Sovraffollamento: superato il muro dei sessantamila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2019 Al 31 gennaio sono 9.575 in più rispetto alla capienza regolamentare di 50.550 posti. Anche il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in audizione al Copasir, ha sottolineato che si tratta di “un’emergenza sotto tutti i punti di vista”. Continua a crescere il sovraffollamento. A dicembre si era registrato un leggero calo, ma Rita Bernardini del Partito Radicale aveva smorzato gli entusiasmi spiegando che la diminuzione dei 347 detenuti “era dovuta presumibilmente ai permessi che vengono concessi per le festività natalizie e di fine anno”. Così è stato. Al 31 gennaio, secondo gli ultimi dati aggiornati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultano 60.125 detenuti. Un risultato che fa registrare, infatti, 9.575 detenuti oltre alla capienza regolamentare che risulta, ufficialmente, di 50.550 posti. Al 30 novembre, invece, se ne registravano 9. 419. Ancora prima, al 31 ottobre, erano 9.187 i detenuti in più. A settembre erano invece 8.653 i ristretti oltre i posti disponibili. Un evidente lento e progressivo sovraffollamento. Un problema grave ammesso dallo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come già ricordato, al termine dell’audizione davanti al comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), ha sottolineato il problema del sovraffollamento: “È un’emergenza sotto tutti i punti di vista ma la soluzione non può essere uno svuota carceri visto che è dimostrato che rientrano subito dopo, in assenza di autentici percorsi di rieducazione si esce e si torna a delinquere”. Il guardasigilli ha anche ribadito che per superare tali criticità, il suo obiettivo è la costruzione di nuove carceri, attraverso anche l’individuazione di caserme dismesse. “Stiamo impiegando forze, energie e soldi, ma - ha concluso - è chiaro che non abbiamo la bacchetta magica”. Il discorso del piano carceri è stato affrontato anche dai governi passati, tanto che intervenne il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sottolineando che la costruzione di nuove carceri non era la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Recentemente è intervenuto anche il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza, sollecitando l’abbandono della visione carcerocentrica, perché sono le misure alternative che, oltre ad essere deflattive, abbattono la recidiva. disponibili. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. Rimane costante anche la presenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 46 le mamme detenute che hanno un totale di 52 figli al seguito, una ventina dei quali sono in carcere, mentre il resto sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. A Firenze doveva essere aperta da tempo un Icam, ma oggi l’appartamento è inutilizzato. Il ministro Bonafede ha promesso che provvederà all’istituzione degli Icam in ogni regione. La giustizia riparativa e le misure alternative di detenzione di Alice Conti urloweb.com, 5 febbraio 2019 Il primo febbraio 2019 presso il Best Western Hotel Universo si è svolta l’ultima parte del convegno: “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità difronte alla sfida della giustizia riparativa”, l’evento finale del progetto “la pena oltre il carcere”, iniziativa finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e realizzate dal Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) ed in partenariato con Cica (Coordinamento italiano case alloggio/aids). L’obiettivo è quello di guardare l’ambito carcerario da una nuova prospettiva, comprendere che alla soglia del 2020, sia necessaria una rielaborazione del concetto di detenzione ed un approccio verosimilmente riparativo, verso l’impegno ad una vera riabilitazione per i detenuti all’interno della società. Il “buttiamoli tutti dentro e buttiamo via la chiave” è un pensiero ancora attuale che evidenzia i limiti del carcere e sottovaluta la problematica recidiva della situazione. Le misure alternative - “L’interesse per la giustizia ricreativa” ha spiegato Riccardo De Facci, presidente del Cnca: “non è certo casuale. Nell’ultimo decennio le nostre organizzazioni hanno incontrato sempre più la realtà del carcere, impegnandosi in percorsi di messa alla prova dei minorenni, ma anche per contenere i danni di leggi carcerogene come la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione: nel 1990 i detenuti erano 36.300, nel 2018 ben 60mila, a cui vanno aggiunte le persone in misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova, che erano, al 30 novembre 2018, quasi altrettante (54.682); il 30% dei detenuti nelle carceri italiane è punito per violazione della legislazione sulle droghe contro il 15% della media europea. Per i reati economico-finanziari sono nelle carceri italiane lo 0,4% dei detenuti contro una media europea dieci volte superiore; in Germania il numero di detenuti per reati in materia di droghe è pressoché pari a quello dei detenuti per reati economico-finanziari”. Ricorda inoltre che a causa del gravissimo sovraffollamento delle carceri, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani; la situazione non è cambiata di molto, dato che al 30 novembre 2018, si trovavano in carcere circa 60mila detenuti, 10mila in più rispetto ai posti disponibili. Cambiare paradigma - Diventa sempre più evidente il necessario ripensamento strutturare del settore delle carceri, comprendente ovviamente tutte le sezioni, anche il minorile ed il carcere per donne con bambini inferiori ai tre anni, i quali sono di fatto detenuti come le madri. Durante i convegni, nei quali sono stati proposti progetti per la reinvenzione delle carceri, grazie agli interventi di persone profondamente informate e soprattutto formate sull’argomento, non sono mancati spunti di riflessione. Lucia Castellano, ad esempio, la quale è stata direttrice di molti istituti penitenziari, Silvio Ciappi, criminologo, lo stesso Riccardo De Facci, hanno ispirato un nuovo modo di affrontare il carcere ed il concetto di riabilitazione dei detenuti alla società ed alla vita. Inferno carceri, più feriti e tentati suicidi. L’allarme dei sindacati: mancano gli agenti di Sabrina Cottone Il Giornale, 5 febbraio 2019 Sono in aumento aggressioni, atti di autolesionismo e problemi psichiatrici. Una lametta alla gola e una forbice per minacciare il poliziotto in servizio nel reparto isolamento del carcere di Bollate, alle porte di Milano. Poi i due detenuti hanno imbavagliato l’agente, lo hanno legato e chiuso in un cella. Il loro scopo, secondo il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, era uccidere un altro detenuto. L’intervento di colleghi e ispettori di polizia penitenziaria ha salvato la vita del detenuto e liberato il poliziotto. Accadeva domenica scorsa in una delle carceri modello della Lombardia e d’Italia. Racconta come la violenza abiti anche laddove il recupero dei detenuti è sempre stato e rimane il primo obiettivo. A maggior ragione l’allarme è nazionale, come testimoniano i dati della sezione statistica del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) forniti dal Sappe sull’aumento di quelli che in asettici termini tecnici sono chiamati “eventi critici”: 10.423 atti di autolesionismo rispetto ai 9.510 del 2017, 1.198 tentati suicidi sventati in tempo dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria (1.135 nel 2017), 7.784 colluttazioni. Vuol dire che tre persone tentano il suicidio e ventuno persone compiono o subiscono ogni giorno atti di violenza. Alto il numero di ferimenti (1.159) e anche 5 tentati omicidi, mentre nel 2017 erano stati 2. Uno scenario da incubo, con i detenuti che preferiscono la morte alla detenzione e i poliziotti, sempre troppo pochi, impegnati in un’emergenza continua. Il Sappe contesta “il regime penitenziario aperto e la sensibile riduzione di controlli da parte della polizia penitenziaria”, oltre che “la mancanza di agenti di polizia penitenziaria”. Fabrizio Rinaldi, direttore del carcere di Bollate, durante un’audizione dello scorso ottobre alla Commissione carceri della Regione Lombardia, ha invece sottolineato come “si è rilevato un abbattimento sensibile dei tassi di recidiva”, come dire che la vita più aperta a esperienze di recupero di Bollate ha portato risultati positivi. Certo, l’appello di Rinaldi è stato e rimane forte e chiaro: “C’è il problema di una carenza d’organico del personale di polizia a cui si sta lavorando ormai da anni e in questo momento l’attenzione deve essere proprio per il personale di polizia”. Il carcere di Bollate è una piccola città: ospita circa 1.200 persone, quasi tutte in esecuzione pena. È significativa la presenza di detenuti con problemi di alcolismo e tossicodipendenza: 360 persone sono prese in carico dal Sert (il Servizio per le tossicodipendenze) interno. Più di una persona su quattro è alcolista o dipendente da droghe. E resta l’allarme sovraffollamento. In molte carceri italiane, delle quali san Vittore è simbolo, è prioritario il tema dell’aumento dei detenuti con gravi problemi psichiatrici: per gli operatori è difficile, anche per gli educatori più impegnati e nonostante la presenza del Comp, il Centro di osservazione psichiatrica, gestire una situazione sempre più complessa. Dietro i numeri si nascondono volti e sofferenze. Da avvocati e Anm proposta unitaria sul processo penale di Errico Novi Il Dubbio, 5 febbraio 2019 Dai presidenti di Ucpi e Anm, Caiazza e Minisci, le priorità per il Tavolo del 13 con Bonafede: “più riti alternativi, più forza al Gup e depenalizzazione”. “Potremmo avere bisogno di qualche giorno in più per definire nei dettagli la nostra piattaforma comune. Oppure dovremo anticipare l’incontro fra di noi, fra Unione Camere penali e Anm, in modo da arrivare pronti all’appuntamento con il guardasigilli Bonafede”. Gian Domenico Caiazza va persino oltre le aspettative della Camera penale di Bologna “Franco Bricola”, che ha organizzato l’incontro. Siamo nello scorso fine settimana, nella mattinata di sabato. Presso la “Fondazione forense bolognese” è in corso l’atteso dibattito fra esponenti dell’avvocatura penale, a cominciare appunto dal leader Caiazza, e dell’Associazione nazionale magistrati, con il presidente Francesco Minisci. Intervengono anche i vertici dei penalisti bolognesi: è anzi il presidente Roberto d’Errico, che con il segretario Ettore Grenci ha organizzato l’incontro, a moderare il faccia a faccia conclusivo fra Minisci e Caiazza. Si discute sulla “possibilità di un percorso in comune lungo l’itinerario delle riforme”. Caiazza dà notizia che “il 13 febbraio prossimo saremo dal ministro della Giustizia, per una prima riunione del tavolo sulla riforma del processo penale”. È il confronto che il presidente del Cnf Andrea Mascherin per primo ha proposto e che sta per entrare nel vivo. “Non sappiamo ancora cosa accadrà il 13, ma a questo punto siamo abbastanza certi di presentarci lì con una intesa di massima fra di noi che individua alcune aree di intervento”, è la giusta sintesi che Caiazza fa del confronto con Minisci. Di cosa si tratta? “Potenziamento dei riti alternativi, drastica riforma dell’udienza preliminare, forte depenalizzazione”. Priorità sulle quali Minisci non ha dubbi. Spiega a sua volta che “la nuova prescrizione, così com’è, rischia di allungare ulteriormente i processi, con il rischio di avere in appello una moltiplicazione terribile delle pendenza, già ora fuori controllo”. A questo punto, mercoledì della prossima settimana Bonafede dovrebbe trovarsi di fronte al formalizzarsi di un’alleanza, fra magistratura e avvocatura, che costringerebbe la maggioranza di governo a uno sforzo di riflessione. Via Arenula in realtà avrebbe già fissato una tabella di marcia serratissima. Secondo quanto anticipato dallo stesso guardasigilli alla presentazione al Parlamento della “Relazione sullo stato della giustizia”, i disegni di legge sul penale e sulle modifiche al processo civile sarebbero destinati ad approdare in Consiglio dei ministri entro febbraio. Ma la determinazione di avvocati e magistrati nel proporre la loro “piattaforma trilaterale” può cambiare il corso degli eventi. Non si tratta di proposte coincidenti con quanto fissato nel “contratto di governo”, e perciò lo stesso ministro potrebbe decidere di dare più tempo all’iter. In particolare due punti, dei tre sui quali Ucpi e Anm ragionano insieme, sono “eterodossi” rispetto ai pilastri dei partiti di maggioranza: la depenalizzazione e il potenziamento dei riti alternativi. Partiamo da quest’ultimo. Proprio mentre Caiazza e Minisci rinnovano con il summit bolognese la loro alleanza - nata il 6 dicembre scorso a un incontro voluto al Tribunale di Roma dall’Ucpi - la commissione Giustizia di Palazzo Madama si appresta, già da oggi, discutere un disegno di legge che eliminerebbe l’accesso ai riti alternativi per i reati da ergastolo. Uno storico cavallo di battaglia della Lega. E certo, in una fase in cui si tende piuttosto ad alzare le pene per i reati già previsti (come con la legge “spazza corrotti”) che a derubricare gli illeciti da penali ad amministrativi, la depenalizzazione suona come minimo spiazzante per la maggioranza di governo. Quindi l’intesa rinnovata sabato mattina a Bologna fra Camere penali e Anm andrà come minimo sottoposta al vaglio dei vertici di Lega e 5 Stelle. Ma si potrebbe partire intanto dalla “riforma dell’udienza preliminare” evocata sia da Minisci che da Caiazza. Vorrebbe dire impiegare le risorse finanziarie e di personale stanziate per la giustizia innanzitutto nel potenziamento degli uffici gip. È il passaggio indispensabile per consentire ai giudici delle udienze preliminari un vaglio effettivo dei casi, che non sii riduca a una catena di montaggio di rinvii a giudizio. Dell’incontro organizzato sabato dalla Camera penale di Bologna è molto interessante una, in particolare, delle riflessioni sviluppate da Minisci: “Se creiamo le condizioni per snellire le procedure, diminuire i numeri dei processi, arrivare prima in Appello le stesse polemiche sulla prescrizione diminuiranno”, ma la prima di quelle “condizioni”, per Minisci è, appunto, “la depenalizzazione”. Non l’abolizione del divieto di reformatio in peius o forzature sulle rinnovazioni dei dibattimenti in caso di cambiamento del giudice, ma un meccanismo deflattivo che tocca la natura dei reati anziché le garanzie. E quando evoca le polemiche da superare, Minisci si riferisce chiaramente a processi di una durata tale che la loro definizione possa arrivare ben prima del termine di prescrizione, in modo da non venirsi a trovare in quella terra di nessuno temuta dai penalisti, cioè con la sentenza di primo grado pronunciata e gli altri due gradi da celebrare in un tempo potenzialmente infinito per via della prescrizione abolita. Di qui a pochi giorni si potrà verificare, come dice Caiazza, “la concretezza delle intenzioni del governo”. Certo le idee chiare, e comuni, di avvocati e magistrati, dovrebbero tenere lontana qualunque velleitaria tentazione di colpire le garanzie senza puntare davvero al cuore dei problemi. Siete indipendenti? Per i magistrati c’è un test europeo di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2019 Il nuovo sondaggio sui sistemi giudiziari della Ue in una fase di crescenti tensioni tra giudici e politica nel nostro Paese. Su una scala da 0 a 10, quanto si sentono indipendenti i magistrati dei Paesi europei? E in Italia è cambiata o meno la percezione delle toghe nostrane della loro autonomia dal potere politico? E pensano di essere condizionati e eventualmente in che misura dai mezzi di informazione o dei social? Lo sapremo tra qualche mese quando verranno rivelati i risultati del nuovo sondaggio messo a punto dalla Rete europea dei Consigli di Giustizia (Encj), l’organo internazionale nato con l’obiettivo di contribuire al consolidamento dello spazio giuridico europeo nel contesto di un processo di forte accelerazione delle politiche di cooperazione giudiziaria. I magistrati, anche quelli italiani, avranno tempo fino a metà marzo per rispondere alle 21 domande. Che cercano di fotografare se e come la percezione della autonomia interna e esterna tra le toghe sia cambiata o meno negli ultimi due anni. Una questione assai delicata su cui il 7 febbraio a Palazzo dei Marescialli si terrà un incontro organizzato congiuntamente dalla Nona e dalla Quarta Commissione del Csm, in collaborazione con l’Encj e il Gruppo di Stati contro la Corruzione (Greco), e che vedrà la partecipazione dei presidenti delle Corti d’appello e dei procuratori generali. Secondo la rilevazione precedente, sempre effettuata in sede europea, i giudici danesi avevano promosso a pieni voti il sistema giudiziario interno in termini di garanzia sull’indipendenza del loro operato. A ruota i magistrati finlandesi e irlandesi, anch’essi assai soddisfatti. E le toghe italiane? A fronte di dati non incoraggianti espressi in analoghi sondaggi sottoposti a imprese e cittadini, le toghe italiane nel 2017 avevano assegnato un voto molto elevato alla propria indipendenza: in una scala da 0 a 10, un nove pieno, un filo inferiore alla valutazione che di se stessi hanno dato i giudici inglesi e di gran lunga superiore a quella dei francesi. Ultimi in classifica i magistrati di Lettonia e Lituania, decisamente più critici: ultimi in classifica quanto a auto-percezione dell’indipendenza giudiziaria. Ma come andrà questa volta? È presto per dirlo anche se il clima tra politica e magistratura almeno su suolo italiano è tornato a farsi rovente: qualche tempo fa con uno scontro al calor bianco tra Matteo Salvini e l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, da poco in pensione, che ha accusato il vicepremier di aver anticipato sui social network un’operazione contro la criminalità nigeriana quando era ancora in corso. E più di recente con le polemiche tutte politiche sull’iniziativa del Tribunale dei ministri di Catania che accusa il capo della Lega di sequestro di persona aggravato nella gestione dei migranti a bordo della nave Diciotti. Il sondaggio, da compilare in forma anonima, potrebbe risentire anche queste vicende. Anche se gli indicatori che la Rete europea dei Consiglio di giustizia prende in considerazione sono più generici e hanno a che fare con l’organizzazione del sistema giudiziario che ovviamente cambia da Paese a Paese, e riguardano ad esempio il livello di coinvolgimento del potere esecutivo e del parlamento nella nomina e nella revoca dei giudici, la nomina e la revoca dei presidenti dei tribunali, le modalità di nomina degli organi di autogoverno dei magistrati, ma anche l’organizzazione delle Procure. Le domande del sondaggio sono assai meno generiche: come quella che chiede ai magistrati se siano stati sottoposti negli ultimi due anni a “un’inopportuna pressione al fine di adottare un provvedimento, in un determinato modo”. E se vi siano state quale sia stata la frequenza di queste pressioni e da parte di chi, se ad esempio il governo, i media o il superiore dell’ufficio giudiziario. Se hanno ricevuto minacce di azione disciplinare per una decisione in merito a un procedimento, se sono stati oggetto di ricorso per responsabilità personale, ma anche se abbiano l’impressione che i procedimenti siano stati assegnati a magistrati diversi da quelli previste dalle norme o dalle procedure. E poi una sequenza di altri quesiti per capire se le promozioni negli uffici giudiziari avvengano in base a criteri di capacità. E infine una domanda a bruciapelo: “Quanto è d’accordo sul fatto che nel Paese siano state applicate ed eseguite sentenze pronunciate contro gli interessi del governo?”. Un modo per chiedere se le toghe tengano in considerazione o meno gli effetti politici del loro operato. Caso Salvini: ecco cosa dice esattamente la Costituzione di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 5 febbraio 2019 A differenza del Presidente della Repubblica, i membri del governo non godono di un’immunità generale nell’esercizio delle proprie funzioni. È comprensibile che sulla vicenda dell’autorizzazione a procedere per Salvini scattino dei riflessi condizionati. Comprensibile ma non giustificato. Comprensibile perché quando la banalizzazione è ormai assurta a valore e quando il dibattito politico si è trasformato nell’equivalente di latrati primordiali è difficile distinguere e ragionare. E rischia di essere un’impresa vana quella di riconoscere la differenza tra la vecchia autorizzazione a procedere dell’art. 68 nei confronti dei parlamentari e quella prevista dal nuovo art. 96 e dalla legge costituzionale 1/ 89 con riguardo ai ministri. E invece la differenza c’è ed è enorme. La vecchia autorizzazione parlamentare, giusta o sbagliata che fosse, muoveva dal presupposto che le Camere dovessero tutelarsi contro ingerenze indebite della magistratura, di difendersi dal fumus persecutionis. La nuova disciplina della responsabilità penale dei ministri si muove su tutt’altro piano. Non presuppone un giudizio sull’azione dei magistrati (che ognuno è libero di valutare come crede), ma una valutazione di merito che il legislatore costituzionale vuole, a torto o a ragione, sottratta alla magistratura e assegnata alla Camera di appartenenza del ministro. E, a questo proposito, merita segnalare che non si può essere cultori della Costituzione più bella del mondo e, contemporaneamente, detrattori del legislatore costituzionale (che peraltro, in questo caso, ha mitigato precedenti soluzioni, ancor più “protettive” della politica, originariamente previste dall’art. 96 della Costituzione). Insomma l’idolatria selettiva della Carta può comprendersi solo in questo contesto degradato dello scontro tribale, nel quale riflettere e argomentare è diventato motivo di disprezzo e la coerenza un optional pre- moderno. Altro che sonno della ragione. Qui siamo alla morte dichiarata. Comunque, il legislatore costituzionale ha ritenuto che gli atti dei ministri non siano perseguibili penalmente se l’inquisito abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” ovvero “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico” nell’esercizio della funzione di Governo. Da ciò derivano alcune conseguenze molto chiare. La prima è che, a differenza del Presidente della Repubblica, i membri del governo non godono di un’immunità generale nell’esercizio delle proprie funzioni. Non esistono “atti politici” insindacabili in astratto. Esistono solo valutazioni in concreto per ogni singolo atto per il quale si viene perseguiti. Non è una traguardo da poco. Nello stato costituzionale nessuno è legibus solutus. Non esiste la ragion di stato che a priori giustifichi qualunque cosa. E a ben guardare non esiste nemmeno per il Presidente della Repubblica, sempre responsabile per “attentato alla Costituzione” e per “alto tradimento” e i cui atti sono comunque condivisi dai ministri proponenti che si assumono una precisa responsabilità nel controfirmarli (art. 89 Cost.). La seconda conseguenza è che il legislatore costituzionale ha compiuto una scelta coerente nell’assegnare al Parlamento la responsabilità di pronunciarsi “insindacabilmente” sull’autorizzazione. Perché in questo caso non si tratta di applicare una legge, di verificare la ricorrenza in concreto di un astratto parametro giuridico (per quello sarebbe bastato un giudice, ordinario o speciale, o addirittura la Corte costituzionale, com’era prima), ma si tratta di definire cos’è “interesse dello stato” e cos’è “un preminente interesse pubblico”. Ora i nostri riflessi idealistici ci portano spesso a pensare che l’interesse pubblico sia qualcosa che esiste in natura, un dato bell’è pronto che bisogna solo “accertare”. Ma la realtà non è questa. L’interesse pubblico non è preconfezionato. L’interesse pubblico è ciò che “la politica”, come espressione delle scelte democratiche, definisce come tale. E di cui si assume la responsabilità… politica. Certo, alcune “definizioni” di interesse pubblico sono state già compiute e sono desumibili dalla Costituzione o dalle leggi. Ma il legislatore costituzionale del 1989 ha ritenuto, ci piaccia o no, che ci sono casi in cui quell’interesse non è predefinito, ma debba essere oggetto di una valutazione in concreto dell’organo politico per eccellenza, una delle Camere, perché è ciascuna delle Camere, l’una distintamente dall’altra, che può e deve apprezzare l’interesse pubblico. E se l’altra non fosse d’accordo? Può sempre sfiduciare il governo. E se il governo non fosse d’accordo? Può sempre dimettersi. Perché l’interesse pubblico è il cuore della politica e dell’indirizzo politico. Si può immaginare un modello diverso (quello di prima ad esempio, o uno completamente nuovo)? Certamente. Basta cambiare la Costituzione. Ma fino a quel momento nessuno, nemmeno Salvini, può sottrarsi alla competenza della Camera (o in questo caso del Senato) di assumersi la responsabilità di dire se i suoi atti come ministro fossero a tutela di un prevalente interesse pubblico o di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante. È la democrazia bellezza! Quella di cui tanti si riempiono la bocca oggigiorno, senza saper spesso di che stanno parlando. Da qui l’ultima conseguenza. Il voto è insindacabile perché è un voto eminentemente “politico”. Così come politiche non possono che esserne le ripercussioni. Quali che esse siano. Ed è forse per questo che sono tutti in fibrillazione. Ma i veri problemi per Salvini arriveranno dalla Corte Costituzionale di Francesco Damato Il Dubbio, 5 febbraio 2019 Non è per niente detto che il fronte più rischioso su cui sta combattendo Matteo Salvini sia quello del processo che gli vorrebbero fare a Catania per sequestro aggravato di persona, abuso d’ufficio e altro. E neppure dopo che il presidente della Camera Roberto Fico, volente o nolente, ha cercato di sgambettarlo politicamente intervenendo contro di lui nel dibattito in corso fra i grillini, al Senato, su come rispondere all’azione promossa dal cosiddetto tribunale etneo dei ministri, in difformità dall’archiviazione richiesta dalla Procura della Repubblica, per la vicenda del pattugliatore della Guardia Costiera italiana Diciotti. Dove il ministro leghista dell’Interno fece trattenere per quattro o cinque giorni in agosto più di 170 immigrati, doverosamente soccorsi in mare, per trattare a terra la loro ripartizione fra più paesi europei e i vescovi italiani. Che furono poi poco solerti a trattenere gli ospiti nelle destinazioni assegnate loro vicino Roma. Voglio proprio vedere, quando verrà il momento nell’aula del Senato, tutti i grillini votare contro Salvini, e le garanzie costituzionali che gli spettano nell’azione di governo per il perseguimento di un interesse superiore, peraltro riconosciutogli in prima persona, e pubblicamente, dal presidente del Consiglio. Sono altrettanto curioso di vedere votare contro Salvini tutti i senatori del Pd, per quanto spronati in questa direzione assai strumentale anche dall’ex segretario del partito Matteo Salvini, disinvoltamente dimentico delle rivendicazioni del “primato della politica” quando era lui alla guida del governo. Posso sbagliare, per carità, ma più facile di un sì al processo è la maggioranza assoluta del no, nell’aula di Palazzo Madama, grazie al concorso determinante dei forzisti di Silvio Berlusconi. E per i grillini, se ufficialmente schierati per il sì ma incapaci per questo di provocare una crisi, sarebbe uno schiaffo politico clamoroso. Non parlo dei piddini perché aspetto, col buon Emanuele Macaluso, che si decidano a diventare un partito, almeno dopo che avranno tentato di regolare i conti fra di loro con l’elezione del nuovo segretario. Non credo particolarmente rischioso per Salvini neppure il fronte della Tav, o della versione maschile preferita da Marco Travaglio, per quanto il leader leghista si sia guadagnato del ‘ rompicoglioni’ da Alessandro Di Battista per l’insistenza con la quale sostiene la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità per le merci da Torino a Lione. Da Luigi Di Maio invece Salvini si è sentito dare del supercazzolaro - da autore di una “supercazzola”- per avere proposto una versione almeno light del progetto tanto inviso ai grillini. Che pur di combatterlo meglio ne hanno moltiplicato a tavolino i costi per l’Italia, facendoli salire a 20 miliardi di euro dai 6 e anche meno cui furono ridotti già nella versione rivisitata dal governo precedente, con Graziano Delrio al Ministero delle Infrastrutture. Decisamente rischioso, o più rischioso, per Salvini è invece il fronte della Corte Costituzionale, dove è materialmente approdata la contestazione della legge su sicurezza e immigrazione al sessantesimo giorno dalla pubblicazione della legge di conversione del decreto di urgenza emanato il 4 ottobre scorso, in curiosa coincidenza con la festa del patrono d’Italia, San Francesco d’Assisi. A mio modesto avviso, Salvini prese sottogamba nelle settimane scorse la rivolta degli amministratori locali capeggiati dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Che peraltro ha appena ripreso la sua offensiva politica facendo iscrivere in questi giorni all’anagrafe del suo Comune gli immigrati col permesso umanitario scaduto o in via di scadenza. Appresso ai sindaci, ritenendo le nuove norme su sicurezza e immigrazione lesive delle autonomie e competenze locali indicate dalla Costituzione, si sono mossi anche i governatori - e relative giunte, con tanto di deliberazioni- di ben otto regioni: dal Piemonte all’Emilia- Romagna, dalle Marche all’Umbria, dalla Toscana alla Sardegna, dalla Basilicata alla Calabria. Diversamente dai primi cittadini, che in ogni caso, essendo eletti direttamente, hanno una rappresentatività politica maggiore di quella di un governo maturato non nelle urne, come ai tempi pur impropri della legge prevalentemente maggioritaria adottata nel 1993, ma in Parlamento dopo le elezioni, e composto da partiti contrappostisi in campagna elettorale; diversamente dai sindaci, dicevo, le regioni e i loro governatori, anch’essi di elezione diretta, hanno accesso diretto alla Corte Costituzionale. Dove sono appunto approdati i nodi della legge nella quale si è avvolto come in una bandiera il ministro dell’Interno. E che il presidente della Repubblica firmò a dicembre, dopo la conversione parlamentare, così poco convintamente da scrivere al presidente del Consiglio una lettera per raccomandarne in pratica, diciamo così, un’applicazione avveduta, conforme al rispetto dei principi costituzionali. Più stringente sarà o dovrà essere a questo punto, visti i problemi sorti sul piano locale, il giudizio della Corte Costituzionale. Il cui presidente Giorgio Lattanzi in una intervista a Repubblica di non più tardi del 31 gennaio scorso ha ricordato, fra l’altro, che “al centro della Costituzione c’è la persona con la sua dignità”, e “senza distinzioni di colore della pelle, di etnia, di religione”. Ciò vale - ha insistito Lattanzi - “per tutte le persone che si trovano in Italia, cittadini o stranieri che siano”, anche quelli che Salvini un po’ troppo frettolosamente aveva promesso di rispedire a centinaia di migliaia entro l’anno, o quasi, nei paesi di provenienza. Poi il ministro dell’Interno, e vice presidente del Consiglio, ha scoperto al Viminale, indossando felpe della Polizia e lasciandosi spiegare dai prefetti leggi, trattati, regolamenti e quant’altro, che le cose non stanno proprio come lui aveva immaginato. Esse sono più complicate, stanno purtroppo in modo tale che solo qualche giorno fa, proprio per le condizioni in cui si è venuto a trovare con l’applicazione delle nuove norme, il nigeriano venticinquenne Jerry Prince si è ucciso gettandosi sotto un treno a Genova. Atto politico e sindacato del giudice penale: il caso della nave Diciotti di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2019 Il Tribunale di Catania ha recentemente prodotto una relazione finalizzata all’avvio della procedura per il rilascio dell’autorizzazione da parte del Senato, volta a poter procedere nei confronti di un Ministro, per ipotizzato sequestro di persona, realizzato mediante la costrizione prolungata di migranti, a bordo dell’unità navale della Guardia Costiera Italiana “U. Diciotti”. Il Tribunale ha precisato che qualora autorizzato, non intende affatto sindacare un “atto politico” dell’Esecutivo, bensì un supposto, illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa. In particolare l’articolo 7, della legge Costituzionale n°1/1989, dispone che presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio, è istituito un Collegio per i reati commessi dai Ministri nell’esercizio delle funzioni, previa autorizzazione del Parlamento. La norma garantisce, dunque, il pieno rispetto dei principi costituzionali di legalità e di eguaglianza, bilanciandoli con il precetto della divisione dei poteri, caposaldo del moderno stato di diritto. Atto politico e atto amministrativo - La controversia è di evidente interesse giuridico, con particolare riguardo al rapporto tra atto politico e (possibile) sindacato del giudice penale. In presenza di un “atto politico”, sussiste insindacabilità da parte del giudice penale. In presenza di un atto dettato da “ragioni politiche”, tuttavia non qualificabile come “atto politico” in senso stretto, si apre invece lo scenario della ripartizione di competenze tra Autorità giudiziaria e Parlamento. Va coerentemente posta una distinzione tra atto politico insindacabile tout court dal giudice penale e atto amministrativo adottato sulla scorta di valutazioni politiche. L’atto politico è caratterizzato dalla provenienza dell’atto da organi dello Stato cui sono riconosciute funzioni di scelta e indirizzo, in nome e per conto della collettività. L’atto politico detta disposizioni generali in relazione al funzionamento dei pubblici poteri, con correlata libertà dei fini che spetta alla Pa realizzare. Ciò nondimeno, tali caratteristiche dell’atto politico vanno poste in equilibrio con l’effettività della tutela giurisdizionale. Per questa via è necessaria una lettura costituzionale sull’articolo 7 del codice del processo amministrativo, il quale stabilisce che non sono impugnabili gli atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. In buona sostanza, la categoria dell’atto di governo non può sussistere di per sé, ma solo in quanto tipologia di provvedimenti correlati a funzioni costituzionali proprie: è il caso delle deliberazioni di adozione di decreti legge e legislativi. Ad esempio, con riguardo ai provvedimenti di scioglimento degli organi elettivi comunali, la Consulta ha insegnato che la qualifica di atto politico va esclusa per i provvedimenti di scioglimento di cui alla legge n. 55/1990 concernente disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso, poiché la difesa degli enti locali da ingerenze della criminalità organizzata, persegue un interesse fissato dalla legge, residuando al potere esecutivo un compito esclusivamente amministrativo, attuativo. Mentre l’atto amministrativo incide in modo diretto ed immediato su posizioni giuridiche individuali, poiché volto a dare assetto agli interessi coinvolti in una fattispecie, l’atto politico è emanato dall’organo esecutivo, perseguendo fini ideali. L’atto politico non ha capacità lesiva di situazioni soggettive individuali, per cui non v’è esigenza di tutela giurisdizionale del privato cittadino rispetto ad esso. Atto pseudo-politico e atto di alta amministrazione - Nel caso di specie, il Tribunale di Catania ha ritenuto che oggetto di valutazione non sia un “atto politico” in senso stretto, bensì una condotta (il diniego allo sbarco) che, a suo giudizio, costituisce atto amministrativo endo-procedimentale dovuto. Il Tribunale distingue l’atto politico puro, dall’atto pseudo-politico (ispirato da un “movente politico”) che non assurge al rango di atto politico insindacabile. In altre parole, l’atto amministrativo che persegue finalità politiche esterne a quelle codificate dalla normativa di riferimento è censurabile come tutti gli altri atti amministrativi, ancorché la valutazione delle ragioni politiche che potrebbero aver influenzato l’ordinario corso delle procedure amministrative, non attiene al potere giudiziario, bensì al Parlamento quale espressione dei cittadini. Diversa natura ha inoltre l’atto di “alta amministrazione”, categoria che è anello di congiunzione tra la fase della programmazione politica e l’attività di gestione amministrativa. In sostanza, l’atto di alta amministrazione è pur sempre il prodotto dell’attività amministrativa, esecutiva, non di quella politica e si distingue dall’atto politico, non soltanto per essere comunque vincolato nel fine e soggetto alla legge, ma soprattutto perché è sindacabile dal potere giudiziario. Il giudice che “vendeva le sentenze” presenta appello (e torna in servizio) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 febbraio 2019 Il caso di un giudice del Tar arrestato e condannato nel 2016. In attesa dell’Appello riprende il lavoro. Non sono omonimi, sono proprio la stessa persona: il magistrato amministrativo che celebra udienze al Tar-Tribunale amministrativo regionale della Valle d’Aosta è lo stesso giudice del Tar Lazio arrestato nel 2013 e condannato nel 2016 in primo grado a 8 anni per corruzione in atti giudiziari. Un paradosso, formalmente legittimo, determinato dalla lentezza dei processi che livella le ragioni di tutti: sia di chi si stupisce di vedere sentenze decise anche da un giudice condannato (pur solo in primo grado) proprio per compravendita di sentenze, sia del diretto interessato che rivendica il diritto dopo 6 anni di non restare indefinitamente “sospeso in via cautelare” in attesa di Appello e Cassazione. È il 18 luglio 2013 quando il giudice del Tar Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, viene arrestato con l’accusa di essersi accordato con una avvocato amministrativista (che patteggerà poi 3 anni e mezzo) “per indirizzare clienti presso lo studio legale e porre in essere a loro favore indebite interferenze su assegnazioni, procedure e decisioni”: collegata all’arresto scatta il 6 agosto 2013 anche la sospensione cautelare dal servizio, di tipo automatico, che dall’11 febbraio 2015 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l’equivalente del Csm per i giudici del Tar) sostituisce con la sospensione cautelare di tipo facoltativo. Il 22 luglio 2016 il Tribunale di Roma condanna in primo grado il magistrato a 8 anni (uno più della richiesta dei pm), alla confisca di 115.000 euro e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici. La conseguenza è che il 20 marzo 2017, al posto della sospensione facoltativa, viene disposto un altro periodo di quella automatica. Solo che l’appello non è ancora stato fissato. Ma quanto può durare la sospensione in attesa di sentenza definitiva? Nel 2002 la Consulta ritenne incostituzionale, in quanto manifestamente eccessiva, una sospensione lunga quanto la prescrizione del reato, rimarcando che “una misura cautelare, proprio perché tendente a proteggere un interesse nell’attesa di un successivo accertamento, deve per sua natura essere contenuta in una durata strettamente indispensabile per la protezione di quell’interesse, e non deve gravare eccessivamente sui diritti del singolo che essa provvisoriamente comprime”. Restano allora o i 5 anni di durata massima come clausola generale; o, scaduti questi 5 anni, la scelta discrezionale di ricorrere di nuovo alla sospensione facoltativa dal servizio, cioè stavolta per motivi fondati non più sulla mera pendenza del processo penale, ma sull’apprezzamento in concreto dei fatti. L’opzione non è stata ritenuta percorribile dal “Csm” amministrativo, che ha finito per assegnare De Bernardi al Tar Valle d’Aosta dopo che il 17 aprile 2018 i magistrati del Tar Piemonte avevano paventato il “rischio di menomazione al prestigio, oggettivamente derivante dalla pendenza di un processo per reati gravi connessi all’esercizio delle funzioni giurisdizionali”. A giugno la storia finirà comunque: perché il giudice andrà in pensione. Contro il rumore vale il diritto alla salute di Giorgio Campolongo Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2019 L’articolo 1, comma 746 della legge 145/2018 ha introdotto il comma 1 bis all’articolo 6 ter della legge 13/2009, disponendo che “1-bis. Ai fini dell’attuazione del comma 1, si applicano i criteri di accettabilità del livello di rumore di cui alla legge 447/95, e alle relative norme di attuazione”. Spiega il Dossier parlamentare del 23 dicembre 2018, a pagina 425: “Il comma, introdotto al Senato, stabilisce che ai fini dell’attuazione della disposizione relativa alla normale tollerabilità delle immissioni acustiche si applicano i criteri di accettabilità del livello di rumore di cui alla L. 447/1995, recante la legge quadro sull’inquinamento acustico, e alle relative norme di attuazione”. Il passo ha dato il “la” a un’informazione per la quale ormai normale tollerabilità e accettabilità sono nozioni equivalenti: anzi, la seconda ha assorbito la prima. Ma l’informazione è errata, perché - seppure la norma possa non essere incostituzionale, delche vi è ragione assai seria di dubbio - in ogni caso in nulla muta la situazione giuridica dell’immissione intollerabile. Significa soltanto che, in caso di superamento dei limiti di accettabilità, l’immissione è automaticamente intollerabile, in applicazione dell’articolo 844 del Codice civile, in nulla modificato. Tale risultato, però, era già stato affermato dal diritto sin dal 2006 (Cassazione, sentenza 1418/2006) ed è principio costantemente applicato negli ultimi 12 anni. Se fosse vero che i criteri per valutare la normale tollerabilità di una immissione fossero gli stessi che per misurarne la accettabilità, significherebbe che la novità normativa avrebbe inferto un grave colpo alla tutela delle persone, in particolare al diritto alla salute, che invece il sistema costituito dall’articolo 844 del Codice civile ha sempre garantito. Vediamo il perché. Il rumore disturba nel momento in cui lo si percepisce, e più è forte, maggiore è il disturbo. Il sistema di cui all’articolo 844 del Codice civile, che ha come obiettivo la tutela del singolo individuo che si lamenta di una specifica immissione, adotta per la misurazione il criterio comparativo. Si mette a confronto il rumore minimo di fondo del luogo con l’immissione considerandone i picchi più alti. In linea generale, si considera intollerabile l’immissione che supera di 3 dB il rumore di fondo, ferma però la discrezionalità del giudice di assumere limiti diversi tenendo conto delle condizioni dei luoghi e le esigenze della produzione. Il sistema pubblicistico, invece, avendo come principale finalità la tutela dell’ambiente esteso, adotta come criteri di misurazione i livelli equivalenti ossia opera la media delle immissioni con i silenzi o le fasi di minore rumorosità. Però l’orecchio umano non percepisce il rumore nei suoi valori medi ma in quelli istantanei. Ne consegue che per valutare il disturbo da immissione, il criterio amministrativo - imperniato sul criterio differenziale in base all’articolo 4 del Dpcm del 14 novembre 1997 - è inadeguato, non consentendo al giudice di valutare il reale concreto disturbo percepito. La Cassazione ha fornito all’articolo 6-ter della legge 13/2009 una interpretazione costituzionalmente orientata, secondo cui la norma non preclude l’applicazione del canone della normale tollerabilità e del criterio comparativo, poiché solo questo è idoneo a tutelare il diritto alla salute. Questa interpretazione va mantenuta e nella valutazione della normale tollerabilità di una immissione non si deve utilizzare il criterio di misurazione amministrativo come invece sembra voler disporre il comma 1 bis dell’articolo 6-ter delle legge 13/2009. Aversa (Ce): l’ultimo giallo di Jridi, il suo suicidio in carcere di Teresa Palmese Metropolis, 5 febbraio 2019 Nessuno reclama il corpo dell’algerino. Attesa l’autopsia. Un anno fa si lanciò con l’auto sul sagrato di Pompei. Il corpo di Jridi Othman è da quarantottore nell’obitorio del cimitero di Castellammare di Stabia. La Procura ha disposto l’autopsia sul corpo del 22enne algerino impiccatosi nella cella del carcere di Aversa, dove era detenuto dallo scorso marzo per essere piombato a bordo di un’auto rubata sul sagrato di Pompei “evocando attentati terroristici”. Un mistero che s’infittisce a poche ore dal suicidio e che desta nuovi sospetti tra gli inquirenti che soltanto pochi mesi fa hanno ricostruito il profilo di un giovane dai caratteri inquietanti. Non un militante dell’Isis, sia Chiaro, ma comunque un fanatico di Allah. Un giovane che avrebbe potuto provocare una strage ai piedi del Santuario di Piazza Bartolo Longo, fermato soltanto dalle poche fioriere e dall’intervento immediato dei vigili urbani che coordinavano i lavori di smontaggio del palco allestito per la via Crucis, Un’incursione ripresa dalle telecamere di video-sorveglianza rivista e rivista dagli investigatori che tuttora intendono fare luce sul caso. Perché Jridi Othman ha deciso di togliersi la vita? Cosa si nasconde dietro l’estremo gesto del giovane? Un animo tormentato o un ulteriore legame ad Allah? Sono solo alcuni degli interrogativi degli inquirenti che indagano sul caso e che potrebbero in parte venire fuori dall’autopsia. C’è da accertare la causa del decesso e soprattutto se sul corpo del giovane vi siano altri segni di violenza. Un corpo che fino a ieri non e stato reclamato dai suoi familiari. E se non dovessero essere allacciati dei contatti coi parenti di Jridi Othman, la sua salma potrebbe essere addirittura seppellita a Castellammare. Il caso all’Antiterrorismo - Il folle gesto compiuto dall’algerino il 26 marzo 2018 nella citta simbolo della cristianità Fini sotto la lente d’ingrandimento dell’Antiterrorismo, C’erano troppi elementi che insospettivano e che alimentavano il timore che il ragazzo potessero essere un fan o, peggio ancora, un militante dell’Isis. Emersero un paio di retroscena inquietanti: durante l’udienza di convalida dell’arresto al Tribunale di Torre Annunziata, Othman dichiarò di aver agito dopo aver assunto farmaci e droga, così da “sentirsi più vicino ad Allah”. Tanto da recitare dinanzi al giudice monocratico Fernanda Iannone e al difensore d’ufficio brani del Corano e alcune litanie in arabo. Una di queste era dedicata proprio ad Allah. Fortunatamente, la preghiera era nota pure al magistrato, già alla Corte di Giustizia di Strasburgo alla divisione Antiterrorismo. Che a quel punto capì che dinanzi a lei non c’era proprio uno sprovveduto. Il ragazzo, che era imputato per il furto della macchina e le false generalità fornite ai carabinieri dopo l’arresto (un reato già commesso un anno prima a Cagliari), incassò una condanna di due anni e sei mesi. L’incursione sospetta - Nell’ordinanza con cui il giudice Iannone dispose la custodia cautelare in carcere di Othman si parlava soprattutto del video dell’incursione. Secondo il magistrato, il filmato rendeva “evidente l’estrema pericolosità della condotta” del giovane “che per le modalità, il luogo, la personalità e le condizioni psico-fisiche”. Faceva pensare al peggio. Ovvero, a comportamenti che evocavano “episodi di attentati terroristici”. La Procura distrettuale Antimafia di Napoli fu così messa al corrente della situazione, indagando a fondo per chiarire chi fosse per davvero Othman e quali contatti avesse eventualmente allacciato negli ultimi tempi. Tre i grandi sospetti degli investigatori. Primo: il modus operandi. L’invasione avvenne a Pompei, simbolo della cristianità in Italia, in una zona pedonale con una folle corsa terminata in piazza Bartolo Longo, luogo frequentato da migliaia di turisti e pellegrini e dove poche ore prima si era conclusa la via Crucis. Secondo: la personalità dell’arrestato, Si trattava di un ragazzo di origini algerine, irregolare in Italia, già espulso dalla Francia. Terzo: le condizioni psico-fisiche. Per sua stessa ammissione, Othman si era imbottito di droga e sostanze psicotrope e agì nel giro di un paio di ore. Il furto dell’auto avvenne a Terzigno alle 14 e alle 16 in punto l’uomo Fece Irruzione in piazza inseguito da carabinieri e vigili urbani. Un piano studiato, Forse una prova generale, Othman tentò pure di fornire false generalità dicendo di chiamarsi Djred Othman e di avere appena 18 anni. Roma: l’Isola solidale per ripartire dopo il carcere di Ester Palma Corriere della Sera, 5 febbraio 2019 Riprendere a vivere dopo il carcere, magari imparando un lavoro: sono aperte fino al 31 marzo le iscrizioni ai corsi per detenuti e ex-detenuti per il progetto “Formarsi per ripartire: una nuova vita dopo il carcere”, proposto dall’Isola solidale col sostegno della Fondazione nazionale comunicazioni (isolasolidale.it, tel. 065012670). L’Isola da oltre 50 anni accoglie detenuti per garantire loro un futuro professionale. Per il 2019 previsti 4 corsi per un totale di lo persone a corso, con formatori specializzati e volontari, avvocati, psicologi e assistenti sociali. Ecco i corsi: coltivazione dell’orto falegnameria, restauro e informatica. “Vogliamo dare un’occasione a chi vive il mondo del carcere di ripartire - spiega Alessandro Pinna, presidente di Isola solidale. Il reinserimento lavorativo dell’ex detenuto, restituendogli la sua dignità di cittadino, è determinante a ridurre le recidive di reato”. Pescara: detenuti al centro di un programma di reinserimento al lavoro abruzzolive.it Quattro persone condannate, dal 22 ottobre scorso, sono al centro di un progetto di recupero e reinserimento che le vede impegnate in un lavoro di archiviazione in vari uffici delle cancellerie del tribunale di Pescara. “È un progetto in cui ho creduto molto e che è partito con una mia richiesta di autorizzazione al Ministero risalente al luglio 2016 - ha spiegato questa mattina il presidente del Tribunale Angelo Bozza, nel corso di una conferenza stampa, alla quale ha preso parte anche la dirigente Rosalba Natali. È stato necessario attendere un anno e mezzo per l’autorizzazione, il reperimento dei fondi e l’avvio della fase esecutiva”. Le quattro persone coinvolte nel progetto, tre uomini e una donna, presentano status di diverso tipo: messa alla prova, affidamento, semilibertà e detenzione domiciliare. L’associazione Voci di dentro, con il contributo del partner privato Sisofo, copre l’assicurazione ed eroga dei piccoli rimborsi, garantendo la supervisione da parte di tutor specializzati. “Vengono selezionati i detenuti più meritevoli e che hanno compiuto un certo percorso - ha rimarcato il direttore della casa circondariale di Pescara, Franco Pettinelli. Non investiamo su tutti, ma solo su persone che mettono in mostra il desiderio di riscatto”. Luana Capretti, dell’Ufficio distrettuale dell’esecuzione penale esterna, ha sottolineato che “oltre ai detenuti, i quali risarciscono alla società il danno prodotto, sono coinvolte nel progetto anche persone che si trovano alla messa alla prova e che sono dunque obbligate a svolgere un servizio per un periodo determinato”. Francesco Lo Piccolo, presidente di “Voci di dentro”, ha osservato “che il lavoro è fondamentale per il reinserimento e che in quasi 10 anni di attività abbiamo avuto diverse persone assunte da enti e aziende”. Marco Spadini, semilibero, è una delle quattro persone coinvolte nel progetto. “Non avevo mai fatto prima volontariato, mentre ora lo faccio in tribunale e anche con la chiesa evangelica - ha raccontato. Mi piacerebbe continuare a farlo nel tempo libero, ma per vivere serve anche un lavoro che ci dia il modo di guadagnare qualcosa”. Una persona ancora detenuta ha riferito di essere stato “il primo a far parte del progetto” e ha detto che “questa attività mi è servita per conoscere persone diverse da quelle che conoscevo in carcere. Persone - ha aggiunto - che mi hanno aiutato a reinserirmi nella società”. Sono previsti nuovi inserimenti nelle prossime settimane e man mano che gli archivisti salderanno il proprio conto con la giustizia, completando il periodo di impiego, subentreranno altre persone. I tutor Marco Basilico, per contro del tribunale, Valentina Petitti e Danila Abbattista, per Voci di dentro, supervisionano i percorsi e le attività delle persone coinvolte nel progetto. Bollate (Mi): agente del carcere sequestrato da due detenuti di Ilaria Carra La Repubblica, 5 febbraio 2019 Volevano colpire un collaboratore di giustizia. È accaduto alle 22 di domenica sera: i due hanno finto un malore e sono riusciti ad aggredire l’agente minacciandolo con lamette e forbici e togliendogli le chiavi. Mentre tentavano di aprire la cella dell’altro detenuto sono stati bloccati. I sindacati: “Rischiamo la vita ogni giorno”. Imbavagliato e chiuso in cella è riuscito a dare l’allarme e la coppia è stata bloccata: con una scusa si stavano facendo portare in infermeria. L’hanno imbavagliato, legato al letto e rinchiuso in una cella. Minacciandolo con lamette e un paio di forbici. Poi gli hanno rubai o le chiavi per aprire le altre serrature. In particolare puntavano a una specifica, quella di un collaboratore di giustizia - anche lui in carcere - con il quale aveva avuto delle incomprensioni. Sono stati denunciati in procura per sequestro di persona i due detenuti di origine campana che domenica sera, nel carcere di Bollate, hanno aggredito un agente di polizia penitenziaria in servizio presso il reparto di isolamento. Solo le urla di altri detenuti hanno allertato i rinforzi di colleghi, che sono accorsi a liberarlo. I due detenuti avevano preparato un piano. Verso le 21 di domenica avevano lamentato malori, “non stiamo bene”, così l’agente li stava accompagnando in infermeria quando è stato aggredito e chiuso nella cella. Da quanto è stato riferito dai sindacati di polizia penitenziaria, i due detenuti, uno dei quali era già stato più volte trasferito da vari istituti in quanto piuttosto refrattario alle regole, oltre a essere stati denunciati al pm dalla direzione di Bollate, sono finiti anche sotto il consiglio di disciplina. Per loro sono stati disposti 15 giorni in isolamento. In più, oltre al loro trasferimento in altre strutture, è stato proposto al Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) di applicare loro il regime di sorveglianza particolare. Ed è stata aperta un’istruttoria interna, un’indagine per ora riservata. A fornire alcuni particolari della vicenda è stata la nota di Aldo Di Giacomo, segretario del Spp (Sindacato polizia penitenziaria), secondo il quale i due avrebbero ricevuto “dall’esterno l’ordine di uccidere il pentito”. Gennarino De Fazio, della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, denuncia: “Anche questa volta le conseguenze peggiori sono state evitate per circostanze fortuite e, come quasi sempre accade, per l’intraprendenza e la forza d’animo degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, in questo caso, addirittura, pure per il primo allarme lanciato da altri ristretti: è di tutta evidenza, però, che non ci si può affidare alla provvidenza”. Il Sappe, con Donato Capece, critica: “La sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, l’aver tolto le sentinelle della polizia penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, la mancanza di personale, visto che le nuove assunzioni non compensano il personale che va in pensione”. Milano: i giudici lo condannano, ma l’imputato è morto da un anno di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 5 febbraio 2019 Dopo la sentenza l’avvocato d’ufficio presenta anche l’appello. Lei ha 13 anni, lui si presenta sulla rete come “Giorgio for you”, pilota ventenne, fisico aitante. L’adesca, la fa innamorare, pian piano la spinge a spogliarsi davanti alla webcam. A mandargli foto oscene promettendole tra l’altro ricariche del cellulare. A sua volta si filma, stando sempre attento a non inquadrarsi il volto. Si spinge ogni volta più in là con le richieste. Se lei appena tituba, la manipola dicendole che si rivolgerà a un’altra “fidanzata”: così la piccola riprende lo scambio hot. Il sesso è virtuale ma sconvolgente, per la ragazzina milanese di terza media. La “relazione” dura quattro mesi. È il 2010. Un giorno la mamma - grazie ad un biglietto trovato nello zaino di scuola e destinato ad un’amica (“Lo lascio, spero non mi manchi”) - s’insospettisce, parla di questo con la figlia che crolla e finalmente si confida. Scatta la denuncia appena prima che i due - 13 anni una e in realtà 57 l’altro, manager romano di alto livello - si trovino per un pericoloso appuntamento di persona. Parte il procedimento ma per arrivare alla sentenza di primo grado ci vogliono ben otto anni. Un tempo lunghissimo nel quale l’imputato, grazie alla presunzione d’innocenza, gira a piede libero e senza alcuna misura restrittiva. Nel marzo del 2018 la condanna del Tribunale di Roma: sette anni di detenzione e un risarcimento di 30 mila euro per “l’estrema gravità del fatto consumato ai danni di una bambina e tramite strumento informatico, particolarmente insidioso e tale da consentire di diffondere (le immagini) ad un numero potenzialmente ampio di persone (...) un inganno perpetrato approfittando della ingenuità e dell’emotività della vittima, tipica della età adolescenziale”. L’imputato in aula non si presenta e risulta del tutto irreperibile. Strano. Comunque l’avvocato d’ufficio prepara il ricorso in appello e lo deposita - sempre senza sentire l’assistito. Ad oggi, febbraio 2019, la ragazzina diventata donna, lavoratrice in un call center, aspetta ancora la data dell’udienza che doveva essere fissata a giorni. Peccato che - l’incredibile - l’imputato già nel 2017 fosse defunto. Nessuno se n’era accorto. Ma come è possibile? Un defunto è stato condannato. E ha presentato ricorso in appello. Di più: lo Stato, soprattutto nell’ultimo periodo di indagini, ha speso parecchio denaro dei contribuenti per processare un fantasma. Per non dire della vittima - che in tutti questi anni ha fornito testimonianza in aula, vincendo la rabbia e la tristezza che rivangare i ricordi comportava. Peraltro sapendo che “il vecchio orco” (come aveva imparato a chiamarlo) girava indisturbato. “Non avremo mai un euro di risarcimento, mai neanche il rimborso delle spese legali. Non vedremo mai l’uomo che ha turbato la vita relazionale di nostra figlia, e ancora oggi le disturba il sonno, scontare un solo giorno di pena. Che perdita di tempo, che incuria”, si sfoga la mamma. “Viene anche da chiedersi come sia possibile che così tanto tempo separi il reato - un reato così grave - dalle sentenze”, considera Sonia Gaiola, avvocato della parte civile. Si è accorta lei dell’accaduto semplicemente perché per scrupolo, nell’attesa della data d’udienza, è andata all’Anagrafe. Invece del certificato di residenza dell’imputato si è vista consegnare un certificato di morte. Decesso: 14 novembre 2017. Firenze: “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione rileggendo Alessandro Margara” cesda.net, 5 febbraio 2019 Si svolgerà a Firenze, il prossimo 8 e 9 febbraio, il convegno “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione” Rileggendo Alessandro Margara. Si è molto discusso sull’uso populistico della giustizia penale e del carcere, quali armi contro i nemici sociali. Pratica che viene incontro alla nuova enfasi (assai diffusa e popolare) sulla centralità della pena carceraria come sola sanzione e la sua certezza. In coerenza, il carcere è sempre più declinato in versione “dura” e “chiusa” con contorno di lavoro obbligatorio e salvifico. Per “ripartire dalla Costituzione”, seguendo il pensiero di Margara, si presentano oggi due questioni di fondo: l’intreccio tra penale e politica, il significato che la giustizia e il carcere hanno assunto nel senso comune. Da tanto tempo si parla di uso simbolico del penale mettendolo in relazione al declino del sociale e alla incapacità della politica di governare la società moderna. Da un lato il diritto penale e il carcere sono agitati come clava “certa” contro i socialmente indesiderati (migranti, Rom e consumatori di sostanze); dall’altro, vacilla la “certezza” del principio costituzionale di uguaglianza di fronte alla legge. C’è chi può violare la legge e chi non può. “Meno stato e più galera”: così si esprimeva profeticamente Margara qualche anno fa. Dal dibattito su questi temi, sviluppato in un incontro in occasione del secondo anniversario della morte di Alessandro Margara, è scaturito l’impegno per un convegno nazionale, ispirato al suo pensiero e alla sua opera. “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione. Rileggendo Alessandro Margara”. Il convegno è stato preparato attraverso “Laboratori” tematici, per raccogliere il più largo contributo di idee e favorire la maggiore partecipazione possibile. Varese: musica in carcere, medicina per uomini migliori varesenews.it, 5 febbraio 2019 “Suoni di libertà” è il progetto a cui partecipano i ragazzi della scuola Einaudi: faranno musica coi detenuti del carcere di Bollate dove il tasso di recidiva è fra i più bassi d’Italia. Stare in carcere deve servire anche a non commettere più reati. Per questo il tasso di recidiva, cioè la propensione a commettere reati una volta scontata la pena è uno degli indicatori principali: più è alto, meno il sistema carcerario ha funzionato. Bollate ha un tasso di recidiva del 17% rispetto alla media nazionale che è di circa il 70%. Forse è anche merito anche dei ragazzi dell’Istituto Einaudi di Varese, che ha anche un indirizzo socio-sanitario, e ha scelto ormai da quattro anni di collaborare proprio con questo carcere, nonostante le tante difficoltà logistiche, vedi trasporti, burocrazia, etc. Anche quest’anno prosegue la collaborazione tra l’Istituto Einaudi ed il Carcere di Bollate con il progetto Suoni in Libertà (nella foto, una rappresentazione in un teatro di Milano). Lo spettacolo “Sgiansa”, messo in scena da detenuti, studenti e musicisti il 21 aprile 2018 presso il Teatro del Buratto di Milano, è ora nel cartellone delle Lezioni-Concerto della nuova stagione 2018/2019 dell’Orchestra Verdi di Milano. L’Istituto Einaudi partecipa anche quest’anno allo spettacolo, previsto per lunedì 4 marzo alle 10.30. Nel frattempo proseguono gli incontri tra detenuti e studenti nel IV reparto del Carcere di Bollate ed anche a Varese. La novità di quest’anno è infatti la lezione-concerto della Freedom Sounds Band del Carcere di Bollate presso il Salone Estense del Comune di Varese, che ha dato il proprio patrocinio all’iniziativa. Condurrà l’incontro il dirigente scolastico dell’Einaudi, professoressa Marina Raineri. Studenti, insegnanti, detenuti, agenti penitenziari e cittadini discuteranno assieme dei delitti e delle pene, ascoltando un po’ di musica. La Freedom Sounds band nasce nel IV reparto del carcere di Bollate nell’ambito di un progetto di crescita e rieducazione incentrato sulla musica; ogni settimana accompagna con le sue cover e le sue storie i radio ascoltatori del programma Jailhouse Rock, in onda ogni domenica dalle 15.30 alle 16.30 su Radio Popolare, Radio articolo 1 e Radio Città Aperta. La conduzione del programma dal Carcere è affidata all’agente penitenziario e musicista Francesco Mondello, già vincitore nel 2015 del Premio Cild per le libertà civili. È importante ricordare che nessuna norma consente ai detenuti di suonare in carcere, così come nessuna norma lo vieta. Spetta a chi dirige un carcere riempire di senso quanto la Costituzione prescrive all’art. 27. Ed il carcere di Bollate ha sempre potuto contare su dirigenti dalla visione profonda: Lucia Castellano, che l’ha diretto per tanti anni, Massimo Parisi e la vice Cosima Buccoliero (quest’ultima ora al carcere minorile Beccaria), infine l’attuale direttore, Fabrizio Rinaldi. Grazie ai loro sforzi e a quelli di tutti gli operatori carcerari Bollate è diventato da tempo un carcere modello che mira alla rieducazione, alla legalità e al rispetto della dignità dell’individuo, al fine di restituire alla società persone libere e responsabili. Appello del Papa per la pace: “La religione rinunci alle armi” di Paolo Rodari La Repubblica, 5 febbraio 2019 Negli Emirati Arabi Uniti Francesco parla contro il terrorismo e ogni forma di violenza. “Le conseguenze sono davanti ai nostri occhi: pensiamo a Yemen, Siria, Iraq e Libia”. Il sole tramonta dietro la skyline di Abu Dhabi, l’opulenta capitale degli Emirati Arabi Uniti elevata ad area di design architettonico all’ultimo grido, quando Mohammed bin Rashid Al Maktum, premier del Paese, sale sul palco del Founder’s Memorial tenendo sotto braccio Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayeb, massima autorità spirituale del mondo sunnita. Nonostante le critiche di Amnesty International circa il rischio che gli Emirati usino della visita del Papa per mostrarsi Paese tollerante malgrado le repressioni siano sempre in corso, i tre, insieme ai circa 700 leader religiosi presenti (rabbini, Imam, cardinali e vescovi), fanno fronte comune sancendo una dichiarazione che proprio di libertà religiosa, tolleranza, rispetto dei diritti umani e lotta al terrorismo parla: “La libertà è un diritto di ogni persona”, dice Francesco. Che chiede libertà di culto, e dichiara che “terrorismo e violenza negano la religione di Dio”. E ancora: “Senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi”. Primo vescovo di Roma nella penisola araba, Bergoglio chiede, nel Paese musulmano dove le minoranze religiose coesistono ma senza poter favorire le conversioni, che sia garantita a tutti la libertà religiosa e che si contrasti nel contempo ogni forma di appoggio a violenza e guerra. E ricordando, insieme, che “non si può proclamare la fratellanza e poi agire in senso opposto”. Un messaggio, quest’ultimo, che indirettamente tocca il conflitto yemenita nel quale gli Emirati sono implicati in quanto partner della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che combatte contro il movimento armato degli Houthi attaccando indiscriminatamente i civili. Anche se nulla trapela in merito, non è inverosimile che anche di questo si sia accennato, poche ore prima rispetto all’arrivo al Founder’s Memorial, nell’incontro di Francesco con il Muslim Council of Elders nella Gran moschea dello Sceicco Zayed. Un meeting di trenta minuti “durato più del previsto”, dice il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, sostenendo che il prolungamento “è un buon segno”. Fra i leader religiosi presenti al Founder’s Memorial c’è anche il neo cardinale pachistano Joseph Coutts, dal 2012 arcivescovo metropolita di Karachi, che sottolinea il salto in avanti del Papa: “Più che di dialogo - dice - Francesco parla di fratellanza, che è un qualcosa di più. Certo, non tutti i Paesi sono aperti come gli Emirati, ma si comincia sempre da uno per arrivare a tutti”. In un incontro che ricorda molto lo spirito che anima i raduni per la pace promossi dalla Comunità di Sant’Egidio, anche gli altri leader presenti concordano sul fatto che la soluzione ai conflitti non risiede in altro che nella fratellanza, una convivenza pacifica che va oltre ogni violenza “religiosamente giustificata”. Nemico della fratellanza, infatti, “è l’individualismo, che si traduce nella volontà di affermare sé stessi e il proprio gruppo sopra gli altri”, dice il Papa. Come Giovanni Paolo II che nel 2001 entrò nella moschea degli Ommayadi di Damasco, primo Pontefice cattolico a mettere piede in un luogo di culto musulmano, per chiedere il rispetto dei diritti di tutti come base per vivere nella pace, così anche Francesco, soffermandosi un istante per soppesare le proprie parole, richiama a un compito “non più rimandabile” per ogni religione, e cioè contribuire attivamente “a smilitarizzare il cuore dell’uomo”. “La corsa agli armamenti - dice - l’estensione delle proprie zone di influenza, le politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai stabilità. La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte!”. “Le conseguenze sono davanti ai nostri occhi: pensiamo a Yemen, Siria, Iraq e Libia”. “Costruiamo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro”, conclude Papa Bergoglio. La censura corre veloce sul web di Luigi Chiarello Italia Oggi, 5 febbraio 2019 Oggi, entro 24 ore, le grandi società informatiche riescono a valutare l’89% dei contenuti segnalati come xenofobi, razzisti o generatori d’odio. Ed entro le stesse ore ne rimuovono il 72%. Nel 2016 le due percentuali erano, rispettivamente, al 40% e al 28 %. Le censure scattano sulla base di un Codice di condotta Ue, stilato dalla commissione europea in accordo con le multinazionali del settore, sempre nel 2016. La misurazione del suo funzionamento è stata fatta attraverso una valutazione, la quarta ne suo genere, i cui risultati sono stati diffusi ieri. E sempre ieri, alle società informatiche che avevano aderito al codice deontologico e, poi, alle misurazioni - Facebook, Microsoft, Ttvitter, YouTube, poi, nel 2018, Google+, Instagram, Snapchat e Dailymotion - si è aggiunta la piattaforma francese di giochi online Webedia. Nonostante le performance in crescita, dice la commissione Ue, le multinazionali del web “devono migliorare nei feedback agli utenti a garanzia di una maggior trasparenza su notifiche e cancellazioni effettuate”. Il quadro normativo. L’azione della commissione Ue prende le mosse dalla decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia (n. 2008/913/Gai), che qualifica come reato l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, in base alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza, all’origine nazionale o etnica. Istigazione che, dice la decisione, “costituisce reato anche quando avviene online”. Nel maggio 2016, per far fronte al proliferare dell’incitamento all’odio online, Bruxelles e quattro colossi del web (Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube) hanno presentato il “Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online”. Il 7 dicembre successivo la commissione ha presentato i risultati della prima valutazione sull’attuazione del Codice; poi, ne ha condotti altri due. Il 28 settembre 2017, l’esecutivo Ue ha adottato una comunicazione con linee guida alle piattaforme on line, sulle procedure di contrasto ai contenuti illegali. Infine, il 1° marzo 2018, ha pubblicato una raccomandazione sulle misure per contrastare efficacemente i contenuti illegali via web. L’Italia esporta il 41 bis in Albania di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2019 Le nostre autorità giudiziarie hanno collaborato con i colleghi albanesi. Il carcere duro arriva anche in Albania, graze alla collaborazione tra le autorità giudiziarie dei due paesi. Il ministro della Giustizia albanese Etilda Gjoni ha annunciato che domani applicheranno per la prima volta il carcere duro. Il regime, ispirato alla lotta contro la mafia in Italia, mira a rafforzare la sicurezza delle carceri, a combattere la criminalità organizzata e la corruzione, attraverso il totale isolamento dei detenuti pericolosi, per impedire la loro comunicazione con le organizzazioni criminali. Oggi, in Albania, 270 detenuti e imputati sono ristretti in speciali sezioni di carceri di massima sicurezza e in detenzione preventiva per crimini legati a organizzazioni terroristiche e mafiose o omicidi. Ma non basta. Il ministro della Giustizia albanese ha spiegato che applicare questa nuova misura è “indispensabile” perché servirà per bloccare alcune persone che continuano con la loro attività criminale all’interno delle carceri del paese. “La lotta contro il crimine, in particolare contro il crimine organizzato, è una priorità indiscussa per il governo albanese e vogliamo estenderlo anche al sistema carcerario”, ha sottolineato il ministro Gjonaj. Il nuovo regime è stato approvato dal Parlamento con un emendamento, ispirato all’articolo 41- bis del sistema carcerario italiano, introdotto nel 1992 dopo gli omicidi dei giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone commessi dalla mafia. La procura antimafia e altre organizzazioni specializzate italiane ha collaborato con l’Albania nell’elaborazione di questa norma e continueranno a sostenerla per la sua attuazione. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, durante l’incontro a Tirana, ha dichiarato che una misura del genere porterà all’indebolimento delle reti criminali e al contempo servirà come una dimostrazione di cambiamento per i cittadini, i quali potrebbero iniziare a fidarsi di più delle loro istituzioni. “Interrompere il contatto tra i boss delle organizzazioni criminali e le loro persone fuori dal carcere, così come seguire le tracce di “denaro sporco”, rappresentano le formule più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata. Entrambe queste misure sono essenziali per l’Albania”, ha affermato Cafiero de Raho. Il capo dell’antimafia, inoltre, ha spiegato che i gruppi albanesi sono specializzati nel traffico di narcotraffici, garantendo grandi quantità di denaro che - secondo molti studi - vengono reinvestiti principalmente nel Paese delle Aquile. Ma cosa prevede il nuovo regime duro albanese? L’elenco dei crimini per i quali una persona può essere sottoposta a queste rigide restrizioni della sua libertà ammonta a 22, tra cui la formazione e la partecipazione a organizzazioni mafiose, la propaganda e il finanziamento di tali attività, così come il rapimento di persone o aerei con scopi terroristici. I detenuti potranno fare un colloquio con le loro famiglie solo una volta al mese, senza avere un contatto fisico diretto con loro e mentre la conversazione viene registrata. Inoltre, potranno effettuare una chiamata solo ogni mese, con una durata massima di 10 minuti, che verrà anche registrata. Le telecamere saranno una costante in questo regime, in quanto i detenuti sono stati monitorati 24 ore al giorno. Altre restrizioni sono il divieto di ricevere libri e trasportare oggetti personali come penne, diari o denaro. In poche parole, parliamo dell’esatta fotocopia del nostro 41 bis, già stigmatizzato da vari organismi internazionali che si occupano dei diritti umani. L’Italia ha fatto scuola. Svizzera. 50% di detenuti in più in 30 anni Corriere del Ticino, 5 febbraio 2019 La maggior parte dei prigionieri sono stranieri residenti all’estero - Gli svizzeri dietro le sbarre sono il 24%. Tra il 1988 e il 2017, il numero di penitenziari in Svizzera è diminuito del 30%. Nel contempo la loro capienza è progredita di 2002 posti (+37%), in particolare per far fronte all’aumento del 50% dei detenuti in 30 anni. Il loro numero ogni 100 000 abitanti, infatti, è passato da 70 nel 1988 a 82 nel 2017, secondo la rilevazione sulla privazione della libertà realizzata dall’Ufficio federale di statistica (Ust). In questi 30 anni la percentuale di svizzeri in carcerazione preventiva o di sicurezza è stata in media del 24%. Gli stranieri domiciliati in Svizzera e quelli residenti all’estero rappresentano rispettivamente il 31% e il 45% del totale. Il numero di detenuti aumenta della metà - Tra il 1988 e il 2017 la popolazione carceraria è passata da 4621 a 6907 persone (+50%). Nello stesso intervallo, il numero di detenuti per 100.000 abitanti è aumentato da 70 a 82. Nel 2017 il numero di persone in regime di esecuzione di pena o di misura era di 899 in più rispetto al 1988 (+32%). In termini percentuali, l’esecuzione anticipata di pene e misure e quella di misure coercitive, secondo la legge sugli stranieri, hanno segnato gli incrementi maggiori con rispettivamente 765 e 197 detenuti in più (+282% e +328%). Meno stabilimenti, ma più grandi - Il numero di stabilimenti di privazione della libertà in Svizzera è passato da 152 a 106 (-30%). Quelli piccoli hanno gradualmente chiuso: nel 1988, uno stabilimento carcerario su tre aveva meno di dieci posti, mentre nel 2017 rappresentavano solo l’8% di tutti gli stabilimenti penitenziari. Al contrario, a essere in grado di ospitare più di 100 detenuti nel 2017 era circa un quarto degli stabilimenti carcerari svizzeri, contro non più del 9% di essi nel 1988. La loro capienza è aumentata di oltre 2000 posti (+37%) in 30 anni (da 5487 a 7489 posti). Nel 1988 i posti di detenzione erano 83 per 100.000 abitanti, passati a 89 nel 2017. Le carcerazioni preventive rimangono stabili - Il numero di persone in carcere preventivo è rimasto relativamente stabile negli ultimi 30 anni, passando da 1279 (nel 1989) a 2097 persone (nel 2013) per l’intera Svizzera. Rispetto al totale dei detenuti, questa categoria ha rappresentato in media il 31% tra il 1988 e il 2017. Qui di seguito, il numero medio di persone in carcerazione preventiva e di sicurezza è esaminato in relazione a ciascuno dei tre decenni precedenti, vale a dire tra il 1988 e il 1997, tra il 1998 e il 2007 e infine tra il 2008 e il 2017. Nel primo decennio, gli svizzeri in carcerazione preventiva erano il 31% del totale di persone in questo tipo di detenzione (nel 1989 erano addirittura il 44%). Gli stranieri residenti in Svizzera (compresi i richiedenti l’asilo) e gli stranieri residenti all’estero rappresentavano rispettivamente il 28 e il 41% del totale. Nel secondo decennio, la quota di detenuti svizzeri è scesa di 11 punti, attestandosi al 20%. Entrambe le categorie di stranieri sono aumentate: gli stranieri residenti in Svizzera erano il 37% mentre quelli residenti all’estero il 43%. Infine, nel corso del terzo decennio, la quota di detenuti svizzeri è rimasta stabile al 20%. La percentuale di detenuti stranieri residenti in Svizzera rappresentava il 28% del totale (come nel primo decennio), mentre i detenuti stranieri residenti all’estero costituivano più della metà del totale (52%). Dalla Libia al Venezuela, ma la Costituzione italiana con chi sta? di Marinella Correggia Il Manifesto, 5 febbraio 2019 Il 30 marzo 2011, un gruppo di pacifisti protestava sotto il Quirinale quando il presidente Napolitano e il Pd spingevano l’Italia del governo Berlusconi a partecipare appieno alla devastante guerra Nato contro la Libia. Napolitano disse: “Non lasciamo calpestare il Risorgimento arabo”. Dopo molti mesi, il presidente Hugo Chávez - che invano si era speso per scongiurare le bombe - spiegava che il Venezuela non poteva riconoscere un governo di transizione con componenti terroristiche e razziste, portato al potere dall’interventismo bellico. Altro che Risorgimento. Otto anni dopo, il presidente Sergio Mattarella a proposito di Venezuela spiega che “nella scelta non può esserci né incertezza né esitazione tra volontà popolare e richiesta di autentica democrazia da un lato e dall’altro la violenza della forza e le sofferenze della popolazione civile”. Ma il presidente, garante della Carta costituzionale italiana, non dovrebbe essere rispettoso anche di quella venezuelana? La quale, come sottolinea al manifesto Attilio, cittadino italiano residente in Venezuela, “prevede che il presidente dell’Assemblea legislativa possa sostituire il presidente della Repubblica solo in caso di morte, malattia, abbandono, destituzione per colpe gravi da parte del Tribunale supremo”. Ma poi perché si è convinti che il governo italiano “stia” con Maduro? È vero che - in base al principio di non ingerenza - l’Italia non ha riconosciuto il golpista Guaidó. Tuttavia, nella nota di palazzo Chigi del 1 febbraio “si ricorda che l’Italia non ha mai riconosciuto le elezioni del maggio 2018 e ribadisce la necessità di nuove elezioni presidenziali quanto prima”. È quel che chiede Guaidó. Pochi giorni prima al Senato, il ministro degli Esteri Enzo Moavero ribadiva: “Appoggiamo la dichiarazione Ue per nuove elezioni presidenziali libere, democraticamente riconoscibili”. Sempre il 1 febbraio, il vice-premier Luigi di Maio dichiara: “L’Italia non riconosce soggetti che non sono stati votati. Per questo non riconosciamo neppure Maduro”. Il 31 gennaio, i parlamentari europei della Lega e dei 5 Stelle sul voto sul riconoscimento di Guaidó si astenevano e non votavano contro (come hanno fatto invece la Gue e parte dei Verdi). Il vicepresidente pentastellato del Parlamento europeo Fabio Castaldo spiega: “Non siamo né pro né contro Maduro”. Ben diversa la posizione leghista - ministro Salvini, sottosegretari Picchi e Merlo - contro il “dittatore Maduro che affama e tortura il popolo”. Praticamente le stesse parole usate da Matteo Renzi. In Libia campi come lager ma l’Italia è cieca di Antonella Romeo Il Manifesto, 5 febbraio 2019 In un libro scritto da giuristi, “L’attualità del male”, l’atto di accusa contro i nostri governi e la Ue. La storia di un aguzzino condannato a Milano grazie alle testimonianze dei connazionali. “Ho chiuso gli occhi per non vedere chi moriva accanto” ha raccontato in Procura ad Agrigento uno dei tre uomini sopravvissuti quell’ultimo naufragio di gennaio rimasto privo di soccorsi. Le donne con i loro bambini, anche un neonato, sono andati a fondo per primi. Liliana Segre scriveva nelle sue memorie del campo di Auschwitz: “Per uscire dall’incubo l’unico modo era voltare la faccia dall’altra parte, non vedere”. Nel mediterraneo e in Libia il male è sempre di grande attualità. “L’attualità del male. La Libia dei lager è verità processuale”, a cura di Maurizio Veglio, (Edizioni SEB27), è il titolo di un libro scritto da giuristi. Il volume è un atto di accusa contro prassi politiche perseguite dai governi italiani e dall’Unione Europea in spregio ai diritti umani, purché i migranti restino o vengano riportati in Libia. Gli autori del volume analizzano la sentenza pronunciata dalla corte d’Assise di Milano il 15 ottobre 2017 alla luce del presente e di un passato più o meno recente (i crimini nazisti, la guerra in Jugoslavia). Due giudici togate insieme ai giudici popolari della corte di Milano avevano condannato all’ergastolo il cittadino somalo Matammud Osman. Era stato fermato da altri suoi connazionali nei pressi della Stazione Centrale di Milano, che avevano riconosciuto in lui l’aguzzino che nel campo di Bali Walid in Libia li stuprava e torturava, costringendo i parenti a sentire le loro urla al telefono. Un sistema di ricatto collaudato, l’attività imprenditoriale più lucrativa oramai da tempo in Libia. Per la prima volta una Corte di giustizia di un Paese dell’Unione Europea ha scritto nero su bianco quello che in questi anni sta succedendo ai migranti nei centri di detenzione libici e condannato uno dei carnefici, accusato da tredici uomini e quattro donne di indescrivibili crudeltà. La sentenza stabilisce non solo la verità processuale, ma anche la verità storica di accadimenti che proseguono in Libia. Il documento descrive con rara chiarezza le stazioni della via crucis delle vittime fino al loro arrivo in Italia. Tremenda la descrizione del campo di Bali Walid, “dotato di un grandissimo hangar all’interno del quale venivano tenute recluse circa 500 persone. Intorno a questo capannone c’era un cortile sorvegliato da uomini libici armati. I migranti dormivano tutti insieme, uomini e donne, ed erano così ammassati che non c’era neanche lo spazio per muoversi. L’hangar non era areato, le condizioni igieniche erano del tutto scadenti, c’erano pidocchi ovunque, molti migranti soffrivano di malattie della pelle. Non potevano lavarsi, il cibo fornito era scarso. I profughi erano costretti a rimanere chiusi dentro al capannone giorno e notte, senza nemmeno poter parlare fra di loro”. L’accusato prelevava i reclusi ogni giorno, li portava in una stanza delle torture, dove li tormentava con scariche elettriche, gli faceva colare addosso plastica incandescente; li appendeva per le mani e li colpiva con bastoni di gomma e spranghe di ferro, li lasciava per ore incaprettati a disidratarsi sotto il sole. Per terrorizzare tutti, ne uccideva alcuni, lasciando i cadaveri esposti per giorni. Quotidianamente prendeva le ragazze anche minorenni e le sottoponeva a interminabili, gravissime violenze sessuali, ancora più penose per le quelle infibulate. Una lettura insostenibile, ma è necessario far conoscere questa sentenza perché tali crimini continuano a essere perpetrati in Libia su sempre nuove vittime. L’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) - che difende i diritti civili e umani dei migranti - si era costituita parte civile nel processo con l’avvocato Piergiorgio Weiss, che scrive ne “L’attualità del male”: “Dopo questa sentenza non possiamo più continuare a girarci dall’altra parte la domanda è: possono l’Italia e l’Europa ignorare tutto ciò, possono far finta di non sapere che riportare in Libia i profughi significa portarli in lager dove sono praticate le peggiori torture?”. Continua Pierpaolo Rivello che è stato pubblico ministero in molti processi contro i crimini compiuti dai nazisti in Italia: “La pronuncia conferma che attualmente i campi di prigionia libici possono essere considerati dei veri e propri lager. Gli orrori che si perpetrano sono assimilabili a quelli che si verificarono a Treblinka o ad Auschwitz. Alla luce di questa sentenza appaiono ancora più gravi le conseguenze delle scelte adottate dalle autorità del nostro Paese, volte a favorire il contenimento del flusso dei migranti”. Il ministero degli interni tiene con acribia il computo degli sbarchi: sono diminuiti a gennaio 2019 dell’95,58 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018 e del 95,54 per cento rispetto al 2017. Di questo dato il governo va fiero, ma si dimentica di ringraziare per questi dati quello precedente che il 3 febbraio 2017 ha firmato con la Libia un Memorandum: per “la lotta all’immigrazione clandestina e il controllo dei confini”, dare “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina come la Guardia costiera” e proseguire l’”adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza già attivi”, formarne il personale libico oltre che predisporne altri. Il governo italiano, con appoggio e finanziamento dell’Ue, ha delegato il lavoro alla Guardia costiera libica. Il Consiglio europeo il 28 giugno 2018 ammoniva le Ong: “Tutte le navi operanti nel Mediterraneo devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della Guardia costiera libica”. L’avvocato Lorenzo Trucco, Presidente dell’Asgi, spiega ancora ne “L’attualità del male” che questo Memorandum, come altri recenti accordi, sono giuridicamente “deleghe di respingimento. Ricordiamo - dice Trucco - che la Libia rimane un paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritto d’asilo e di rispetto dei diritti umani”. Tali violazioni sono denunciate nell’ultimo report dell’Unhcr sulla Libia (settembre 2018), comprese quelle compiute dalla Guardia costiera libica. A novembre del 2017 l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Zeid Ràad Al Hussein aveva scritto: “L’Unione europea e l’Italia stanno fornendo assistenza alla Guardia costiera libica per l’intercettazione di barche di migranti nel Mediterraneo, comprese le acque internazionali”, nonostante tale aiuto condanni “sempre più migranti a detenzioni arbitrarie e senza limite temporale durante le quali verrebbero esposte a torture, stupri, lavoro forzato, sfruttamento ed estorsione”. È proprio quello che hanno raccontato i 17 cittadini somali durante il processo di Milano, e almeno quella corte gli ha reso giustizia. La Libia è un inferno e la Guardia costiera non risponde alle chiamate di soccorso. “La Guardia costiera è un’invenzione - dice Domenico Quirico - che ha scritto la prefazione del libro. “La Polizia libica non esiste, il controllo dell’ordine pubblico è affidato a milizie di diverse gradazioni, islamisti, non islamisti, banditi, canagliume puro. La strada è stata aperta da Minniti quando è andato a fare accordi, legittimando dal punto di vista politico e giuridico persone che dovrebbero stare in galera per i reati menzionati dalla sentenza della Corte di Assise di Milano”. “I migranti - scrive ancora Trucco - vengono considerati non più un problema, ma nemici, e coloro che li aiutano, le navi delle Ong, essendo loro alleati devono essere combattuti. I soldi della cooperazione vengono deviati per rafforzare i controlli dei confini in Libia come in Niger. C’è una forma di razzismo istituzionale evidente, queste persone non contano sono di rango inferiore, sono non-persone”. Le vittime chiudono gli occhi per non farsi sopraffare dalla disperazione. Per dirla con le parole di Primo Levi, fino a quando saremo sordi, ciechi e muti di fronte a tanto, “una massa di invalidi intorno a un nucleo di feroci”. Venezuela. Aiuti subito e dialogo con i generali di Franco Venturini Corriere della Sera, 5 febbraio 2019 Chi ha imposto un ultimatum ha suscitato una risposta nazionalista tipica dei Paesi latinoamericani. Meglio usare tattiche diplomatiche: Maduro è ancora lì, e Guaidó non sembra disporre di una strategia precisa. Il Venezuela è uno scandalo da molto tempo, e per molto tempo la comunità internazionale gli ha prestato pochissima attenzione. Eppure Nicolás Maduro, successore nel 2013 del “bolivariano” Hugo Chávez, era stato eletto soltanto in ossequio al leader defunto. Erano diventate subito evidenti la sua totale incompetenza economica e le sue propensioni dittatoriali. I negoziati con l’opposizione (favoriti dal Vaticano) si erano risolti in altrettante messe in scena. Le accuse di corruzione si moltiplicavano. La fuga per fame, anche di chi aveva sostenuto Chávez, assumeva proporzioni bibliche (l’Onu parla di 5.000 persone al giorno, per un totale provvisorio di oltre tre milioni). I partiti dell’opposizione, esclusi di fatto dalle elezioni presidenziali del 2018 ma maggioritari nel nuovo Parlamento, erano stati privati di ogni potere e sottoposti ad arresti in serie. E tuttavia, il Venezuela continuava a detenere le più grandi riserve petrolifere del mondo. E gli Usa continuavano, e hanno continuato a lungo, ad acquistare più della metà della produzione di greggio venezuelana, mentre raffinerie di Caracas operavano in Louisiana e in Texas. Perché, allora, la situazione è cambiata nei primi giorni dell’anno? Perché dal 5 gennaio il giovane ingegnere Juan Guaidó è diventato, in base a un sistema di rotazione tra le forze anti-Maduro, il presidente del Parlamento emarginato. Perché la catastrofe umanitaria era diventata inaccettabile per gli Usa e per tanti altri. Perché Washington capiva di “dover fare qualcosa” e l’autoproclamazione presidenziale di Guaidó, benché discutibile dal punto di vista costituzionale, è sembrata un utile primo passo per riportare il Venezuela alle urne e alla democrazia. E anche perché la penetrazione della Russia e della Cina in un Paese latinoamericano e tanto ricco di risorse appariva a Trump e al suo consigliere Bolton del tutto insopportabile? È probabile, ma nessuno ce lo dirà. Questi pochi cenni alla storia recente del Venezuela sono indispensabili se si vuole cercare una risposta equilibrata alla questione del “che fare?” presente in tutte le cancellerie con una urgenza sempre maggiore. Perché Maduro è ancora lì, e Guaidó non sembra disporre di una strategia precisa. Dovremmo, per prima cosa, capire la saggezza di due appelli alti venuti da papa Francesco e, ieri, dal presidente della Repubblica Mattarella: serve una soluzione giusta e pacifica che rispetti i diritti umani, ha detto Francesco. Non ci può essere incertezza tra democrazia e violenza e serve una linea condivisa con l’Europa, ha detto Mattarella. E in questi due propositi sono presenti, parola dopo parola, i valori da difendere e i modi per farlo. Guardiamo alla realtà delle cose, oggi. Gli Stati Uniti sono stati bravi nel favorire la creazione di un fronte multilaterale pro-Guaidó che riunisce ormai una trentina di Paesi. Ma visto che qualche ruolo ispiratore gli Usa l’hanno di certo avuto, ha senso parlare con i militari dopo invece di prima, sapendo che sono loro a controllare l’ago della bilancia? Alla Russia e alla Cina non è parso vero di fronteggiare gli Usa nel loro “cortile di casa”, come in altri tempi Mosca aveva già fatto a Cuba, e di tenere un occhio sugli immensi giacimenti petroliferi venezuelani. Ma c’è anche il rischio di una rottura con gli Usa, che nessuno dei due vuole. E poi ci sono l’Europa e l’Italia. A noi italiani nulla in politica estera dovrebbe ormai sorprenderci, sappiamo che l’estero è diventano soltanto un terreno di scontri pre-elezioni, e poco importa se si parla di Tav (c’è di mezzo la Francia) o di Venezuela. In questa fase la nostra politica estera è fatta di parole vuote (Salvini sulle sanzioni alla Russia), di poco credibili spiegazioni al bar fornite al nostro cruciale alleato tedesco (Conte) o di liti tra Lega e 5Stelle imbastite sul nulla (i dissapori su un “piano per studiare” il ritiro dall’Afghanistan, se Trump darà il via). Ma a forza di ignorare i nostri interessi nazionali e di proiettare all’esterno una immagine autolesionista, nel caso Venezuela il governo gialloverde potrebbe aver azzeccato, involontariamente, una rotta indovinata. Il gruppo dei dieci Paesi europei guidato dalla Spagna e comprendente Francia, Germania e Gran Bretagna che ha riconosciuto Guaidó dopo aver posto a Maduro un ultimatum elettorale, oggi scopre di aver trascurato il nazionalismo di ogni Paese latinoamericano e di aver in realtà fatto il gioco del dittatore per seguire le ambizioni regionali di Madrid. Più accettabile per i venezuelani potrebbe essere l’iniziativa della Mogherini che giovedì parteciperà con l’Europa tutta (anche i “dieci”) a una riunione a Montevideo. Riunione che dovrebbe avere un unico fine: quello di convincere i militari di Caracas a imporre loro a Maduro nuove elezioni presidenziali, libere e con una solida supervisione internazionale. E “conquistare” nel frattempo il Venezuela con un programma di aiuti di prima necessità che Maduro non oserà fermare sapendo in quali condizioni ha ridotto il suo popolo. Zambia. Drammatiche le condizioni dei detenuti nelle carceri L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2019 Progetti di Caritas e Centro laici italiani per le missioni. Il sistema penitenziario dello Zambia versa da tempo in condizioni allarmanti che riguardano soprattutto l’assistenza sanitaria, lo stato nutrizionale e l’istruzione dei detenuti. L’emergenza si accentua ulteriormente in un’ottica di riabilitazione e di reinserimento nella società. Da questo quadro è partito nel 2016 il progetto del Centro laici italiani per le missioni (Celim), Onlus con sede a Milano, che in collaborazione con Caritas Zambia e altre istituzioni intende intervenire per promuovere il rispetto dei diritti umani dei prigionieri. L’obiettivo generale è migliorare le condizioni di vita dei detenuti in sette istituti penitenziari, con particolare attenzione verso le donne e i bambini incarcerati con loro. “Nelle carceri zambiane - spiega all’agenzia Fides Lara Viganò, programme coordinator Africa per il Celim - i detenuti muoiono per mancanza di acqua, cibo e cure: mancano i servizi medici di base, le infrastrutture sono insufficienti o decadenti e le medicine scarseggiano. In particolare, i bisogni delle donne e dei bambini non vengono adeguatamente affrontati. Le donne incinte non ricevono trattamenti nutrienti adeguati alla loro condizione e i figli delle detenute sono costretti a condividere il pasto con le madri”. I prigionieri sono costretti a vivere stipati in celle di piccolissime dimensioni: nello spazio in cui dovrebbero vivere 8.000 detenuti ne sono ammassati 25.000. Il sistema penitenziario dello Zambia sta cercando di trasformarsi puntando sulla riabilitazione più che sulla punizione anche perché il tasso di recidiva è alto (30 per cento). Ma i mezzi sono scarsi. Il progetto si concentra anzitutto sulla formazione. Nelle sette carceri in cui Caritas Zambia opera, si sono organizzati corsi professionali per i detenuti (elettricista, falegnameria, meccanica) aiutandoli a sostenere gli esami di qualifica professionale. “L’idea di base è costruire, insieme a loro, capacità che possano spendere una volta usciti di prigione”, sottolinea Viganò. Il progetto prosegue nel 2019 con due obiettivi ambiziosi: “Ci concentreremo sul reinserimento economico-sociale, creeremo centri nei quali, una volta riguadagnata la libertà, gruppi di ex detenuti potranno lavorare insieme e offrire ai concittadini i loro servizi come piccoli artigiani. In secondo luogo lavoreremo per la riconciliazione favorendo l’incontro dei detenuti con i loro famigliari, con le vittime e offrendo loro servizi di counseling. Siamo convinti che il reinserimento sia possibile e doveroso”. Iran. Amnistia per 50 mila detenuti in occasione dell’anniversario delle rivoluzione ilfogliettone.it, 5 febbraio 2019 La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, “ha accettato le condizioni di base per offrire l’amnistia a circa 50 mila detenuti” in occasione del 40esimo anniversario della rivoluzione che ha portato alla nascita della Repubblica islamica. Lo ha detto il capo della magistratura di Teheran, l’ayatollah Sadeq Amoli Larijani, citato dall’agenzia ufficiale Irna. “Molti saranno rilasciati presto, mentre altri vedranno commutata la propria pena e potrebbe essere rilasciati tra 2 o 6 mesi”, ha aggiunto Larijani, sottolineando come l’Iran abbia una lunga storia di concessioni di amnistie e sostenendo che ciò rappresenta una prova della solidità del sistema nell’affrontare il crimine. L’annuncio giunge durante le celebrazioni dei “Dieci giorni dell’alba”, in cui Teheran commemora il periodo tra il ritorno dall’esilio dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il primo febbraio 1979, e la caduta del governo dello Scià Reza Pahlavi, l’11 febbraio dello stesso anno.