Basentini: “Sovraffollamento? Presto tre nuove carceri” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 febbraio 2019 Ieri audizione del capo del Dap alla Commissione Giustizia della Camera. Ieri mattina la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha svolto l’audizione di Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sullo stato dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Un altro incontro sarà calendarizzato a breve poiché non vi è stato il tempo di rispondere a tutte le sollecitazioni pervenute dai deputati. Ma veniamo ai punti salienti della relazione esposta. Il tema maggiormente affrontato è stato quello del sovraffollamento, su cui qualche giorno fa si era espresso anche il guardasigilli Alfonso Bonafede, che lo aveva definito “un’emergenza sotto tutti i punti di vista”. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 31 gennaio, risultano 60.125 detenuti, rispetto alla capienza regolamentare di 50.550. Ma, ha precisato Basentini, “quello che viene definito come sovraffollamento è in realtà un dato sicuramente considerevole e importante, ma che tecnicamente deve essere interpretato. La capacità detentiva, cioè i 50.546 posti detentivi, non è calcolata in base a quello che è l’indice stabilito dalla famosa sentenza Torreggiani, che individuava in 3 metri quadri per detenuto il posto di decoro, di decenza, ma è stabilita considerando 9 metri quadri per ogni detenuto. Quindi suddividendo la superficie totale di tutti gli immobili penitenziari per 9 metri quadri si è arrivati a stabilire quella che è la capacità cosiddetta regolamentare che è di 50.546”. Basentini ha sottolineato che “se fossimo in costante violazione dovremmo pagare decine e decine di milioni di sanzioni: questo non avviene perché si calcola la capacità regolamentare, che ci permette di ospitare ancora detenuti”. Una buona parte della popolazione è composta da extracomunitari, in particolare provenienti da quattro Paesi: Tunisia, Algeria, Romania e Albania. Alcuni di questi Stati, ha dichiarato il responsabile del Dap, “sono al centro di tavoli e accordi di governo per agevolare il trasferimento nel Paese di origine”. Un’altra strada che il Dap intende intraprendere è quella di creare nuovi reparti, nuove sezioni, nuovi istituti di pena scongelando le somme dell’ex piano carceri ma anche mediante la riqualificazione di ex caserme: “Sono stati individuati tre siti di potenziale interesse: il primo a Pozzuoli, il secondo a Casal Monferrato, il terzo vicino a Bari”. Nel capoluogo pugliese, ha aggiunto, “una caserma potrebbe essere utilizzata come cittadella giudiziaria, la seconda per un nuovo istituto penitenziario”. Un’altra criticità dell’amministrazione penitenziaria è quella che riguarda il personale: “Dal 2015 c’è stato un percorso di gestione che ha ridotto drasticamente la pianta organica”, ha denunciato Basentini, “il personale è sceso da 44mila a 40mila unità, ma con le pensioni e altre uscite oggi si contano 36mila persone, 4mila in meno di quanto prevede la legge Madia. Se si considera il vecchio organico mancano all’appello 8mila persone”. E a tal proposito il ministro Bonafede aveva ricordato che “nel 2019 saranno assunti 1.200-1.300 agenti di polizia penitenziaria”. Per quanto riguarda il lavoro nelle carceri, il Dap, ha concluso Basentini, “sta puntando molto sul lavoro di pubblica utilità. Ne è un frutto il protocollo ‘ Mi riscatto per’ che stiamo portando avanti con tutti i Comuni metropolitani. L’intenzione è di estendere il modello a tutti gli altri enti locali interessati”. Critiche alle dichiarazioni di Basentini sono giunte dall’Unione Camere penali, tramite l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere: “Si vuole far credere che i detenuti vivano in 9 metri quadri: basta con le alchimie matematiche. Le carceri scoppiano. Il sovraffollamento esiste e lo verifichiamo costantemente nelle nostre visite”. I penalisti annunciano anche “lo stato di agitazione in vista di azioni di protesta più rilevanti, qualora non vi fosse un’immediata inversione di rotta. Occorre intervenire con urgenza, recuperando i lavori delle Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario”. Anche Rita Bernardini, componente della presidenza del Partito radicale, ha contestato quanto dichiarato da Basentini sul sovraffollamento: “Nelle celle di 10 metri quadri, progettate per ospitare una persona, troviamo nella quasi totalità dei casi 2 detenuti: dove starebbero i 9 metri quadri a recluso? Per non parlare dei cosiddetti camerotti, ancora più sovraffollati, e dei posti inagibili calcolati dal Dap nella capienza regolamentare. Il problema del sovraffollamento è fondamentale non solo perché costringe i detenuti a vivere in spazi ristretti (i maiali per precise direttive europee hanno diritto a più spazio), ma perché si ripercuote sulla vita quotidiana nell’istituto concepito per ospitare un numero determinato di persone”. Dap: sovraffollamento carceri solo “tecnico”, calcolo su 9mq per detenuto e non 3mq askanews.it, 6 febbraio 2019 “Sul discorso del sovraffollamento delle carceri occorre fare un’operazione di informazione. Il dato che viene considerato di sovraffollamento è un dato importante ma deve essere interpretato tecnicamente: la capacità di ricezione degli istituti penitenziari è di 50.546 posti, per una presenza di poco più di 60mila detenuti. Ma la capacità detentiva di 50.546 posti non è calcolata sull’indice stabilito dalla cosiddetta sentenza Torreggiani che individuava in 3 mq lo spazio a disposizione per ogni detenuto. Questa capacità è stata calcolata, dall’amministrazione penitenziaria, considerando 9 mq per ogni detenuto”. Lo ha detto Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in audizione in commissione Giustizia alla Camera sullo stato dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. “Se fossimo in costante violazione dovremmo pagare decine di milioni di sanzioni”, ha aggiunto Basentini sottolineando che “questo non avviene perché si calcola la capacità regolamentare, che ci permette di ospitare ancora detenuti”. Presto tre nuovi carceri in ex caserme dismesse - “Per creare nuovi spazi detentivi abbiamo pensato alle caserme dismesse dalle Forze Armate, strutture particolarmente compatibili con le nostre esigenze” ed “è stato ripreso in mano anche l’ex piano carceri, con dotazione di risorse consistenti” e “riaperto il tavolo con il Mit”. Lo ha detto Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in audizione alla Commissione Giustizia alla Camera, sullo stato dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. “Sono stati individuati tre siti di potenziale interesse per noi: uno vicino a Napoli, un altro a Casale Monferrato e il terzo a Bari, dove ci sono due caserme e una di queste dovrebbe essere destinata a realizzare la cittadella giudiziaria”, ha detto Basentini. Nessun concreto impegno del governo per il sovraffollamento e le carceri sono luoghi di tortura camerepenali.it, 6 febbraio 2019 Ad ennesima testimonianza del problema del sovraffollamento e del degrado delle carceri, a Trento si dimettono i Responsabili dell’Area Medica, ritenendo non più possibile garantire la salute dei loro pazienti. Il documento della Giunta e dell’Osservatorio Carcere. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, da tempo ha lanciato l’allarme per i diritti negati nelle carceri italiane e, in particolare, il 27 dicembre u.s., aveva denunciato che la rivolta dei detenuti nel carcere di Trento era dovuta alla drammatica situazione di quell’istituto. Vi erano stati due suicidi in pochi giorni e due tentativi sventati dalla Polizia Penitenziaria. Il Prefetto aveva dichiarato che i problemi erano pochi e si potevano risolvere. Apprendiamo, invece, dal Presidente della Camera Penale di Trento che i Responsabili dell’Area Medica si sono, nei giorni scorsi, dimessi ritenendo impossibile garantire la salute dei loro pazienti in mancanza di un’immediata e radicale ristrutturazione del settore medico-psichiatrico e dell’area trattamentale interna al carcere. Inoltre vi sono stati due nuovi tentativi di suicidio mediante impiccagione, con il ricovero dei due detenuti presso l’Ospedale S. Chiara. Un altro detenuto è stato sottoposto a trattamento medico per l’ingestione di acqua e detergente. I problemi, contrariamente a quanto si vuole sostenere, sono enormi e non solo a Trento. Occorre intervenire con urgenza, recuperando i lavori delle Commissioni Ministeriali per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario che hanno seguito le indicazioni della Legge Delega del Parlamento al Governo, accogliendo le indicazioni della sentenza “pilota” della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013. Le soluzioni indicate dal Ministro della Giustizia, come la costruzione di nuove carceri, al di là del dato ideologico che non si condivide, sono comunque irrealizzabili in tempi brevi e contribuiranno a causare altri suicidi e morti di Stato. Il Governo dovrebbe iniziare ad “ascoltare” gli addetti ai lavori, interrompendo il percorso populista che, nelle carceri italiane, fa purtroppo danni irreparabili. L’Unione delle Camere Penali si riserva iniziative di protesta più rilevanti, ove non vi sarà un’immediata inversione di rotta. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali L’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Il Garante nazionale Mauro Palma: “criticità inaccettabili per i detenuti al 41bis” Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2019 Gravi criticità nelle sezioni dei detenuti al 41bis sono state riscontrate dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. L’ufficio, presieduto da Mauro Palma, ha visitato tutte le sezioni per detenuti in regime speciale: 738 uomini, dieci donne e cinque internati in Casa di lavoro. Al gennaio2019, soltanto 363 di essi e quattro delle dieci donne hanno una posizione giuridica definitiva. Inoltre, diciotto persone sono ricoverate nei reparti ospedalieri interni agli Istituti (a Parma ea Milano-Opera). Il Garante rileva le “reiterate proroghe del regime e all’inserimento di taluni in aree riservate che finiscono per costituire un regime nel regime”, osserva che “le condizioni materiali in alcune sezioni risultano inaccettabili, mentre in alcuni Istituti l’adozione di regole interne eccessivamente dettagliate su aspetti quotidiani vanno anche oltre le già minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017” e ribadisce, secondo le pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti umani, che “la piena necessità di misure volte a proibire ogni forma di comunicazione con le organizzazioni criminali” lascia intatto il divieto di ogni “inutile aggiuntiva afflizione”. Mai Dire Mai: che ne pensa la terza carica dello Stato? di Carmelo Musumeci* Ristretti Orizzonti, 6 febbraio 2019 Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta. (Discorso di Papa Francesco alla Delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, 23 ottobre 2014). Da circa un mese un gruppo di persone del mondo accademico, del volontariato, delle camere penali, della magistratura, della cultura e della politica, rappresentanti di chiese e fedi diverse, alcuni ex ergastolani, hanno pensato di chiedere un incontro al Presidente della Camera dei Deputati per discutere con lui sul tema dell’abrogazione dell’ergastolo. Abbiamo creato una segreteria, con recapito associazioneliberarsi@gmail.com per raccogliere le adesioni. Abbiamo contattato gruppi di associazioni e di persone singole spesso promotori di diverse, pacifiche e costruttive, iniziative per l’abolizione dell’ergastolo e impegnati per la legalità costituzionale in carcere. Docenti universitari: Giuseppe Mosconi (Padova); Alessandro Fo (Siena); Luca Bresciani (Pisa); Adriano Prosperi (Pisa); Carlo Fiorio (PG); Giuseppe Ferraro (NA); Domenico Bilotti (CZ); Giovanni Capecchi (PG); avvocati: Maria Teresa Antonia Pintus; Daniel Monni; Maria Brucale; Magistrati: Beniamino Deidda, Franco Maisto; Laura Longo; associazioni: Nadia Bizzotto della Comunità Papa Giovanni XXIII; Antigone, Yairaiha; Ristretti Orizzonti; Il Viandante; Urla dal silenzio; Livio Ferrari; Movimento No Prison; registi: Francesco Vicari; musicisti: Alessandra Celletti; insegnanti: Aristide Donadio; psicologi: Eleonora Laino; persone religiose: Mons. Saulo Scarabattoli; eurodeputata: Eleonora Forenza; politici: Rita Bernardini; giornalisti: Lino Lombardi; Ornella Favero; Maria Antonietta Boe; ergastolano in liberazione condizionale; Sebastiano Prino; Carmelo Musumeci. Tutti sono molto interessati all’iniziativa, altri ancora sono in fase di contatto. Probabilmente la maggioranza politica e quella del Paese è contraria all’abolizione dell’ergastolo, ma la storia è piena di maggioranze che sbagliano. Essere in molti non significa di per sé che si abbia ragione. La legge viene dal greco nomos: distribuire, ordinare e misurare. Ma come si fa a misurare l’ergastolo? Crediamo che una condanna ad essere cattivi e colpevoli per sempre sia una pena insensata perché non c’è persona che rimanga la stessa nel tempo. Senza un fine pena certo, all’ergastolano rimane “solo” la vita, ma la vita senza futuro è meno di niente. Il tempo dell’ergastolano è come se fosse scandito da una clessidra: quando la sabbia è scesa, la clessidra viene rigirata…e questo si ripete incessantemente, fino alla fine dei suoi giorni. La cosa più terribile è che con questa pena la vita diventa peggiore della stessa morte, perché assomiglia a una morte bevuta a sorsi, nell’oscurità e nel silenzio. E ogni giorno in meno è sempre un giorno in più da scontare. La maggioranza delle persone è contraria alla pena di morte, ma con la pena capitale il colpevole soffre solo un attimo, con l’ergastolo invece il condannato soffre tutta la vita. Ci chiediamo se, forse, questa forma di “vendetta”, che nulla ha a che fare con la giustizia, possa soddisfare qualcuno, comprese le vittime dei reati. Ci sono ergastolani arrestati giovanissimi, a diciotto, diciannove, vent’ anni, che hanno passato più anni della loro vita dentro che fuori. Molti di questi ragazzi sono stati usati, consumati e mangiati due volte, prima dai notabili del territorio dove sono nati e cresciuti e poi dallo Stato centrale. A qualcuno di loro è stata messa in mano una pistola e, forse per paura o per cultura deviata, non hanno saputo dire di no. Perché non dare una seconda possibilità a questi uomini, entrati in carcere solo ragazzi, educandoli ad uscire dalla cultura criminale, offrendo loro l’alternativa di una cultura civile, dando loro un fine pena? Una pena senza perdono, senza speranza, senza un fine, una pena disumana come il carcere a vita, senza possibilità certa di liberazione, non potrà mai rieducare nessuno. Per punire veramente un criminale, bisogna perdonare o dare una speranza: così prevarrà il senso di colpa. Se invece si vuole far sentire innocente anche chi non lo è, basta chiuderlo dentro e buttare via la chiave. *Per l’Associazione Liberarsi Niente rito abbreviato per i reati da ergastolo: la legge che non piace a penalisti e Anm di Errico Novi Il Dubbio, 6 febbraio 2019 Presto il sì del Senato sullo stop agli sconti sul fine pena mai. Mentre Ucpi e toghe chiedono di rafforzare i riti alternativi. Ci sono leggi che nascono prima della legislatura. La proposta che elimina il rito abbreviato per i reati da ergastolo è un esempio classico. Spinta dalla Lega nella legislatura precedente, contrastata da altri nel centrodestra, soprattutto Forza Italia, la norma è stata depositata pochi giorni dopo l’insediamento delle nuove Camere, il 27 marzo dell’anno scorso, dal suo “padre putativo”, l’attuale sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. A novembre la legge ha avuto il via libera di Montecitorio, ora è nelle mani della commissione Giustizia del Senato. “Non ci saranno particolari ostacoli”, spiega al Dubbio Andrea Ostellari, che della commissione Giustizia di Palazzo Madama è presidente e che è anche relatore della proposta di legge. “A mio giudizio non sarebbe il caso di ripetere qui al Senato le audizioni già svolte alla Camera: di fronte all’insistenza delle opposizioni potrei decidere di prevedere comunque una mezza giornata di audizioni, il che però non cambia la mia previsione di un via libera senza modifiche”. Vorrebbe dire che l’intervento sugli articoli 438 e 442 del Codice di procedura penale sarebbe legge dello Stato forse già per fine marzo, in ogni caso prima di Pasqua. Cosa succede con questo testo di appena 5 articoli? “Non è più possibile accedere al rito abbreviato nei procedimenti in cui si è accusati di quei reati, gravissimi, puniti appunto con l’ergastolo”, dice Ostellari. Non sarebbe più possibile ottenere la commutazione dal fine pena mai a 30 anni di reclusione (previsione “speciale” per i reati da ergastolo: per tutti gli altri lo sconto è di un terzo della pena). Con un simile intervento si sacrifica un meccanismo deflattivo importante del nostro sistema processuale. E lo si fa in modo da contravvenire al principio del fine rieducativo della pena fissato all’articolo 27 della Costituzione. “Ma nel nostro sistema penale”, controbatte Ostellari, “il principio della rieducazione, che ne è sicuramente un pilastro, va coniugato con il principio che assegna alla sanzione penale una efficacia preventiva: se so che un certo gravissimo delitto mi procura una pena così dura come l’ergastolo, e se so di non poterle sfuggire neppure in cambio della rinuncia a contestare la prova in dibattimento, si crea una deterrenza più efficace”. Il punto è che il potenziamento dei riti alternativi è una delle proposte destinate a finire sul “tavolo” della riforma del processo. Unione Camere penali e Anm sono pronte a presentarsi con un pacchetto condiviso di interventi il prossimo 13 febbraio, giorno in cui avvocati e magistrati sono attesi a via Arenula dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La piattaforma comune, rilanciata lo scorso fine settimana da Ucpi e Anm in un incontro organizzato dalla Camera penale di Bologna, ruota attorno ad altri due cardini: maggiori poteri al giudice dell’udienza preliminare e depenalizzazione. “Con una proposta di legge come quella che elimina l’abbreviato per i reati da ergastolo si va in una direzione sbagliata”, sostiene Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. “In un modello accusatorio come il nostro i riti alternativi hanno un ruolo determinante, che appunto andrebbe rafforzato, visto che finora i meccanismi premiali non hanno consentito un effetto deflativo sufficiente sulla macchina del processo”. Con la legge cara alla Lega, insomma, si compie una scelta di politica penale che contraddice gli auspici di Ucpi e Associazione magistrati, proprio alla vigilia di un passaggio importante come il confronto sulla delega che dovrebbe “ridurre i tempi morti del processo”, secondo gli intenti del ministro. “Ma questo conflitto non c’è”, ribatte Ostellari, “perché la politica penale è costituita anche da obiettivi distinti fra loro che possono essere perseguiti insieme. Da una parte”, osserva il presidente della commissione Giustizia del Senato, “è doveroso rivedere il rito penale in modo da assicurare tempi rapidi, e salvaguardare così i diritti di difesa dell’imputato: la delega sul penale guarda a questo. Ma con la legge sull’abbreviato noi intendiamo rafforzare l’efficacia preventiva della pena solo ed esclusivamente per reati gravissimi rispetto ai quali si impone una scelta”. Di che tipo? “Di politica del diritto, appunto: lo Stato”, dice Ostellari, “deve scegliere a quale attesa di giustizia rispondere. Noi riteniamo prioritario salvaguardare le vittime dei delitti più gravi. A loro, o ai loro familiari, sarebbe difficile dire che chi ha commesso nei loro confronti un delitto punito con l’ergastolo ha ottenuto una riduzione di pena in virtù della funzione rieducativa di quest’ultima” . Il nodo arriva d’altra parte con quelle fattispecie per le quali scatta l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, cioè per quegli ergastoli “ostativi” che negano in radice qualsiasi spiraglio di speranza e quindi di reinserimento. “Ma questo”, per Ostellari, “è un problema che non va affrontato con una legge come quella sull’abbreviato: si può intervenire appunto sull’ordinamento penitenziario”. Va detto, come fa notare Caiazza che “già oggi l’accesso al rito abbreviato non determina in modo automatico l’esclusione dell’ergastolo: se il giudice ritiene che la pena da infliggere dovrebbe essere l’ergastolo con isolamento diurno, la commutazione resa possibile dal ricorso all’abbreviato consiste semplicemente nell’eliminazione dell’isolamento diurno, ma l’ergastolo in sé resta”. Non a caso tale aspetto è richiamato anche nella relazione introduttiva al testo ora all’esame del Senato. Ma a preoccupare Caiazza è appunto “il fatto che una modifica simile non sarebbe coerente con la prospettiva di un rafforzamento del modello accusatorio: indebolire i riti alternativi è in contrasto con un’idea di riforma sistematica e coerente”. Se ne parlerà la settimana prossima a via Arenula tra governo, avvocati e magistrati. Ma contemporaneamente sarà difficile immaginare frenate a Palazzo Madama sulla legge voluta dalla Lega. E alla fine nelle aule di giustizia sono arrivati anche i fischi... di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 6 febbraio 2019 Se la magistratura entra a gamba tesa su questioni politiche invece di “limitarsi” ad applicare le leggi il rischio di essere contestata in maniera violenta è quasi inevitabile. È sempre più frequente, nelle cronache giudiziarie, il risalto dato alle proteste dei parenti delle vittime di fronte a sentenze di assoluzione o che considerano meno grave di quanto atteso il reato contestato. Alcune settimane fa si è trattato di quanto avvenuto nel Tribunale di Avellino: il Giudice Buono, che aveva “osato” assolvere alcuni degli imputati è stato addirittura apostrofato con la frase “giudice esci fuori”, dal significato eloquentemente minaccioso. A Roma, il Presidente della Corte di Assise di Appello, D’Andria, è stato interrotto mentre leggeva il dispositivo con cui è stata ridotta la pena inflitta ad Antonio Ciontoli, imputato dell’omicidio di Marco Vannini. Non si tratta, però, di un fenomeno nuovo: oggi è solo più appariscente. Sono diversi anni, difatti, che le decisioni sgradite a chi chiede la condanna sono accompagnate da reazioni sempre più forti. Prima erano le proteste e i cartelli fuori dei tribunali, oggi, e questo avviene ormai da un po’ di tempo, sono direttamente nelle aule di giustizia ed avvengono contestualmente alla lettura della decisione sgradita. Perché? I motivi sono molti e difficili da compendiare in poche righe. Ve ne sono alcuni che meritano, tuttavia, di essere sottolineati. In primo luogo, il sentimento giustizialista, di cui è ormai imbevuta la cultura (?) dominante, non può non vedere in una assoluzione una sconfitta. In un paese nel quale per anni è stato inoculato il virus del disprezzo per le garanzie, il convincimento che l’avversario è un farabutto da far fuori per via giudiziaria, l’idea che il prossimo sia composto prevalentemente da ladri e mascalzoni, fortunati perché fuori dal carcere, non può esservi civile accettazione per una assoluzione. A questo si deve aggiungere il mutato rapporto tra ignoranza e competenza. L’ignoranza è divenuta un motivo di vanto, venendo legittimato il disprezzo per la competenza. Perché rispettare la valutazione di un tecnico, quale è, tra le altre cose, un giudice, quando ciascuno si sente in diritto di esprimere un giudizio definitivo su tutto? Ma vi è una ragione, della degenerazione in corso, che riguarda anche i magistrati. Da Mani Pulite in poi la ricerca del consenso, da parte di molti magistrati, è stata una costante. Chi non ricorda la conferenza stampa del pool di Mani Pulite volta a bloccare il decreto Conso? E le veline degli interrogatori lasciati a disposizione della stampa? Da allora l’attività di molti magistrati, soprattutto inquirenti, si è intrecciata in modo indissolubile con la lotta di alcune forze politiche, in una opera di reciproca strumentalizzazione, che aveva come obiettivo comune la ricerca del consenso e l’accrescimento del potere nella società. I verbali di interrogatorio passati alla stampa per alimentare il consenso intorno alle inchieste sono stati da allora una costante, che magari ha riguardato solo una parte degli inquirenti, ma certamente quelli che più di tutti hanno contribuito a formare ed influenzare l’opinione pubblica. Nel momento, tuttavia, nel quale la ricerca dell’applauso è diventata una componente costante del rapporto tra giustizia e cittadini, in forza di quale controindicazione questi ultimi non sarebbero legittimati anche a fischiare? La giustizia spettacolo, la giustizia che entra a gamba tesa su questioni squisitamente politiche (ed il pensiero non può non andare alla incriminazione di Salvini), la giustizia che pretende di guidare l’etica del paese, e non di “limitarsi” ad applicare le leggi, è inevitabilmente destinata ad essere anche fischiata. La domanda angosciosa è: come si fa a non rendersi conto del livello di barbarie nel quale il paese sta precipitando? Anac. Cantone si dimette: “Mi sentivo sopportato” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 febbraio 2019 Il presidente dell’Autorità anticorruzione tornerà in magistratura: tre domande per un posto da procuratore. Raffaele Cantone è pronto a lasciare l’Anticorruzione. In polemica con “i troppi attacchi ricevuti”, ha chiesto di tornare a fare il magistrato e ha fatto domanda per tre Procure. “Mi sentivo sopportato”. La scelta viene fatta filtrare in serata, all’interno del governo non è stato avvisato nessuno. Perché la decisione di Raffaele Cantone di lasciare il posto di presidente dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, arriva al termine di otto mesi vissuti sempre lontano da premier e ministri. Prima è stato attaccato, poi ignorato e dunque, come dice lui, “mi sono sentito sopportato e siccome non sono uomo per tutte le stagioni ho meditato a lungo e poi ho capito che era arrivato il momento di tornare a fare il mio mestiere”. Magistrato: questo faceva Cantone e questo vuole tornare a fare, a capo di una Procura. Nella richiesta già presentata al Csm ha indicato tre uffici “piccoli” come Perugia, Torre Annunziata e Frosinone. Più volte nelle ultime settimane Cantone si è sfogato per provvedimenti che “mi preoccupano” come la norma del ddl anticorruzione che “ha alzato a 150 mila euro il tetto per gli appalti con procedura diretta” oppure per le “uscite” di Matteo Salvini che voleva “strappare e riscrivere il codice per gli appalti”. E dunque la sensazione di Cantone è diventata quasi certezza: “Sembra che il problema del Paese sia diventato l’anticorruzione”. Il primo ad attaccarlo fu Giuseppe Conte che il 7 giugno, appena nominato presidente del Consiglio, ci tenne a dire che “dall’Anac non abbiamo avuto i risultati che speravamo”. Qualche giorno dopo ci fu una retromarcia, ma ormai il segnale era stato inviato e infatti Cantone non ha mai avuto “la sensazione che ci fosse la volontà di marciare insieme”. Ancor più freddi i rapporti con Luigi Di Maio, tanto che più volte ha detto di non aver capito “se sono davvero interessati alla materia”. Un quadro che in meno di un anno lo ha dunque convinto sulla necessità “di fermarmi, perché questa esperienza è ormai finita”. Cantone è sempre stato in prima linea nella lotta alla criminalità, in particolare nella sua Regione - la Campania - e infatti dal 2003 vive sotto scorta. Sin dall’inizio della convivenza con questo esecutivo è apparso chiaro che non avrebbe accettato un ruolo dimezzato e adesso, a oltre un anno dalla scadenza naturale dell’incarico (2020), ha preferito farsi da parte. Con l’intervento pubblico di ieri alla Link Campus University - ateneo diventato la “fucina” dei 5 Stelle - è apparso comunque determinato a lasciare il segno: “Non immagino neanche lontanamente che si possa definitivamente spazzare via la corruzione, chi lo dice o non sa cosa sono i corrotti o prende in giro il Paese”. In ogni caso “penso che il Paese ce la possa fare, al di là delle oscillazioni tra la forca e il liberi tutti”. Show all’arresto di Battisti, Salvini e Bonafede indagati di Francesca Fagnani Il Giornale, 6 febbraio 2019 Si vestirono da poliziotti: accusati di non aver tutelato la dignità del detenuto. I ministri Salvini e Bonafede da almeno una settimana sono a conoscenza del fatto che, per il loro comportamento in seguito all’arresto del terrorista rosso Cesare Battisti, è stato aperto un fascicolo presso la Procura di Roma, che ha deciso di fare domanda di archiviazione. Il 14 gennaio scorso con un volo proveniente da Santa Cruz, in Bolivia, atterrava nello scalo romano di Ciampino, dopo 40 anni di fuga, l’ex terrorista Cesare Battisti. Ad attenderlo in pista e a mettere il cappello sull’arresto c’erano in coppia il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini vestito - a favore di telecamera - con la divisa della Polizia e il ministro della Giustizia Alfonso Bonfede. Alla passerella-derby dei due ministri era seguita poche ore più tardi la pubblicazione di un video postato dal Guardasigilli su Facebook che mostrava i momenti salienti della presa in consegna di Battisti da parte della Polizia penitenziaria con tanto di musichetta di sottofondo. Al vespaio di polemiche che ne seguirono oggi si aggiunge una notizia della quale da almeno una settimana sono a conoscenza sia il ministro Salvini che il ministro Bonafede e cioè che per il loro comportamento, a seguito di una denuncia, è stato aperto un fascicolo presso la Procura di Roma, che ha deciso di fare domanda di archiviazione depositandola presso il Tribunale dei ministri, che potrebbe come sappiamo, anche respingerla. Come ben si ricorderà anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro aveva formulato sul caso della nave Diciotti “una richiesta motivata di archiviazione” ma il Tribunale dei ministri ha poi seguito un’altra strada. Secondo la Procura di Roma Bonafede e in concorso con lui Salvini, avrebbe violato la legge per la mancata adozione delle opportune cautele dirette a proteggere le persone in arresto dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità. A mettere nei guai il ministro della Giustizia sarebbe stato proprio questo video - realizzato con toni trionfalistici e propagandistici - in cui Battisti veniva esibito come un trofeo nel passaggio e nella consegna tra le varie forze dell’ordine. Tuttavia per i magistrati romani il fatto non costituisce reato perché mancherebbe il dolo e il vantaggio patrimoniale. Ora la palla passa al Tribunale dei ministri. Ci si chiede, intanto, come mai né il ministro Bonafede né Salvini abbiano sentito il dovere di rendere nota questa vicenda giudiziaria che li riguarda. E soprattutto il premier Conte ne era a conoscenza? E Di Maio? “La trasparenza è un dovere” diceva Beppe Grillo quando venne sospeso il sindaco ancora pentastellato Federico Pizzarotti per un avviso di garanzia per alcune nomine al teatro Regio di Parma e di cui non diede notizia tempestivamente ai vertici del M5s. Ma era molto tempo fa, c’era il “codice etico”, le valutazioni seguivano ben altri costi-benefici da quelli della quadratura del cerchio del governo. Caso Cucchi, generale indagato per le relazioni “aggiustate” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 febbraio 2019 Casarsa, ex capo dei corazzieri, accusato di falso. L’alto ufficiale nega. Salendo un gradino dopo l’altro la scala gerarchica dei carabinieri all’epoca dei fatti, l’inchiesta-bis sui depistaggi nel “caso Cucchi” è arrivata a coinvolgere un generale di brigata. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a un mese fa capo dei corazzieri in servizio al Quirinale, attualmente in attesa di destinazione e nel 2009, da colonnello, comandante del Gruppo Roma. È indagato per falso in atto pubblico, insieme agli altri ufficiali già inquisiti per le manipolazioni di almeno due relazioni di servizio sul detenuto arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi al reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini. Casarsa è stato interrogato una decina di giorni fa dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, davanti ai quali ha sostenuto di essere estraneo a qualunque manovra per intralciare la ricerca della verità sulla morte di Cucchi, sia nel corso degli eventi che successivamente. Ma gli accertamenti dei magistrati sulle “anomalie” di un’indagine che ha già portato a un processo contro gli imputati sbagliati (gli agenti della polizia penitenziaria assolti in primo e secondo grado), e continua a svelare intralci anche mentre è in corso un nuovo processo a carico di cinque carabinieri, non si fermano. La vicenda di cui è stato chiamato a rispondere Casarsa riguarda le annotazioni sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi redatte dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, ai quali dopo la morte del detenuto era stato chiesto di riferire quello che avevano visto e sentito la notte dell’arresto. Il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Roma-Tor Sapienza già inquisito per questo episodio, ha raccontato che le relazioni furono in seguito modificate dopo l’intervento del maggiore Luciano Soligo, che guidava la Compagnia e le riteneva “troppo particolareggiate”, con “valutazioni medico-legali che non competevano ai carabinieri”. Secondo Colombo il maggiore (che da indagato si è avvalso del diritto di non rispondere alle domande dei pm su indicazione del proprio difensore) parlava al telefono con un superiore chiamandolo “signor colonnello”, e fece trasmettere per posta elettronica le annotazioni all’allora capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma, il tenente colonnello Francesco Cavallo, il quale le rimandò indietro modificate, con l’indicazione “meglio così”. Dai documenti erano spariti i riferimenti a “forti dolori al capo e giramenti di testa”, nonché a difficoltà a camminare, tremori e dolori al costato lamentati da Cucchi. Di Sano accettò di firmare la relazione modificata, Colicchio no. Ascoltato dai pubblici ministeri, anche lui come indagato, Cavallo avrebbe spiegato di non ricordare le modifiche ma che in ogni caso tutto ciò che fu fatto all’epoca era concordato con il comando del Gruppo Roma, il quale peraltro aveva rapporti diretti con i comandanti di Compagnia, senza dover passare necessariamente da lui. E dato che il caso stava suscitando grande clamore, se ne era occupato pure il suo diretto superiore, il colonnello Casarsa. Da questi e altri elementi, Pignatone e Musarò hanno ritenuto di dover iscrivere anche il nome di Casarsa (che nel frattempo era stato promosso ad altri incarichi raggiungendo il grado di generale) nel registro degli indagati prima di ascoltare la sua versione. Che oltre a escludere qualsiasi intento depistatorio, non avrebbe aggiunto particolari sulle modifiche; sono passati più di nove anni, ma tra i ricordi dall’alto ufficiale ci sarebbe l’indicazione data ai carabinieri che avevano avuto a che fare con Cucchi di essere il più precisi e dettagliati possibile nelle loro ricostruzioni. Cioè il contrario di quanto recepito da chi trasmise l’ordine di cambiare le annotazioni. Innocente, sì, ma con pessimi amici: “è giusto punirlo” di Simona Musco Il Dubbio, 6 febbraio 2019 Otto anni e mezzo in cella. Poi è morto. Niente risarcimento. Salvatore Tomaselli non ha procurato a Cosa Nostra la Fiat 126 usata come autobomba per uccidere Paolo Borsellino, ma nonostante ciò non va risarcito per gli otto anni e mezzo di carcere scontati ingiustamente, perché colpevole di essere vicino ad ambienti mafiosi. È questo il senso del ricorso presentato dall’avvocato dello Stato, Angela Palazzo, contro la decisione della Corte d’Appello di Catania, che ha stabilito un risarcimento per gli undici fratelli di Tomaselli pari a 776mila euro. Perché Tomaselli non potrà comunque avere quei soldi: l’uomo è morto poco dopo aver scontato tutta la condanna, senza riuscire a vedere gli esiti del processo di revisione, concluso con un proscioglimento per non aver commesso il fatto. A inguaiare Tomaselli, spacciatore del quartiere della Guadagna, erano state le bugie dei falsi pentiti Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Secondo tre sentenze, l’ultima quella della Cassazione nel 2003, Tomaselli era responsabile per il furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti e di associazione mafiosa con Scarantino e Candura, i due che lo avrebbero indicato come soggetto presente nel momento in cui Scarantino aveva conferito a Candura l’incarico di procurargli un’auto in vista della strage. Inoltre, Tomaselli avrebbe accompagnato Scarantino con il suo motorino nella traversa di via Roma dove avvenne la consegna. Ma a ribaltare tutto è stata una sentenza del 13 luglio del 2017, con la quale la Corte d’Appello di Catania ha prosciolto Tomaselli e altre sette persone condannate all’ergastolo per l’eccidio in cui furono assassinati Paolo Borsellino e gli uomini di scorta. Tutti condannati per un clamoroso depistaggio, svelato dal pentito Gaspare Spatuzza, che dichiarò di essersi personalmente occupato, su incarico di Giuseppe Graviano, all’epoca capo del mandamento di Brancaccio, di procurare l’auto utilizzata per la strage e le attrezzature occorrenti a far brillare l’autobomba. Il pentito svelò, insomma, “l’esistenza di una regia che avrebbe creato una verità parallela”, ingoiando degli innocenti. Tomaselli, morto nel 2011 per un’ischemia cerebrale, era perciò stato incastrato. Ma ciò, secondo l’avvocatura dello Stato, non basta per risarcire la sua famiglia. La Corte d’Appello, secondo Palazzo, non avrebbe valutato il “concorso colposo dell’indagato nell’errore giudiziario”. Sarebbe stata sua, in qualche modo, la colpa di quel calvario ingiusto. Questo a causa “delle abitudini di vita” che lo vedevano dedito allo spaccio e ai furti e dalle frequentazioni “con soggetti legati alla criminalità mafiosa”. Tomaselli frequentava i suoi accusatori, perché viveva e spacciava nello stesso quartiere e nella stessa orbita criminale. Ma non era un mafioso, come accertato dalla sentenza di revisione e come riferito perfino da Scarantino. Argomenti che non convincono l’avvocatura - mentre la procura generale ha chiesto l’accoglimento della richiesta di risarcimento - che parla di “continuità dolosa o colposa idonea a trarre in inganno gli inquirenti”. Ma non solo: l’avvocato Palazzo basa le sue deduzioni anche sulle indagini svolte dall’ex capo della Squadra mobile di Palermo, Mario Bo, rinviato a giudizio a settembre per calunnia aggravata insieme ad altri due poliziotti per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. “È assurdo e illogico - commenta al Dubbio il legale della famiglia Tomaselli, Mario Bellavista - Questa gente ha dovuto subire l’umiliazione di una condanna, di un familiare detenuto per otto anni e morto subito dopo la scarcerazione, scontando in pratica un ergastolo per un fatto che, ormai è pacifico, è stato inventato da organi dello Stato. E ora l’avvocatura, che rappresenta proprio lo Stato, senza nemmeno partecipare all’udienza, impugna la decisione di risarcire delle vittime. Davvero ci sarebbe da chiedere da chi è mossa questa decisione”. Proprio la vicinanza di Tomaselli ad ambienti criminali chiamata in causa da Palazzo, contesta il legale, è stata il pretesto usato per rendere più credibile la calunnia. “Era gente di quel quartiere, che senza dubbio conosceva i mafiosi della zona, ma è proprio questa loro posizione ad essere stata utilizzata per rendere più credibile la dichiarazione calunniosa. Non solo - aggiunge - nel ricorso si fa riferimento alle relazioni della polizia giudiziaria e di Mario Bo, sotto processo per calunnia a Caltanissetta. È un assurdo che chi rappresenta lo Stato, invece di vergognarsi, insista nel sostenere che Tomaselli, anche se non c’entrava niente, meritasse di fare otto anni di carcere. Ha avuto due infarti dentro a quel carcere”. Il processo per la calunnia sta andando avanti, ma tra le poche parti offese a non poter essere citate c’è Tomaselli, poiché il reato risulta prescritto. Ma appena il processo sarà finito, promette Bellavista, “procederemo in via civile per il risarcimento del danno anche nei confronti del ministero dell’Interno - conclude - perché è responsabile delle azioni delittuose commesse dai suoi agenti. Vorrei sapere con quali criteri si decidano certe impugnazioni, che comportano solo spese per uno Stato che, invece, avrebbe dovuto chiedere scusa e offrire un risarcimento. Sarebbe stato un gesto di civiltà”. Sono autoriciclaggio le operazioni tra c/c di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 5719/2019. I bonifici infragruppo, gli assegni a garanzia di finanziamenti e anche il pagamento di ratei di mutuo integrano il reato di autoriciclaggio, ovviamente se attingono a provviste di origine illecita. La Cassazione - sezione Quinta penale - con la sentenza 5719/19 depositata ieri conferma l’impostazione “scolastica” sui presupposti del reato introdotto con la prima legge sulla emersione dei capitali (186/14). Il caso che fa tornare i giudici di legittimità sull’interpretazione dell’articolo 648-ter 1 del Codice penale riguarda un’indagine su un’associazione per delinquere attiva in ambito sanitario. All’indagato, per quello che qui interessa, era contestato anche l’autoriciclaggio per aver drenato attivi di società acquisite sui conti di altre aziende (tra cui la controllante), condotte che la procura aveva qualificato come “lavaggio” di denaro piuttosto che come semplici fatti di bancarotta o meglio ancora di mero godimento personale non punibile - come tra l’altro invocato dalla difesa. Secondo i giudici della Quinta, però, il mero utilizzo “post factum” - cioè non incriminabile a titolo proprio - è qui da escludere senza remore, considerato che ogni passaggio da conto corrente a conto corrente determina un allontanamento delle provviste dalla loro origine: il mero godimento personale, argomenta la Cassazione, non abbisogna infatti di alcuna attività dissimulatoria. Piuttosto, aggiunge il relatore, “l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Da qui la classificazione, da parte della Corte, di condotte tipiche di autoriciclaggio, per esempio, di qualsiasi prelievo o trasferimento successivo a precedenti versamenti, ivi compreso il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato e aperto presso un diverso istituto di credito - considerato che il delitto ex articolo 648-ter.1 è a forma libera. La punibilità dell’autoriciclaggio, in sostanza, che è una forma meno grave del riciclaggio anche per afflittività, dipende dall’attentare all’ordine economico, cioè dal tentativo di ottenere per vie illegali un’utilità economicamente rilevante e un reinvestimento della stessa ricchezza in ambiti “fruttuosi” sotto il profilo economico e dannosi per gli interessi di quanti ne subiscono obiettivamente le conseguenze. Proporzionata la sanzione proposta in patteggiamento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 5 febbraio 2019 n. 5679. Dopo il patteggiamento, per manipolazione del mercato, imputato prosciolto per ne bis in idem o sanzione rivista solo se il cumulo tra sanzione amministrativa e penale è sproporzionato rispetto ai fatti commessi. E dunque tale da far saltare il sistema del doppio binario. La Cassazione (sentenza 5679) conferma la condanna di Emanuele Erbetta, ex amministratore delegato di Fondiaria Sai, a due anni e dieci mesi per false comunicazione sociali e manipolazione del mercato, emessa su accordo delle parti dal Tribunale di Torino. La pena pecuniaria di 200mila euro era già stata dichiarata non esigibile visto che per la stessa condotta la Consob aveva sanzionato il ricorrente per 400mila euro. Il ricorrente chiedeva l’applicazione dell’articolo 129 del Codice di rito penale sull’improcedibilità, per la violazione del ne bis in idem a causa della sproporzionalità della pena. Ma, per i giudici questa corrisponde alla proposta formulata, nelle due istanze di patteggiamento dal ricorrente: elemento molto indicativo per valutare la non sproporzione della sanzione. Se è stato lo stesso imputato, già destinatario della sanzione amministrativa, a scegliere la definizione alternativa anche nel penale proponendo “quello specifico trattamento sanzionatorio, egli ha implicitamente riconosciuto la non sproporzione della dosimetria complessiva”. Chiarito questo i giudici precisano che la sanzione amministrativa è di importo non elevato rispetto al danno patrimoniale arrecato al mercato. Lo stesso vale per la sanzione penale, vista la gravità dei fatti contestati e il numero di risparmiatori coinvolti. La pena inflitta regge alla prova della proporzionalità del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto. È dunque escluso il particolare caso (sentenza Garlsson Corte Ue) nel quale la tenuta del doppio binario è messa a rischio quando la prima sanzione è già proporzionata, efficace e dissuasiva rispetto al fatto. Sardegna: metà dei reclusi vengono dal Continente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2019 Denuncia dell’associazione Sdr: è anche la seconda Regione, dopo l’Abruzzo, con più ultrasettantenni in cella. Il carcere sardo di Uta ospita detenuti oltre il limite regolare, disagi dei ristretti e degli operatori, in più la Sardegna è al secondo posto, dietro l’Abruzzo, per gli ultrasettantenni dietro le sbarre. Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, commentando i dati diffusi dal ministero che fotografano la realtà detentiva isolana al 31 gennaio 2019, denuncia che c’è “ancora una conferma negativa per la Casa Circondariale di Cagliari- Uta dove al 31 gennaio 2019 a fronte di 561 posti la presenza di detenuti ha raggiunto quota 586 con 22 donne e 140 stranieri (pari al 23,8%). Una realtà complessa in cui convivono ristretti in regime di alta sicurezza, ergastolani, detenuti comuni e circa un 30% di persone con gravi disturbi psichici, dell’umore e borderline ma dove il numero degli operatori Agenti Penitenziari, Educatori, Psicologi e Psichiatri non è adeguato ai bisogni”. Sottolinea Caligaris che “nei dieci istituti penitenziarie dell’isola complessivamente sono ospitati 2150 detenuti (36 donne) 691 stranieri (32,1%) a fronte di una capienza regolamentare teorica di 2706 posti, dal momento che alcune sezioni sono chiuse per ristrutturazioni o per inagibilità. Si tenga altresì conto che in Sardegna sono presenti solo 1.056 detenuti isolani mentre i restanti (1.094) nella maggior parte dei casi sono stati trasferiti in Sardegna da altre regioni”. Osserva la presidente di Sdr che “la situazione nelle altre strutture restrittive è stabile con valori prossimi ai posti regolamentari, eccetto nelle Colonie dove è evidente una significativa presenza di stranieri. In particolare ad “Is Arenas” (Arbus) 80 stranieri su 102 presenti (78,4%), Mamone- Onanì 151 su 197 (76,6%), Isili 60 su 101 (59,4%). Resta incomprensibile nelle Colonie Penali il divario tra posti disponibili 692 a fronte di quelli utilizzati (400) in spazi in cui potrebbero trovare lavoro molti detenuti”. Caligaris rivela ancora che “a caratterizzare la detenzione in Sardegna è la percentuale di ultra settantenni. Il quadro ministeriale al 31 dicembre 2018 presenta infatti un quadro inequivocabile. Mentre in numeri assoluti con 44 anziani l’isola si colloca all’ottavo posto. Il dato in percentuale la colloca al secondo posto ex aequo con l’Emilia Romagna (2%), entrambe le regioni sono precedute dall’Abruzzo (2,3)”. Conclude la presidente di Socialismo Diritti e Riforma”: “L’ultimo dato interessante nella Sardegna fotografata dal Ministero è quello in base al titolo di studio. Mostra, al 31 dicembre 2018, una bassissima percentuale di laureati (23) e diplomati (201) tra i detenuti. Emerge per contro una prevalenza di quelli in possesso del diploma di scuola media inferiore (703), di licenza elementare (304), oltre a quelli (29) senza titolo e 21 analfabeti. Dati interessanti sui quali occorre riflettere anche per individuare le iniziative da assumere per rendere la presenza nelle carceri dell’isola davvero utili per il reintegro sociale di chi ha commesso un reato”. Da ricordare che, secondo l’ultimo rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà, la Sardegna è una regione che si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Infatti, si registrano un gran numero di persone detenute non residenti in Sardegna, comportando il mancato rispetto della territorialità della pena. Cagliari: detenuto di 67 anni muore suicida in cella Ristretti Orizzonti, 6 febbraio 2019 “Apprendere della morte volontaria di una persona genera sempre dolore e sgomento tanto più se questo avviene dietro le sbarre. E’ un monito che richiama tutte le Istituzioni ad agire unitariamente per scongiurare episodi tragici di autolesionismo. Sappiamo che non sempre è possibile prevedere questi atti né scongiurarli in extremis come spesso Agenti e Sanitari fanno. Occorrono però più progetti mirati e iniziative che devono rendere meno afflittiva la pena”. Lo afferma Mara Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso del suicidio di un detenuto nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta A.T., 67 anni, di Sant’Antioco. “Il carcere - sottolinea - racchiude accoglie tante fragilità personali difficili da gestire. Molte non sono neppure capaci di manifestare apertamente il disagio. Ecco perché diventa indispensabile la presenza di programmi e attività molteplici con personale (Agenti, Educatori, Psicologi) adeguato ai bisogni. Occorre una maggiore attenzione da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per migliorare le condizioni di vita dentro le strutture e promuovere la realizzazione di Case di Accoglienza alternative agli Istituti di Pena”. Perugia: tragedia a Capanne, detenuto trovato morto nella cella perugiatoday.it, 6 febbraio 2019 È accaduto martedì sera, in una cella della casa circondariale perugina. Per l’uomo non c’è stato nulla da fare nonostante l’intervento dei medici. Non c’è stato nulla da fare per un detenuto italiano di circa 50 anni, trovato senza vita all’interno di una cella del carcere di Capanne dove era ristretto. la tragedia è accaduta martedì sera. Da quanto si apprende a far scattare l’allarme sarebbero stati i compagni di cella dell’uomo, che hanno allertato gli agenti della polizia penitenziaria. Quest’ultimi hanno così avvisato i medici che hanno cercato di rianimare il detenuto, ma invano. Dai primi accertamenti la morte del 50enne sembrerebbe essere riferibile a cause naturali, ma per fugare ogni dubbio con ogni probabilità sarà eseguito l’esame autoptico. Napoli: nuovo carcere da 1.200 detenuti, per sfollare Poggioreale e Secondigliano internapoli.it, 6 febbraio 2019 Altro che amnistia e indulto, è in arrivo un nuovo carcere in Campania, precisamente vicino Napoli. Ad annunciare la novità è Francesco Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in audizione alla Commissione Giustizia alla Camera. “Sono stati .individuati tre siti di potenziale interesse per noi - ha detto - uno vicino a Napoli, un altro a Casale Monferrato e il terzo a Bari, dove ci sono due caserme e una di queste dovrebbe essere destinata a realizzare la cittadella giudiziaria”. La località scelta è quello a Nola, in località Boscofangone. Secondo i progetti avrà una capienza di 1200 persone, con un costo complessivo per la realizzazione di 75 milioni di euro, e sarà il terzo della Campania, subito dopo i carceri di Secondigliano e Poggioreale; il bando si è chiuso nel marzo 2017. Andrà a decongestionare i carceri di Poggioreale e Secondigliano e sarà dedicato ai detenuti non pericolosi. A Nola sarà aperto il primo carcere dove non ci saranno né sbarre né mura. Inoltre ci sarà tanto verde: è questo il progetto del ministero della Giustizia. Il carcere potrà ospitare 1.200 detenuti e a dare ancora di più l’area di un resort saranno la realizzazione di campi da calcio e da tennis, piscine, teatro, aule e laboratori. Un carcere rivoluzionario, dunque, quello che sarà costruito tra 5 anni nella zona di Boscofagnone. Ma soprattutto, il carcere di Nola, sarà il primo esempio in Italia di casa circondariale sul modello del Nord d’Europa. Il progetto del ministero della Giustizia prevede infatti che non ci siano sbarre né mura perimetrale e inoltre tanto verde. Viterbo: un progetto per il trattamento dei detenuti per reati sessuali di Daniele Camilli tusciaweb.eu, 6 febbraio 2019 Prevenzione, valutazione e trattamento dei sex offenders (detenuti per reati sessuali, ndr) negli istituti penitenziari europei. Acronimo di Protect, il nome del progetto presentato questa mattina nella sala stampa della cittadella della salute a Viterbo. Seduti al tavolo, Daniela Donetti, direttore generale della Asl, Pierpaolo D’Andria, direttore della casa circondariale Mammagialla, Fabio Vanni, direttore dell’ufficio IV del provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise del Dap, e Luciano Lucania, presidente Simspe. Il progetto è portato avanti dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) in partnership con il ministero di giustizia italiano, l’università La Sapienza di Roma, l’università di Braga in Portogallo e l’associazione non governativa croata Healthy city. I corsi di formazione previsti dal progetto verranno realizzati in sei istituti penitenziari dell’Unione europea. Tra questi anche Viterbo. Nello specifico, il protocollo verrà testato su 100 detenuti per crimini sessuali, 12 direttori, 12 commissari di polizia, 120 agenti di polizia penitenziaria, 60 medici, 30 infermieri e 30 volontari. Altri 120 detenuti verranno poi coinvolti nei corsi di formazione con l’obiettivo di ridurre lo stigma e saper gestire la convivenza in carcere. “Il progetto - ha detto Lucania - nasce dalla necessità di prevenire la recidività dei crimini sessuali non solo attraverso la repressione e la pena ma anche e soprattutto con l’intensificazione del trattamento terapeutico dei sex offenders in carcere, con l’obietivo di creare un protocollo condiviso da tutti i partner europei. Il fenomeno dei crimini sessuali viene percepito dalla comunità in modo particolarmente abietto e questo in molte nazioni si è tradotto in un incremento del livello della pena per rispondere alla richiesta di maggiore protezione sociale. Ma la detenzione dei sex offenders senza un accurato intervento terapeutico è destinata al fallimento, in quanto il reo è certamente predisposto a compiere nuovamente il crimine una volta scontata la pena e uscito dal carcere”. Il Consiglio Europeo con la convenzione del 25 ottobre 2007 ha indicato l’importanza di lanciare dei programmi che prevengano la recidività del reato e il progetto Pr.o.t.e.c.t. si inserisce in questo quadro specifico. “Un progetto importante - ha sottolineato la Donetti -. La condivisione delle problematiche permette anche a noi di avere percorso di crescita professionale e amministrativo. È un progetto molto complesso che presenta due aspetti decisi. La prevenzione all’interno del carcere e la logica della tutela dei diritti di tutti”. Anche Mammagialla è parte integrante del progetto. “Il carcere di Viterbo - ha spiegato D’Andria - ospita 34 sex offender, 29 italiani e 15 stranieri. Ventiquattro hanno una condanna definitiva. Soltanto due hanno tra i 19 e i 39 anni, quattordici tra i 30 e i 39. Gli altri sono invece over 50”. Il progetto punta innanzitutto a mappare lo stato dell’arte a livello europeo, analizzando le pratiche attualmente esistenti nei paesi dell’Unione, con uno specifico focus sui paesi partner del progetto, vale a dire Italia, Portogallo e Croazia. Tra gli altri obiettivi ci sono anche la prevenzione della recidività dei reati sessuali attraverso lo sviluppo di un protocollo di trattamento internazionale del detenuto. Lo scopo è infatti quello di creare Unità operative funzionali sperimentali incentrate sulla giustizia riabilitativa. Le unità verranno testate in almeno sei istituti penitenziari europei selezionati. “Il progetto - ha poi aggiunto il coordinatore scientifico Alfredo De Risio - ha preso avvio da un’attenta analisi, da parte di un team di esperti, della letteratura scientifica internazionale e dallo scambio di esperienze, così da disegnare e condividere le migliori prassi per il raggiungimento di protocolli mirati di assessment diagnostico-terapeutici che saranno poi validati sul campo, con detenuti definitivi, condannati a sfondo sessuale, ristretti nelle ‘sezioni protettè degli istituti penitenziari nazionali ed europei chiamati a collaborare”. Il progetto prevede infine un percorso di formazione che svilupperà il trattamento dei sex offender su tre livelli interconnessi tra loro. Il primo riguarderà l’approfondimento di una specifica conoscenza della condizione dei sex offender. Il secondo incrementerà le capacità professionali e non professionali del trattamento. Il terzo riguarderà invece la gestione di esperienze ed emozioni. Messina: sos dal carcere di Gazzi “nominare un Garante dei detenuti” strettoweb.com, 6 febbraio 2019 Sopralluogo di Grazia D’Angelo e Cristina Cannistrà nella Casa circondariale di Gazzi a Messina. Le richieste della consigliera comunale del M5S: “Uno sportello informativo all’interno del Carcere, la nomina di un Garante dei detenuti e l’impiego di detenuti ed ex detenuti in lavori di pubblica utilità”. Sono le richieste presentate al sindaco Cateno De Luca dalla consigliera comunale del M5S Cristina Cannistrà, che lo scorso 2 febbraio, insieme alla senatrice Grazia D’Angelo, ha effettuato un sopralluogo all’interno della struttura in presenza del direttore del carcere Calogero Tessitore, del comandante della Polizia penitenziaria Matrì e del funzionario giuridico pedagogico Nicoletta Irrera. Numerose le tematiche e le problematiche emerse, fra le quali la carenza di organico della polizia carceraria e dei funzionari giuridico pedagogici, i necessari interventi strutturali al plesso, i lunghi tempi di attesa che i detenuti sono costretti ad affrontare per le visite mediche e la necessità di potenziare e sfruttare al meglio il poliambulatorio presente all’interno del carcere. “Nel corso della nostra visita negli spazi comuni e all’interno della celle - spiega la senatrice Grazia D’Angelo - abbiamo avuto modo di riscontrare le buone condizioni in cui versa la struttura. Stessa cosa non può dirsi delle facciate e degli spazi esterni, che necessitano di lavori di ristrutturazione. Ma ciò che preoccupa maggiormente è la situazione della pianta organica della polizia penitenziaria e del personale civile del carcere di Messina, che presenta varie criticità, comportando numerosi disagi al personale impiegato e ai detenuti. Inoltre, dopo il fruttuoso confronto con tutte le parti in causa, abbiamo concordato delle iniziative e dei piani di intervento che cercheremo di portare a termine al più presto, sia dal punto di vista dell’assistenza sanitaria sia per ciò che concerne l’integrazione nel tessuto sociale dei detenuti, con la promozione di un progetto previsto su scala nazionale che presenteremo a breve”. “Tra le varie questioni - commenta Cristina Cannistrà - è emersa la necessità da parte dei detenuti di avere informazioni e servizi relativi alle pratiche di competenza dell’Ufficio Anagrafe o di altri uffici comunali. Pertanto si chiede di attivare uno sportello presso la Casa Circondariale che, con cadenza periodica, dia la possibilità ai detenuti di risolvere tutte le problematiche inerenti i rinnovi delle carte d’identità, certificati di residenza, autentiche firme, problematiche di mediazione culturale e in generale tutte quelle necessarie procedute burocratiche che è fondamentale espletare in tempi celeri”, conclude la portavoce del M5S, che ha presentato inoltre all’Amministrazione una proposta per l’impiego di detenuti ed ex detenuti nella raccolta dei rifiuti porta a porta, con l’obiettivo di venire incontro alle esigenze di disabili gravi e anziani non deambulanti. Firenze: continua il “viaggio nelle carceri” della Consulta, il 15 febbraio a Sollicciano askanews.it, 6 febbraio 2019 La giudice della Corte costituzionale Silvana Sciarra. Venerdì 15 febbraio, a Firenze, presso la Casa Circondariale di Sollicciano (Via Girolamo Minervini, n.2/r), a partire dalle 15,30 la giudice della Corte costituzionale Silvana Sciarra incontrerà le detenute e i detenuti, nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Nel teatro dell’Istituto, dopo una lezione sul frammento di Costituzione “Fondata sul lavoro”, la giudice risponderà alle domande che detenute e detenuti vorranno rivolgerle. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri tra i giudici e i detenuti in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. A seguire, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano, seguiranno le carceri di Potenza, Padova, Napoli, Bologna. Una “Chiave di cioccolata” per entrare nel mondo del carcere di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 febbraio 2019 Sarà presentato giovedì al Pub&Shop “Vale la pena”, romanzo d’esordio di Enrichetta Vilella, dirigente dell’area pedagogica del carcere di Pesaro. L’autrice: “Più che da un’idea, questo libro nasce da un bisogno: il bisogno di un gesto insieme liberatorio e comunicativo, che potesse aiutarmi a capire”. “Più che da un’idea, questo libro nasce da un bisogno: il bisogno di un gesto insieme liberatorio e comunicativo, che potesse aiutarmi a capire. Prende forma, in un momento in cui sentivo sfuggire il senso del mio lavoro, quando la spinta di cambiamento si è arrestata bruscamente come si fosse trattato di uno scherzo tra amici. L’educatrice allora si chiede cosa fare e scrive un romanzo, perché tra le sue due passioni, scrittura e lavoro, la scrittura potrebbe diventare il veicolo adatto a condividere con gli altri, quanti più possibile, le tante domande che il carcere, vissuto da dentro, pone”. Lo racconta così, Enrichetta Vilella, il suo romanzo d’esordio, “La chiave di cioccolata”, edizioni Pequod, che sarà presentato giovedì 7 febbraio dalle 17.30 al Pub&Shop ‘Vale la Pena’: 112 pagine con cui l’autrice, dirigente dell’area pedagogica del carcere Villa Fastiggi di Pesaro, entra in punta di penna nella vita delle persone e negli ambienti che frequenta per lavoro ogni giorno. In quelle stanze con le sbarre alle finestre in cui i ruoli a un certo punto si rovesciano e che a distanza di anni saranno guardate dalla pronipote della protagonista come ‘una barbariè. La storia. Anna, ormai anziana, seduta comodamente sulla poltrona del salotto di casa sua, legge assorta alcuni diari scritti da donne detenute che risalgono almeno a una trentina di anni prima. In compagnia di nipoti e pronipoti passa in rassegna tutte le testimonianze trasposte in quelle pagine. Legge di Josephine, arrivata da poco, che racconta di come si sta ambientando, di Raina che piange la lontananza da sua figlia. Di Federica che vive l’esperienza dell’isolamento. Poi ci sono Susi, Antonella, Carla, e infine Monica, che sta per essere rilasciata: in lei c’è una forte agitazione, quasi non si sentisse pronta a quella svolta da tempo attesa. Tante sono le protagoniste e tante sono le voci che, come in un’orchestra, spesso si fondono e si confondono. Diverso è il timbro, diverso il ritmo, diversa è anche l’intensità, ma il tema di fondo li accomuna tutti. La chiave di cioccolata è un romanzo che, con parole di chi ha visto coi suoi occhi le realtà delle carceri, affronta il tema della prigionia e, quindi, inevitabilmente, della libertà. Come è riuscita a proiettare sulla protagonista la sua esperienza di educatrice? “Anna, nel romanzo, si chiede come sia possibile portare sulla carta la carne viva - spiega l’autrice -. Quanta distanza ci sia tra un cosiddetto ‘profilo di personalità’ che gli operatori delineano nelle relazioni e la vita delle persone, intendendo con persone il loro essere detenuto-autore di reato e il loro essere tutto il resto che eccede tale binomio. Come declinare detenzione, doveri e diritti? Quale percorso educativo ‘individualizzato’ è possibile attraverso una ‘pena unica’ per tutti? La letteratura è il mezzo che può facilitare l’immedesimazione con i personaggi, il coinvolgimento nelle storie”. Come si snoda il romanzo? “Le azioni si svolgono in due momenti precisi, distanti tra loro un quarto di secolo: il 2038, quando Anna, educatrice in pensione, legge i suoi diari e alcuni scritti di detenute sulla libertà. E il 2014, quando Monica, detenuta presso il carcere dove Anna lavora, viene scarcerata. Qualcosa, però, è successo nel frattempo, perché nipoti e pronipoti di Anna, coinvolti nella lettura e nei ricordi, parlano del carcere come di una barbarie antica, di un’altra epoca. E qualcosa è successo in quel 2014, perché nelle lettere alla libertà che le detenute scrivono, dopo la scarcerazione di Monica, così come nei diari di Anna, si legge che in quel giorno fatidico l’educatrice prende il posto di Monica Morrini nella cella 19. In un intreccio di scambi di ruolo che si gioca su linee di confine che lettrici e lettori sono invitati a percorrere e decidere da quale parte valicare. Magari, non una volta per tutte”. Contenzione e salute mentale. Prima i diritti di Salvina Rissa Il Manifesto, 6 febbraio 2019 La battaglia per una nuova cultura della salute mentale, rispettosa dei diritti delle persone, ha ancora molta strada da fare. Due libri offrono indicazioni preziose in questa direzione: quello scritto da Giovanni Rossi, “Due o tre cose che so di lei. Ricettario della salute mentale” e quello proposto da Maria Luisa Menegatto e Adriano Zamperini, “Coercizione e disagio psichico. La contenzione fra dignità e sicurezza” I promotori della campagna… “E tu slegalo subito” hanno inviato una lettera aperta all’Assessore alla Salute della Regione Sardegna, dopo un altro caso di morte in stato di contenzione, nel settembre scorso: un uomo di trent’anni, legato mani e piedi da più giorni nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura-Spdc di un ospedale di Sassari. Nel 2015, il Comitato Nazionale di Bioetica pubblicò un parere in cui si denunciava l’uso della contenzione come pratica routinaria (invece che assolutamente straordinaria) e invitava tutte le istituzioni competenti “ad adottare tutte le misure possibili per raggiungere l’obiettivo del superamento della contenzione”. A distanza di quattro anni, questo è purtroppo un obiettivo ancora lontano, dunque la battaglia per una nuova cultura della salute mentale, rispettosa dei diritti delle persone, deve andare avanti. In tale ambito, merita un occhio di riguardo il libro di Giovanni Rossi Due o tre cose che so di lei. Ricettario della salute mentale (Editoriale Sometti, pp. 256, euro 15,00). Giovanni Rossi, oltre a essere un attivista (ha fondato il club degli Spds no restraint), è uno psichiatra, che ha diretto il Dipartimento di Salute Mentale di Mantova. È dunque un esperto, che tuttavia scrive un libro in un linguaggio non tecnicistico (pur maneggiando con estrema precisione concetti e paradigmi scientifici e culturali). Il suo scritto permette di aggirarsi con agio nel vasto e controverso terreno della salute mentale scattando “istantanee” varie (le “ricette”): da casi emblematici e dalle storie di vita, alla rivisitazione di eventi storici e di “persone importanti”, fino all’approfondimento di concetti chiave. Tante “ricette” (da cuoco, non da medico), che niente hanno a che fare con lo sguardo “oggettivante” della diagnosi clinica. Il lettore può trovare un filo unificante in una nuova idea di salute mentale “non più coincidente con l’assenza di diagnosi di malattia”. La salute mentale “non dipende più dal giudizio psichiatrico”, è un work in progress - che vede l’individuo protagonista nel perseguire il pieno sviluppo personale, relazionale e sociale. In questa luce, i diritti sono un volano fondamentale di salute mentale. Di converso, un approccio trattamentale che ignori la soggettività del paziente - fino all’estremo del ricorso alla contenzione - rientra nella vecchia logica manicomiale di controllo, e non di cura della persona. A questo orizzonte culturale si è ispirata di recente la Corte di Cassazione, quando ha stabilito che la contenzione non è mai un atto terapeutico. Sul tema specifico della contenzione, hanno scritto Maria Luisa Menegatto e Adriano Zamperini, Coercizione e disagio psichico. La contenzione fra dignità e sicurezza (Il Pensiero Scientifico Editore, pp.162, euro 15,00). Oltre a inquadrare la questione nella prospettiva storica e giuridica, il lavoro di Menegatto e Zamperini si addentra nella pratica dal punto di vista di chi la mette in atto, attraverso interviste a operatori vari. Gli autori si rifanno, criticandolo, al “paternalismo medico”, da ricondurre al conflitto fra principio di beneficienza e principio di autonomia (del paziente), e dal sopravvento del primo sull’altro. Beneficienza e autonomia sono due dei principi fondanti dell’etica medica, ma c’è da chiedersi se su questi sia opportuno ragionare per un atto che non ha niente di terapeutico come la contenzione. Inoltre, il nuovo apprezzamento della soggettività del paziente nella relazione di cura induce a declinare diversamente il rapporto fra i due principi. Non più beneficienza versus autonomia, alla ricerca di un “bilanciamento”. L’autonomia è l’unico canale attraverso cui il medico può operare per il bene del paziente. È il principio del consenso informato. Che deve valere anche per le persone con disturbo mentale. Diciotti, la difesa di Salvini: “Il sequestro dei migranti? Scesero due ore dopo l’ok” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 febbraio 2019 Il ministro dell’Interno difende una “decisione collegiale” presa per la “sicurezza nazionale” e attacca il tribunale dei ministri di Catania. La relazione rivista con Giulia Bongiorno. Difende una “decisione collegiale” presa per la “sicurezza nazionale” e attacca il tribunale dei ministri di Catania perché “non ha tenuto in conto le nostre ricostruzioni”. Ribadisce il pericolo “che a bordo della nave ci fossero terroristi” e nega di aver “messo a rischio la sicurezza delle persone”. Ma soprattutto sostiene che “i minori rimasero a pregare per due ore dopo l’ordine di sbarco”. Sul caso Diciotti il ministro Matteo Salvini decide di andare all’attacco ribadendo la sua linea politica che associa l’arrivo dei migranti a un pericolo per l’Italia. Una tesi che il collegio di giudici ha già respinto sostenendo che non ci fosse alcuna prova. Alla giunta per le autorizzazioni del Senato consegnerà una relazione scritta e rivista parola per parola con Giulia Bongiorno, l’avvocatessa che ha difeso politici di primo livello e adesso è la ministra della Pubblica amministrazione in quota Lega. Niente audizione “perché scripta manent”, spiega il titolare del Viminale alla vigilia di una giornata che per lui può essere decisiva. “Parlerò davanti all’aula”, anticipa. Le infiltrazioni - Per tentare di dimostrare il “pericolo” Salvini cita un precedente che però non ha nulla a che fare con la nave militare che rimase nel porto di Catania tra il 20 ed il 25 agosto scorso con 177 stranieri a bordo. E dice: “Il rischio di infiltrazioni era emerso più volte, anche in occasione del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si era svolto pochi giorni prima in Calabria il 24 giugno 2018. Due tunisini sbarcati a Linosa erano risultati già espulsi dall’Italia nel 2015 per orientamenti filo-jihadisti”. Sostiene che sono stati “i funzionari del Viminale a spiegarlo ai giudici, ma loro non ne hanno tenuto conto”. Il riferimento è al capo di gabinetto e alla responsabile del Dipartimento immigrazione che sono stati interrogati nel corso dell’istruttoria. In realtà nella relazione inviata in Parlamento dal Tribunale dei ministri è scritto: “Nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di “persone pericolose” per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale”. Due ore di preghiera - L’accusa di sequestro di persona viene contestata perché “alle ore 22.30 del 17 agosto 2018, Salvini bloccava la procedura di sbarco dei migranti, così determinando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale di questi ultimi, costretti a rimanere in condizioni psico-fisiche critiche a bordo della nave Diciotti ormeggiata nel porto di Catania dalle ore 23.49 del 20 agosto e fino alla tarda serata del 25 agosto, momento in cui veniva autorizzato lo sbarco. Fatto aggravato all’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età”. La replica di Salvini si concentra proprio sulle procedure, sostenendo che “il 22 agosto, quando fu dato il via libera allo sbarco dei minori gli extracomunitari decisero di restare volontariamente a bordo per terminare un rito religioso per circa due ore, dalle 20.30 alle 22.30 e questo dimostra che non erano affatto stremati”. Ma poi evidenzia come la maggior parte “ha rifiutato di entrare nelle strutture di accoglienza e si è trasferito in altre città, tanto che qualcuno è stato rintracciato a Roma tra gli occupanti del “Baobab”“. Scelta collegiale - Su indicazione della Bongiorno, il ministro dell’Interno punta sul fatto che “la scelta politica è stata condivisa dall’intero governo”, facendo evidentemente riferimento al titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli che ha sempre subito le scelte del Viminale, al vicepremier Luigi di Maio e allo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte che non è intervenuto se non dopo aver ottenuto dall’Ue la distribuzione degli stranieri. E in questo modo sembra voler lanciare un messaggio ai 5 Stelle che sono divisi sulla possibilità di concedere il via libera all’autorizzazione a procedere nonostante lo stesso Salvini abbia chiesto in maniera netta un voto contrario e la Lega abbia parlato di “processo al governo”. La frecciata lanciata da Bongiorno è diretta: “Mi sento molto tranquilla. Le scelte fatte da Salvini non sono state fatte privatamente, ma da un governo che ha fatto della lotta all’immigrazione uno dei punti salienti della propria attività istituzionale”. Medio Oriente. L’allarme sui “foreign fighters”, i curdi minacciano di liberarli di Anais Ginori La Repubblica, 6 febbraio 2019 L’Europa pensa a una Guantánamo per gli ex combattenti dell’Isis con passaporto della Ue. Li chiamano revenants, coloro che ritornano. Con il brusco annuncio del ritiro militare degli Stati Uniti dalla Siria si apre un problema immediato per Parigi e molti altri Paesi occidentali: decidere dove portare le centinaia di foreign fighters attualmente detenuti nelle zone curde. Nel Nordest della Siria ci sono attualmente 800 miliziani, quasi 2mila donne e bambini, tutti con passaporti francesi, britannici, belgi, tedeschi o di altri Paesi occidentali. I peshmerga curdi minacciano di liberare gli ex combattenti stranieri dell’Isis come rappresaglia contro il ritiro americano o consegnarli a Damasco come merce di scambio nelle trattative contro la Turchia. I governi occidentali devono tenere conto dei rapporti di forza nella regione, ma anche delle polemiche nazionali sul futuro da riservare ai revenants. La Francia è il Paese che ha il contingente più elevato, 130 uomini fatti prigionieri dopo la caduta del Califfato. “Esaminiamo tutte le opzioni per evitare la dispersione o l’evasione di soggetti potenzialmente pericolosi”, ha spiegato il ministero degli Esteri in una nota. In passato, il governo di Parigi aveva appoggiato dietro le quinte l’eliminazione di alcuni dei compatrioti arruolati nell’Isis attraverso operazioni mirate delle forze speciali. Secondo i dati ufficiali, sui circa 680 francesi presenti nella zona del conflitto tra Iraq e Siria negli ultimi anni, più di 300 sono morti e una parte è già partita per altre zone di guerra, dall’Afghanistan alla Libia. Il dibattito è acceso Oltralpe. Per le autorità francesi è politicamente difficile sostenere il ritorno di questi ex combattenti. L’estrema destra è già all’attacco per rifiutare il rimpatrio di francesi descritti come potenziali “bombe umane”. Secondo la ministra francese della Giustizia, Nicole Belloubet, gli ex jihadisti dovrebbero essere subito incarcerati con l’accusa di “partecipazione a gruppo terroristico” e pene variabili da 7 a 30 anni. I problemi tecnico-giuridici sono molti. Sulla carta gli ex combattenti potrebbero essere incriminati e condannati a lunghe detenzioni, ma innanzitutto va formalizzata una procedura di estradizione che abbia valore nei tribunali occidentali. Il Rojava, lo Stato curdo siriano, non è riconosciuto dall’Europa. Gli ex miliziani stranieri dovrebbero quindi essere ceduti a un Paese terzo che formalizzi l’estradizione, come l’Iraq o la Turchia. Anche in questo caso però i margini per una contestazione legale tale da annullare i processi sono forti. Alcuni dei prigionieri sono oggetto di procedimenti penali in paesi europei come quelli del famigerato gruppo “Beatles”, accusati della partecipazione ai sequestri di persona ai danni di inglesi, francesi e dell’italiano Federico Motka. Ma davanti un tribunale occidentale anche quelli incriminati sulla base di indagini formali rischiano di essere rilasciati. C’è poi la questione dei miliziani Isis che non sono di nazionalità europea e contro i quali non si potrebbero muovere accuse. Sono figure importanti, potenziali sorgenti di informazioni. Con il ritiro americano alle porte e la prevedibile fine del Rojava, potrebbero venire uccisi, tornare liberi o venire consegnati al regime siriano che li gestirebbe in base alle sue logiche. In ogni caso per gli Usa e l’Occidente rappresenterebbe una sconfitta. Un’altra ipotesi, non ancora formalizzata e comunque fonte di polemiche, è l’idea di trasferire gli ex combattenti occidentali prigionieri nel Nordest siriano in un campo di detenzione allestito in una zona franca o in un paese terzo, sul modello di Guantánamo. In attesa di trovare una soluzione comune, la lista dei prigionieri occidentali nel Kurdistan continua ad allungarsi. Qualche giorno fa sono stati fermati altri sei ex combattenti, tra cui un russo, un tedesco e uno svedese. Gli Stati Uniti, attraverso un portavoce del dipartimento di Stato, hanno chiesto ai Paesi alleati di rimpatriare al più presto gli ex foreign fighters. “Nonostante la perdita del territorio in Iraq e in Siria, l’Isis rimane una forte minaccia terroristica e l’azione collettiva è fondamentale per affrontare questa sfida di sicurezza internazionale condivisa”, ha commentato il portavoce Robert Palladino. Il tempo per decidere sta per scadere. La beffa degli Emirati “tolleranti” di Alberto Negri Il Manifesto, 6 febbraio 2019 Il viaggio di Papa Francesco è stato uno strumento di propaganda di un Emirato che con 1,5 milioni di abitanti spende in armi 22 miliardi di dollari l’anno, più dell’Italia. Questa missione del Pontefice è stata usata dalla monarchia assoluta del principe Mohammed bin Zayed per rifarsi un’immagine deteriorata. Quasi da non credere. Ecco un Paese aperto al dialogo e tollerante verso le minoranze. Indovinate chi è? Ma gli Emirati Arabi Uniti certamente, almeno nella descrizione dei reportage della Rai sul papa ricevuto ad Abu Dhabi. Mai un accenno alla guerra degli Emirati in Yemen, ai massacri contro i civili e gli sciiti e al sostegno dato negli anni a jihadisti in Siria schierati anche contro i cristiani. Gli Emirati finanziano un esercito di 30mila mercenari per far fuori gli Houthi sciiti e i civili yemeniti in una coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti. In realtà si tratta di una sorta di Santa Alleanza sunnita che ha pure decretato il bando del Qatar accusato di essere alleato con i Fratelli Musulmani, il versante perdente dell’Islam politico dopo il fallimento delle primavere arabe. Ma soprattutto si capisce molto bene che sdoganare moralmente le famiglie regnanti del Golfo come quella degli Emirati, legate all’Arabia Saudita - e ormai più o meno direttamente anche a Israele - ha un obiettivo politico ben preciso: quello di stringere in una morsa, utilizzando anche operazioni di immagine, l’Iran, il vero nemico degli assolutisti e dei jihadisti sunniti, che ha colto insieme alla Russia il successo di tenere in piedi il regime di Bashar Assad e che appoggia i ribelli Houthi in Yemen. Se Assad ha manovrato, proteggendoli, i cristiani a suo favore, gli Emirati e i loro alleati come l’Egitto non sono da meno. Adesso il leit motiv di queste disgraziate dittature oscurantiste è quello di mostrarsi dei paladini delle minoranze del dialogo inter-religioso in modo da potere vantare dei crediti verso l’Occidente nella guerra in Yemen, nella repressione interna e in futuro scontro gli ayatollah di Teheran. Spiace che il papa sia caduto in una trappola del genere, come se qui non sapessimo che se ci sono state delle potenze ostili alle minoranze e ai cristiani sono proprio le monarchie del Golfo che hanno appoggiato persino l’Isis e i jihadisti pur di far fuori i regimi sciiti e anche i cristiani. Tanto per dirne una gli Emirati riconoscevano il regime di Talebani di Kabul che decapitava in piazza la gente e sbriciolava i Buddah di Bamyan: altro che tolleranza religiosa: ma ormai anche i talebani sono stati sdoganati dagli americani. Agli Stati Uniti, sostenitori di Israele, l’altro nemico di Teheran, questa new wave è funzionale all’obiettivo di mettere l’Iran in un angolo e di contenere la sua influenza in Iraq, Siria, Libano e nei confronti delle popolazioni sciite del Golfo che si oppongono alle dittature. Altro che dialogo inter-religioso. Il documento sulla “fratellanza umana” firmato da papa Francesco e dall’Imam di Al-Azhar, Ahmad Muhammad Al-Tayyeb afferma che “le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza”. Ecco gli Emirati sono lì proprio a dimostrare esattamente il contrario. Quasi una beffa. Qui siamo all’uso strumentale della religione per fini politici. Il Papa ha partecipato all’incontro inter-religioso sul tema “Fratellanza umana” al Founder’s Memorial di Abu Dhabi e haa celebrato messa alla comunità di immigrati cattolici, in gran parte asiatici che lavorano qui in condizioni da servitù della gleba. Un grande bagno di folla ma anche di lavoratori privi dei diritti più elementari. Senza di loro l’economia degli Emirati, popolati da locali nullafacenti baciati dalla manna petrolifera, non potrebbe funzionare, perché vi è bisogno di manodopera per i lavori più umili, ma anche di espatriati negli uffici e nella finanza. Certo per la Chiesa è già un grande passo avanti se si pensa alla vicina Arabia saudita dove è proibita perfino la preghiera in privato in una fede diversa dall’islam. Ma dare una patente di credibilità a queste monarchie del Golfo è davvero un po’ troppo. Bresile. Il pacchetto sicurezza di Bolsonaro: tutti dentro di Maurizio Stefanini Libero, 6 febbraio 2019 Riforma della giustizia ed estensione della legittima difesa. Il ministro Sergio Moro, “Di Pietro brasiliano”, presenta un piano durissimo contro i criminali comuni e i politici corrotti. E arriva ora il momento di Sérgio Moro. Eletto sull’onda di una richiesta popolare di pulizia contro i politici corrotti e di sicurezza contro la criminalità dilagante, il nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha voluto come ministro della Giustizia e della Sicurezza proprio il giudice Sérgio Moro: eroe di quella “Lava Jato” che era stata la “Mani Pulite” brasiliana, in ultimo sfociata nella destituzione della presidente Dilma Rousseff e nella detenzione del suo predecessore Lula. Moro ora cerca di iniziare il suo compito attraverso la presentazione al Congresso di un ampio pacchetto di proposte legislative presentate al Congresso, che, spiega in conferenza stampa, prevedono la modifica di ben quattro codici: il Codice Penale; la Legge di Esecuzione Penale; una “Legge dei Crimini Puzzolenti” risultante dalla traduzione letterale di quel “crimes hediondos” che in portoghese sta per “delitti odiosi”; il Codice Elettorale. Stop all’impunità - Assi principali sono corruzione, crimine organizzato e crimine violento, che secondo Moro sono temi da trattare assieme. “Il delitto organizzato utilizza la corruzione per guadagnare impunità”, ha spiegato Moro. “D’altra parte, il crimine organizzato è vincolato a buona parte degli omicidi del Paese; una grande percentuale degli assassinii avvengono per dispute del narcotraffico. Il crimine contro la amministrazione pubblica, come la corruzione, vuota le casse pubbliche, diminuisce le risorse disponibili perché lo Stato possa adottare politiche più efficienti contro la criminalità organizzata, contro la criminalità violenta, o politiche sociali che possano servire per diminuire la seduzione del crimine”. Uno dei punti chiave della riforma proposta riguarda appunto la querelle suscitata dal caso Lula, di cui si sosteneva che avrebbe dovuto essere messo in carcere solo dopo il giudizio in terzo grado. Un ricorso è attualmente sotto esame, ma la riforma chiarisce che, se li giudica un tribunale collegiale, anche i condannati in secondo grado andranno in galera, e solo eccezionalmente potranno chiedere la libertà provvisoria. C’è poi un inasprimento del regime per i condannati per corruzione o malversazione, che sotto gli otto anni potevano usufruire di un regime di reclusione semi-aperto o dei domiciliari. Adesso avranno invece sempre il regime chiuso, per lo meno a inizio pena. Indurimento anche per il finanziamento non dichiarato di campagne elettorali. Da delitto elettorale diventa crimine penale, con sanzioni più gravi. Tutti dentro anche i responsabili di delitti commessi con armi da fuoco o che comunque provochino morti. Le armi da fuoco implicano l’inizio pena in regime di reclusione chiuso e pena aumentata. Provocare morte implicherà poter beneficiare di un regime semiaperto solo una volta scontati i 3/5 della condanna, piuttosto che i 2/5. La scure sui boss - Moro vuole poi introdurre una tipificazione del concetto di organizzazioni criminali chiaramente basato sull’esempio italiano del crimine di associazione mafiosa. Pene più dure per leader e membri, che finiranno in carceri di massima sicurezza, e non potranno passare a un regime semi-aperto. Da Moro sono state citate espressamente come esempi di questi gruppi il Primeiro Comandoda Capital, il Comando Vermelho, il Terceiro Comando, gli Amigos dos Amigos, la Familia do Norte e le milizie di ex-agenti di sicurezza corrotti. Gli accusati possono patteggiare con i pm una dichiarazione di colpevolezza in modo da poter essere condannati senza giudizio, in cambio di sconti di pena e altri benefici. Saranno poi possibili multe e confische di beni, in proporzione a quanto si è guadagnato in modo illecito. I condannati per crimini dolosi dovranno depositare il proprio dna in una Banca Nazionale del Profilo Genetico per almeno 20 anni dopo la fine della pena. Infine si stabilisce che un agente di pubblica sicurezza agisce in condizione di legittima difesa quando “in conflitto armato o in rischio imminente di esso, prevenga una aggressione ingiusta e imminente al diritto suo o a quello di altre persone”. E i poliziotti processati per eccesso di legittima difesa avranno pene ridotte o annullate se dimostrano che c’era “paura, sorpresa o emozione violenta scusabile”. Moro garantisce comunque che non sarà “una licenza di uccidere”.