto controllo e a una corretta gestione dei flussi migratori”. Di qui l’implicita richiesta al Senato di negare la richiesta di autorizzazione a procedere, come previsto dalla legge costituzionale del 1989. È in base a quella norma che i giudici del tribunale si sono fermati dopo aver individuato un possibile reato, giacché l’eventuale stop all’attività giudiziaria può arrivare solo dal Parlamento; è uno “scudo politico” che può essere fatto valere solo in questa fase, poiché dopo un’eventuale autorizzazione a procedere non varrebbero più, a difesa del ministro-imputato, la giustificazione di aver agito per superiori interessi nazionali. È la ragione per cui la lettera di Di Maio, che in qualità di capo del Movimento Cinque Stelle afferma che le decisioni di Salvini “sono da imputarsi collegialmente in capo anche al sottoscritto”, pare un richiamo diretto anzitutto ai propri senatori per votare no alla richiesta dei giudici. Del resto lo stesso procuratore di Catania Zuccaro, nella richiesta di archiviazione disattesa dal tribunale, aveva chiarito che “la riconducibilità al ministro dell’Interno della decisione di trattenere i migranti sulla Diciotti può ritenersi accertata al di là di ogni ragionevole dubbio”. La condivisione collegiale dei vertici del governo fa parte della difesa politica, non giudiziaria. La curiosa storia del gen. Mori, nemico n. 1 della mafia messo per questo sotto processo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 febbraio 2019 Nei giorni scorsi Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha parlato dell’importanza che aveva per suo padre, e per Falcone, il dossier mafia-appalti. Cioè il dossier curato dal generale Mori. I quotidiani non se ne sono occupati molto. Oltre al nostro giornale, e al Foglio, se ne è occupato solo Marco Travaglio, che non ha in gran simpatia il generale Mori, e che ha accusato, sul Fatto, Fiammetta Borsellino di dire balle. Però Travaglio ha torto, e Fiammetta Borsellino ha ragione: ieri il nostro Damiano Aliprandi glielo ha spiegato con dovizia di particolari e in tutti i dettagli. Non credo che Travaglio sia in malafede, penso solo che conosca poco le vicende di quegli anni, anche perché allora era molto giovane e lavorava - ma era alle prime armi - in un giornale che si schierò in modo aperto contro Falcone, Borsellino e il pool antimafia, sin dal maxiprocesso e dalle confessioni di Buscetta. Del resto non è obbligatorio conoscere a menadito la storia della lotta tra mafia e antimafia. È una storia molto lunga e nella quale spesso la stampa si è trovata dalla parte sbagliata della barricata. Diciamo, per semplificare, non dalla parte dell’antimafia. Fino agli anni ottanta la gran parte dei mass media negava, più o meno, l’esistenza stessa della mafia, o comunque la sua importanza. E i magistrati, e i poliziotti, e i pochi giornalisti, che invece la studiavano e la combattevano, cadevano come mosche: De Mauro, Chinnici, Boris Giuliano, Costa, Terranova, Cassarà e tanti altri, finché Falcone e Borsellino non misero a segno dei colpi micidiali, che scompaginarono Cosa nostra, e Cosa nostra si vendicò uccidendo anche loro. I grandi protagonisti della lotta che ha messo in ginocchio la mafia siciliana, soprattutto i più bravi, purtroppo sono quasi tutti scomparsi. Tra i magistrati di prima fila è rimasto vivo solo Giancarlo Caselli, che arrivò in Sicilia dopo le stragi del 1992, ed ebbe un ruolo importante nei primi anni ‘ 90 nel completare l’opera di attacco al cuore di Cosa Nostra. Tra gli uomini che lavorarono fianco a fianco con Falcone, e che ebbero dei meriti grandissimi nelle battaglie di quegli anni, è rimasto il generale Mori. Che è proprio colui che inventò il dossier mafia-appalti del quale ha parlato domenica scorsa Fiammetta Borsellino, e che fu un pezzo molto forte del lavoro di Falcone e che lo stesso Falcone, quando si ritirò a Roma, chiese a Borsellino di riprendere in mano. Borsellino voleva farlo, ma non ebbe il tempo, fu ucciso. Forse uno dei motivi della sua morte fu proprio quel dossier, che faceva paura, anche perché coinvolgeva moltissime aziende non solo siciliane. Il dossier fu archiviato e il generale Mori, che aveva la colpa di essere rimasto vivo, fu messo sotto processo. È ancora sotto processo. Anzi, è stato condannato in primo grado a 12 anni. Per che cosa? Lo accusano di aver trattato con la mafia nei primi anni novanta. Chi lo accusa? Giovanni Brusca, cioè uno dei più spietati killer di Cosa Nostra, il quale, accusandolo, ha ottenuto di uscire processo nel processo Stato Mafia. Brusca fu testimone diretto di questa trattativa? No, sentì dire. Come si spiega il fatto che durante quella trattativa Mori arrestò il capo della mafia, cioè Riina? Non si spiega. Brusca (ne parla Aliprandi a pagina 7) è tornato ad attaccare Mori, sostenendo che in effetti alla mafia degli appalti fregava niente. Il bello è che in molti gli danno retta. Lo considerano attendibile. E così’ Mori, contro il quale non c’è uno straccio di prova e che già è stato assolto varie volte in altri processi dalle stesse accuse, si trova sulla graticola. Dopo essere stato una delle punte di diamante della lotta (vinta) contro il terrorismo e poi della lotta (vinta) contro la mafia siciliana. Le cose stanno così. Sono paradossali ma stanno così. Ciascuno può fare le riflessioni che vuole, sulla base di questi fatti. Io faccio questa constatazione: tutti coloro che hanno combattuto la mafia siciliana sul campo, negli anni ottanta e novanta, non l’hanno passata liscia. Cosa nostra ha subito una sconfitta durissima, questo è certo, ma si è dimostrata in grado di farla pagare cara ai suoi nemici. Le vicenda di J. M., scarcerato per la mancata traduzione della sentenza di Valentina Stella Il Dubbio, 8 febbraio 2019 Condannato in contumacia, la decisione non appellata è diventata definitiva. Proprio un mese fa da queste pagine vi avevamo raccontato la vicenda di un detenuto polacco, J. M., condannato nel 2015 a 4 anni di reclusione e 120.000 euro di multa dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: in un controllo stradale svolto nel 2010 la Guardia di Finanza rinvenne, all’interno di un camion adibito al trasporto di prodotti alimentari, dodici cittadini extracomunitari provenienti dall’Afghanistan. J. M. era il secondo autista. La storia meritava attenzione perché l’uomo, come ci aveva raccontato il suo avvocato di fiducia Massimiliano Oggiano, non aveva alcuna conoscenza del processo a proprio carico, non era stato mai presente in aula durante il dibattimento, e non aveva avuto nessun apparente contatto con l’avvocato d’ufficio, nominato sottoscrivendo in presenza di alcuni agenti della Guardia di Finanza un verbale in italiano prestampato senza alcuna consapevolezza del contenuto, data la totale assenza di comprensione della lingua italiana - nel quale c’era scritto: “non intendo nominare un difensore di fiducia” ed “eleggo domicilio presso il difensore di ufficio che mi verrà nominato”. Successivamente l’uomo veniva condannato in contumacia in primo grado e la sentenza, mai appellata dal difensore d’ufficio, diveniva subito esecutiva nel 2015. Alla fine del mese di ottobre dell’anno scorso, a distanza di circa tre anni dalla sentenza, il condannato - che aveva sempre condotto una vita lavorativa regolare varcando più volte le frontiere per ragioni di lavoro - è stato fermato in Italia, durante un normale controllo stradale e, previa notifica dell’ordine di esecuzione della sentenza - redatta anch’essa in lingua italiana (assolutamente incomprensibile al condannato), sebbene notificata con “l’assistenza di un interprete” - è stato arrestato e condotto in carcere per l’esecuzione della pena. Due giorni fa il giudice dell’esecuzione penale di Ancona ha decretato che la sentenza di primo grado non può ritenersi passata in giudicato e ha disposto l’immediata liberazione di J. M.. Adesso l’uomo potrà ricorrere in appello avverso la sentenza di primo grado, appena verrà tradotta in polacco. Intanto è stato oltre tre mesi in carcere. Per capirne di più abbiamo sentito il legale dell’uomo, Massimiliano Oggiano. Avvocato che tipo di ricorso avete presentato? È stato proposto un incidente di esecuzione con richiesta di declaratoria di non esecutività della sentenza di primo grado e di sua immediata traduzione in lingua polacca, con conseguente rimessione nel termine per presentare impugnazione. Cosa ha stabilito nel dettaglio il giudice? Che la motivazione della sentenza, in quanto redatta in lingua non comprensibile all’imputato, non consentiva a quest’ultimo di poter presentare personalmente atto di appello. Per tale ragione ha dichiarato che la sentenza non può essere eseguita fino a quando non siano eventualmente ed inutilmente scaduti i termini per l’appello che decorreranno dal momento della notifica all’imputato del provvedimento regolarmente tradotto. Il suo assistito come ha appreso la notizia? E in questo momento è fuori dal carcere? Il mio assistito ha appreso la notizia ieri sera (ndr, due giorni fa) alle ore 21.00, allorquando ha potuto lasciare il carcere di Catanzaro, dove era stato trasferito circa venti giorni fa. Purtroppo non ho avuto modo di interloquire, neppure telefonicamente, con lui perché non conosco la lingua polacca. L’interprete che mi aiuta nelle comunicazioni con l’assistito mi ha riferito di grande commozione e di forte desiderio di ricongiungersi presto con la famiglia. Il bruttissimo momento sembra superato, non senza profondo turbamento. Quali saranno i prossimi passi? Nell’attesa della traduzione della sentenza in lingua polacca si sono iniziati ad elaborare i motivi dell’atto di appello che, come prevedibile, metteranno in luce il principale vizio della sentenza di condanna, legato al fatto che essa è maturata a valle di un processo celebrato a totale insaputa dell’imputato, mai comparso in aula, ed in una lingua a lui sconosciuta. Condanna penale, si allargano i casi di revisione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 6141/2019. Si allarga la possibilità di chiedere la revisione della condanna. Perché le Sezioni unite, con la sentenza n. 6141 depositata ieri, ritengono che la norma del Codice di procedura penale può essere applicata anche ai casi di sola condanna al risarcimento della parte civile, dopo che in appello è stata dichiarata la prescrizione. A questa conclusione le Sezioni unite arrivano dopo avere ricordato che il Codice (articolo 629) indica tra i provvedimenti oggetto di revisione le sentenze di condanna, senza peraltro precisarne ulteriormente i contenuti; come pure, nel ricordare i soggetti che sono legittimati a proporre la richiesta di revisione viene evocato lo status giuridico del condannato. Non può però essere messo in dubbio, prosegue la Corte, che la decisione di accoglimento dell’azione civile esercitata nel processo penale rappresenta un verdetto di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato e che “in presenza di siffatta situazione processuale, all’imputato debba essere riconosciuto lo status di soggetto condannato, sia pure soltanto alle restituzioni e al risarcimento del danno”. Del resto, lo stesso Codice non distingue tra condanna riportata ai soli effetti penali e quella invece riportata agli effetti civili, dopo l’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Il fatto poi che ci si trovi, come nel caso approdato in Cassazione, davanti a una causa di estinzione del reato, riconosciuta in appello, fa ritenere alle Sezioni unite che la contestuale conferma della condanna al risarcimento è da una parte idonea a procurare, se ingiusta, una pregiudizio alla persona interessata con riferimento alla sola sfera patrimoniale e, dall’altra, contiene un’affermazione di responsabilità. Infatti, quanto a quest’ultimo aspetto, la contestualità dei due verdetti mette in evidenza l’esistenza di un collegamento tra l’affermazione di responsabilità agli effetti civili e la mancata pronuncia liberatoria anche nel merito per gli effetti penali “che è senz’altro idonea a produrre un apprezzabile pregiudizio al diritto all’onore dell’imputato, con superamento della presunzione costituzionale di non colpevolezza. Negare alla persona interessata la possibilità di accesso alla revisione si porrebbe, tra l’altro, sottolineano le Sezioni unite, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione sia sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza sia sotto il profilo dell’evidente irragionevolezza. La sentenza valorizza poi anche quanto emerso nel 2012 con due interventi sempre delle Sezioni unite (sentenze 28718 e 28719) favorevoli alla legittimazione del soggetto prosciolto agli effetti penali, ma condannato per quelli civili, a presentare ricorso straordinario. Forti le analogie, ricordano ora le Sezioni unite, con l’altro mezzo d’impugnazione straordinario costituito dalla revisione. E questa assimilazione non è contrastata, affermano infine le Sezioni unite, dal principio della tassatività delle impugnazioni. Principio che non ha imedito l’accesso al ricorso straordinario da parte del condannato agli effetti civili. Puniti gli omessi versamenti con indebito utilizzo di crediti di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 5934/2019. Linea dura della Cassazione sulle indebite compensazioni: commette il reato chi utilizza un credito Iva fittizio in detrazione delle liquidazioni periodiche successive: la norma, infatti, non circoscrive il delitto alla sola presentazione del modello F24, tanto meno alla sola compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti. A fornire questo principio è la Suprema corte con la sentenza n. 5934 depositata ieri. La vicenda traeva origine da un rilevante credito Iva ritenuto inesistente, inserito nella dichiarazione del 2002 e riportato negli anni successivi. Il credito veniva utilizzato in detrazione dei debiti Iva delle diverse liquidazioni. Era quindi contestata l’indebita compensazione prevista dall’articolo 10 quater del Dlgs 74/2000. Gli imputati, condannati in appello, ricorrevano in Cassazione lamentando, in sintesi, che il comportamento adottato riguardasse la detrazione Iva e non un’indebita compensazione, in quanto nessun modello F24 era stato presentato. I giudici di legittimità hanno ricordato che il reato in questione è configurabile in caso di compensazione sia orizzontale sia verticale. L’articolo 10 quater punisce, infatti, i comportamenti illeciti, quali l’utilizzo improprio della compensazione, commessi per omettere il versamento dell’imposta. L’articolo 17 del Dlgs 241/97, richiamato espressamente dalla norma penale non fa riferimento al modello F24, ma, più in generale, all’utilizzo di crediti per il pagamento di debiti. Ne consegue che la detrazione Iva diviene sostanzialmente un’operazione di compensazione, non tanto perché i due istituti (detrazione e compensazione) sono omogenei, ma perché il risultato conseguito è il medesimo: in entrambi i casi, infatti, il contribuente evita il pagamento di imposte grazie ad un credito nei confronti dello Stato. A prescindere, quindi, dalla procedura formale seguita dal contribuente (indicazione in dichiarazione o modello F24), l’utilizzo indebito di un credito per il pagamento di un debito tributario rientra nel precetto penale. La Cassazione ha altresì escluso che la contestazione possa configurare infedele dichiarazione (articolo 4 Dlgs 74/00): in questo delitto, infatti, il contribuente esprime il mendacio nella dichiarazione annuale, mentre nell’indebita compensazione avvenuta nella specie, il riporto negli anni successivi del credito Iva ha consentito l’omesso versamento di imposte. Da segnalare che le Entrate nella risoluzione 36/18 ha ritenuto che per l’indicazione in dichiarazione di un credito inesistente, si applica la sanzione per infedele dichiarazione e non per indebita compensazione. Ne consegue così che la medesima violazione, che ai fini tributari non viene sanzionata per indebita compensazione, ai fini penali costituisce delitto. Cassazione: peculato, revisore che non controlla imputabile solo se concorre di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2019 Il revisore legale dei conti di un ente pubblico non può essere sottoposto al sequestro preventivo dei propri beni se per omesso controllo ha permesso il verificarsi di diversi e ripetuti casi di peculato. Non basta infatti, il fatto stesso dell’essere venuto meno al suo ruolo di garanzia, ma occorre che vi siano indizi di un comportamento doloso di concorso nel reato. La Corte di cassazione con la sentenza n. 6133 di ieri ha annullato la misura cautelare contro il revisore di un’Azienda pugliese di servizi alla persona che nel 2014 è stata commissariata dall’allora governatore della Puglia Nichi Vendola per l’emergere di casi di peculato, che sarebbero stati commessi, in particolare, dal suo presidente. Il rinvio al tribunale - Il tribunale della libertà di Foggia dovrà ora riesaminare la questione al fine di verificare la sussistenza di una partecipazione in concorso ai reati di peculato e il nesso causale tra questi e l’omissione del controllo da parte del revisore. L’ordinanza di sequestro preventivo per equivalente dei beni dei coindagati riguardava la cifra di oltre 330mila euro di denaro sottratto alla funzione pubblica socio-assistenziale, attraverso prelievi ingiustificati, pagamenti di fatture per prestazioni inesistenti o spese e acquisti non inerenti l’attività istituzionale dell’ente. Una serie di peculati di cui è imputato, in primis, il presidente del consiglio di amministrazione della Asp e non segnalati dal revisore al contrario di altri episodi. Il ricorrente era stato presidente del collegio sindacale e poi revisore unico dell’Azienda regionale per i servizi alla persona e in tale qualità chiese anche chiarimenti sui flussi finanziari verso le società partecipate. Ciò - secondo l’ordinanza cautelare annullata - dimostra che il revisore era a conoscenza degli illeciti. Una deduzione che va però integrata da gravi indizi del concorso nel reato: il nesso causale tra omesso controllo e peculati e l’aver agito non per colpa, ma con dolo anche solo eventuale. Se cioè il revisore a fronte del proprio mancato controllo ha accettato il rischio di lasciare la strada aperta alla commissione dei reati. Liguria: carceri al collasso, record di detenuti stranieri a Imperia di Fabrizio Tenerelli Il Giornale, 8 febbraio 2019 È sovraffollamento nelle carceri liguri, con una popolazione detenuta, al 31 dicembre del 2018, pari a 1.490 unità, 370 in più rispetto alla capienza di 1.128 posti. Rischiano il collasso a causa del sovraffollamento le carceri liguri, con una popolazione detenuta (al 31 dicembre del 2018) pari a 1.490 unità, 370 in più rispetto alla capienza di 1.128 posti. Che le carceri liguri fossero sovraffollate, già si sapeva e il fenomeno accomuna un po’ tutto il Paese. Il problema è che il numero dei detenuti in eccesso aumenta, ogni anno, sempre di più. Nel 2018, ad esempio, i detenuti in eccesso in Liguria risultano essere novanta in più rispetto all’anno precedente. E per quanto riguarda i singoli istituti di pena: a Imperia risulta esserci la maggiore percentuale di stranieri. A comunicare il bilancio è la segreteria ligure del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria. Ecco i dati relativi alla popolazione carceraria neo sei istituti liguri. Genova Marassi: 730 detenuti, su una capienza di 546 posti; Sanremo: 256 detenuti su 238 posti; La Spezia: 220 detenuti su 150 posti; Imperia: 97 detenuti, su 53 posti; Genova Pontedecimo: 145 detenuti, si cui 73 donne, su una capienza di 96 posti, 43 dei quali nel reparto femminile. L’unico istituto “stellato” risulta quello di Chiavari, in provincia di Genova, che a fronte di soli 45 posti ospita 42 detenuti quindi l’unico non sovraffollato. I detenuti stranieri sono 788. Il carcere d’Imperia detiene la percentuale più elevata di stranieri reclusi con il 67 per cento. Seguono: La Spezia (57,27%); Sanremo (54,12%); Genova Marassi (53,58%); Genova Pontedecimo (42,11%) e Chiavari (43,78%). La popolazione straniera, inoltre, conta: 436 detenuti provenienti dai paesi africani, 206 dall’Europa, 112 dal continente americano e 34 da quello asiatico. La nazione più numerosa è il Marocco (200 detenuti); seguono: Albania (107) e Tunisia (80). “La caratteristica negativa delle carceri liguri è data dal sovraffollamento - spiega il segretario regionale ligure del Sappe, Michele Lorenzo - quest’ultimo dovuto alla chiusura del Provveditorato regionale che accorpandosi con quello del Piemonte ha di fatto costituito una macro Regione penitenziaria ed era prevedibile che questo causasse una ricaduta negativa sulla piccola Liguria. I dati odierni ci danno ragione”. Per il Sappe, tuttavia: “È il disinteresse sul carcere di Savona, soppresso il 28 dicembre del 2015 a destare maggiore preoccupazione. L’effetto che produce il sovraffollamento delle carceri liguri, tranne Chiavari, è causa di una serie di eventi critici che inficiano la quotidianità operativa del poliziotto penitenziario e della sua incolumità”. Trenta sono i tentativi di suicidio sventati nel 2018 dalla polizia penitenziaria. Ecco il quadro degli eventi critici registrati nella carceri liguri, sempre nell’anno appena trascorso. Azioni di autolesionismo (444); colluttazioni (343); ferimenti (46); scioperi dei detenuti (142); rifiuto del vitto (28); danneggiamenti a celle (167); proteste (295); proteste per le pessime condizioni di detenzione (50); proteste con battitura alle inferriate (127); rifiuti di rientrare nelle celle (11). E poi: un evaso dal permesso; un evaso dalla licenza premio e un evaso dall’attività lavorativa esterna. Da segnalare anche quattro morti per suicidio. Genova: tragedia in carcere, detenuto 22enne si uccide a Marassi adnkronos.com, 8 febbraio 2019 È stata dichiarata la morte cerebrale del giovane detenuto di 22 anni che questa sera ha tentato di togliersi la vita nel carcere Marassi a Genova impiccandosi nella sua cella. Un giovane di 22 anni, H.I., detenuto nel carcere di Marassi a Genova si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella. Il ragazzo, di origini marocchine, si trovava solo al momento del gesto. È stato soccorso dagli agenti di polizia penitenziaria, sul posto è intervenuto il personale medico sanitario che ha portato il 22 enne in condizioni gravissime all’ospedale San Martino di Genova dove è deceduto nonostante i tentativi di rianimazione. Verona: detenuto muore suicida in cella Comunicato Sappe, 8 febbraio 2019 Giornate campale, quella di ieri, nel carcere di Verona. Spiega quel che è accaduto Giovanni Vona, segretario nazionale per il Triveneto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “E’ stata davvero una giornata nera per il carcere di Verona. Alla mattina, durante la perquisizione ordinaria, un detenuto nordafricano ha minacciato il personale di Polizia Penitenziaria addetto ai controlli con una lametta per non farli entrare nella cella che occupa, dopodiché si è scagliato contro il personale e nella colluttazione ha sferrato un pugno in faccia a un Agente che ha riportato una prognosi di 15 giorni, refertati dal pronto soccorso. A distanza di poco, nella stessa Sezione detentiva, un detenuto di origine nigeriana, entrato a gennaio 2019 con posizione giuridica giudicabile, si è tolto la vita mediante impiccamento: nulla hanno potuto i pur tempestivi interventi dei poliziotti, che pure lo avevano portato nell'immediatezza nell’infermiera dove gli è stato fatto un massaggio cardiaco con defibrillatore senza esiti. Poco più tardi, infine, un altro detenuto maghrebino è stato portato in codice rosso all'ospedale per aver ingerito pile e lamette. Milano: “ragazzi, imparate dai nostri errori”. La scuola di legalità dei due carcerati di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 8 febbraio 2019 Manolo, Matteo e gli incontri nelle cogestioni. Molti anni di carcere e reati gravissimi alle spalle. Un passato nero e anche “cattivo” di cui a lungo si sono vergognati. Oggi non più. Hanno faticosamente trovato un senso a ciò che è accaduto, cercato il riscatto, provato a riparare se stessi. Ora restituiscono qualcosa alla società. Inizieranno a raccontare la loro storia nelle scuole in questi giorni di cogestione: “Non è facile aprire capitoli così dolorosi in pubblico, ma dicono che la nostra testimonianza sia utile per educare i ragazzi alla legalità, e noi ci vogliamo credere”. Manolo, 43 anni e una bellissima figlia, e Matteo, 27 anni e il nome della mamma marocchina persa da piccolo tatuato in fronte, si sono conosciuti tanti anni fa a San Vittore. Adolescenze difficili, segnate dalle armi e dalle sostanze. Entrambi stanno ancora finendo di scontare la pena in “affidamento terapeutico”, forma alternativa al carcere, seguiti dal SerD di via Albenga. Incontrandoli colpisce subito una cosa: chiedono continuamente “Mi scusi”. Due parole dimesse, le parole di chi è abituato a pensare che, qualunque cosa faccia, è sempre in torto. “In galera non è facile convincere che ormai sei rieducato. Specie se sei etichettato come individuo incline alla recidiva - racconta Manolo. Sono cresciuto al Giambellino con un padre molto violento, della banda di Renato Vallanzasca. Mia mamma era bidella ma si faceva chiamare “operatrice scolastica”, era orgogliosa del suo lavoro. Io giocavo nei pulcini del Milan. Ho buttato tutto alle ortiche perché avevo dentro molta rabbia e non sono stato abbastanza forte da resistere alle lusinghe del denaro facile”. A sedici anni spacciava, girava (ovviamente senza patente) con le macchine più belle e le armi. Una volta lo hanno trovato in strada con un kalashnikov, un’altra volta ha mandato in coma un ragazzo del quartiere con sette coltellate. Un episodio gravissimo. “Eppure è stato proprio quella la chiave di volta per me”, ricorda Manolo. Era al Beccaria, accusato di tentato omicidio. La vittima doveva riconoscere l’autore dell’aggressione. “Dal carcere minorile avevo mandato alcuni amici a “convincerlo” a non riconoscermi ma lui non aveva ceduto. Allora io davanti al giudice ho fatto scena. Ho finto di essermi pentito, ho implorato perdono, mi son persino messo a piangere. Lui però incredibilmente mi ha creduto, mi ha abbracciato ancora dolorante per le ferite, ha detto “Va bene ti perdono” e mi ha dato il cinque, come usava nel nostro quartiere”. Quel gesto non meritato di fiducia non l’ha mai dimenticato. “Dopo ne ho combinate ancora tantissime, ma se ad un certo punto ho risalito la china, lo devo anche a lui”. A volte s’incontrano di nuovo per le strade del Giambellino: “Fa l’infermiere, ogni volta ci abbracciamo e mi sento ancora così grato di quel perdono”. E il nocciolo della giustizia riparativa, in fondo. Matteo (come Manolo) ha una compagna di cui è profondamente innamorato. In carcere ha preso il diploma, fa volontariato con un bambino cinese autistico che lo adora, vorrebbe lavorare con le disabilità. “Un po’ di orgoglio per il percorso che abbiamo fatto l’abbiamo”, sorride. Andranno al Brera, al Porta, al Tito Livio e al Vittorini, tanto per iniziare. Il timore, visto che stanno arrivando ora sentenze definitive per reati di tanti anni fa e mai scontati, è di dover tornare dentro. Che la clessidra del tempo si rigiri di nuovo. “Per come siamo diventati oggi, forse alla società possiamo essere più utili fuori - azzarda timidamente Matteo Decideranno altri. Comunque per quello che abbiamo fatto prima, mi scusi”. Roma: aumentano le iniziative per il reinserimento sociale dei detenuti romatoday.it, 8 febbraio 2019 Dai kit per l’igiene personale a due nuove case famiglia: le misure del Comune per i detenuti. Trecento kit di base per l’igiene personale sono stati forniti dal Comune ai detenuti di Regina Coeli e 100 alle detenute di Rebibbia Femminile per la permanenza nell’istituto. Un’iniziativa che “diventerà strutturale”. Ad annunciarlo l’assessore al Sociale Laura Baldassarre, ricapitolando le attività messe in campo per le persone sottoposte a misure detentive e di giustizia riparativa. Prime della lista quelle che vanno a offrire un’alternativa lavorativa volta al reinserimento sociale. Vedi l’impiego in questi mesi di detenuti, o ex detenuti, per la manutenzione del verde pubblico, o, ultimamente, per la sistemazione dell’asfalto sulle strade martoriate di Roma. “Presto partiranno nuove iniziative, sempre lavorative, per diminuire il rischio di recidiva e offrire dei servizi utili per la città” afferma l’Assessore con delega ai rapporti con la Garante dei detenuti Gabriella Stramaccioni, Daniele Frongia. Il Servizio di Segretariato sociale del Dipartimento Politiche Sociali si occupa delle persone private della libertà personale, in collaborazione con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Ministero di Giustizia e i Servizi Sociali dei Municipi, le Asl e altre risorse sul territorio. Ha uno sportello presso il Dipartimento, presso Rebibbia e Regina Coeli. Svolge mediamente 500 colloqui mensili. Sono passate poi da 2 a 4, informa il Campidoglio, le case famiglia per detenuti dove scontare misure alternative alla detenzione, raddoppiati i posti disponibili (24) e finanziati tirocini per favorirne il reinserimento sociale. “Lavanderia Ripulendo”, progetto attivo dal 2008 è stato rinnovato presso Regina Coeli - aggiudicataria la Coop Sociale Pid Onlus - per il reinserimento sociale dei 2 detenuti addetti alla lavanderia e la tutela delle esigenze di igiene di tutti i detenuti. Roma Capitale ha fornito due macchine lavatrici e una asciugatrice. “Tali iniziative mirano a rieducare detenute e detenuti - spiega l’assessora Baldassarre - utilizzando i fondi appositamente stanziati dall’Amministrazione. Abbiamo a cuore i loro diritti e il loro benessere”. Infine sulle misure di giustizia riparativa: Roma Capitale ha rinnovato nel 2017 una Convenzione con il Tribunale Ordinario di Roma. Oggetto: le persone sottoposte a Lavori di Pubblica Utilità (Lpu) o di Messa alla Prova (Map). Il Servizio di Segretariato riceve 800 telefonate al mese per interventi/informazioni e svolge oltre 100 colloqui mensili con persone da prendere in carico. Sono in esecuzione o hanno portato a termine la misura oltre 500 persone. Roma: i detenuti non chiudono le buche, ma puliscono strade e parchi di Ufficio Stampa Roma Capitale Corriere della Sera, 8 febbraio 2019 In riferimento all’articolo pubblicato in data 1 febbraio 2019 dal titolo “La politica ora esca dalla buca”, a firma di Edoardo Segantini, si rettifica quanto segue. Il nuovo filone del progetto “Mi riscatto per Roma”, iniziativa partita nei primi mesi del 2018 che ha visto e vede tutt’ora i detenuti impegnati a riqualificare il verde urbano in ville storiche e parchi della Capitale, ha preso il via martedì 29 gennaio e non ha lo scopo di sistemare le buche come riportato. 24 detenuti del carcere di Rebibbia - e non 30 come scritto - a seguito di un periodo di formazione con Autostrade per l’Italia spa della durata di 3 mesi, hanno iniziato una serie di lavori di manutenzione urbana che prevede la pulizia delle caditoie e il rifacimento della segnaletica orizzontale, per ora nei municipi VI, XI e XIII con l’obiettivo di coprire più zone possibili della città. I lavori che eseguono i detenuti rientrano in un’ottica di pulizia straordinaria, che affianca e non sostituisce i lavori delle ditte preposte e indicate da Roma Capitale allo svolgimento della manutenzione ordinaria delle strade della città, questo deve essere assolutamente esplicitato al meglio. La sindaca Virginia Raggi e l’assessore Daniele Frongia, coordinatore dei progetti che vedono coinvolti i detenuti, hanno visto, il giorno dell’inizio dei lavori in zona Torre Spaccata, diverse caditoie che, come riportato dagli addetti ai lavori, non venivano pulite addirittura da decenni. Questo a testimoniare con maggiore forza quanto il lavoro che offrono i detenuti sia davvero prezioso per la città e non solo costituisca per gli stessi la possibilità di espiare il proprio debito con la società ma anche di qualificarsi e specializzarsi potendo così, una volta espiata la pena, trovare un lavoro diminuendo quindi la possibilità di recidiva. Asti: Angela Motta “urgente intervenire sul carcere prima che la situazione degeneri” atnews.it, 8 febbraio 2019 “Intervenire urgentemente prima che la situazione degeneri”: lo chiede Angela Motta, vicepresidente del Consiglio regionale, dopo l’ultima protesta di 35 detenuti della Casa di Reclusione di Alta Sicurezza di Quarto d’Asti. Dichiara Motta: “Ciò che accade dentro al carcere, con le ripetute dimostrazioni e aggressioni dei detenuti, e ciò che non sta succedendo per assicurare condizioni stabili di sicurezza e di rispetto del personale, dura ormai da troppo tempo. È necessario che il Provveditorato Regionale e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria mettano in atto tutte le azioni indispensabili a riportare la situazione sotto un pieno controllo”. A dicembre la vicepresidente del Consiglio regionale, dopo aver incontrato i rappresentanti sindacali degli agenti penitenziari, aveva reso pubblica la lettera inviata al direttore della Casa di Reclusione per chiedere la convocazione urgente di un tavolo interno di confronto tra direzione, organizzazioni sindacali e rappresentanti del territorio. “Da allora la situazione non è cambiata - ricorda Angela Motta - Le responsabilità investono anche il governo. Chiediamo al ministro della Giustizia, già sollecitato a intervenire nei mesi scorsi dai parlamentari astigiani, quali decisioni è intenzionato ad assumere, e in che tempi, per migliorare le condizioni di sicurezza e per rinforzare la pianta organica a Quarto”. Casale Monferrato (Al): ex caserma diventerà struttura per il recupero dei detenuti radiogold.it, 8 febbraio 2019 Ipotesi avanzata da Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Casale Monferrato potrebbe ospitare un nuova struttura per detenuti. Lo ha spiegato Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in audizione alla Camera martedì per parlare di diverse tematiche legate al carcere. Al centro dell’incontro il tema del sovraffollamento con la conseguente individuazione di tre siti in cui creare strutture per detenuti. Per questo, tra i beni disponibili, sono state selezionate alcune ex caserme già valutate come idonee dopo una prima ricognizione. La scelta è ricaduta su tre strutture: Bari, Napoli e Casale appunto. Per Casale la struttura individuata come idonea è la Mazza, poco fuori città, ha spiegato il sindaco, Titti Palazzetti, che ha confermato il contatto, definito però ancora a livello “embrionale”. Il primo cittadino ha spiegato che l’ipotesi è di “collocare una struttura per il recupero dei detenuti, per il percorso riabilitativo delle persone”. La richiesta “non è stata ancora formulata ufficialmente, ho solo ricevuto una telefonata”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria intanto, come potete ascoltare nel video di seguito, ha parlato della “probabile conclusione del protocollo con il demanio militare per prenderci in carico la struttura”. Napoli: l’assistenza ai senzatetto che non risolve nulla di salvatore d’amico* La Repubblica, 8 febbraio 2019 Con il freddo i senzatetto ritornano di moda, quindi cerchiamo di capirne di più. Secondo stime attendibili a Napoli circa 2.000 persone vivono e dormono per strada, come gli animali. Poco più di 300 posti-letto disponibili nelle strutture pubbliche o convenzionate. Un patrimonio immobiliare pubblico immenso quanto nebuloso, un albergo dei poveri inutilizzato da decenni, una struttura pubblica a via Cristallini di circa 7.000 mq varie volte ristrutturata e vandalizzata ancora inutilizzata, decine di strutture pubbliche occupate da un lato e circa 200 chiese chiuse e abbandonate al degrado e conventi semivuoti dall’altro. Centinaia di gruppi di volontariato, in gran parte di matrice cattolica, con migliaia di volontari che si dedicano alla distribuzione di cibo e abiti con una logica puramente assistenzialistica. Decine e decine di associazioni del cosiddetto terzo settore finanziate per occuparsi dei senzatetto. Non è lo spazio che manca, non sono le persone che mancano. Perché, dunque, la nostra città non riesce a trovare una soluzione a questo problema? Ma chi sono i senzatetto? Premesso che l’universo dei senzatetto è inclassificabile, semplificando si può dire che tra essi ci sono tossicodipendenti, alcolizzati, portatori di forte disagio mentale, immigrati, ex detenuti, persone che si lasciano vivere così, persone risucchiate in questa povertà estrema in seguito alla perdita del lavoro o a una separazione o ad altri tipi di trauma. Spesso queste condizioni si sovrappongono. Eppure se consultate il sito del nostro comune e la guida pubblicata dalla comunità di Sant’Egidio sembrerebbe che esista una risposta ad ogni bisogno. Non è così. In tre anni passati per strada con la mia associazione di volontariato laico a distribuire cibo, bevande, vestiario e frammenti di umanità ho visto cose atroci ed ho capito tante cose… Ho capito, per dirne una, che esiste un mondo cattolico formato da centinaia di gruppi che girano ogni sera, a turno, per portare cibo ai senza fissa dimora, coinvolgendoli talvolta nelle loro preghiere, senza però mai porsi il problema che questo fenomeno andrebbe risolto alla radice: “ama il prossimo tuo come te stesso” dice il Vangelo. Se tu hai un tetto e una vita dignitosa non puoi pensare che basti distribuire qualche panino a persone che vivono nel freddo, nella solitudine, nel degrado umano e materiale. Né tantomeno basta organizzare i famosi pranzi di natale. Ho capito, ancora, che si spendono milioni per associazioni del terzo settore che dovrebbero prendersi cura di queste persone ma il cui operato è avvolto nelle nebbie… Ho capito che il laboratorio politico, la società costruita dal basso, l’attenzione verso gli ultimi e gran parte del blablabla che ci era stato promesso è restato sulla carta. Ho capito che molte persone fanno volontariato per alimentare il loro ego e per riempire i vuoti esistenziali o semplicemente perché hanno dei ritagli di tempo libero e facendo volontariato trovano un modo per passare il tempo e magari sentirsi migliori. Non ho capito, per esempio, perché non si possano aprire alcune delle circa 200 chiese chiuse e abbandonate e ciononostante i ripetuti appelli del papa ad aprire chiese e conventi ai diseredati. Non ho capito perché non si possa usare una parte del patrimonio immobiliare comunale (c’è chi parla di circa 60.000 immobili) per togliere dalla strada queste persone. Non ho capito perché il mendicicomio di via Cristallini (7.000 metri totalmente ristrutturati) sia in uno stato di abbandono da diversi anni. Non ho capito perché nessuna delle strutture occupate della nostra città si sia aperta all’accoglienza stabile e all’integrazione di sia pur poche persone sottratte alla vita di strada. Non ho capito perché non si riesce a creare un osservatorio laico sulla povertà, non un ennesimo carrozzone politico ma un organismo snello che non preveda remunerazioni ma che sia aperto alle realtà che operano sul territorio. Non ho capito perché se in altre città italiane sono partiti progetti di accoglienza in appartamento di due o tre o quattro persone senza fissa dimora questo non sia possibile anche nella nostra città. Non riesco a capire dove sono gli assistenti sociali. Non riesco a capire perché il Comune non si faccia promotore di accordi con la chiesa e con i servizi di salute mentale per sferrare un’offensiva contro la povertà estrema per dare una ultima chance ai tossicodipendenti, alcolizzati, malati mentali che popolano le nostre strade abbandonati da dio e dall’uomo. Non riesco a capire perché non si possano creare alcuni laboratori artigianali per offrire una possibilità di lavoro a queste persone a cui basterebbe guadagnare 400-500 euro al mese per poter iniziare un cammino di recupero della propria dignità. Mi genera sofferenza vedere che ogni anno si ripete la solita pagliacciata di aprire una o due stazioni della metropolitana per affrontare “l’emergenza freddo” che emergenza non è perché per chi non lo sapesse il freddo arriva puntuale tutti gli anni. Quello che riesco a capire, invece, è che è incapace e colpevole una classe dirigente che non si preoccupa di un paese spaccato in due: da una parte i ricchi, sempre più ricchi, dall’altra le famiglie che vivono nel disagio grave, i giovani privati del futuro, i disoccupati, gli ex detenuti, i senzatetto. *Ex presidente Associazione Volontari Napolinsieme Firenze: “Women In Transition”, oggi presentazione progetto per donne in carcere controradio.it, 8 febbraio 2019 Venerdì 8 febbraio alle ore 10 presso la Sala delle Collezioni del Consiglio Regionale della Toscana (via Cavour 18, Firenze) la Società della Ragione presenta il progetto pilota di empowerment per donne detenute “Women In Transition - WIT” sostenuto dall’Otto per mille della Chiesa Valdese nelle carceri di Firenze e Pisa. Il Progetto WIT si colloca in continuità con una ricerca fra le donne detenute condotta nel 2013 dalla stessa Società della Ragione. Quella ricerca centrava sulla differenza femminile, come osservatorio per leggere la realtà del carcere e proporre azioni di trasformazione valide per donne e per uomini. “Focalizzare la differenza femminile significa innanzitutto non fermarsi alla rappresentazione unilaterale della debolezza/fragilità femminile, ma vedere anche l’aspetto della forza, ossia delle risorse che la soggettività femminile è in grado di mettere in campo.” spiega il comunicato della Società della Ragione. “Da qui ha preso spunto il progetto di azione WIT con interventi pilota di laboratori di self empowerment. Si è voluto indagare - continua la nota - anche il punto di vista degli operatori del carcere. Il doppio sguardo, delle donne e degli operatori, ha avuto lo scopo di illuminare la risposta ambientale, del contesto carcerario, al self empowerment. Sono state così individuate delle difficoltà che si oppongono al movimento empowering come il meccanismo di minorazione/infantilizzazione, conseguente alla dipendenza totale delle donne dagli operatori per qualsiasi aspetto della vita quotidiana”. La Società avanza una proposta, visti i buoni risultati ottenuti con le detenute degli istituti di Firenze-Sollicciano e Pisa-Don Bosco, ad altri istituti giudiziari, Regione ed Enti locali affinché vengano promosse occasioni formative “trasversali” su un nuovo modello di carcere “risocializzante e responsabilizzante”. Sui beni comuni la bussola resta la Commissione Rodotà di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 8 febbraio 2019 Si addensano nubi a sinistra anche sul tema dei beni comuni. Una delle categorie giuridiche innovative. È in nome dei beni comuni, infatti, che si sono sviluppate lotte che hanno permesso di contrastare le politiche più filo-liberiste dei governi dell’ultimo decennio. Basta ricordare come, dopo la “Commissione Rodotà”, nel 2011, un referendum vittorioso pose al centro del dibattito la questione della necessità di preservare alcuni beni e garantirne l’uso al di fuori delle logiche di mercato e di profitto. L’acqua-bene comune non fu solo uno slogan, ma un modo per cercare di affermare un uso delle risorse al fine essenziale di garantire diritti fondamentali delle persone. Fu aperto un grande laboratorio per l’innovazione culturale, ma anche una faticosa battaglia politica. Le difficoltà si manifestarono subito: due mesi dopo i referendum un decreto legge tentò di ripristinare le stesse norme appena cancellate dal corpo elettorale, e solo un provvidenziale intervento della Consulta permise di lasciare aperta la partita. Da allora un disegno di legge sui servizi pubblici idrici giace in Parlamento, in attesa di essere approvato. Ma quel che più rattrista è che lo scontro ha ormai investito gli stessi fautori del cambiamento, dividendo proprio quei soggetti critici che dovrebbero esprimere la massima attenzione per l’istituzionalizzazione di beni extra-commercium posti al servizio dei diritti fondamentali delle persone. Alcune diversità - in realtà - avevano avuto modo di manifestarsi da tempo. La seconda Commissione Rodotà, che nel 2013 attraversò l’Italia partendo dal Teatro Valle Occupato, si concluse con un nulla di fatto, registrando sensibilità differenti (il lettore del manifesto ricorderà articoli polemici molto espliciti, scritti dai protagonisti di quella esperienza). C’era, però, almeno una sensazione comune tra i partecipanti: si stava marciando tutti verso una medesima direzione. La lotta al neoliberismo dominante si accompagnava alla consapevolezza della difficoltà di elaborare un nuovo paradigma generale. Oggi invece assistiamo alla diaspora e alla perdita della visione in comune. Si è passati, in sostanza, da un confronto dialettico aperto, per molti aspetti assai proficuo, alla unilateralità delle diverse posizioni. Facendo fare enormi passi indietro alla definizione di una categoria di beni che “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. Così alcuni immaginano che i beni comuni (il cui impianto culturale si rivelerebbe addirittura “succube al paradigma liberista”) possano rappresentare un cavallo di troia per la svendita del patrimonio e degli spazi pubblici; altri enfatizzano i rischi legati ad una supposta burocratizzazione e i vincoli prodotti dai criteri contabili internazionali che l’istituzione dei beni comuni deve contemplare; altri ancora, all’opposto, collegano forzatamente la lotta per i “beni comuni” ad ulteriori finalità politiche, in particolare immaginando un’indeterminata ed ossimorica “istituzione costituente a diritto invariato”; in diversi, infine, si preoccupano del rischio di uno stravolgimento dei principi e criteri direttivi che potrebbe compiere questo governo una volta che fosse investito del potere delegato. Tutti convinti sostenitori delle proprie verità assolute. Ed invece dovremmo ritrovare un terreno di dialogo. Tutti con maggiore umiltà, consapevoli che i beni comuni rappresentano una sfida che può essere raccolta solo se riusciremmo a proporre una rivoluzione antropologica, prima ancora che politica o culturale. Una lunga marcia per affermare una nuova concezione del diritto che ponga alcuni beni al servizio dei diritti fondamentali delle persone. Proprio quella rivoluzione già scritta, ma non ancora realizzata, nell’articolo 2 della nostra costituzione. È entro questa comune visione complessiva che possono trovare ascolto le diverse questioni che oggi agitano il dibattito e che - a ben vedere - sono sempre state parte del dialogo sui beni comuni. Da sempre ci si è domandati se l’attribuzione al demanio necessario garantisca a sufficienza questo genere di beni ovvero se è possibile anche una titolarità, non tanto a privati, quanto a comunità d’utenti a cui possono essere trasferiti servizi pubblici generali ai sensi dell’articolo 43 della costituzione; è giusto interrogarsi sulla collocazione dei beni comuni nella tensione mai risolta tra Stato comunità e Stato persona giuridica; dovremmo anche immaginare nuovi strumenti giuridici per favorire la partecipazione popolare, magari senza farsi troppe illusioni sulle virtù dell’azionariato popolare. L’estensione della categoria ha rappresentato il vero punto dolente del dibattito sin qui sviluppato: tra i “minimalisti” (acqua, foreste e poco più) e “massimalisti” (gran parte dei diritti civili e sociali, dei beni urbani e culturali, dei beni materiali e proprietari) si rischia di perdere il fondamento costituzionale che rappresenta l’unico possibile ancoraggio per dare seguito alla “ragionevole follia” dei beni comuni. Ci si dovrebbe sedere attorno ad un tavolo per riflettere e poi riprendere la faticosa marcia verso una nuova definizione dei beni al servizio dei diritti fondamentali. Invece, negli ultimi tempi si assiste allo spettacolo della delegittimazione reciproca. Da questo gioco al massacro ne usciremmo tutti malconci. Più divisi e soli di prima. Un invito alla responsabilità comune e una preghiera: non dissipiamo inutilmente la lezione di Stefano Rodotà - il padre riconosciuto dei beni comuni - il quale ci ha indicato una rotta, sta a noi percorrerla. Un lascito di cui nessuno può ritenersi unico interprete, ma che tutti rischiamo di perdere. Migranti. Il Consiglio d’Europa all’Italia: “non ostacolare le Ong” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 febbraio 2019 Lettera al premier Conte per sollecitare il rispetto del diritto all’accoglienza e l’apertura dei porti. Primi trasferimenti al Cara di Mineo. Il sindaco a Salvini: “Non potete lasciarci qua le macerie”. Nel giorno in cui anche al Cara di Mineo iniziano i trasferimenti dei migranti verso altri centri in vista della chiusura del più grande centro per richiedenti asilo d’Europa, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, scrive una lettera al premier Conte, dicendosi “preoccupata” per le possibili “ripercussioni del decreto sicurezza sul diritto di accesso all’accoglienza e ai servizi essenziali, come salute e educazione, per i residenti che hanno un permesso di soggiorno per motivi umanitari e dalle sconcertanti informazioni che indicano che un certo numero di loro sarebbero a rischio di restare senza un alloggio”. Ma non solo. Da Strasburgo arriva un esplicito invito a non ostacolare il lavoro delle Ong. Tra le misure che preoccupano molto il commissario ci sono anche quelle “che ostacolano e criminalizzano il lavoro delle Ong che giocano un ruolo essenziale nel salvataggio di vite in mare” e il fatto che “le responsabilità per le operazioni di ricerca e salvataggio siano state lasciate ad autorità che sembrano riluttanti o incapaci di proteggere i migranti salvati dalla tortura o trattamenti inumani e degradanti”. La “apparente fretta” e le “brusca” modalità del “trasferimento” dei residenti del Cara di Castelnuovo di Porto in altre strutture “compromette i significativi investimenti fatti per la loro integrazione”. La commissaria di Strasburgo concede che “ ridurre l’uso dei Cara potrebbe essere un fatto positivo”, ma è necessario garantire ai residenti dei centri un’”adeguata accoglienza” in altre strutture per “rispettare la dignità umana” dei migranti. Mijatovic si dice inoltre “profondamente preoccupata” riguardo alle “recenti misure che ostacolano e criminalizzano il lavoro delle ong, che svolgono un ruolo fondamentale nel salvare vite umane”. A tal fine, la commissaria chiede al governo italiano che i diritti umani delle persone soccorse in mare “non siano mai messi a rischio a causa degli attuali disaccordi tra gli stati membri riguardo al loro sbarco, e che le considerazioni umanitarie siano sempre una priorità”. A differenza di quanto successo nelle scorse settimane per la chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto dove nel giro di pochi giorni sono stati messi in strada migranti regolari con permesso di protezione umanitaria e trasferite fuori dal Lazio anche famiglie con bambini che frequentavano la scuola di Castelnuovo, per Mineo il prefetto di Catania ha disposto con largo anticipo un piano di trasferimenti in strutture vicine lasciando per ultime le famiglie in modo da consentire ai bambini che frequentano l’anno scolastico a Mineo di poter tranquillamente concludere l’anno. Oggi i primi trasferimenti riguardano 50 migranti, tutti uomini: 25 destinati a Trapani, 15 a Siracusa e 10 a Ragusa. Fuori dal Cara nessuna protesta. Chiede invece un incontro al ministro Salvini il sindaco di Mineo, Giuseppe Mistretta: “Io sono sempre stato contrario al Cara, sono d’accordo per la sua chiusura, ma lo Stato non può lasciare qui le macerie che ha creato. Noi siamo martiri e mi meraviglio che adesso si intesti la battaglia per la chiusura del Cara chi è stato il carnefice del territorio - Chiedo al ministro Salvini di incontrarmi per tutelare il territorio sia economicamente sia sul fronte della sicurezza. Non vogliamo soldi, ma è dal 2014 che chiediamo l’istituzione della Zona Franca per la fiscalità di vantaggio per il territorio”. L’Italia volta le spalle al patto Ue per una difesa comune di Francesca Sforza La Stampa, 8 febbraio 2019 Tra i primi Paesi a cui i francesi avevano pensato, nel lanciare “L’Iniziativa europea d’intervento” promossa dal presidente Emmanuel Macron nel settembre 2017 c’era il gruppo dei fondatori, Italia in testa. Un’iniziativa che avrebbe dovuto favorire una cultura strategica europea, e rafforzare la capacità degli europei ad agire insieme, creando le condizioni per azioni coordinate nei diversi scenari di guerra. Un progetto di difesa, dunque, riguardante un tema che sembrava stare a cuore a molti governi europei, indipendentemente dal loro colore: la sicurezza. Il condizionale però in questo caso non è corretto, perché l’Iniziativa è partita, ed è stata firmata da nove Paesi : Germania, Belgio, Danimarca, Spagna, Estonia, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna e Finlandia. Perché l’Italia no? Nelle scorse settimane, prima che il richiamo dell’ambasciatore Christian Masset spostasse l’asse dell’attenzione, e anche l’asticella dello scontro, la diplomazia francese ha cercato in più occasioni - e a vari livelli - di portare il governo italiano su questo punto, e chi ha avuto occasione di parlare con gli sherpa che avevano in mano il dossier ne racconta in primo luogo, lo smarrimento e la sorpresa: perché gli italiani non partecipano? Che cosa c’è dietro questa tendenza all’isolamento? Una cosa sono le esternazioni politiche finalizzate a raccogliere il consenso interno, un’altra sono le questioni importanti, quelle che riguardano la protezione e la sicurezza dei cittadini. Quale miope strategia può far prevalere le prime sulle seconde?, si chiedevano con insistenza a Parigi. La cornice di governance dell’Iniziativa europea d’intervento (IEI) prevede incontri ogni sei mesi e delinea quattro i campi di azione: l’anticipazione strategica delle crisi, gli scenari d’intervento, il sostegno alle operazioni, lo scambio di informazioni e la condivisione degli orientamenti. In questo modo - nell’intenzione degli ideatori - si accresce la capacità degli europei di cooperare insieme, si sviluppa nel lungo termine una cultura strategica comune, e senza voler entrare in collisione con la Nato o con gli altri progetti Ue, si promuove la credibilità militare dell’Europa e se ne rafforza l’autonomia strategica. Con la firma del Trattato di Aquisgrana, il 22 febbraio scorso, Francia e Germania hanno siglato anche un’intesa sul tema della Difesa, di cui la IEI è un segmento. In Italia, da più parti, sono state sollevate delle obiezioni, tutte ispirate a un generale risentimento, soprattutto nei confronti dei francesi, per essere stati esclusi dalle cooperazioni rafforzate, in particolare per ciò che riguarda i temi della Difesa. È stata ricordata l’arroganza di Parigi nella vicenda degli Airbus, il comportamento nei confronti del lanciatore italiano Vega con Ariane, la storia Fincantieri-Snx e persino l’Agenzia Spaziale Europea. Legittime preoccupazioni riguardavano le cooperazioni franco-tedesche su Fcas ed elicotteri. A maggior ragione, che strategia è quella di tirarsi fuori dall’unico tavolo in cui queste cooperazioni sono chiamate a un confronto multilaterale, tanto che persino gli inglesi in odore di Brexit hanno pensato di aderirvi? Se l’Italia sceglie una “Sonderweg” sulla Difesa, oltre che sulla politica, gli altri certo non smetteranno di lavorare: proprio ieri i due ministri della Difesa tedesco e francese hanno ufficializzato l’inizio del progetto dello Scaf (Sistema di combattimento aereo del futuro), che consiste nella concezione di un nuovo caccia militare di ultima generazione. Le implicazioni di quest’intesa non sono semplici, tanto che anche gli americani stanno seguendo gli sviluppi con qualche perplessità (in quel segmento la leadership spetta ancora agli F35 di Lokheed Martin). Sicuramente se ne parlerà al tavolo dell’Iniziativa Europea d’Intervento. E l’Italia non sarà lì a dire la sua. Italia, Niger, democrazia e commercio di armi. Il senso di un trattato e due brutte notizie di Raul Caruso* Avvenire, 8 febbraio 2019 Finalmente, grazie alle istanze promosse dalle associazioni Asgi e Cild, è stato reso noto il testo del trattato tra Italia e Niger in cui una parte sostanziale è dedicata alla promozione dei nostri sistemi d’arma nel Paese africano. Questo conferma la tendenza oramai consolidata di una politica estera italiana orientata in maniera significativa a favorire le esportazioni dell’industria militare nazionale. Nessuna novità e nessuna sorpresa se ricordiamo che Leonardo (già Finmeccanica) e Fincantieri sono aziende controllate dallo Stato. Quello che però dobbiamo ricordare è che storicamente il controllo pubblico delle imprese produttrici di armamenti aveva la sua ragion d’essere nelle esigenze di sicurezza dello Stato e la politica industriale in ambito militare seguiva la politica estera. Oggi la situazione sembra capovolta, l’industria militare contribuisce a dettare l’agenda della politica estera o quantomeno la nostra diplomazia è a disposizione delle esigenze industriali in ambito militare. Ci si ritrova, purtroppo, a confermare due brutte notizie di cui sovente si è scritto su queste pagine. In primo luogo, la qualità della nostra democrazia si sta deteriorando. Come sottolineato anche da altri osservatori in Italia e negli altri Paesi europei, infatti, la sistematica mancata applicazione della normativa nazionale e degli accordi internazionali di limitazione delle esportazioni di armamenti sta rafforzando un processo di negazione se non rimozione delle finalità di pace e diffusione della democrazia caratterizzanti le nostre istituzioni. Su questo, peraltro, nello scorso novembre lo stesso Parlamento europeo si è espresso in maniera durissima, stigmatizzando il comportamento della maggior parte degli Stati membri. La domanda, purtroppo retorica, è infatti quale sia la qualità di una democrazia quando un’azienda di Stato viene messa nelle condizioni di poter arrivare a non rispettare leggi approvate o trattati ratificati da Parlamenti democraticamente eletti e quindi rappresentativi della volontà popolare. Nel caso specifico del trattato con il Niger il fatto che alcune associazioni di privati cittadini abbiano dovuto presentare un’istanza al Tar per conoscere i contenuti di un accordo internazionale non fa altro che confermare questa tendenza in atto di scadimento della nostra democrazia. La seconda brutta notizia riguarda evidentemente il futuro delle nostre alleanze politiche a livello mondiale. Quanto più la politica estera è suggerita dall’industria militare, infatti, tanto più le alleanze con i nostri partner tradizionali sono a rischio. È chiaro infatti che i competitor delle nostre imprese non sono altro che imprese di Paesi nostri alleati. Invero ogni governo, nel favorire le proprie imprese, si pone in competizione anche strategica con Paesi tradizionalmente alleati. Legami e alleanze politico-militari che hanno garantito anni di pace e sicurezza rischiano di saltare. Come invertire questa perniciosa tendenza centrifuga? Almeno per quanto riguarda i Paesi europei, in primo luogo, bisogna portare - senza ulteriori indugi - al centro del dibattito pubblico la creazione di un’Agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti anche con poteri sanzionatori. Inutile porsi dubbi. Questa sarebbe l’unica politica con qualche efficacia. Attualmente, gli Stati europei sono produttori ed esportatori di armi ma, nel contempo, dovrebbero anche svolgere la funzione di controllori. Evidentemente una situazione che impedisce un reale controllo. Un’Agenzia indipendente oltre a costituire un organo di controllo, in termini più ampi rappresenterebbe de facto un avanzamento sostanziale nel processo di realizzazione dell’Unione Europea poiché esso comincerebbe finalmente a dare concreta realizzazione all’art. 21 del trattato sull’Unione in cui si statuisce che i princìpi di azione devono essere il mantenimento della pace, il sostegno alla democrazia e il rispetto dei diritti umani. Un’innovazione istituzionale di questo tipo, infatti, darebbe un contributo sostanziale alla diffusione della pace anche al di fuori dei confini dell’Unione attraverso la limitazione del mercato degli armamenti. *Economista della pace e della sicurezza Università Cattolica del Sacro Cuore Libia. La Srebrenica del Mediterraneo e l’Occidente lo capirà troppo tardi di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 8 febbraio 2019 Un rapporto Onu documenta torture, stupri, schiavi. Come in Bosnia, preferiamo non vedere. Un ragazzo, scappato dal mattatoio somalo e passato per un lager di Kufra, l’ha spiegata con quella sintesi che si raggiunge solo attraverso il dolore : “Che tu sia un rifugiato o un migrante, in Libia sei sempre spaventato. Devi dormire con un occhio aperto. Vieni venduto da un trafficante all’altro”. Poche parole da merce umana, così efficaci da finire in cima a un capitolo del dossier, il quinto, “Viaggio dall’inferno”. Quel dossier tutt’altro che inedito, 61 terribili pagine redatte lo scorso dicembre, grava da un mese e mezzo sulle coscienze dell’Occidente. E, come tutte le colpe che appaiono senza redenzione, tende a essere rimosso. Si chiama Desperate and dangerous: report on the human situation of migrants and refugees in Lybia, ed è firmato da due organismi dell’Onu: l’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) e la Missione di supporto in Libia (Unsmil). Consta di 1.300 interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018 nelle visite di 11 centri di detenzione: non tutti e certo nemmeno i peggiori. Cade due anni dopo un analogo rapporto (dicembre 2016) in cui l’Onu dava l’allarme su una situazione umanitaria totalmente fuori controllo. Ora scopriamo che in questo periodo le “autorità libiche si sono dimostrate incapaci o del tutto refrattarie a mettere fine alle violenze e agli abusi contro migranti e rifugiati”. Quelle 61 pagine contengono in sé un paradosso: perché l’Onu, svelando gli orrori libici, confessa una inanità nel contrastarli che potrebbe infine diventare vergogna, in una sorta di Srebrenica mediterranea dove massacrata non è una singola nazionalità per la sua appartenenza religiosa (allora, i bosniaci musulmani) ma un’intera categoria umana: i fuggiaschi dell’Africa. Omicidi, fosse comuni nel deserto, stupri seriali e di gruppo su donne anche incinte o su mamme che allattano, bambini massacrati davanti ai genitori, ragazzi seviziati a morte in collegamento video coi parenti che devono pagarne la liberazione, schiavismo, lavori forzati, celle da centinaia di posti senza una latrina, denutrizione, bruciature con ferri roventi, cavi elettrici ai genitali, unghie strappate. Il paragone con Srebrenica non appare poi forzato. Si muore di fame e di setticemia. Si resta in detenzione senza motivo e all’infinito: una legge coniata da Gheddafi fa considerare schiavi i migranti illegali, i governanti fantoccio di adesso non l’hanno mai cambiata. Cosa più importante, l’Onu ha “credibili informazioni” sulla complicità di “ufficiali dello Stato… gruppi formalmente integrati nelle istituzioni, rappresentanti del ministero degli Interni e della Difesa, nel traffico di migranti e rifugiati. Questi personaggi dello Stato si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e le estorsioni a danno di rifugiati e migranti”. Cade il velo sulla menzogna della Libia come “porto sicuro” dove plausibilmente ricondurre i migranti respinti in mare. Unhcr e Unsmil hanno registrato 53.285 richiedenti asilo fermi in Libia quattro mesi fa, ma sostengono che il numero sia enormemente più alto data l’estrema difficoltà per le Nazioni Unite ad assolvere sul posto al proprio mandato. A gennaio il segretario generale Antonio Guterres ha inviato al Consiglio di sicurezza una relazione di 15 pagine (acquisita dalla Corte penale internazionale dell’Aja) in cui spiega che lì i migranti sono quasi 700 mila (10% donne, 9% bambini) ma in mano alle “autorità” è solo una minoranza, di tutti gli altri non si sa quasi nulla, sono in centri di detenzione inaccessibili, gestiti da gruppi armati. Nel rapporto Unhcr-Unsmil si sostiene anche che “nonostante la diminuzione degli arrivi in Italia nel 2018, il viaggio è diventato più pericoloso, con oltre 1.200 migranti morti nei primi otto mesi dell’anno scorso durante la traversata”. La guardia costiera libica (che ha preso il controllo di 94 miglia nautiche di Sars) è descritta come una compagnia di pirati in base a decine di testimonianze che parlano di uso delle armi, collisioni in mare coi boat people, vere aggressioni. Sulla terraferma, Bani Whalid, Sabha, Kufra, Buraq al Shati, Shwerif, Sabratah non sono, secondo l’Onu, centri di raccolta ma sostanzialmente campi di sterminio gestiti da kapò di cui si conoscono persino i nomi e i nomignoli, famigerati tra le loro vittime: Moussa e Mahmoud Diab, Mohamed Karongo, Gateau, Mohamed Whiskey, Rambu… Le aste degli schiavi furono documentate dalla Cnn in uno sconvolgente servizio nel novembre 2017. Le prigioni “alternative” sono hangar o cantine da 700 o 800 anime stese le une sulle altre, donne e uomini in totale promiscuità: niente acqua né luce. “A Shwerif ti sparano in una gamba e ti lasciano dissanguare se non paghi… Per spingerci a pagare hanno picchiato mio figlio di 5 anni con una spranga sulla testa”, narra un profugo del Darfur. I miliziani camminano sul ventre di donne incinte. Una tra mille racconta: “Vengo dall’Eritrea, sono entrata il Libia a gennaio 2017, sono stata rapita tre volte e portata ad Al Shatti, Bani Walid e al-Khoms. Lì eravamo 200 in una stanza. Non potevamo respirare né allungare le gambe. Ogni notte sono stata violentata da almeno sei uomini, alcuni libici, altri africani, per cinque mesi. Mia madre ha dovuto vendere la casa e impegnare tutto per pagare i 5.000 dollari che questi volevano. Ora sono incinta di uno degli stupratori”. Nulla di tutto ciò è, in assoluto, una rivelazione. Anche se il catalogo degli orrori è così vasto da stordirci. A questi orrori dobbiamo l’enorme (per quanto provvisorio) beneficio di non avere sulle nostre coste, in qualche settimana, fiumi di disperati detenuti lì senza ragione e senza scadenza. Ma certi benefici possono dannare. Se l’Onu non è una di fabbrica di fake news (e ci sarà chi lo afferma, ne siamo sicuri) la Libia è uno stato canaglia o, meglio, una federazione di bande criminali. Certo, la realpolitik ci consiglia di voltarci altrove o, addirittura, di spalleggiare una delle bande in lotta. Ma i fantasmi di Bosnia hanno accompagnato la mala coscienza dell’Occidente per due decenni. Davvero dobbiamo considerare la Libia come un buco nero, come suggeriscono pragmatici strateghi? E quanto a lungo ci potrà proteggere la realpolitik? Al posto di guardia Onu di Srebrenica, un graffitaro cambiò la scritta “United Nations” in “United Nothing”. Se la storia insegna qualcosa, è che chi non combatte gli assassini, alla fine, ne è complice. Montenegro. Strasburgo denuncia violenze della polizia nelle carceri Ansa, 8 febbraio 2019 Rapporto Consiglio d’Europa chiede interventi immediati. “Le persone arrestate in Montenegro corrono ancora un rilevante rischio di essere maltrattate dalla polizia” e il rischio sussiste anche per quanti sono detenuti nelle prigioni del Paese. È quanto denuncia il Cpt, organo anti tortura del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto sulla visita condotta nell’ottobre 2017. Nel documento il Cpt dice di essere anche “molto critico del fatto che le persone arrestate continuano in sostanza a non avere accesso a un avvocato e che le condizioni delle celle nelle stazioni di polizia restano inadatte per detenzioni lunghe 72 ore”. L’organo di Strasburgo chiede che “queste due questioni siano risolte urgentemente”. Per quanto riguarda le prigioni il Cpt, oltre ai maltrattamenti fisici subiti dai detenuti, denuncia anche la pratica per cui diversi carcerati sono fissati a un letto con manette di ferro ai polsi e alle caviglie per diversi giorni. Il Cpt dice che “le autorità devono mettere fine a questa pratica” e trovare anche soluzioni per ovviare al fatto che i detenuti sono chiusi in celle di sotto gli standard per 23 ore al giorno per mesi e anni. Stati Uniti. Il business sicurezza nelle scuole di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 8 febbraio 2019 Dopo le stragi e nonostante le proteste, non è stato posto alcun limite alla circolazione delle armi. Però cresce rapidamente l’affare della sorveglianza elettronica e aumentano i dubbi che questo fenomeno suscita. In Tennessee, nella contea di Wilson, a poche miglia da Nashville, la protezione degli scolari da possibili stragi della follia o del terrorismo è affidata a un uso penetrante delle tecnologie digitali: telecamere nelle classi e tutta l’attività degli alunni sul web sorvegliata dalla polizia 24 ore su 24. In America questo è solo un caso tra mille: la blindatura elettronica delle scuole si diffonde ovunque. La rivoluzione digitale, lo sappiamo da tempo, cambia inesorabilmente i nostri comportamenti, i gesti di tutti i giorni. Ma a volte è l’incapacità di governare strumenti dal sapore antico - le armi da fuoco, acciaio e polvere da sparo - a far straripare le tecnologie digitali producendo sistemi di sorveglianza spesso estremi e inquietanti. Dopo la strage di Parkland, in Florida (17 morti), gli studenti di tutti gli Usa scesero in piazza per chiedere drastiche riduzioni degli arsenali delle famiglie (300 milioni di armi da fuoco). Un anno dopo non è stato introdotto alcun limite. In compenso lo sceriffo della contea ha annunciato di essere corso ai ripari installando 12.500 telecamere. Il sovrintendente scolastico ha dato alla polizia libertà d’accesso a tutti i video, compresi quelli ripresi negli istituti. Ed è in arrivo un nuovo sistema “intelligente” di analisi delle immagini: algoritmi che selezionano possibili comportamenti anomali. Casi simili emergono ovunque. Con qualche variante, come quella della scuola elementare di Artesi, in New Mexico. Microfoni wireless in tutte le aule: registrano gli spari ed entro 20 secondi la polizia può bloccare tutte le porte. Col rischio di impedire la fuga anche agli studenti. E anche di usare le registrazioni per altri fini: prevenzione del bullismo a cose meno nobili. Efficace o no, questo business della sorveglianza elettronica crescerà al galoppo: la domanda è alimentata dal panico delle famiglie mentre l’offerta è sostenuta anche dall’ingresso nel nuovo mercato, fino ieri fatto solo di start up, dei giganti Amazon, Ibm e Microsoft. Le associazioni per i diritti civili protestano: temono un new normal fatto di sistemi di sorveglianza ubiqui capaci di controllare pure lo stato d’animo e la concentrazione degli studenti. Cina docet: lì nelle classi arrivano sistemi di riconoscimento facciale, detti di sorveglianza emotiva: analizzano le espressioni dei ragazzi, fino a prevedere il loro profitto scolastico con algoritmi che misurano impegno e determinazione.