Il 41bis tra “aree riservate” e reiterazione del provvedimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2019 Rapporto del Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà. Sono 748 (tra cui 10 donne) i reclusi sottoposti al regime speciale e 5 gli internati in casa di lavoro. soltanto 363 (4 donne) hanno una posizione giuridica definitiva. Altro che ammorbidimento del 41bis attraverso la Circolare che puntava ad uniformarne le regole! Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà, in alcuni istituti penitenziari l’adozione di tali regole interne risultano eccessivamente dettagliate su aspetti quotidiani che vanno anche oltre le già minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017, su cui peraltro il Garante stesso aveva espresso a suo tempo alcune riserve. Situazioni soggettive relative alle reiterate proroghe del regime in controtendenza alla sentenza della Consulta del 1993 e all’inserimento di taluni in “aree riservate” che finiscono per costituire un regime nel regime. Parliamo delle analisi delle sezioni speciali e criticità rese pubbliche attraverso il rapporto dal Garante nazionale. Alla data della redazione del presente Rapporto le persone detenute sottoposte a tale regime sono 748 (tra cui 10 donne); gli internati in Casa di lavoro e sottoposti allo stesso regime sono 5. Del totale delle persone detenute in regime speciale, soltanto 363 hanno una posizione giuridica definitiva (i rimanenti sono in posizione mista o in misura cautelare). Soltanto 4 donne sono in posizione definitiva. Non deve essere un “carcere duro” - Il Garante nazionale non entra nel merito della normativa del 41bis, ma “si focalizza sulla valutazione di come la sua applicazione rispetti i parametri di legittimità indicati dalla Corte costituzionale e altresì di come la sua reiterazione, spesso per un numero cospicuo di anni, a carico della singola persona, possa esporsi al rischio di incidere sull’inderogabile principio di tutela dei diritti umani di ogni persona, indipendentemente dal suo status di libertà o detenzione, nonché dei diritti fondamentali che, pur nei limiti oggettivi posti dalla situazione privativa della libertà e in regime particolare, non cessano di essere tutelati dalla nostra Carta costituzionale”. Il Garante ci tiene molto al linguaggio. Raccomanda di non definire mai tale regime il “carcere duro”, perché ciò potrebbe far pensare che il 41bis abbia misure afflittive in più e potrebbero far pensare che tale regime abbia una finalità diversa da quella prevista dalla normativa e che sia utilizzato come “incoraggiamento alla collaborazione”. Sappiamo che la finalità del 41bis dovrebbe essere un’altra, ovvero “volta a far fronte a specifiche esigenze di ordine e sicurezza, essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti fra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli appartenenti a tali organizzazioni ancora in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi - come l’esperienza dimostra - attraverso l’utilizzo delle opportunità di contatti che l’ordinario regime carcerario consente e in certa misura favorisce (come quando si indica l’obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno)”. La doppia pena delle aree riservate - Più volte il Garante ha messo all’indice tale punizione che risulta essere, di fatto, un super 41bis. Tali sezioni sono separate dalle altre che accolgono le persone sottoposte a tale regime e sono destinate alle figure ritenute apicali dell’organizzazione criminale di appartenenza. Il Garante spiega che si tratta di 14 “Aree”, distribuite in 7 Istituti, in cui alla data di redazione del Rapporto (3 gennaio 2019) risultano ristrette 51 persone (solo 30 di 21 di esse sono in posizione giuridica definitiva). Non vi è dubbio che si tratti di persone il cui profilo criminale richiede particolare attenzione e condizioni di massima sicurezza, “tuttavia - si legge nel Rapporto -, si potrebbe osservare che tale richiesta rientra nella stessa definizione dell’ambito di applicazione del regime speciale, senza bisogno di ulteriori specialità”. Risulta che tale modalità applicativa a volte porta a un quasi sostanziale isolamento della persona detenuta. Per evitare la violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’area riservata anche un altro detenuto, sempre in regime speciale, che non avrebbe titolo a starvi ma che svolge una funzione “di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi. “Soluzione - denuncia il Garante - che determina l’applicazione di un regime particolare del tutto ingiustificato a una seconda persona oltre a quella destinataria della specifica cautela”. Il Garante raccomanda, quindi, che si ponga fine alla previsione delle aree riservate all’interno degli istituti che ospitano le sezioni del 41bis. La crescente reiterazione dell’applicazione del 41bis - Nel corso delle visite, il Garante nazionale ha riscontrato numerosi casi di persone sottoposte al regime del 41bis da oltre 20 anni e ha verificato la ricorrenza nei provvedimenti di proroga di motivazioni che sostanziano il fondamento della reiterazione nella “assenza di ogni elemento in senso contrario” al mantenimento di collegamenti con l’organizzazione criminale operante all’esterno. Nei provvedimenti di proroga i riferimenti frequenti sono il reato “iniziale” per cui la persona è stata condannata e la persistente esistenza sul territorio dell’organizzatone criminale all’interno del quale il reato è stato realizzato. Ma il Garante sottolinea che la concreta operatività dei decreti di proroga è esposta al rischio di disattendere le prescrizioni della Corte costituzionale che, a partire dal 1993 e costantemente, nelle successive pronunce, ha stabilito la necessità di adeguata motivazione per ogni provvedimento applicativo e per ogni decreto di proroga, affermando, come noto, che “ogni provvedimento di proroga delle misure dovrà recare una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire: non possono ammettersi semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte”. Il Garante nazionale raccomanda che non si protragga il regime speciale previsto dal 41bis fino al termine dell’esecuzione di una pena temporanea e che, al contrario, qualora nel periodo previsto per un eventuale rinnovo sia compreso il termine dell’esecuzione penale, si eviti la reiterazione “dando così la possibilità all’Amministrazione penitenziaria di progettare percorsi che gradualmente accompagnino alla dimissione, utili al positivo reinserimento sociale nonché maggiormente efficaci per la tutela della sicurezza esterna”. Sepolti vivi in carcere: i 51 detenuti fantasma che non vedono la luce di Luca Fazzo Il Giornale, 7 febbraio 2019 In Sardegna hanno celle sotterranee dove stanno chiusi 23 ore su 24. La domanda inevitabile è: fin dove ci si può spingere? Può un paese civile, in nome della lotta al crimine, seppellire degli uomini sotto il livello del suolo, come fanno a Bancali, il carcere-inferno vicino Sassari, dove hanno scavato nel terreno celle in cui la luce del giorno non entra mai? Lì sotto vivono 87 dei 748 italiani che per lo Stato sono il piano più alto del crimine. Sono i detenuti sottoposti al 41bis, il carcere duro che dai tempi della strage di Capaci viene usato per spezzare i legami con l’esterno degli uomini del clan: ma anche per fiaccarne la resistenza, per spingerli alla resa. Ed è già un regime difficile da sopportare, fatto di regole stringenti e anche di divieti apparentemente assurdi. Eppure per una piccola parte di loro, lo Stato ha deciso di andare più in là. Sono i cinquantuno sepolti vivi. È un rapporto choc, quello che il Garante nazionale dei detenuti ha consegnato nei giorni scorsi al ministero della Giustizia sulla vita quotidiana nei reparti del 41bis. E il capitolo più urticante è quello sulle “aree riservate”, quelle dei sepolti vivi. Quattordici aree, sparse in sette carceri, per ospitare i cinquantuno irriducibili. Trenta di loro sono condannati con sentenza definitiva. Ventuno sono ancora in attesa di giudizio. Ma per tutti loro il ministero ha stabilito che anche dal 41bis riuscirebbero a mandare ordini all’esterno. Per questo, scrive il Garante, nei loro confronti “si applica un regime detentivo di ancor maggior rigore rispetto a quello del 41bis”. Per quattro di questi detenuti, la conseguenza è l’isolamento totale. Chi sono? L’elenco ufficiale non esiste. Un nome che sicuramente fa parte della lista dei 51 è quello di Michele Zagaria, il capo del clan dei casalesi, condannato all’ergastolo. E nelle stesse condizioni ci sono i padrini della Cupola di Cosa Nostra e alcuni boss della ‘ndrangheta. “Apicali”, li definisce il ministero. I criteri di scelta li riassume così il Dipartimento della amministrazione penitenziaria nella risposta al Garante: “In tali sezioni vengono allocati detenuti che, in virtù del loro carisma e della carica rivestita nell’ambito dell’organizzazione criminale possono ricreare situazioni di supremazia e di sopraffazione nei confronti degli altri detenuti di minor spessore criminale”. L’obiettivo, insomma, è impedire che continuino a comandare anche in carcere. Per questo, le celle delle “aree riservate” sono organizzate in modo da impedire qualunque contatto visivo con gli altri detenuti, anche fuggevole: perché anche da piccoli segnali, mandati passando in corridoio, il boss può ricevere un messaggio. Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo proibiscono di mantenere per lunghi periodi in totale solitudine i detenuti, per questo a ogni ospite delle “aree riservate” viene affiancato un detenuto che gli faccia compagnia. Secondo i vertici del ministero, i quattro boss che sono in isolamento totale lo sono per scelta loro: “hanno scelto di vivere la propria detenzione in stato di isolamento volontario e periodicamente viene proposto l’inserimento in un gruppo di socialità che viene puntualmente rifiutato”. Per tutti i cinquantuno delle “aree riservate” l’isolamento si aggiunge alle norme già ferree del 41bis, sulle quali il Garante è tornato a avanzare dubbi respinti in blocco dal ministero. Alcune di queste norme appaiono giustificate dalle esigenze di sicurezza, altre appaiono inspiegabili e quasi grottesche. Nel carcere di Cuneo si possono comprare due gelati per volta, ma è proibito metterli in frigo: bisogna mangiarli contemporaneamente. A Novara non si può andare a fare la doccia con l’accappatoio e l’asciugamano: o uno o l’altro. All’Aquila è proibito andare all’aria con i sandali infradito. Nei reparti del 41bis le padelle possono avere al massimo 22 centimetri di diametro e si possono tenere al massimo quattro libri. Le fotografie non possono essere più grandi del formato 20x30 perché, spiega il ministero, in caso contrario “i detenuti più abbienti e con posizione di supremazia si doterebbero di formati più grandi rispetto agli altri. Inoltre formati grandi possono essere esposti in cella e visibili dalle celle speculari o da detenuti in transito trasmettendo così messaggi criptici”. La necessità di impedire il passaggio di comunicazioni in codice giustifica anche il divieto per i familiari di presentarsi ai colloqui indossando qualunque capo marchiato o griffato, perché anche i loghi potrebbero contenere un messaggio. Per lo stesso motivo, proibite le etichette sulle bottiglie d’acqua. Il limite più pesante, quello che condiziona maggiormente la vita quotidiana in cella, è quello all’ora d’aria. Per legge, i detenuti al 41bis hanno diritto al massimo a due ore di “passeggio” al giorno, ma spesso in pratica neanche a quelle. Colpa, scrive il ministero, “dei limiti strutturali di taluni istituti”. Di fatto, in molti casi si resta chiusi in cella ventitré ore su ventiquattro. È difficile immaginare come a uomini detenuti in queste condizioni sia possibile dimostrare ancora il loro potere. I cinquantuno del Gotha, secondo il ministero, però potrebbero farcela. Così il loro destino è l’“area riservata”, il livello più estremo della condizione carceraria. Qualcuno regge, qualcuno si rifugia in un mondo suo, qualcuno si ammazza. La richiesta del Garante è una sola: le “aree riservate” devono essere chiuse. Video di Battisti. Salvini e Bonfede verso l’archiviazione, l’inchiesta prosegue sul Dap di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2019 Non ci sono soltanto Alfonso Bonafede e Matteo Salvini. Anche il Capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, è finito nell’indagine della Procura di Roma nata dopo un esposto che riguardava il video dell’arrivo a Ciampino del latitante Cesare Battisti, catturato il 13 gennaio scorso a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. Anche Basentini era indagato per aver concorso nel reato di abuso d’ufficio contestato inizialmente al Guardasigilli e al vicepremier leghista. Per tutti, comunque, la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione e mandato dieci giorni fa gli atti al Tribunale dei ministri che ora dovrà decidere se condividere l’impostazione dei pm capitolini e archiviare o chiedere l’autorizzazione a procedere nei confronti dei due ministri. Parallelamente in Procura è stato aperto un altro fascicolo, ma per omissione di atti d’ufficio. L’obiettivo è valutare se vi siano state responsabilità nell’Amministrazione del Dap: erano tenuti a impedire la realizzazione e la diffusione di quel video? Che vi fosse un’inchiesta a carico di Bonafede e Salvini lo ha rivelato ieri Il Giornale. Adesso si scopre che la vicenda riguarda anche l’attuale capo del Dap Basentini. Ma procediamo con ordine. L’indagine è stata aperta a Roma dopo l’esposto di un avvocato di Catanzaro. Qui si chiede di verificare se siano stati commessi reati con la pubblicazione nel video di circa 4 minuti sul profilo Facebook di Bonafede, in cui vi erano le riprese delle varie fasi dell’arrivo di Battisti comprese le procedure di foto-segnalamento effettuato negli uffici della Questura e quelle relative alle impronte digitali. “Era un riconoscimento al lavoro che aveva fatto la Polizia penitenziaria”, aveva commentato il ministro della Giustizia dopo le polemiche di quei giorni. Pure la Camera Penale di Roma (presidente l’avvocato Cesare Placanica) ha inviato un esposto ai Garanti della privacy e dei detenuti in cui si fa riferimento anche a quanto previsto dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul “divieto di trattamenti disumani e degradanti”. Come detto, in Procura arriva invece una denuncia di un legale calabrese. I magistrati prima decidono di iscrivere Bonafede, Salvini e Basentini e poi di archiviare. Secondo i pm è stato violato l’articolo 42 bis dell’ordinamento penitenziario che al comma 4 prevede che “nelle traduzioni siano adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”. Tuttavia non c’è il dolo: ossia la presunta violazione della norma non è stata commessa per provocare intenzionalmente un vantaggio, tantomeno arrecando danni ad altri. In questo caso Battisti. Insomma, il video aveva l’obiettivo di sottolineare la nuova efficienza dello Stato nella cattura dei latitanti. Quindi una motivazione politica. Per questo è stata chiesta l’archiviazione. Resta invece aperto a Roma un secondo filone di indagine: nella denuncia infatti si chiedeva anche di verificare se nell’amministrazione penitenziaria qualcuno avesse commesso il reato di omissione di atti d’ufficio non impedendo la realizzazione e la diffusione di quel video. La lotta alla corruzione e i poteri che cantone non ha più di Armando Spataro La Repubblica, 7 febbraio 2019 Il caso di Raffaele Cantone, che ha chiesto di rientrare nei ranghi ordinari della magistratura con implicita rinuncia - se la sua domanda per dirigere una Procura fosse accolta - all’attuale ruolo di presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), rimanda a un tema che da decenni, e almeno dall’epoca di Mani pulite, è al centro del dibattito politico e civile nazionale: quello del modo più efficace per contrastare e prevenire la corruzione. È opportuno mettere a fuoco, però, un argomento collegato: a chi tocca punire questi reati e a chi attuare i controlli per prevenirli? Cantone, pur con sobrie parole, ha lasciato intravedere l’esistenza di vedute divergenti rispetto a quelle del governo, almeno con riferimento all’innalzamento fino a 150.000 euro, disposto con l’ultima legge di bilancio, della soglia di valore entro la quale le Pubbliche amministrazioni possono direttamente affidare pubblici appalti a privati senza seguire le procedure previste dal Codice, approvato da larga maggioranza nel 2016. L’altro punto di dissenso riguarda l’affermazione del ministro dell’Interno di voler “stracciare” proprio il “Codice degli Appalti”. Cosa sottintendono queste due scelte del governo (una attuata e l’altra programmata)? Da un lato l’insofferenza a rigidi controlli legali in quanto lacciuoli che frenerebbero il mercato a causa del formalismo da cui sarebbero afflitti e, dall’altro, la fede nella quasi assoluta discrezionalità politico-amministrativa che è oggetto di mitizzazione in altro settore, quello dell’immigrazione. Ma le cose non stanno affatto così, pur se è vero che in ogni settore legislativo è possibile un’opera di semplificazione: pare che sia semplificabile - dicono alcuni studiosi - perfino la Costituzione! La verità è che dall’epoca di Mani pulite sono stati varati nel campo del contrasto della corruzione, ciascuno con motivazioni autoesaltanti delle rispettive maggioranze di governo, numerosi provvedimenti legislativi cui hanno poi fatto seguito critiche, aggiustamenti e condoni. Il terreno è arduo per tutti, al di là delle formule usate per celebrare le storiche vittorie, non sempre caratterizzate da stile istituzionale: da ultime “legge spazza corrotti”, con logo di accompagnamento “è finita la pacchia”. I due punti critici messi in evidenza da Cantone presentano una comune contraddizione: come si può pensare di mettere in campo pene più severe per corrotti e corruttori (e misure che ne aggrediscono i patrimoni illeciti), rinunciando però ai controlli preventivi per evitare i reati? È dimostrato dai dati diffusi che la recente legislazione in materia di appalti non ha depresso investimenti e bandi e non ha affatto frenato l’economia nei suoi rapporti con la P.A.. Dunque, al di là delle modifiche che hanno semplificato le procedure burocratiche previste dal Codice degli Appalti, è possibile migliorare la situazione, innanzitutto dotando la P.A. di risorse umane e materiali, deficit di ogni struttura pubblica, e non certo da ora. Ma se non si è capaci di farlo, non è corretto preferire deroghe e scorciatoie, rinunciando ai controlli di cui ogni democrazia ha bisogno per garantire il bilanciamento tra poteri costituzionali e, dunque, l’eguaglianza tra cittadini. In sostanza, ogni sforzo è possibile per rendere le regole sempre più chiare e oggettive, ma è diverso dall’evocare scenari distruttivi affermando che il codice degli appalti “va stracciato” senza specificare quali pagine verranno riscritte e come. “Stracciare per fare cosa?” ha giustamente chiesto Cantone. Implicita l’allusione a evitare formule che possono apparire dettate da finalità elettorali e dalla ricerca di consenso delle imprese la cui maggioranza, fortunatamente, comprende il valore delle regole: riconoscere priorità nella concessione dei pubblici incarichi alle imprese che quelle regole rispettano. “Controllo” non è una parola malata e si riferisce a comportamenti che anche l’imprenditore deve tenere, persino per prevenire illeciti commessi a favore o a vantaggio della propria società. A meno di non volersi orientare verso lo stop alle opere pubbliche viste come mangiatoie per il malaffare. Ma non è questo che l’Italia può accettare. Ultima osservazione: la necessità di contenere la discrezionalità del governo e delle pubbliche amministrazioni non riguarda solo gli appalti, ma persino le nomine ai vertici degli enti pubblici, e non è frutto di un’opzione politica, ma di fedeltà ai principi costituzionali, a partire dai diritti fondamentali delle persone. La legge delimita l’esercizio di ogni potere discrezionale, affidando il controllo sulle possibili violazioni al Parlamento o alla Magistratura. Sine Justitia nulla libertas è la scritta sul palazzo di giustizia di Assen: sarebbe facile per tutti impararla a memoria. Non ne sarebbero contenti solo i latinisti e migliorerebbe la qualità di qualche tweet. Strage di Bologna, piste e fantasmi di Beppe Boni Il Resto del Carlino, 7 febbraio 2019 Mentre gli anni passano la notte della Repubblica si infittisce allontanandosi nel tempo e nella storia, sfumando volti e nomi di vittime e protagonisti dell’epopea terroristica. Ma a Bologna le fiammate di ricordi riemergono nel processo bis (dopo le condanne di Valeria Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini) con solitario imputato Gilberto Cavallini, anche lui ex militante della destra eversiva dei Nar. A 39 anni dalla strage della stazione riappaiono fantasmi già visti e messi da parte, come il possibile quarto uomo, e rivoli di indagine che portano alla riesumazione dei resti di Maria Fresu, una delle 85 vittime, quella più vicina all’esplosione. Servirà? La fragile speranza e che le analisi sui brandelli del corpo, attraverso le tecniche sofisticate di oggi, rivelino qualcosa in più sul tipo di esplosivo e sulla genetica del corpo che si presume della Fresu. O del possibile quarto uomo della strage, ipoteticamente sbriciolato dall’esplosione ma della cui presenza non c’è prova. Difficilmente la perizia su questi elementi porterà altra luce sulle indagini. Troppa acqua è passata sotto i ponti. Eppure è comprensibile che ogni aspetto riletto con la sensibilità di altri giudici vada esplorato. Non sempre è stato così, pero, in questa strage mai del tutto chiarita nella sua ideazione, nei mandanti, nella motivazione e nella dinamica. Troppe ombre e misteri hanno ballato nei decenni intorno alle 10.25 del 2 agosto, ora dell’Apocalisse. Poi ancora depistaggi, forzature politiche e cose non fatte che non hanno mantenuto sereno l’alternarsi di indagini e processi. Perché allora tirare in ballo il corpo della. povera Fresu e non interrogare in aula Carlos lo sciacallo, già evocato per la pista palestinese archiviata nell’indagine bis? Perché non scavare più a fondo sulla presenza a Bologna nel giorni della strage di Thomas Krain e Margot Frolich, campioni del terrorismo internazionale vicini ai palestinesi? Tutto fatto, dicono i giudici, con zero risultati. Sarà anche vero, ma la percezione è che la pista non sia stata percorsa con convinzione. Restano sullo sfondo dell’“altra verità” anche i messaggi da Beirut (1980) dei nostri servizi segreti che segnalavano, da fonti palestinesi, attentati in Italia. Di lì a poco seguirono il disastro di Ustica e la strage di Bologna. Ma i documenti sono coperti dal segreto di Stato. “Troppe scorte, il sistema va rivisto”. Le 600 tutele e l’affondo di Gabrielli Il Messaggero, 7 febbraio 2019 “Questo è un paese che ha troppe scorte, dobbiamo dircelo. Sono troppe e siccome le risorse sono poche forse una riconsiderazione la dobbiamo fare”. Il capo della Polizia Franco Gabrielli va dritto al cuore del problema. Per proteggere davvero chi è minacciato da mafie e criminali, è il suo ragionamento, è necessario che l’assegnazione dei servizi di tutela venga fatta non sulla base di “automatismi”, ma su una valutazione che prenda in considerazione non i “rischi possibili” ma i “rischi probabili” a cui la persona da proteggere è esposta. Il sistema va rivisto, avverte il Capo della Polizia. “Fuori da strumentalizzazioni, commenti da strada e automatismi per i quali l’incarico che si ricopre presuppone la scorta”, dice ancora Gabrielli sottolineando che su questo fronte non ci sono state pressioni da parte del ministro Matteo Salvini. “Ha un approccio assolutamente laico alla questione, non ha dato percentuali né ha suggerito approcci ragionieristici”. E d’altronde al Viminale ad una razionalizzazione dei dispositivi ragionano da mesi. Gli ultimi dati, che risalgono a novembre scorso, dicono che attualmente sono in vigore 585 scorte (quasi la metà per magistrati, poi leader politici nazionali e locali, dirigenti d’impresa, giornalisti e esponenti governativi), di cui 15 per personalità nei confronti delle quali c’è la massima allerta. Si tratta di un dispositivo che occupa complessivamente quasi 2.100 uomini e donne di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria. Alle 15 personalità con la massima protezione (171 agenti), ce ne sono altre 57 che hanno invece la protezione di secondo live110, vale a dire una scorta su auto specializzata (383 agenti in tutto) composta da più mezzi. Per altri 276 cittadini la tutela su auto specializzata è di terzo livello (823 agenti impiegati) e 237 hanno una tutela su auto non protetta, vale a dire una scorta di quarto livello che coinvolge 695 operatori. Processo a Salvini sì o no: e se fosse l’occasione per riflettere sul potere della magistratura? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 7 febbraio 2019 Può sembrare follia, ma quel che è accaduto nei giorni scorsi, con tre differenti sondaggi che danno percentuali altissime di sostegno a Matteo Salvini nel suo conflitto con un tribunale che lo vuole processare per sequestro di persona, mi ha riportato alla memoria vicende di trenta anni fa. La giustizia italiana aveva incisa sulla carne viva quella grande macchia che era il “caso Tortora” e il popolo intero andò a votare un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. E disse, quel popolo, che se un cittadino subisce un’ingiustizia, qualcuno, fosse anche un uomo in toga, deve pagare. Non sapevamo, in quel 1987, che solo cinque anni dopo la situazione si sarebbe ribaltata e che, con i processi politici di tangentopoli, ci saremmo avviati verso una repubblica giudiziaria che oggi ha persino il supporto del governo. Di questo governo fa parte anche Matteo Salvini. Che non è Enzo Tortora e che non ha subìto la sua stessa gogna mediatico-giudiziaria. Ma nessuno dei due era garantista “prima”. Tortora perché era un liberale moralista, Salvini perché sostanzialmente della giustizia e dello Stato di diritto gli importa poco, altrimenti oggi Giulia Bongiorno sarebbe guardasigilli. Il paragone tra i due è quindi improponibile. Ma ci sono quei sondaggi a dire a gran voce che il ministro degli interni non va processato, e lo dice anche gran parte degli elettori del Movimento cinque stelle, cioè del partito ispirato da quel magistrato che ritiene non esistano innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. Sarebbe illusorio pensare che siamo in presenza di una vera svolta culturale e non, ipotesi più probabile, di un sostanziale assenso della gran parte dei cittadini italiani rispetto alla politica sull’immigrazione del ministro Salvini e dell’intero governo. Le cose stanno così e probabilmente una insufficiente politica dell’assistenza e dell’integrazione da parte di troppi precedenti governi nei confronti delle situazioni di fragilità ha messo gli uni contro gli altri, e ci vorrà molto tempo per elaborare e superare. Ma questo conflitto politico-giudiziario che è oggi sotto i nostri occhi presenta aspetti del tutto nuovi e occasioni da non perdere. Il mondo politico intero va scoprendo che non è vero che “uno vale uno”, e persino che esistono le guarentigie e che queste sono cosa diversa da semplici privilegi. Riguardano anche i magistrati, tanto per dire, ad esempio sulla questione dell’inamovibilità. Hanno a che fare con il Presidente della repubblica, con i ministri, con i parlamentari. E con tanti altri. Hanno a che fare anche con la sicurezza: auto di servizio e scorte non sono privilegi ma necessità. Qualcuno ha mai più visto il Presidente della Camera andare in ufficio in autobus? No, e speriamo che Roberto Fico si sia soffermato e pensare perché non sarebbe opportuno. Il ministro Salvini ha dovuto prendere le distanze dal gigione Salvini mangiatore di nutella che voleva porgere il petto alle baionette, e ha cominciato a illustrarci l’articolo 96 della Costituzione (e speriamo che nel frattempo ne abbia letto qualcun altro, non solo il 68 sull’insindacabilità, ma magari anche il 25 sulla responsabilità penale) e far fruttare il suo liceo classico spiegando che manderà in giunta un suo intervento perché “scripta manent”. Commoventi sono poi gli interventi dei più accorti grillini. L’ex jena Dino Giarrusso gira le televisioni gridando che questo è un caso unico, come se Salvini fosse il primo ministro della storia a dover affrontare (forse) un processo. L’omonimo Giarrusso, senatore di ispirazione davighiana, componente della giunta che dovrà decidere in prima istanza (poi ci sarà l’aula) la sorte di Salvini, sta facendo campagna per il no, spiegando ai suoi più recalcitranti che per carità, no, non si tratta assolutamente di una forma di immunità. I componenti del governo, in coro, fanno autodenuncia, siamo tutti sequestratori di immigrati. Il che mi ricorda una manifestazione degli anni settanta intorno al carcere milanese di S. Vittore in cui si gridava (con meno ipocrisia) “siamo tutti delinquenti”, per protestare contro alcuni arresti politici. Ma se questa può essere l’occasione per indurre al ragionamento, ebbene, cogliamola. Il nostro direttore Sansonetti su questo giornale e Angelo Panebianco sul Corriere ci hanno provato. La sub- cultura delle manette è oggi in difficoltà. Non è facile spiegare il fatto che si possono aizzare i cani feroci contro tutti tranne che contro uno dei nostri. Ci si costringe quindi a usare il latinorum, cioè articoli e commi, a deglutire rospi e rosponi per non far uscire Salvini dal Senato in manette, per quanto metaforiche. E con l’ombra sinistra della legge Severino in agguato, in caso di condanna definitiva a pena superiore a due anni di reclusione. Senza sottovalutare, in caso di prevalenza dei no al voto d’aula, della possibilità da parte della magistratura di sollevare il conflitto di attribuzione e di finire quindi anche davanti alla Corte costituzionale. Benvenuto nel mondo della giustizia e delle ingiustizie, caro “governo del cambiamento”. L’autodifesa di Salvini: lo stop allo sbarco coerente con il contratto di governo di Andrea Colombo Il Manifesto, 7 febbraio 2019 Nella sua memoria il ministro dell’Interno accusa Malta e chiama in causa anche il dicastero di Moavero. Oggi il Movimento di Di Maio farà un passo avanti decisivo nella lunga marcia di avvicinamento al voto che negherà l’autorizzazione a procedere contro il ministro degli Interni per il sequestro di 177 migranti sulla nave Diciotti. I sette senatori pentastellati della giunta per le autorizzazioni riceveranno infatti stamattina, prima dell’inizio della seduta alle 8.30, la memoria preparata dal ministro Salvini e dalla sua legale, la ministra Bongiorno, corredata da due allegati, uno del premier Conte, l’altro del vicepremier Di Maio e del ministro Toninelli, in cui viene ribadita la decisione collegiale del governo in merito allo sbarco negato. Il pezzo forte però è l’autodifesa del ministro. È quella che dovrà convincere i pentastellati dell’esistenza di un “preminente interesse pubblico” a sostegno della scelta di Salvini e del governo. Il documento, dunque, evita meticolosamente non solo di entrare nel merito del reato contestato, ma anche di chiamare in causa la politica e neppure si sogna, come da indiscrezioni della vigilia,di attaccare la magistratura. Giulia Bongiorno, già artefice dell’assoluzione di Andreotti, si muove con perizia. La difesa è dunque rigorosamente “tecnica”, mira a dimostrare la presenza di una “esclusiva finalità di pubblico interesse”. Il ragionamento squadernato dal ministro tocca diversi punti ma parte dalle accuse rivolte a Malta, Paese al quale sarebbero spettati gli oneri di accoglienza ancora il 20 agosto, quando la nave attraccò nel porto di Catania, e che avrebbe “dirottato” la Diciotti verso l’Italia. Si era dunque creata una controversia internazionale che l’Italia ha affrontato nei limiti e nelle forme permessi dagli art. 11 e 117 della Costituzione. Restando all’interno di questa cornice, “il Governo ha posto in essere tutti gli strumenti di risoluzione del conflitto”, “per il tramite”, specifica la memoria e non a caso, “della branca dell’esecutivo a ciò deputata”, cioè del ministro degli Esteri Moavero che viene così direttamente chiamato in causa. In concreto, secondo Bongiorno il ministro difendeva la sovranità nazionale nel contenzioso con un altro Paese, ma senza esorbitare dai limiti fissati dalla Carta. L’asse centrale dell’arringa è però “la questione della redistribuzione dei migranti tra i vari Paesi europei”. È quello “il punto di partenza e di arrivo di ogni atto compiuto dal ministro” d’accordo con l’intero governo. Dopo aver doviziosamente citato il carteggio con l’Europa intrecciatosi in quei giorni la conclusione: la vicenda non può essere considerata se non all’interno della sua coerenza con “una politica dello Stato sui flussi migratori, peraltro risultante anche nel contratto di Governo”. Un’argomentazione a cui la difesa delega una doppia funzione: da un lato inquadrare la vicenda all’interno dell’esigenza - di interesse pubblico - della ripartizione dei flussi migratori; dall’altro mettere i senatori 5S di fronte a un voto sull’intera politica migratoria del governo. Ultimo punto, l’ordine pubblico. Posto che “l’indiscriminato accesso nel territorio dello Stato” costituirebbe, secondo l’autodifesa di Salvini, una minaccia per l’ordine pubblico e che “il caso di specie” rientra appunto nelle strategie di contrasto a quell’indiscriminato accesso, la decisione sulla Diciotti “costituisce già di per se stessa perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Quasi di sfuggita il documento segnala che identica tesi era stata esposta il 12 settembre scorso da Conte, a Parigi. Basterà a convincere i lacerati 5S? In questi casi, di solito, si convince chi voleva farsi convincere e viceversa. Ma la temperie nei ranghi, pur ancora divisi e tormentati, dei 5S propende ormai in maggioranza per l’interpretazione più favorevole al ministro. Quasi definitivo l’intervento di ieri di Di Maio: “Siamo sempre stati contro l’immunità parlamentare. Ma quello di Salvini è un caso specifico”. L’ultima parola non verrà pronunciata oggi. La base più rigida va portata ad accettare il voto contro l’autorizzazione dolcemente, senza forzature. Si attenderà la proposta del presidente della giunta Gasparri nella prossima riunione, poi la discussione. Ma alla fine il voto, salvo sorpresa, salverà il ministro. Impronte digitali per gli statali, il Garante della privacy boccia il ministro di Massimo Franchi Il Manifesto, 7 febbraio 2019 Soro contro la norma del ddl Concretezza: non rispetta le norme europee. La Fp Cgil: il ministro faccia marcia indietro. Il garante della Privacy stoppa la ministra Bongiorno sulle impronte digitali per i lavoratori statali. La rilevazione biometrica attraverso le impronte digitali e l’utilizzo di telecamere per combattere il fenomeno dell’assenteismo dei dipendenti pubblici, i cosiddetti “furbetti del cartellino”, secondo Antonello Soro “andrebbe riformulata” in quanto “incompatibile con la disciplina europea” ed anche per la sua “intrinseca contraddittorietà”. Durante l’audizione davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali e Lavoro della Camera a riguardo del disegno di legge Concretezza. Approvato dal Senato il 6 dicembre, prevede un giro di vite contro l’assenteismo nel pubblico impiego: si supera il vecchio badge sostituiti da controlli biometrici dell’identità usando le impronte digitali (l’identificazione facciale o dell’iride sarebbe troppo costosa) e sistemi di videosorveglianza. Secondo Soro però questi nuovi sistemi voluti dal ministro per la Pa Giulia Bongiorno andrebbero adottati “in presenza di fattori di rischio specifici, ovvero di particolari presupposti quali ad esempio le dimensioni dell’ente, il numero dei dipendenti coinvolti, la ricorrenza di situazioni di criticità che potrebbero essere anche influenzate dal contesto ambientale”, non in maniera generalizzata a tutte le pubbliche amministrazioni. Inoltre secondo il Garante “sarebbe opportuno modificare il testo prevedendo espressamente l’alternatività del ricorso alla rilevazione biometrica e alle video riprese”. Per Soro l’introduzione delle impronte “sarebbe difficilmente compatibile” con la normativa europea che le prevede solo in casi di necessità e proporzionalità, mentre i dati sul “fenomeno della falsa attestazione della presenza in servizio sono indubbiamente gravi ma non univoci, nè “sistematici e generalizzati”. I dati infatti per il 2018 rilevano “89 licenziamenti da accertamento in flagranza di falsa attestazione della presenza in servizio”, pari a solo “il 10 per cento dei provvedimenti di licenziamento disciplinare adottati nell’ultimo anno”. Le impronte sarebbero quindi da utilizzare “solo in presenza di fattori di rischio specifici qualora soluzioni meno invasive debbano ritenersi inidonee allo scopo”. Insomma, una bocciatura quasi totale dell’architrave del ddl. La risposta della ministra non si è fatta attendere. Su Twitter Bongiorno ricorda che il sistema studiato nel Ddl concretezza “trasforma le impronte digitali in codici alfanumerici che garantiranno la privacy del dipendente”, “su lotta ad assenteismo non si torna indietro, lo Stato ha il dovere di prevenire i reati. PA funziona solo se ciascuno fa il proprio dovere”, ha chiarito. Ma i sindacati si fanno subito sentire. “L’allarme lanciato dal Garante della Privacy è in linea con quanto da noi sempre sostenuto, il governo deve convocarci con urgenza per rivedere il ddl Concretezza, così come riflettere sul provvedimento che mira a introdurre strumenti di video sorveglianza negli asili e nelle case di cura”, attacca la Funzione Pubblica Cgil. “Si sta costruendo un clima di sospetto che mette all’indice i dipendenti pubblici, come se fossero una categoria pericolosa. È una grave responsabilità, quella del governo e che mira a criminalizzare i lavoratori dei servizi pubblici - continua la Fp Cgil. Le parole del Garante Soro dimostrano come l’impostazione sia totalmente errata e incompatibile con le norme europee, nonché contraddittorie. Il nostro obiettivo, che è quello di tutelare i diritti di chi lavora e di chi usufruisce del servizio, insieme all’esigenza di premiare adeguatamente chi fa il proprio dovere per contrastare abusi e furbetti, deve passare attraverso la responsabilizzazione dei dirigenti che devono sovrintendere i controlli, la sola impostazione percorribile”, chiude la Fp Cgil. Patteggiamento, confisca blindata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 5875/2019. No all’impugnazione del patteggiamento, nella quale viene contestata la misura di sicurezza. Lo chiarisce la Corte di cassazione, interpretando la novità in vigore da poco più di un anno che ha meglio delineato i casi in cui può essere oggetto di ricorso la sentenza di applicazione della pena concordata tra le parti. Oggetto del giudizio la richiesta di nullità della condanna patteggiata, in una vicenda di traffico di stupefacenti, per assenza di motivazione sulla confisca di una somma di denaro oltre a telefoni cellulari e un quantitativo di droga. La sentenza, la n. 5875 della Sesta sezione penale depositata ieri, prende in considerazione la modifica al Codice di procedura penale (articolo 448 comma 2 bis) introdotta dalla legge n. 103 del 2017, che ha escluso il vizio di motivazione dall’elenco delle ragioni che possono essere fatte valere in Cassazione. Conseguente allora il giudizio di inammissibilità del ricorso, anche se, va sottolineato, in questo modo ieri la Corte ha preso le distanze da un diverso orientamento seguito, per esempio, nella sentenza n. 30064 del 2018, che aveva invece aperto a un recupero del motivo di ricorso centrato sulla carenza di motivazioni per la misura cautelare (anche in quel caso una confisca). La Corte ritiene così che la legge del 2017, con la quale si è data per la prima volta una disciplina specifica al ricorso del patteggiamento, definisce un quadro normativo tassativo e in deroga ai casi di impugnazione “generali”, “anche in riferimento a punti della decisione, quale quello relativo all’applicazione delle misure di sicurezza (espressamente ricorribile solo in caso di illegalità della disposta misura), certamente estranei all’accordo tra le parti”. In questo senso, argomenta la Cassazione, vanno anche i lavori preparatori della riforma in vigore dall’agosto 2017 nei quali emergeva con chiarezza la necessità di una limitazione di casi di ricorso, molto spesso peraltro valutati come inammissibili. Di qui la determinazione di una lista circoscritta di motivi, di impossibile estensione. Del resto, la stessa categoria dell’illegalità, motivo per il quale invece il ricorso è ammissibile quanto alla pena, è una categoria assai più radicale, che sottolinea la radicale estraneità a sistema della misura di sicurezza. L’assenza di motivazione, invece, evoca una causa di illegittimità della sentenza di merito che può essere corretta, con una “tendenziale eterogeneità rispetto alla illegalità, categoria, robusta, che si caratterizza per l’irrimediabile deviazione della misura di sicurezza applicata dal rilevante modello tipico”. Bancarotta fraudolenta e sequestro dell’azienda del non indagato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2019 Solo se c’è la prova di un nesso di strumentalità con i reati. No al sequestro preventivo dell’intera azienda e delle quote sociali che appartengono a una persona estranea al reato, se manca la prova di un nesso di strumentalità tra la società e i reati contestati. Alla base del provvedimento, annullato dalla Cassazione, con la sentenza 5868, il fumus del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale contestata al fratello del ricorrente, accusato di aver “dirottato” verso la società del ricorrente, costituita a ridosso del fallimento, i beni della Srl “decotta”. Per il Tribunale il provvedimento impugnato era del tutto giustificato dall’insieme degli indizi raccolti. Il ricorrente, per salvare l’attività di famiglia, avrebbe distolto tutti i beni della società prossima al crac, in favore della compagine formalmente amministrata dal fratello e dai figli. Un modo per assicurare la continuità aziendale in frode ai creditori, senza lasciare traccia della cessione. Per la Cassazione però, al di là degli indizi, l’unica prova riguardava la distrazione di attrezzature per una somma di poco superiore ai 100 mila euro, mentre non c’erano evidenze della distrazione delle “rimanenze”, che superavano i 2 milioni di euro. Il provvedimento adottato - precisa la Cassazione - sarebbe stato giustificato solo da un nesso di pertinenzialità tra i beni in precedenza utilizzati dalla società fallita e quelli usati dalla società di “comodo”. I giudici ricordano che è legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società appartenente ad una persona estranea al reato solo se c’è un nesso di strumentalità tra questi e il reato contestato. Toscana: il Garante dei detenuti “recuperare il pensiero di Alessandro Margara” gonews.it, 7 febbraio 2019 “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione. Rileggendo Alessandro Margara”. Questo l’argomento al centro della due giorni che si apre venerdì 8 febbraio alle 14 nella sala Collezioni di palazzo Bastogi (via Cavour, 18) e prosegue sabato 9 al Cenacolo di S. Apollonia (via San Gallo, 25). Nell’incontro si discuterà “dell’uso populistico della giustizia penale e del carcere, quali armi contro i nemici sociali” e si parlerà del tema “dell’uso simbolico del penale messo in relazione al declino del sociale e all’incapacità della politica di governare la società moderna”. Si affronterà poi l’argomento, ripercorrendo le idee di Alessandro Margara, il magistrato ispiratore della riforma penitenziaria che fu sempre in prima linea per i diritti delle persone private della propria libertà. Per “ripartire dalla Costituzione”, seguendo il suo pensiero, si presentano due questioni di fondo: l’intreccio tra penale e politica e il significato che la giustizia e il carcere hanno assunto nel senso comune. Dal dibattito su questi temi, sviluppato in un incontro in occasione del secondo anniversario della morte di Alessandro Margara, è scaturito l’impegno per un convegno nazionale, ispirato al suo pensiero e alla sua opera. Il convegno è stato preparato attraverso “laboratori” tematici, per raccogliere il più largo contributo di idee e favorire la maggiore partecipazione possibile. A portare i saluti istituzionali saranno il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, e il presidente della Regione, Enrico Rossi. L’introduzione è affidata al garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Tra gli interventi: Beniamino Deidda e Antonietta Fiorillo e si parlerà dell’esito dei laboratori tematici su “Città e sicurezza”, “Opg e Rems”, “41bis e ergastolo”, “Droghe e carcere”, “Gli spazi della pena”, “Donne e carcere”, “Alternative al carcere, giustizia di comunità e giustizia minorile” e “Immigrazione e sicurezza”. L’incontro proseguirà sabato alle 9.30 al Cenacolo S. Apollonia (in via San Gallo, 25) con le relazioni “Meno stato e più galera” di Luigi Ferrajoli; “Moralità e diritto” di Tamar Pitch; “Il carcere dopo Cristo” di Stefano Anastasia. Alle 15.30 avrà luogo la tavola rotonda sul tema “La giustizia nella crisi della democrazia: un manifesto per ripartire dalla Costituzione”, coordinata da Laura Zanacchi. Il prologo del convegno, venerdì mattina alle 10 nella sala delle Collezioni di palazzo Bastogi, con la presentazione del progetto di empowerment women in transition-wit “Donne in carcere”, promosso dalla Società della Ragione. All’incontro intervengono Sofia Ciuffoletti di Altro Diritto, Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria, Letizia Sommani della Chiesa Valdese. Presenti anche le curatrici del progetto Serena Franchi, Liz O’Neill, Susanna Ronconi e Grazia Zuffa. Il progetto WIT si colloca in continuità con una ricerca fra le donne detenute condotta nel 2013 dalla stessa Società della Ragione. Quella ricerca centrava sulla differenza femminile, come osservatorio per leggere la realtà del carcere e proporre azioni di trasformazione (valide per donne e per uomini). Focalizzare la differenza femminile significa innanzitutto non fermarsi alla rappresentazione unilaterale della debolezza/fragilità femminile, ma vedere anche l’aspetto della forza, ossia delle risorse che la soggettività femminile è in grado di mettere in campo. Da qui ha preso spunto il progetto di ricerca-azione WIT, con una parte di ricerca qualitativa, svolta fra le donne detenute e con interventi pilota di “laboratori” di self empowerment, rivolti alle donne detenute degli istituti di Firenze-Sollicciano e Pisa-Don Bosco. Campania: il Garante “familiari vittime criminalità portino testimonianza nelle carceri” agvilvelino.it, 7 febbraio 2019 Confronto con garante detenuti e assessore Roberti presso casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Nell’ambito del progetto “I Mercoledì dì evasione”, promosso dall’associazione La Mansarda,presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua vetere,si è tenuto un incontro sul tema: “legalità, responsabilità e giustizia riparativa”, a cui hanno partecipato il Procuratore Capo della Repubblica Santa Maria Capua Vetere Maria Antonietta Troncone, più di cento detenuti, volontari delle associazioni che operano nell’ambito e gli studenti della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Vanvitelli di Caserta. Hanno partecipato al dibattito, presieduto da Samuele Ciambriello, Garante delle persone private della libertà personale, Franco Roberti, Assessore Regionale alla sicurezza, politiche integrate di sicurezza e legalità; Marco Puglia, Magistrato di sorveglianza; Susy Cimminiello e Carmela Sermino, due testimonianze di familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata, che ad oggi sono 475 in Campania, su un totale in Italia di 1000 persone, dati presi da un elenco Nazionale dell’ Associazione Libera e della Fondazione polis della Regione Campania. Partendo da questi dati, Ciambriello ha sottolineato: “i numeri che sono tendenzialmente in crescita per gli omicidi di criminalità comune/femminicidi che si registrano ogni anno. Da diversi anni invito, come presidente dell’Associazione “La Mansarda” e recentemente come Garante delle persone private della libertà personale, i familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata, a portare la loro testimonianza negli istituti penitenziari, rendendo possibile un incontro tra vittime e carnefici, un modo per parlare di giustizia riparativa e non un incontro di falso buonismo, ma un’ opportunità per metabolizzare il dolore, il lutto ed anche per stigmatizzare la “mala-vita” che non è una madre premurosa o un una madre severa. Le occasioni come questa sono opportunità di intercessione, di spazi protetti, luoghi d’incontro, non per il perdono giudiziale, ma un’ opportunità per effettuare una mediazione”. Durante la manifestazione, Roberti, assessore regionale e già procuratore nazionale antimafia ha evidenziato che la Regione Campania assicura che i beni confiscati abbiano pieno utilizzo attraverso finalità sociali e di valorizzazione del territorio dove sono situate ed il massimo in questo importante settore. Tema rimarcato anche da Puglia per il quale “la legalità va promossa attraverso diversi canali. Questo momento di dibattito è uno di quelli”. È intervenuta, poi, Elisabetta Palmieri, direttrice del Carcere di Santa Maria Capua Vetere: “abbiamo attivato un protocollo d’intesa con l’Università Vanvitelli di Caserta, attraverso il quale gli studenti fanno tirocinio all’interno del nostro penitenziario. L’Associazione La Mansarda, all’ interno delle iniziative sociali e di formazione che si svolgono in questo carcere, ha un ruolo importante attraverso i propri operatori e volontari”. A testimoniare questa realtà c’è stata Dea Pisano, volontaria de “La Mansarda” che ha specificato: “attualmente all’interno di questo penitenziario abbiamo in essere tre progetti: uno riguarda la genitorialità, uno che coinvolge i detenuti nel reparto psichiatrico Nilo ed un ultimo in sinergia con gli studenti dell’ Università Vanvitelli”. In conclusione sono intervenute Susy Cimminiello, sorella del tatuatore Giancarlo Cimminiello e Carmela Sermino, moglie del carrozziere di Torre Annunziata Giuseppe Veropalumbo, parenti di vittime innocenti della camorra, che hanno portato la loro testimonianza e soprattutto hanno voluto dare un messaggio di speranza. Trento: la Camera penale “serve un piano per il carcere” rainews.it, 7 febbraio 2019 Il piano per i detenuti a Spini di Gardolo: servizio psichiatrico, reinserimento lavorativo, più misure alternative alla detenzione. Parla l’avvocato Filippo Fedrizzi, presidente della Camera penale di Trento. “Non sottovalutate le criticità del carcere”: il monito è del presidente della Camera penale di Trento, l’avvocato Filippo Fedrizzi, preoccupato per la sicurezza: “Un ambiente - dice - dove non ci sia rieducazione, diventa humus pericoloso per il radicalismo religioso. Possono accadere eventi ben più gravi della protesta di dicembre”. Che la situazione nel carcere di Spini di Gardolo sia difficile lo dimostra la rivolta dei detenuti del 22 dicembre e la recente protesta degli agenti di polizia penitenziaria del Sinappe. Già, la rivolta di dicembre: da allora era in isolamento, per avervi preso parte, uno dei due detenuti che hanno tentato di impiccarsi lo scorso fine settimana. “Un quarto della popolazione del carcere di Trento ha gravi problemi psicologici. Per seguirli tutti - continua Fedrizzi - non basta uno psichiatra per sei ore soltanto a settimana, come avveniva fino a poco tempo fa”. La richiesta all’Azienda sanitaria è quella già fatta in passato da Claudio Agostini, psichiatra che insieme agli altri due medici del carcere si è dimesso nei giorni scorsi: un centro diurno, con servizio medico e psichiatrico, per far fronte alle esigenze dei 270 detenuti, spesso alle prese con problemi di dipendenza, e poi l’assistenza medica notturna. Al tribunale di sorveglianza, l’appello a valutare in alcune occasioni misure alternative al carcere. “Il tempo di detenzione medio è di 8-10 mesi”, precisa il presidente della Camera penale di Trento. “Si tratta di piccoli reati - aggiunge - e inoltre per i detenuti il tasso di recidiva è del 68%, mentre cala al 29% in caso di pene alternative”. Poi l’idea di coinvolgere Confindustria e Confcommercio: “Un paio di educatori non bastano - spiega - bisogna abituare i carcerati a lavorare, riabituarli ad affrontare la vita fuori”. E ancora: “Possiamo fare le carceri più belle del mondo e farne in gran numero, ma senza personale qualsiasi progetto rieducativo è destinato a fallire”. Cagliari: detenuti oltre il limite della capienza “difficile per chi lavora e per chi è recluso” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 7 febbraio 2019 561 posti, la presenza di detenuti ha raggiunto quota 586 con 22 donne e 140 stranieri (pari al 23,8%). “Ancora una conferma negativa per la Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove al 31 gennaio 2019 a fronte di 561 posti la presenza di detenuti ha raggiunto quota 586 con 22 donne e 140 stranieri (pari al 23,8%). Una realtà complessa in cui convivono ristretti in regime di alta sicurezza, ergastolani, detenuti comuni e circa un 30% di persone con gravi disturbi psichici, dell’umore e borderline ma dove il numero degli operatori Agenti Penitenziari, Educatori, Psicologi e Psichiatri non è adeguato ai bisogni”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, commentando i dati diffusi dal Ministero che fotografano la realtà detentiva isolana al 31 gennaio 2019 evidenziando “la difficile situazione per chi deve scontare la pena e chi lavora quotidianamente nella struttura”. I numeri - “Nei dieci istituti penitenziarie dell’isola - sottolinea Caligaris - complessivamente sono ospitati 2150 detenuti (36 donne) 691 stranieri (32,1%) a fronte di una capienza regolamentare teorica di 2706 posti, dal momento che alcune sezioni sono chiuse per ristrutturazioni o per inagibilità. Si tenga altresì conto che in Sardegna sono presenti solo 1.056 detenuti isolani mentre i restanti (1.094) nella maggior parte dei casi sono stati trasferiti in Sardegna da altre regioni”. “La situazione nelle altre strutture restrittive - osserva la presidente di SDR - è stabile con valori prossimi ai posti regolamentari, eccetto nelle Colonie dove è evidente una significativa presenza di stranieri. In particolare ad “Is Arenas” (Arbus) 80 stranieri su 102 presenti (78,4%), Mamone-Onanì 151 su 197 (76,6%), Isili 60 su 101 (59,4%). Resta incomprensibile nelle Colonie Penali il divario tra posti disponibili 692 a fronte di quelli utilizzati (400) in spazi in cui potrebbero trovare lavoro molti detenuti”. “A caratterizzare la detenzione in Sardegna - rileva ancora Caligaris - è la percentuale di ultra settantenni. Il quadro ministeriale al 31 dicembre 2018 presenta infatti un quadro inequivocabile. Mentre in numeri assoluti con 44 anziani l’isola si colloca all’ottavo posto. Il dato in percentuale la colloca al secondo posto ex aequo con l’Emilia Romagna (2%), entrambe le regioni sono precedute dall’Abruzzo (2,3)”. “L’ultimo dato interessante nella Sardegna fotografata dal Ministero è quello in base al titolo di studio. Mostra, al 31 dicembre 2018, una bassissima percentuale di laureati (23) e diplomati (201) tra i detenuti. Emerge per contro una prevalenza di quelli in possesso del diploma di scuola media inferiore (703), di licenza elementare (304), oltre a quelli (29) senza titolo e 21 analfabeti. Dati interessanti sui quali occorre riflettere anche per individuare - conclude la presidente di SDR - le iniziative da assumere per rendere la presenza nelle carceri dell’isola davvero utili per il reintegro sociale di chi ha commesso un reato”. Firenze: finita la pena rimane in carcere per 13 giorni “detenzione illegittima” di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 7 febbraio 2019 Aveva finito di scontare una pena per duplice omicidio lo scorso 23 gennaio, ma non era stato ancora rimesso in libertà. Tredici giorni di “detenzione illegittima”, secondo il Garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone e l’avvocato difensore Michele Passione, che sono finiti martedì sera con la liberazione dal carcere di Massa Marittima disposta dopo un intervento del presidente del Tribunale di Sorveglianza: “Una svolta arrivata forse proprio perché avevano annunciato un incontro pubblico su questo caso clamoroso”, dice Corleone. Per l’uomo, in carcere per circa 15 anni, il magistrato del Tribunale aveva disposto una misura di sicurezza di tre anni in una Rems, sulla base di una perizia di molti anni prima in cui era stato giudicato socialmente pericoloso. In attesa però che nella struttura in Piemonte in cui sarebbe dovuto andare si liberasse un posto, l’amministrazione penitenziaria aveva ordinato di trattenerlo in carcere. “La denuncia fatta per detenzione illegittima contro il codice penale è contro i valori della Costituzione - afferma il garante - e rappresenta a conferma che la grande riforma della chiusura del manicomio giudiziario deve essere accompagnata da una riforma che chiarisca tutti gli aspetti per non creare situazioni di incertezza”. Ora l’uomo, dopo 13 giorni dal termine della pena, è libero e attende la decisione nel merito perché il Tribunale di sorveglianza che si è pronunciato in via d’urgenza disponendo la sospensione dovrà verificare se sussistano ancora i presupposti della sua pericolosità e se quindi dovrà andare nella Rems o revocare la misura. “Questo è un caso esemplare - ha spiegato Corleone - per rendere evidenti le incongruenze di una legge che dopo la chiusura degli Opg presenta molte contraddizioni. Chi ha scontato la pena non può restare in carcere e l’amministrazione penitenziaria deve liberarlo”. Asti: non funzionano i televisori in cella, protesta dei detenuti di Alta Sicurezza La Stampa, 7 febbraio 2019 Nuova protesta nel carcere di Asti. Circa 35 detenuti del circuito ad alta sicurezza, ristretti nella terza sezione della Casa Reclusione di Asti, hanno dato luogo ad una protesta collettiva rumorosa sbattendo sui cancelli e sulle inferriate delle rispettive celle perché, a loro dire, non funzionavano le tv. A denunciare l’episodio è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci. “Si tratta dell’ennesimo episodio, dopo la gravissima aggressione subita da un agente che in quell’occasione aveva riportato ingenti lesioni - osserva Beneduci - La Direzione della struttura, per sua stessa ammissione, non ha neanche aperto la procedura obbligatoria dell’azione disciplinare nei confronti dei 40 detenuti che prima delle feste natalizie si erano resi protagonisti della protesta e per 5 ore si erano rifiutati di entrare in cella”. Per Beneduci “è indispensabile che il Provveditorato Regionale e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ciascuno per proprio conto, assumano urgenti iniziative nei confronti di una Direzione il cui permissivismo e la cui accondiscendenza nei confronti della locale popolazione detenuta appaiono la principale causa degli atteggiamenti, anche violenti, assunti dai reclusi”. Firenze: seminario sul rischio di radicalizzazione islamica nelle carceri italiane di Ezzelino da Montepulico firenzepost.it, 7 febbraio 2019 Protagonista il segretario generale della Confederazione islamica italiana. Nel leggere quasi giornalmente le espulsioni di stranieri per rischio terrorismo, i lettori più attenti avranno certamente notato che una buona parte dei provvedimenti colpiscono individui che si sono radicalizzati in carcere. Per questo si è ritenuto opportuno informare meglio gli operatori carcerari in modo da porli in grado d’intervenire in modo opportuno al fine di prevenire questo rischio. Comprendere i segnali di allarme legati al rischio radicalizzazione e sapere come reagire è stato lo scopo di una serie di lezioni sulla Radicalizzazione violenta nel sistema penitenziario italiano organizzate a Firenze nell’ambito del progetto europeo Fair (Fighting against intimates” radicalisation) e rivolte agli operatori degli istituti penitenziari. In questo modo la nostra città si è posta all’avanguardia a livello italiano in quest’importante azione di prevenzione. Chi meglio di Massimo Abdallah Cozzolino, segretario generale della Confederazione islamica italiana, poteva intervenire a Tal proposito, e a Firenze ha affermato: “Il rischio di radicalizzazione è alto - ha detto tant’è vero che l’amministrazione penitenziaria ha posto una serie di organizzazioni, di strutture, di occasioni di formazione per il personale. Bisogna essere vigili attenti, da parte della comunità occorre favorire l’ingresso di persone competenti, parlo di predicatori che possano offrire una sorta di sostegno personale, psicologico e religioso adeguato”. Nel suo intervento Cozzolino ha parlato della radicalizzazione dei detenuti di fede islamica e quali possono essere i segnali di alert per porre la dovuta attenzione a certi soggetti e fenomeni, andando oltre la semplificazione del chi pratica è radicale, non è così essere praticante anzi può essere un antidoto. Agli operatori presenti, Cozzolino ha spiegato che “c’è una pluralità di segnali e fattori, ma senz’altro l’elemento di contrapposizione che si stabilisce tra il detenuto e i compagni di cella, o gli operatori, è un elemento di allerta importante”. In questo modo, approfondendo tali argomenti, possiamo trovare le coordinate per interpretare questo fenomeno e avere misure di prevenzione e capire come agire. Per intanto continuiamo a sperare che l’azione d’intelligence dei nostri servizi, della magistratura e delle Forze di polizia continui a funzionare in modo egregio, in attesa di avere un numero ancor più grande di operatori particolarmente qualificati in questo importante settore. Catanzaro: quando l’arte è libertà e voglia di cambiare di Maria Rita Galati Corriere della Calabria, 7 febbraio 2019 Al via nel Palazzo della Provincia la mostra che raccoglie opere realizzate da alcuni detenuti del carcere “Caridi”. Monsignor Bertolone: “Un’azione è libera e giusta se fa bene agli altri”. Quando l’arte diventa strumento per parlare agli altri, per mostrare il lato più intimo di un’anima fragile, l’opera che prende forma diventa “espressione di libertà”. E se un pezzo di legno riciclato può diventare qualcosa di buono, si può capire che “come cambiamo il legno certamente cambiamo anche noi”. Lo racconta uno dei detenuti ospiti della casa circondariale “Ugo Caridi” che ha seguito il corso voluto dalla direttrice Angela Paravati, raccogliendo l’invito dell’Unitalsi di Catanzaro: una esperienza di vita e di formazione diventata una mostra all’insegna della solidarietà e dell’umanità. L’esposizione dal titolo “Arte è libertà”, che raccoglie opere in legno realizzate dai detenuti della Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, sarà ospitata dal 13 al 16 febbraio nel Palazzo della Provincia. La mostra, frutto della sinergia tra istituzioni e mondo del volontariato, ha una finalità benefica, perché le opere realizzate dai detenuti - in totale 42 - saranno messe in vendita e il ricavato sarà destinato a scopi solidaristici, tra cui il finanziamento di un viaggio a Lourdes per famiglie o persone in stato di disagio. L’iniziativa è stata illustrata nella Sala Giunta di Palazzo di Vetro alla presenza dell’arcivescovo metropolita della diocesi di Catanzaro-Squillace, monsignor Vincenzo Bertolone, che si è detto “gioioso nel vedere come il carcerato cerca di manifestare la sua anima trasferendola in un’opera d’arte come espressione di libertà. Al detenuto, ma anche a chi non è detenuto, è nostro compito insegnare che la vera libertà non è fare tutto quello che vogliamo, ma quando facciamo bene agli altri oltre che a noi stessi. Un’azione è libera se è giusta e se fa bene agli altri”. La direttrice della casa circondariale di Catanzaro, Angela Paravati, ha evidenziato il messaggio legato alla mostra “Arte è libertà”: “È un progetto significativo dell’apertura del carcere alla città e della collaborazione della città verso il carcere. Un progetto che - ha proseguito Paravati - suggella una forte sinergia tra istituzioni, finalizzata a far capire che il recupero dell’uomo passa anche dal far vedere le capacità che si acquisiscono all’interno del carcere”. Alla presentazione hanno inoltre preso parte Franco Greco, presidente dell’Unitalsi di Catanzaro, che ha curato la formazione dei detenuti, il vicepresidente della Provincia, Antonio Montuoro, Giuseppina Irrera in rappresentanza dell’Amministrazione penitenziaria, il direttore dell’Accademia delle belle arti, Vittorio Politano. “Il nostro obiettivo - ha detto Franco Greco - è mantenere vivo il rapporto tra comunità e detenuti. Grazie alla sensibilità della direttrice Paravati stiamo realizzando molti progetti, e adesso questa mostra benefica”. Il presidente dell’Unitalsi ringrazia anche il direttore dell’Accademia di Belle arti per il parere autorevole sulle opere dei detenuti. “Oggi si apre una nuova strada di ricerca sulla via della bellezza, una ricerca che dobbiamo accompagnare con altri progetti concreti e con la capacità dell’amore e dell’ascolto, valori che in queste opere troviamo presenti - ha detto Vittorio Politano. Certo, sono dilettanti, ma sono opere bellissime: il Signore mette tutti nelle stesse condizioni di partenza, nelle quali il talento dev’essere individuato e fatto crescere con la partecipazione di sensibilità diverse”. Il vice presidente della Provincia, Antonio Montuoro, che ha sostituito il presidente Sergio Abramo, ha evidenziato la grande sinergia creata tra l’Ente intermedio e la casa circondariale “già sperimentata con la convenzione per il Parco. Tenevo a essere qui personalmente perché grazie alla dottoressa Paravati ho potuto visitare la struttura di Siano e ho avuto modo di vedere il bel lavoro che si fa. Rinnovo il massimo sostegno della Provincia a questa iniziativa”. Eboli (Sa): Antonello De Rosa tra i detenuti per impartire lezioni di teatro informazione.campania.it, 7 febbraio 2019 Antonello De Rosa entra venerdì 8 febbraio, nelle carceri di Eboli per riabilitare attraverso il teatro i detenuti ospiti della Casa di Reclusione I.C.A.T.T. di Eboli. Un tassello importantissimo per il regista salernitano che non smette mai di spendersi per tutto ciò che è sociale attraverso il Teatro che da sempre è la sua Arte. Così la la Casa di Reclusione I.C.A.T.T. di Eboli da questo mese ospiterà il Lab ICArteTeatroTerapia diretto dal regista Antonello De Rosa. Questa iniziativa è stata ideata e primossa dall’ avv. Paola De Vita con Cittadinanzattiva di cui è coordinatrice territoriale. “È un orgoglio portare l’umanità e la professionalità scenica di Antonello De Rosa all’interno del teatro della struttura penitenziaria di Eboli.” Afferma la coordinatrice De Vita, “Antonello De Rosa, attore, autore e regista col suo sguardo rivolto da sempre alla fragilità della esistenza. Attraverso il linguaggio della sua arte contrasta pregiudizi e abbatte tabù. È un uomo libero Antonello De Rosa come libero è il Teatro che propone, inclusivo e sociale, improntato alla continua ricerca della verità e all’originale sperimentazione.” Prosegue l’avvocato Paola De Vita. Partner sociale e sponsor ufficiale Cittadinanzattiva Campania. Gli ospiti dell’I.C.A.T.T. saranno allievi del regista Antonello De Rosa la scena sarà consacrata dalla interazione con altri attori di Scena Teatro. Il saggio finale offrirà al pubblico la consacrazione della magia dell’ Arte. “ il sociale è per me vitale, il mio Teatro da 30 anni è un Teatro rivolto al Sociale, questo nuovo incarico mi colma di tanta gioia ed emozione, quando mi proposero accettai subito, devo ringraziare l’avvocato ed amica Paola De Vita.” Afferma commosso il regista. Trani (Bat): carcere, l’associazione Paideia rilancia il progetto “Magikambusa” di Annarita Amoruso traniviva.it, 7 febbraio 2019 Di nuovo attivo lo spazio ludico ricreativo per i figli dei detenuti. Magikambusa nasce nel luglio del 2013 in seguito alla vittoria del bando regionale “Principi Attivi 2012” con l’intento di creare uno spazio ludico ricreativo all’interno del carcere di Trani, che permetta ai figli dei detenuti di usufruire di uno spazio idoneo, prima di entrare per incontrare i parenti, poiché i tempi d’attesa sono spesso lunghi ed estenuanti e i più piccoli sono costretti a stazionare nelle auto o nel parcheggio. Per queste ragioni i volontari dell’associazione promuovono momenti didattico - creativi per i bimbi e per i più grandi rendendo l’attesa meno stressante. La vittoria del bando della fondazione Megamark risulta essere un importante punto di svolta per il progetto; grazie ai nuovi fondi sarà possibile ristrutturare lo spazio e promuovere nuovi progetti culturali per i detenuti e le loro famiglie. Dopo anni di sforzi e difficoltà, in cui solo grazie all’azione volontaria dei soci si è potuto garantire un servizio minimo, il “circo” di Magikambusa potrà essere nuovamente disponibile a tutti i piccoli ospiti del carcere ogni giorno. L’associazione vuole ringraziare tutte le partnership, il garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, l’amministrazione penitenziaria della C.C di Trani, che in questi anni hanno continuato ad interessarsi al progetto e, in particolare, la fondazione Megamark che da sempre incentiva e supporta le realtà del territorio e i loro progetti in campo sociale e culturale. Svelato il trattato Italia-Niger: “Dietro c’è il business militare” Il Manifesto, 7 febbraio 2019 Mai ratificato dal Parlamento sebbene preveda l’invio di soldati e “operazioni umanitarie”, è stato reso pubblico ieri da Asgi, Cild e Rete Disarmo. Dopo un anno e quattro mesi dalla firma del trattato di cooperazione tra Italia e Niger, quell’intesa diventa pubblica. La rendono nota Asgi, Cild e Rete Disarmo, che hanno avuto finalmente accesso agli atti dopo una sentenza del Tar del Lazio. L’accordo su gestione dei flussi migratori e sicurezza, mai ratificato dal parlamento, è a dir poco striminzito e poco dettagliato, senza previsioni di spesa e con grossolani errori. Perché, dice Giulia Crescini di Asgi, il vero contenuto dell’accordo sta in due lettere inviate da Niamey a Roma nel novembre 2017 e nel gennaio 2018, ma che il Tar non ha “sbloccato”. Quel che traspare è però la finalità: “Sembra che si voglia aprire una cooperazione industriale, peraltro monodirezionale, sfruttando un accordo nato per la gestione dei flussi migratori e della sicurezza”, ha spiegato in conferenza stampa Francesco Vignarca di Rete Disarmo. “Ci sembra che con il pretesto delle missioni all’estero per contenere le migrazioni, si voglia favorire il business delle aziende produttrici di armi”, ha aggiunto Gennaro Santoro, legale di Cild. Al momento in Niger sono stati inviati almeno novanta soldati italiani, senza che il parlamento abbia approvato un trattato che parla esplicitamente di “operazioni umanitarie” ed “esercitazioni militari”. Russia. Testimone di Geova condannato a 6 anni di carcere di Giuseppe Agliastro La Stampa, 7 febbraio 2019 In carcere per la fede religiosa. Avviene nella Russia di Putin, dove le autorità sono tornate a perseguitare i Testimoni di Geova come succedeva in epoca sovietica. Ieri, per la prima volta, una corte russa ha inflitto una pena detentiva a un fedele. Il tribunale di Oryol, 320 chilometri a Sud di Mosca, ha condannato Dennis Christensen a sei anni di reclusione per l’appartenenza alla comunità dei Testimoni di Geova, che pone Dio al di sopra dello Stato. Ma come Christensen, un danese di 46 anni che vive in Russia da 19, tante altre persone rischiano di finire dietro le sbarre. “Cresce la nostra preoccupazione per gli oltre cento Testimoni di Geova che stanno affrontando cause penali analoghe” ha commentato da New York il portavoce del gruppo religioso, Jarrod Lopes. Anche il governo danese ha protestato, definendo “inammissibile” che i Testimoni di Geova “siano dichiarati estremisti ed equiparati ai terroristi”. Mentre l’Ue ha chiesto la scarcerazione di Christensen sottolineando che “nessuno dovrebbe essere imprigionato per atti di culto pacifici”. “Una sentenza liberticida” - Il motivo delle persecuzioni pare essere politico. La Chiesa ortodossa russa appoggia apertamente Putin, e alcuni studiosi vicini al Patriarcato di Mosca dipingono i Testimoni di Geova come una setta che minaccia le istituzioni statali e i valori tradizionali. Tutto è iniziato nell’aprile del 2017, quando la Corte Suprema russa ha marchiato a fuoco l’organizzazione religiosa definendola “estremista”. Il tribunale ha vietato le attività del gruppo noto per le prediche porta a porta e per il rifiuto del servizio militare e ha ordinato il sequestro dei suoi beni a favore dello Stato. Una sentenza liberticida chiesta dal ministero della Giustizia, che ha accusato i Testimoni di Geova di “diffondere materiali stampati proibiti che incitano all’odio” nonché di “violare il diritto al godimento di assistenza medica universale” rifiutando le trasfusioni di sangue. La caccia alle streghe va avanti da due anni, con perquisizioni nella notte e lunghi interrogatori. Christensen è stato tra i primi a finire in manette, arrestato nel maggio del 2017 mentre conduceva la lettura della Bibbia assieme ai fedeli di Oryol. Amnesty International ne ha chiesto il rilascio “immediato e senza condizioni” e il suo avvocato, Anton Bogdanov, ha annunciato che intende impugnare la sentenza in appello. Ma la situazione è complicata. A ribaltarla può essere la Corte europea dei diritti dell’Uomo, che nel 2010 bocciò la sentenza con cui un tribunale di Mosca ne aveva proibito le attività pubbliche. Allora i giudici condannarono la Russia per aver violato il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione, nonché il diritto ad associarsi di una comunità di circa 17 mila fedeli. Brasile: nuova condanna per Lula “12 anni di carcere” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 7 febbraio 2019 L’ex presidente brasiliano colpito da una nuova dura sentenza nell’ambito della maxi inchiesta su tangenti e corruzione. È un nuovo, brutto colpo per il leader della sinistra brasiliana. Luiz Inácio Lula da Silva è stato condannato ad altri 12 anni e 11 mesi per riciclaggio e corruzione passiva. Si tratta del secondo dei cinque processi che il pool di Lava Jato, la grande Tangentopoli brasiliana, ha avviato nei suoi confronti. La nuova sentenza riguarda i lavori di restauro nel sito di Atibaia, nella disponibilità della famiglia Lula, che a parere dell’accusa avrebbero fruttato una tangente di 1 milione di reais degli 85,4 ottenuti dalla Petrobras, il cui nucleo dirigente era legato al Pt. Stando alle motivazioni della sentenza del giudice Gabriela, “il condannato ha ricevuto un indebito vantaggio per via del suo incarico di Presidente della Repubblica, dal quale ci si aspetta invece un atteggiamento esemplare in quanto capo dello Stato”. Di qui la dura pena comminata. Lula sta già scontando, dal 7 aprile scorso, una prima condanna in via definitiva a 12 anni e 1 mese nel carcere della Polizia Federale a Curitiba. Zimbabwe. 34 condanne a morte commutate in ergastolo nessunotocchicaino.it, 7 febbraio 2019 Il governo dello Zimbabwe ha commutato in ergastolo le sentenze di 34 detenuti nel braccio della morte, mostrando il proprio impegno verso l’abolizione della pena di morte in linea con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, ha detto un ministro del Gabinetto il 31 gennaio 2019. Ci sono 81 prigionieri nel braccio della morte del Paese, mentre il numero totale dei condannati all’ergastolo è ora 127. Il processo di commutazione in ergastolo dei rimanenti detenuti nel braccio della morte è ora in corso. La moratoria sulle esecuzioni aprirà la strada all’abolizione totale della pena di morte, secondo un documento presentato a nome del ministro della Giustizia, Affari Legali e Parlamentari Ziyambi Ziyambi da un alto funzionario del ministero, Charles Manhiri, presso lo Zimbabwe Staff College. Il governo sta implementando strategie e politiche volte ad abolire la pena di morte. Il ministro Ziyambi ha detto che il suo Ministero sta aspettando che il governo approvi le sue raccomandazioni sulla pena di morte. “Se il Gabinetto approverà la raccomandazione del Ministero di abolire la pena di morte, la disposizione costituzionale che consente l’imposizione della pena di morte sarà successivamente modificata”, ha affermato il ministro Ziyambi.