La giustizia come dimensione della vita quotidiana di Gian Marco Zanardi* chiesadimilano.it, 4 febbraio 2019 Sui media è circoscritta ai processi, alle norme da rispettare, ma non è così. A chi non è capitato andando su un sito internet di imbattersi, spesso già nella “home page”, in notizie riguardanti la giustizia? A chi non è capitato di sentir parlare o discutere di giustizia in televisione, in radio o su giornali e riviste? Alla luce di questo, quando si pensa alla giustizia in genere si pensa a due o più parti coinvolte in un processo, ma anche ai giuristi ed operatori del diritto ossia principalmente ai giudici, agli avvocati, ai notai ossia a coloro che con la giustizia in vario modo “lavorano”. Si pensa insomma a qualcosa che sembra non riguardare la quotidianità, ma solo l’eccezionalità di alcuni eventuali momenti della vita particolarmente critici; si pensa generalmente a qualcosa che riguarda gli “addetti ai lavori” ossia coloro che hanno studiato e praticato il diritto per anni, per decenni o addirittura per lustri; si pensa comunque a qualcosa che riguarda “il giuridico” ossia che ha a che fare con le norme che lo Stato fa rispettare. Eppure nella quotidianità non viviamo senza esprimere giudizi di valore. Il nostro relazionarci agli altri, non è forse condizionato da un giudizio di valore, quindi di giustizia o ingiustizia, che diamo sul nostro ed altrui comportamento? Del linguaggio comune non fanno forse parte espressioni come “si è comportato ingiustamente”, “ha fatto male”, “è stato giusto”, “è stato ingiusto”, “ho fatto bene”, “ho fatto male”? Non sentiamo forse il nostro poter valutare un aspetto imprescindibile della nostra libertà? Ma se sta questo, anche la dimensione giuridica abbraccia allora la nostra quotidianità proprio per il nesso strutturale che la lega alla dimensione valoriale e quindi alla giustizia. Del resto, anche senza pensarci, ogni giorno compiamo atti giuridici. Ogni giorno il nostro agire, o meglio inter-agire, si misura con diritti e doveri nostri ed altrui tutelati da norme di cui si fa garante lo Stato. Quando ad esempio obliteriamo il biglietto dell’autobus, paghiamo un pedaggio autostradale, portiamo in giro il cane, rispettiamo la proprietà altrui, ci fermiamo a soccorrere un infortunato sulla pista da sci, manteniamo ed educhiamo i nostri figli compiamo degli atti che hanno rilevanza giuridica perché, così facendo, esercitiamo diritti ed onoriamo doveri, obblighi e obbligazioni che lo Stato garantisce. Non solo, ma la giustizia è invocata nella nostra quotidianità anche per quegli aspetti del nostro agire relazionale che non hanno una rilevanza giuridica. Quando ad esempio, nel tempo libero, qualcuno non si presenta ad un appuntamento senza avvertirci o quando aiutiamo qualcuno in difficoltà, non esprimiamo forse un giudizio di valore negativo nel primo caso e positivo nel secondo? Entra insomma in gioco una dimensione più ampia di quella giuridica: la dimensione etica. Ho detto “più ampia” proprio perché la giustizia riguarda tutto il nostro agire e non soltanto quello giuridicamente rilevante. Ciò evidenzia da una parte la distinzione tra diritto e morale, dall’altra la qualità morale del diritto stesso. La norma giuridica dunque non è, in quanto tale, sempre e comunque morale perché non sempre, così come viene formulata o interpretata, è conforme a giustizia, ma ha qualità etica in quanto dovrebbe esserlo. Ciò tuttavia è vero a patto che non si riduca la giustizia a mera soggettività; che cos’è infatti la giustizia? Si potrebbe di primo acchito rispondere che la giustizia consiste nel rispetto della dignità altrui nei rapporti sociali e nel riconoscere quindi a ciascuno ciò che gli spetta non solo in senso materiale (ad esempio denaro) ma anche in senso spirituale (ad esempio aiuto, comprensione, affetto). La risposta però è ancora parziale e lascia intatto il cuore del problema perché presuppone la risposta ad un’altra domanda: che cos’è l’essere umano? Ho detto “che cos’è?” e non “chi è?” perché qui la domanda non riguarda le caratteristiche di questo o quel singolo essere umano, ma appunto che cosa connota l’essere umano in quanto tale, l’essere umano di tutti i tempi e di tutti i luoghi. La domanda sul “che cosa” precede la domanda sul “chi” perché appunto non si esaurisce sul singolo essere umano ma riguarda tutto l’uomo e tutti gli uomini. Certamente noi ci sperimentiamo come esseri storico-culturali perché nasciamo e viviamo dentro un contesto relazionale con determinate caratteristiche sviluppatesi nel tempo. Può tuttavia l’uomo essere ridotto a questo? Ossia ad un puro e semplice prodotto storico-culturale definito in base a come soggettivamente di volta in volta il contesto storico-culturale decide? O piuttosto si deve riconoscere l’esistenza di qualcosa che identifica oggettivamente l’essere umano in ogni tempo e in ogni luogo, in ogni contesto storico-culturale? Una verità che - non essendo soggetta ai mutevoli e spesso arbitrari umori delle maggioranze e tanto meno espressione di prevalenti interessi di parte - smaschera e denuncia ogni prevaricazione dell’uomo sull’uomo? Solo in quest’ultima prospettiva il valore della dignità umana, nel cui rispetto e promozione si sostanzia la giustizia, assume e mantiene una sua consistenza. Solo in questa prospettiva l’etica può orientare alla giustizia il diritto senza confondersi con esso. *Avvocato cassazionista del Foro di Milano e docente di scienze giuridiche ed economiche Magistratura Democratica: “basta con accuse gravi e infamanti” tribunapoliticaweb.it, 4 febbraio 2019 “Troppo spesso provvedimenti criticati dalla politica”. Dura presa di posizione di Magistratura Democratica contro le critiche “politiche” dei provvedimenti adottati. L’esecutivo nazionale di Md, in una nota, osserva: “Sempre più di frequente, provvedimenti resi da magistrati italiani nell’esercizio autonomo del potere giurisdizionale sono soggetti a critiche che non riguardano (come sarebbe possibile ed, anzi, doveroso) il contenuto tecnico giuridico di quei provvedimenti, ma ne sostengono, apoditticamente, la natura politica. Come spesso è avvenuto anche in passato, per sostenere questa tesi si afferma che i magistrati che li hanno adottati sarebbero iscritti a Magistratura Democratica. A chi fa queste affermazioni non importa che siano vere, esse muovono infatti dalla premessa che Md avrebbe tra i propri obiettivi quello di fare uso della giurisdizione a fini politici”. Md respinge “con sdegno questa accusa, che riteniamo infamante per il gruppo e per coloro che vi sono iscritti. Magistratura Democratica promuove ed apprezza ogni interpretazione delle leggi che tenga conto della gerarchia di valori espressa dalla Carta Costituzionale e sia conforme ai principi in essa contenuti. Di conseguenza presta ossequio al principio della separazione tra i poteri dello Stato, che sono tenuti al reciproco rispetto. Rivendica il pieno diritto dei magistrati, sia come singoli che come gruppi associati, di esprimere le proprie opinioni, qualificate dalla conoscenza del diritto e dalla professionalità acquisita, fermo restando il doveroso riserbo imposto a ciascuno con riguardo a procedimenti in corso dei quali sia investito nell’esercizio delle proprie funzioni”. Per Md “sostenere che un magistrato, iscritto o non iscritto a Magistratura Democratica, ha adottato un provvedimento per perseguire finalità diverse da quelle proprie dell’esercizio della giurisdizione è accusa grave e infamante che non può, dunque, essere tollerata. È gravissimo che su quotidiani on line, incredibilmente ripresi da testate nazionali, sia stato pubblicato (con nomi cognomi e qualifiche professionali) un elenco di oltre 6.000 magistrati che prestano servizio presso gli uffici giudiziari italiani i quali sarebbero, incredibilmente, tutti iscritti a Magistratura Democratica. Un elenco che è stato ottenuto in palese violazione delle norme in materia di privacy, la cui pubblicazione ha una chiara valenza intimidatoria nei confronti della magistratura tutta e che assomiglia tristemente ad una ‘lista di proscrizionè“. “Torna alla mente, ancora una volta, la celebre frase pronunciata da Piero Calamandrei riguardo ad Aurelio Sansoni, magistrato in Toscana durante il ventennio fascista, il primo giudice ad essere definito con disprezzo ‘rosso’ (quindi politicizzato, fazioso, non legittimato): ‘Non era in realtà né rosso né bigio’ - scrisse Calamandrei - ‘era semplicemente un giudice giusto: per questo lo chiamavano ‘rosso’, perché sempre, tra le tante sofferente che attendono il giudice giusto, v’è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a seguire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”, conclude l’esecutivo nazionale di Md. Macerata e gli impresari della paura di Carlo Bonini La Repubblica, 4 febbraio 2019 Il paradigma di una città dove il questore Pignataro e la giovanissima capo della squadra mobile, Abbate, hanno portato gli indici di criminalità predatoria prossimi allo zero. Un anno dopo lo scempio di Pamela Mastropietro e la mattanza del “Lupo” Luca Traini, Macerata resta un paradigma. Un cantiere, se si vuole. Ma dall’inerzia capovolta. Dove gli impresari della paura si scoprono ora costretti a coltivare ossessivamente il culto di morti che non conviene seppellire. Perché, cessata la materia del contendere, riportata la città a una quiete da borgo svizzero, si rivela improvvisamente l’abisso tra il reale e il narrato e una intera comunità comincia a misurare l’ipocrisia di un sillogismo - neri-droga - che avrebbe dovuto o vorrebbe assolvere la cattiva coscienza dei “bianchi”, che quella droga consumano e quel mercato ingrassano. Per raccontarlo conviene muovere ancora una volta dal “Lupo”, che ieri, su questo giornale, si è raccontato a Ezio Mauro. Condannato a 12 anni di reclusione per i colpi esplosi contro nove “neri” il 3 febbraio del 2018 e rinchiuso nel penitenziario di Ancona Montacuto, tre settimane fa, il 10 gennaio, prende carta e penna. E scrive. Una lettera di una pagina e mezzo indirizzata ad Antonio Pignataro, il questore di Macerata chiamato al capezzale della città dopo che i colpi della sua Glock 17 calibro 9x21 avevano colpito al cuore anche l’afasia dello Stato. Già, Pignataro. Il “Pifia”, come ha preso a chiamarlo qui chi non lo ama giocando lessicalmente con diminutivi da regimi sudamericani, lo sbirro cresciuto nella mobile palermitana di Cassarà, che ha tirato dritto come un fuso riuscendo a dimostrare che il principio di legalità non conosce il colore della pelle. E dunque può diventare una grana anche e soprattutto peri “bianchi”, una volta tolti dal marciapiede “i neri che spacciano”. La lettera del “Lupo” ha una grafia ordinata, in stampatello maiuscolo, e non mostra incertezze nel tratto. Si legge: “Pregiatissimo, dottor Antonio Pignataro, questore di Macerata, mi permetto di scriverle per elogiare la sua opera di lotta al degrado cittadino e alla criminalità organizzata. Il suo lavoro, la sua battaglia contro lo spaccio di droga le ha attirato molte “antipatie” che ultimamente sfociano in scritte ingiuriose contro la sua persona. Per quanto mi riguarda, lei, così come tutte le forze dell’ordine, state facendo un ottimo lavoro, che oltre ad appagarvi professionalmente, onora il vostro essere uomini nel tutelare la vita e il futuro dei cittadini, soprattutto dei più giovani”. Nel suo narcisismo, il “Lupo” parla evidentemente innanzitutto a sé stesso, ricorda il posto che si è dato nel mondo - di Giustiziere per conto della comunità - ma, in qualche modo, e come farà nella sua intervista a Repubblica, finisce con il privare di argomenti gli impresari della Paura che lo hanno prima ingrassato nelle sue ossessioni e, ora, vorrebbero espungerlo dalla memoria di questa storia, perché non più utile, al contrario di Pamela. Prosegue Traini: “Con il vostro lavoro dimostrate che la speranza nella legge non è solo un’utopia da privato cittadino, anche se in stato di detenzione (per scontare la giusta pena delle mie azioni). La vorrei spronare a “fregarsene” delle minacce di pochi delinquenti che, evidentemente, in lei non vedono l’uomo di legge tutto di un pezzo che vedo io. Concludo, augurando a lei e a tutti i rappresentanti della legge un buon lavoro e un 2019 ricco di successi sul “fronte giustizia” Con grandissima stima, le porgo i miei più cordiali saluti”. Già, non sanno più che farsene di Traini e del suo fantasma che rende le armi e si pente, gli sciacalli che, mercoledì sera, si sono ritrovati nei giardini di via Spalato, di fronte al civico 124, dove Pamela venne uccisa e smembrata. Non sanno che farsene dei numeri che indicano oggi Macerata diciannovesima su 110 città italiane per qualità della vita (10 posizioni più in alto dell’anno precedente). Dei giardini Diaz e del Parco di Fontescodella, fino a un anno fa piazza di spaccio a cielo aperto e oggi restituiti alla città, ai passeggini, al jogging e, ieri sotto il diluvio, al sit-in antirazzista degli studenti di “Officina Universitaria”. Né di una giovanissima capo della squadra mobile, la napoletana Maria Raffaella Abbate, arrivata con Pignataro e che ha rivoltato la città come un calzino portando in un anno i cosiddetti indici di criminalità predatoria prossimi allo zero (14 rapine, nessuno scippo, nessun omicidio, 108 arrestati, oltre ventitré chili di stupefacenti, cocaina, hashish, eroina, sequestrati al momento dello spaccio). O della circostanza che mai, forse, come in questo microcosmo, di fronte alla giustizia penale tutti si sono dimostrati uguali. Il bianco, Traini. E i neri, oggi sotto il tetto dello stesso carcere di Montacuto dove sconta la sua pena il “Lupo”: Innocent Oseghale, nigeriano di 29 anni che tra una decina di giorni andrà a processo imputato come l’assassino di Pamela, e Gideon Azeke, 28 anni, nigeriano, ferito da Traini la mattina del 3 febbraio 2018 e arrestato due volte (a metà settembre e definitivamente a metà ottobre dello scorso anno) per spaccio di stupefacenti dalla stessa squadra mobile che lo aveva soccorso. Casa Pound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia, volevano una “messa solenne” che non hanno avuto per Pamela, ritenendo la preghiera officiata mercoledì sera dal parroco di santa Croce, don Alberto Forconi, una deminutio della memoria. E la voleva Deborah Pantana, consigliera comunale di Forza Italia, sconfitta nel ballottaggio del 2015 dal sindaco Pd Romano Carancini. Con un cinismo degli argomenti e dei toni che ha finito per far saltare i nervi anche al vescovo di Macerata, Nazzareno Marconi, convinto che il silenzio della Chiesa, stavolta, non sarebbe stato sufficiente e dunque spinto a una nota ufficiale in cui si stigmatizza che “reiterare polemiche che già si erano dimostrate pretestuose lo scorso anno, rivela scarsità di argomenti e orizzonti politici meschini”. Del resto, nell’agenda politica locale della Paura, le date continuano ad essere due: le elezioni europee in primavera e, il prossimo anno, il voto per Comune e la Regione. E questo impone di continuare a cingere d’assedio emotivamente e politicamente la città. Come racconta anche solo il linguaggio del corpo del sindaco Pd Romano Carancini, orfano di un partito evaporato con le elezioni del 4 marzo, e i cui iscritti, per dirne una, hanno votato in 90 su 195 alle ultime primarie per i candidati alla segreteria. “Se mi si passa l’immagine, è come dopo un terremoto - dice. Le scosse di assestamento continuano. Ma almeno, ora, il quadro credo sia chiaro a tutti. Per Salvini e la destra che ha cavalcato la sua morte dal primo istante, Pamela deve restare viva fino a12020. E quindi anche le polemiche di queste ore, l’accusa al sottoscritto di non aver voluto commemorare la ragazza, servono solo a creare un’equazione oscena secondo cui il Pd e il sottoscritto porterebbero il peso politico di quello che è successo. Vogliono tenere in catene la città, perché nessuno veda la strada che è stata fatta in questo anno. Non vogliono, come succederà, che la morte di Pamela e quel che è accaduto da lì in avanti vengano ricordati, come sarà, il prossimo 18 febbraio nell’unico luogo laico deputato a farlo: il nostro consiglio comunale. Non vogliono parlare di ciò che è successo dal 3 febbraio 2018 in poi”. Dunque, di dodici mesi di cura da cavallo, come si diceva. Documentata dalla media di 20 patenti a sera ritirate nei week-end ai positivi al narcotest o dalle ordinanze che hanno vietato la vendita di cannabis light in tutta la città e limitato le licenze per il gioco alle slot vietandolo dalle 7 alle 10 di mattina e dalle 3 del pomeriggio alle 8 di sera. In una guerra dichiarata al traffico, spaccio e consumo di stupefacenti che ha portato comune e forze di polizia nelle scuole medie, e convinto a difendere il progetto Sprar di accoglienza dei migranti che il decreto sicurezza Salvini ha destinato a futura estinzione. Quello Sprar che ha consentito a due delle sei vittime del “Lupo” di trovare un lavoro nel comune di Servigliano. Ma questo, appunto, meglio non dirlo. Non fa paura. Morti senza giustizia: 21 anni fa la strage del Cermis ilprimatonazionale.it, 4 febbraio 2019 3 febbraio 1998, ore 15 e 13 minuti. Vola basso, sembra sfiorare le cime degli alberi alla folle velocità di mille chilometri all’ora. Sotto, il gorgogliare del torrente Avisio, e case, chiese, boschi, che fuggono veloci sotto la pancia del predatore. I vetri delle finestre sussultano, paiono brividi di terrore a presagio dell’imminente tragedia. Poi l’ultimo tuffo. Sono venti in quel guscio lucente che scende dalla cima dell’Alpe Cermis. Sono venti che vedono un lampo nel cielo. Sono venti a macchiare di rosso vermiglio la neve, cento metri più giù. Il Grumman EA-6 Prowler del Corpo dei Marines, matricola BuNo 163045, è partito da Aviano alle 13, 30 minuti e 50 secondi, con circa sei minuti di ritardo rispetto al programma di volo, perché il capitano Richard Ashby, pilota comandante, e il parigrado Joseph Schweitzer stavano aspettando le videocassette necessarie per filmare le montagne. Gli altri membri dell’equipaggio sono il capitano Chandler Seagraves e il capitano William Raney. Il piano di volo assomiglia più a un opuscolo pubblicitario di un tour turistico che a un programma addestrativo: Ampezzo, Brunico, Ponte di Legno, Casalmaggiore, Lago di Garda, Riva del Garda, Marmolada. La tratta tra Aviano e Ponte di Legno viene percorsa trasgredendo altitudine, velocità e rotta, mentre la Pianura Padana è sorvolata a quote inferiori a quelle prescritte. Come imbocca la Valle di Fiemme, il pilota fa girare i motori Pratt&Whitney al massimo, spinge a fondo la barra di comando e picchia, scendendo a 2400 piedi al minuto, fino a raggiungere i 357 piedi, cioè il 65% meno della quota minima concessa. Passa sul lago di Stramentizzo a un’altitudine compresa tra i 270 e i 310 metri. “Obiettivo in vista”, grida il capitano navigatore Schweitzer. Il pilota picchia ancora fino a 111 metri, per filar via sotto le funi della teleferica. La gondola appare improvvisamente, gialla, abbagliante. Richard Ashby cerca di evitarla, ma l’aereo si pianta nei cavi della funivia del Cermis, che il peso della cabina aveva abbassato. La portante e la traente vengono recise dall’ala destra, mentre la fune di servizio, più fine e posta più in alto, è troncata dall’impennaggio di coda. Il Prowler perde qualche pezzo, ma subito s’impenna. Ashby accende i post-bruciatori. Due palle di fuoco fendono il cielo e scompaio all’orizzonte. Il grifo d’acciaio è fuggito dopo aver dilaniato la sua preda, della quale alcuni brandelli rimangono impigliati tra i suoi artigli. Nelle fenditure delle ali vengono rinvenuti legnoli appartenenti alla fune portante e sfilacciature di canapa componenti quella traente. Il Grumman EA-6 atterra ad Aviano su di una pista predisposta per l’emergenza. È danneggiato e perde carburante. Può prendere fuoco da un momento all’altro ed esplodere. L’equipaggio deve abbandonare il veicolo al più presto. Il capitano Raney, dalla fretta di saltare si frattura una caviglia. Ashby e Schweitzer sembra che non abbiano però timore di finire arrosto; infatti si attardano nell’abitacolo per cancellare le prove della loro bravata. Prelevano e fanno sparire le videocassette con la registrazione di tutte le scriteriate acrobazie effettuate, mentre “la squadra di soccorso stava accorrendo per assicurarsi che le loro vite fossero salve”, come dichiarato dal Procuratore, maggiore generale Daugherty. Siamo nel 1998. Gli americani si preparano a invadere l’Iraq e si addestrano a scorrazzare in Serbia e Bosnia. Si stanno addestrando a volare a bassa quota tra le montagne italiane. Probabilmente erano memori di quando, durante la Seconda guerra mondiale, i titini tendevano funi per ostacolare il volo degli aerei tedeschi tra le pendici montuose delle strette valli jugoslave. Lo squadrone a cui appartiene il Prowler BuNo 163045, collocato in Italia per le scorribande yankee nell’ex Jugoslavia, ha già effettuato, nei sei mesi di sosta nel Bel Paese, ben undici missioni di addestramento a bassissima quota, denominate “Deliberate Guard”, utilizzando in modo continuativo il nostro spazio aereo. Tutto ciò in violazione della sovranità nazionale italiana, secondo modalità che infrangono gli accordi in vigore e in contrasto con varie deliberazioni emanate dalle nostre autorità militari. In particolare, con la disposizione varata dallo Stato Maggiore Aeronautica il 21 aprile 1997, che stabilisce che tutti i velivoli dei reparti di volo stranieri operanti dalle basi aeree italiane, in supporto alle operazioni nella ex Jugoslavia, non possono volare missioni addestrative di navigazione a bassissima quota sul territorio italiano e sulle acque territoriali nazionali. Sono da segnalare anche il messaggio emesso, il 16 agosto 1997, dal 1° ROC (Regional Operation Center) di Monte Venda, che richiama l’attenzione riguardo al divieto di volo sotto i 2000 piedi di quota sulle zone alpine del Trentino-Alto Adige, e la disposizione, emanata il 12 dicembre 1990 dal comando della Prima Regione Aerea di Milano, che vieta a tutti i velivoli la navigazione a bassa quota sotto i 1000 piedi AGL (al di sopra del livello del suolo) sulle zone montane innevate. Oltre tutto, però, come leggiamo nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle responsabilità relative alla tragedia del Cermis: “Per gli aerei rischierati ad Aviano nell’operazione “Deliberate Guard” non erano previsti voli di addestramento: infatti, scopo operativo primario della squadriglia VMAQ-2 del “Marine Corps” era condurre missioni AOR (area di responsabilità) in Bosnia e non effettuare addestramenti a bassa quota”. Da ciò si deduce che il volo era stato illegittimamente predisposto. Inoltre, sempre la Commissione d’inchiesta ci dice che: “I comandanti americani, invece di chiedere la dovuta autorizzazione di livello operativo al comandante italiano della V ATAF di Vicenza, ente che avrebbe potuto bloccare la missione, l’avevano puramente e semplicemente inserita nel PVG (Piano di volo giornaliero) relativo ai voli programmati per il 3.2.98 trasmesso al COA/COM di Martina Franca, in tal modo aggirando il controllo ed in sostanza facendo apparire il volo come uno dei tanti consentiti”. A tutto ciò bisogna aggiungere che i membri l’equipaggio del Prowler non hanno nemmeno rispettano il piano di volo predisposto, effettuando irresponsabili funambolismi al solo fine di filmare il volo, quale “souvenir” da mostrare ad amici e parenti una volta rientrati negli “States”. Si capisce subito che le autorità americane se ne strafregano della italica sovranità e da subito si rifiutano di far processare in Italia i propri piloti. Sbandierano la “Convenzione di Londra” stipulata nel 1951 e ratificata da parte italiana nel 1955, che stabilisce che la giurisdizione sia di competenza statunitense, in quanto l’incidente è avvenuto nell’ambito di una missione militare compiuta da un aereo degli Usa. Richard Ashby e Joseph Schweitzer vengono quindi rinviati a giudizio nell’ambito della Giustizia militare statunitense. Il primo verdetto della Corte Marziale è di assoluzione per Ashby e di archiviazione per Schweitzer. Un secondo processo, anche grazie alla collaborazione del capitano Chandler Seagraves, vede i due imputati condannati. Shweitzer viene radiato dal Corpo dei “Marines”, mentre Ashby, oltre ad essere radiato dai “Marines”, viene condannato a sei mesi di carcere per “cospirazione e ostruzione della giustizia”. L’equilibrio instabile fra carcere duro e dignità umana di Alessio Martino diritticomparati.it, 4 febbraio 2019 Il caso Provenzano: alcune riflessioni sulla sentenza della Corte di Strasburgo. Alla fine dello scorso ottobre la Corte Europea dei Diritti Umani è tornata ad occuparsi del regime carcerario “duro” previsto in Italia (ex art. 41bis Ordinamento Penitenziario). Il ricorso era stato promosso prima della morte di Bernardo Provenzano, condannato per gravi crimini di mafia, e dopo tale evento era stato comunque portato avanti dal figlio, la cui legittimazione a procedere era stata confermata, nonostante le contestazioni dello Stato italiano, in ragione dell’evidente interesse alla tutela della dignità e dei diritti del padre defunto. Proprio su tale punto, nello specifico, la Corte ha rappresentato come sia oramai principio granitico della propria giurisprudenza (si pensi alle decisioni Ergezen c. Turchia, n. 73359/10; Fairfield c. Regno Unito, n. 24790/04; Biç ed altri c. Turchia, no. 55955/00) l’orientamento secondo cui “the issue of whether a person may be considered an indirect victim is only relevant where the direct victim dies before bringing his or her complaint before the Court” (par. 95). Di più, “human rights cases before the Court generally also have a moral dimension, and persons near to an applicant may thus have a legitimate interest in ensuring that justice is done, even after the applicant’s death” (par. 96). La modalità di detenzione speciale prevista dall’ordinamento penitenziario italiano e disciplinata dall’art. 41bis, approntata dal legislatore proprio con il principale scopo di contrastare il fenomeno criminale mafioso, era peraltro già stata nel recente passato più volte oggetto del sindacato della Corte europea in un vasto numero di casi concernenti contestazioni simili a quelle promosse da Provenzano (a mero titolo esemplificativo appare utile ricordare i casi Argenti c. Italia, n. 56317/00, Enea c. Italia, n. 74912/01; Campisi c. Italia, n. 24358/02; Paolello c. Italia, n. 37648/02). Nell’affrontare il caso de quo, i giudici di Strasburgo hanno in prima istanza dettagliatamente ripercorso la storia criminale del Provenzano, sottolineando la certa ed assoluta gravità dei reati compiuti, ricordando inoltre i quarant’anni di latitanza di cui è stato protagonista, e riconoscendo in via generale in tutte queste ragioni una corretta ed idonea motivazione per la sottoposizione del detenuto al più arduo regime proposto dall’ordinamento penitenziario italiano. Orbene, la Corte si è soffermata sulle ragioni del ricorrente, che ha lamentato l’incongruenza del regime carcerario con le proprie condizioni di salute. In particolare, la Corte ha dato particolare valore e risalto a due perizie d’ufficio disposte dall’autorità giudiziaria italiana nell’ambito di alcuni procedimenti pendenti a carico del Provenzano a Palermo che nel 2012, e poi ancora nel 2013, avevano dato prova dell’ormai intervenuta incapacità di intendere e di volere del detenuto. Di più, la Corte ha evidenziato come nel 2016 alcuni organi dello stesso Stato italiano (in particolare la Commissione per la protezione e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica) avevano raccomandato nel proprio “Rapporto sul Regime Detentivo Speciale” del 41bis di prestare “more accurate evidence gathering (istruttoria) by the offices involved in the renewal of the application of the special prison regime, in order to avoid the imposition of the regime with respect to persons who are mentally incapacitated (incapaci di intendere e di volere)” (così citato nel par. 92). Il ricorso avanzato dal detenuto italiano e dai suoi familiari è stato sostanzialmente ricondotto dalla Corte a due ragioni: la prima riguardante la compatibilità del detenuto con la detenzione in ragione delle proprie condizioni di salute; la seconda, invece, concernente la protratta imposizione del regime carcerario duro ex art. 41bis O.P. nonostante l’aggravarsi delle proprie condizioni fisiche e psichiche. Come sempre, la Corte ha ribadito che l’art. 3 della Cedu “enshrines one of the most fundamental values of democratic society” (par. 126) e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti deve essere considerate assoluta e in nessun caso derogabile, sia anche per ragioni di sicurezza nazionale o sopravvivenza dello Stato, richiamando a tal fine proprio una sentenza di condanna contro l’Italia (Labita c. Italia, n. 26772/95). Ancora, esiste certamente un limite minimo sotto il quale un trattamento che astrattamente configuri una condotta inumana allo stesso tempo non si traduca immediatamente in una violazione del dettato dell’art. 3 CEDU (a tal fine risultano assai utili le riflessioni già operate nei casi Kudla c. Polonia, n. 30210/96; Peers c. Grecia, n. 28524/95; Enea c. Italia, n. 74912/01; ma anche Bouyid c. Belgio, n. 23380/09), tuttavia, si è ribadito, “the assessment of this minimum is relative: it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical and mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim” (par. 126). Ebbene, “the State must ensure that a person is detained in conditions which are compatible with respect for human dignity, that the manner and method of the execution of the measure of deprivation of liberty do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention” (par. 127). Tutto ciò, naturalmente, senza poter distinguere l’intensità del diritto al rispetto della persona dei diversi detenuti in base ad una mera valutazione relativa al crimine commesso, alla sua intensità ovvero alla gravità delle condotte perpetrate. A tale punto della propria ricostruzione, la Corte ha iniziato ad approfondire la specifica vicenda in analisi, dovendo osservare come già dopo pochi anni di detenzione, il Provenzano aveva iniziato a soffrire di un vasto numero di malattie croniche, che ne hanno gravemente condizionato la salute, finendo per essere progressivamente sempre più compromesse tutte le sue funzioni cognitive (cfr. par. 131). In definitiva, comunque, la Corte non ha inteso individuare nella detenzione in sé una violazione dell’art. 3 CEDU, e ciò proprio in ragione di specifiche peculiarità del soggetto detenuto, dei reati commessi, della condotta carceraria, delle cure e dell’assistenza che il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria italiano aveva costantemente fornito al ristretto. Al contrario però, la Corte non ha potuto in alcun modo accogliere la difesa del Governo italiano secondo la quale l’imposizione reiterata del regime di detenzione più gravoso presente nel proprio sistema penitenziario fosse giustificato dalla “continua pericolosità sociale” del Provenzano e dalla “gravità dei crimini commessi” (cfr. par. 146). Orbene, la Corte ha ricordato di essersi già occupata in un vasto numero di occasioni dei pericoli insiti in un regime tanto duro quale quello previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano. Alla luce di questa lunga esperienza di confronto con tale previsione normativa, essa ha concluso con certezza che nella maggior parte dei casi “the imposition of the regime does not give rise to an issue under Article 3, even when it has been imposed for lengthy periods of time” (par. 147). Nonostante ciò, tuttavia, la severità delle previsioni - soprattutto nei casi di imposizione prolungata - impone una particolare forma di controllo delle motivazioni attuali in ragione delle quali si prosegue tale ulteriore imposizione restrittiva a danno dei detenuti, in assenza della quale - ovvero qualora essa non sia operata in maniera corretta ed idonea - si può facilmente cadere in una violazione più o meno grave dell’Art. 3 CEDU. Riguardo il caso Provenzano, nonostante la Corte abbia preso piena coscienza di quanto “the applicant had been an extremely dangerous individual and a prominent leader of one of the largest existing criminal organisations” (par. 150) allo stesso tempo tuttavia, le giustificazioni avanzate dallo Stato italiano sulla base delle quali l’autorità giudiziaria competente avrebbe deciso di prolungare il regime di 41bis nonostante le condizioni di salute del detenuto non sono apparse affatto convincenti. Al contrario, anzi, “the picture which emerges from the medical documentation available to the Court (…) is one which may at least cast some legitimate doubts on the applicant’s persistent dangerousness and his ability to maintain meaningful, constructive contact with his criminal association” (par. 151). La Corte ha quindi ribadito che l’essenza ed il fulcro della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo risiede nel rispetto della Dignità umana, e che pertanto tale oggetto finale della protezione approntata deve trovare nelle disposizioni convenzionali e nella loro applicazione una tutela concreta, pratica ed efficace (come peraltro già ampiamente argomentato nel caso Svinarenko c. Russia, n. 32541/08 e Slyadnev c. Russia, n. 43441/08). È di tutta evidenza, quindi, come “subjecting an individual to a set of additional restrictions, which are imposed by the prison authorities at their discretion, without providing sufficient and relevant reasons based on an individualised assessment of necessity, would undermine his human dignity and entail an infringement of the right set out in Article 3” (par. 152). Ancora una volta, in sostanza, la Corte si è trovata a dover ribadire che rispondere al crimine, anche il più feroce, con le stesse armi di sopraffazione e disumanità contro le quali ci si sta rivolgendo, degradare per vendicarsi, dimenticare il valore della dignità dell’essere umano, anche di quello che si è macchiato di crimini tremendi, rappresenta l’estrinsecazione di una modalità di approccio all’illegalità che non può trovare posto nel nostro sistema di diritti. Nella tutela della persona, al netto dei crimini commessi, risiede infatti il punto più alto dell’effettività della giustizia, e la Corte europea di Strasburgo ha dovuto nuovamente ricordarlo all’Italia. Convalida di fermo: la fondatezza del pericolo di fuga va verificata con valutazione ex ante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2019 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 5dicembre 2018 n. 54445. In tema di convalida del fermo di indiziato di delitto, la fondatezza del pericolo di fuga va verificata con una valutazione ex ante, desumendo da elementi concreti la rilevante probabilità che l’indagato si potesse dare alla fuga, mentre, non potendosi procedere in base a una valutazione ex post, deve considerarsi irrilevante che il soggetto, dopo la avvenuta concretizzazione del pericolo di fuga, si sia poi spontaneamente presentato dalle forze dell’ordine. Così si è espressa la Cassazione con la sentenza del 5 dicembre 2018 n. 54445. Nel caso specico, la Corte ha così accolto il ricorso del pubblico ministero avverso il provvedimento di non convalida del fermo motivato erroneamente in considerazione della spontanea presentazione dell’indagato presso il commissariato di polizia, e ciò sebbene la sua fuga si fosse protratta per quasi ventiquattro ore, con evidente dimostrazione della reale possibilità del prevenuto di sottrarsi alle ricerche dell’autorità. In tema di fermo, gli specifici elementi dai quali desumere il “pericolo di fuga” non devono essere tali da poter fornire la prova diretta del progetto di fuga: infatti, essendo la fuga un avvenimento futuro e incerto, la probabilità del suo verificarsi può essere desunto da elementi indiziari (cfr., in tal senso, sezione VI, 26 aprile 2011, Proc. Rep. Trib. Torino in proc. Erunse, che, da queste premesse, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha ritenuto carente sul piano strutturale e logico il provvedimento di non convalida del fermo adottato dal Gip, il quale si era limitato ad affermare che la mera condizione di clandestino del fermato non dimostrava il concreto e attuale pericolo di fuga, trascurando di considerare le pur documentate difficoltà di “tracciabilità” del medesimo, che non svolgeva alcuna attività stanziale e trovava nella propria “scarsa visibilità” alimento per lo svolgimento di attività illecite). È comunque ormai pacifica l’affermazione resa nella massima sopra riportata secondo cui, ai fini della convalida del fermo di indiziato di delitto, la fondatezza del pericolo di fuga va verificata con valutazione ex ante, desumendo da elementi concreti la rilevante probabilità che l’indagato si potesse dare alla fuga (cfr. sezione II, 4 ottobre 2016, Proc. Rep. Trib. Napoli in proc. Grosso, che, in applicazione del principio, ha ritenuto legittimo il fermo di indiziato del delitto di tentata rapina aggravata, risultato irreperibile dopo le ricerche immediatamente svolte dalla polizia giudiziaria, considerando irrilevante la sua successiva costituzione in carcere, in quanto intervenuta dopo la concretizzazione del pericolo di fuga). Stupefacenti: per accertare la natura perizia o esame tecnico non sono strumenti esclusivi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2019 Cassazione - Sezione Vi penale - Sentenza 5 dicembre 2018 n. 54434. La perizia o comunque l’accertamento tecnico non costituiscono lo strumento esclusivo al fine di accertare la natura drogante della sostanza oggetto del processo. Lo sostiene la Corte di cassazione con la sentenza n. 54434 del 2018. Principio pacifico, applicabile in tutti i casi di cosiddetta “droga parlata” - In termini, di recente, sezione VI, 6 ottobre 2016, Di Pietro e altri, secondo la quale, nel caso di reati in materia di stupefacenti non è determinante, a fini di prova, il sequestro o il rinvenimento delle sostanze, potendosi fare riferimento a prove di altro genere, a cominciare dalle intercettazioni telefoniche o ambientali; nonché, proprio con riguardo all’accertamento tecnico, sezione IV, 29 gennaio 2014, Feola e altri, per la quale, in tema di stupefacenti, il giudice non ha alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualità e la quantità del principio attivo di una sostanza drogante, in quanto egli può attingere tale conoscenza anche da altre fonti di prova acquisite agli atti (nella specie, la sentenza ha così ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva condannato gli imputati per una pluralità di episodi di cessione di droga fondandosi, tra l’altro, sulla confessione di alcuni di essi). No all’utero in affitto anche se la madre non riceve alcun compenso di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2019 No all’utero in affitto. La sesta sezione penale della Corte di cassazione - con la sentenza n. 2173, depositata il 17 gennaio 2019 (consigliere relatore Amoroso) - ha condannato anche la madre naturale per il reato di affidamento a terzi di un minore, in violazione dell’articolo 71, comma 1, legge 184/1983, anche se non ha ricevuto alcun compenso. La controversia - La Corte ribadisce infatti la centralità e l’importanza della norma che regola la disciplina sulle adozioni nel tutelare il diritto dei minori e così reprimere ogni condotta volta a superare la centralità della sua figura, rispetto ai desideri degli adulti. Nel caso de quo si è affrontato il ricorso presentato avverso la decisione della Corte d’appello di Napoli che aveva confermato la condanna degli imputati per aver tra loro “partecipato ad un accordo con cui un medico ginecologo, dietro corrispettivo di una somma di danaro, pattuita in 30mila euro” aveva promesso a una coppia l’affidamento di un nascituro, non appena questo fosse stato partorito, con l’intesa ulteriore di alterare lo stato di nascita del neonato, in modo che risultasse figlio naturale di questa coppia. L’accordo, rammenta la sentenza, “si concretizzava senza che venisse portato a compimento la concordata alterazione dello stato di nascita, con la falsificazione del nome della madre naturale, per un imprevisto sopravvenuto” che non aveva consentito al medico di alterare le carte di nascita trasmesse - correttamente - dall’amministrazione del presidio sanitario al Comune. Il ricorso in Cassazione era proposto dalla madre naturale, che chiedeva la riforma della sua condanna sul presupposto che fosse da limitare alle sole condotte realizzatesi all’interno di una procedura di adozione, “mentre resterebbero fuori dalla tipicità dell’incriminazione le condotte elusive” come quella posta in essere dalla partoriente, che non aveva ricevuto danaro come compenso Il ricorso è stato presentato anche dall’uomo, compagno della donna a cui era stato consegnato il neonato a seguito del pagamento di una somma di danaro, che lamentava di non aver partecipato al pactum sceleris, per essere intervenuto solo successivamente ad aiutare l’amica che aveva preso in consegna il neonato, così che questa potesse recuperare il danaro incassato dal medico, truffaldinamente e senza causale, perché “non aveva portato a compimento l’alterazione dello stato di nascita”. La pronuncia della Suprema corte - La sesta sezione penale nel rigettare tutte le ipotesi di riforma osserva come, rispetto ai temi di cui sopra (estraneità ai fatti e truffa), non possa non condividersi la lettura delle prove posta in essere dai giudici di appello, che espressamente osservano come l’uomo fosse ben a conoscenza sin dall’inizio del piano delittuoso e come nessuno possa dolersi di una ipotesi di truffa, trattandosi in questo caso (mancata alterazione di un atto di nascita) di “inadempimento di un accordo illecito nella causa”. Quanto alle censure avanzate dalla madre naturale, la fattispecie di delitto punita dall’articolo 71 della norma sulle adozioni (legge 184/83) “non richiede affatto - osserva la Corte - che l’affidamento illegale del minore sia avvenuto nell’ambito di una procedura formale di adozione, né è richiesto, per colui che affida il minore, la previsione di un compenso economico, come corrispettivo della consegna del minore stesso”. E ancora: “l’articolo 71, comma 1, della legge 184/1983 punisce con la reclusione da uno a tre anni, chiunque, in violazione delle norme di legge in materia di adozione, affida a terzi con carattere definivo un minore, ovvero lo avvia all’estero perché sia definitivamente affidato, senza ulteriori condizioni ai fini della integrazione del reato”. In buona sostanza, il corrispettivo di danaro non è condizione del reato per colui che ceda il minore o comunque si ingerisca nella sua consegna, essendo previsto anche un aggravamento della pena nel caso in cui il fatto sia commesso dal genitore. La ratio legis che ribadisce la Suprema corte è evidente: “chi affida illegittimamente il minore viola sempre l’interesse del minore ad un affidamento nel rispetto di tutte le condizioni poste dalla norma a sua tutela”, con ciò confermando come proprio la disciplina normativa vigente sia argine primo a ogni ipotesi di liceità delle pratiche di utero in affitto nel nostro Paese, che prevede, nella primaria tutela di ogni figlio a godere della propria madre, un aggravamento della pena se a provvedere alla sua “cessione” sia stata la genitrice, e questo anche in assenza di un corrispettivo economico. Elementi costitutivi del reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2019 Contravvenzioni - Contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Reato permanente. La contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1, c.p. è un reato solo eventualmente permanente, poiché si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa suscettibile di provocare, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 gennaio 2019 n. 2846. Reato di pericolo presunto - Disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone - Elementi costitutivi. La condotta di chi mediante schiamazzi e grida di notte disturbi il riposo e le occupazioni delle persone integra la specifica fattispecie delittuosa di cui all’art. 659 c.p., laddove lo schiamazzo sia idoneo a disturbare un numero indeterminato di persone, in considerazione altresì degli orari e della durata della turbativa nel tempo, con riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, anche morale, liquidato in unica soluzione e in considerazione degli aspetti tipici del caso concreto. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 19 ottobre 2018 n. 47719. Inquinamento acustico - Disturbo alle occupazioni o riposo delle persone - Elemento psicologico del reato di cui all’art. 659 cod. pen. - Intenzione dell’agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica - Necessità - Esclusione. Ai fini dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 659 cod. pen., non occorre l’intenzione dell’agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica, essendo sufficiente la volontarietà della condotta desunta da obiettive circostanze. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 ottobre 2018 n. 45247. Disturbo quiete pubblica - Elementi costitutivi - Perseguibilità - Sanzioni. I proprietari dell’abitazione da cui risulti provenire l’insistente nonché perdurante abbaiare notturno dei cani sono penalmente perseguibili, in concorso tra loro, ai sensi dell’art. 659 c.p.laddove si ravvisi che, il superamento della normale soglia di tollerabilità degli eventi rumorosi (commisurata alla sensibilità media del gruppo sociale di riferimento) comporti turbamento della quiete pubblica e disturbo al riposo di un numero indeterminato di persone, individuati nei vicini degli imputati. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 agosto 2018 n. 38901. Contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Emissioni o immissioni sonore - Derivanti da esercizio di professioni o mestieri - Illecito penale o illecito amministrativo - Discrimine. In tema di immissioni sonore, si configura l’illecito amministrativo nell’ipotesi in cui si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali, mentre è configurabile l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 659 c.p., comma 1, quando la condotta alla base dell’illecito penale sia rappresentata da qualcosa di diverso e ulteriore rispetto al mero superamento di limiti di rumorosità; si deve poi ritenere integrata la contravvenzione di cui all’art. 659 c.p., comma 2, qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o dell’ Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse, però, da quelle impositive di limiti di immissione acustica. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 giugno 2017 n. 31279. Inquinamento acustico - Illecito amministrativo - Illecito penale - Differenze - Bene giuridico tutelato. L’art. 10 della L. n. 447/1995 tutela genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire e a sanzionare in via amministrativa il superamento dei limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali deve ritenersi sussistente l’inquinamento acustico. L’art. 659 c.p., invece, è posto a tutela della tranquillità pubblica evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee a interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 settembre 2014 n. 37184. Aversa (Ce): 22enne algerino muore suicida in carcere Il Mattino, 4 febbraio 2019 È stato trovato impiccato con una corda che si era costruito con le lenzuola del letto della cella nel carcere di Aversa dove era detenuto dal 27 marzo dell’anno scorso. È morto suicida il 22enne algerino Osman Jridi, detenuto perché aveva tentato di lanciarsi in auto contro il santuario di Pompei. Il giovane è stato trovato ansimante dagli agenti della Polizia penitenziaria che hanno chiamato i soccorsi. A nulla è valso il tentativo di rianimarlo al pronto soccorso dell’ospedale San Giuseppe Moscati. L’uomo viaggiava su un’auto rubata a Terzigno, nel Vesuviano, alle 14 di lunedì 27 marzo. Alle 16 era a Pompei e lì, a bordo della vettura, ha percorso via Lepanto, la strada che porta davanti alla basilica, fino ad arrivare in piazza Bartolo Longo, senza trovare ostacoli alla percorribilità delle automobili, fioriere e transenne, rimossi per agevolare l’allestimento di un palco per la via Crucis pasquale. Quando è entrato nell’area pedonale, davanti al santuario Mariano, è stato avvicinato dai vigili urbani che volevano bloccarlo; venne arrestato a bordo di un autobus, dopo una fuga a piedi durata alcuni minuti. Oristano: pochi agenti e troppi detenuti di Emanuela Carucci Il Giornale, 4 febbraio 2019 La denuncia dei deputati di Fratelli d’Italia Salvatore Deidda e Augusta Montaruli. “Una carenza di organico di cinquanta uomini e un’età media degli agenti penitenziari che supera i 50 anni” è quanto denunciato dai deputati di Fratelli d’Italia Salvatore Deidda e Augusta Montaruli dopo un sopralluogo nell’istituto penitenziario di Massama, frazione di Oristano. È il carcere dove ora si trova Cesare Battisti. Ed oltre a lui, come dichiarano i due parlamentari, il carcere sardo ospita “detenuti di una certa pericolosità e importanza” con la conseguente “gestione complicata, più di altri Istituti”. Quello della carenza di organico nelle carceri è un problema presente in tutta Italia. Ma lo è ancor di più in Sardegna. Appena quattro mesi fa nel carcere di Cagliari un detenuto aggredì alcuni agenti penitenziari con delle lamette e il segretario del sindacato autonomo di polizia penitenziaria della Sardegna, Luca Fais, denunciò l’accaduto sottolineando come “i penitenziari sardi stanno diventando il luogo di accoglienza di numerosi detenuti stranieri, provenienti dalle carceri della penisola, di difficile gestione e con diversi provvedimenti disciplinari a carico. Questa tipologia di detenuti necessita di un controllo costante da parte dei poliziotti che attualmente continuano a non essere sufficienti, come numero.” Per il segretario regionale del Sappe a mancare sono soprattutto i sovrintendenti e gli ispettori “la cui carenza si aggira intorno al 70 per cento dell’organico ministeriale previsto”. A distanza di pochi mesi i deputati Deidda e Montaruli hanno deciso di fare un sopralluogo per verificare le condizioni di lavoro degli agenti “e sebbene ci sia una ottima direzione e organizzazione, c’è bisogno di più personale e agenti più giovani”, come hanno dichiarato al termine della loro visita. A mancare, secondo quanto emerge, sono i direttori “che si devono sdoppiare per coprire i posti vacanti perché, parole del Sottosegretario alla Giustizia quando rispose ad una nostra interrogazione, nessuno dalle altre Regioni intende trasferirsi” come hanno, infine, dichiarato i parlamentari che chiederanno “Più fondi per l’edilizia penitenziaria, di dotare la polizia penitenziaria dei Taser e di fornire il carcere di Oristano di Repartino, un piccolo reparto dedicato alla sanità”. Napoli: il progetto del nuovo carcere a Nola tecnicaer.com, 4 febbraio 2019 Niente sbarre alle finestre, niente mura perimetrali, disponibilità di celle singole, campi sportivi, il teatro, le aule e i laboratori per le attività ricreative e dove poter imparare un mestiere. È questa l’immagine del nuovo carcere di Nola, istituto penitenziario innovativo circondato dal verde e dotato di un modernissimo sistema di videosorveglianza. Nel progetto di Nola, forte è la consapevolezza che il percorso di rieducazione e reinserimento nella società civile del detenuto, passi anche attraverso l’umanizzazione dell’ambiente e la flessibilità degli spazi, che devono essere riconfigurabili in funzione di possibili scenari di sviluppo futuri. La vasta area interessata dal progetto, all’interno del Piano di coordinamento territoriale della Città metropolitana di Napoli, è collocata in prossimità di importanti assi viabilistici e ospiterà fino a circa 1200 detenuti. Un’opera impattante, in primo luogo, per le considerevoli dimensioni: per questo motivo, una particolare attenzione è stata prestata alla qualità, anche estetica, del complesso nonché alla compatibilità e sostenibilità ambientale, divenuti oggi valori importanti. Per rispondere a queste esigenze, sono stati selezionati sistemi costruttivi prefabbricati, in grado di ridurre i tempi di realizzazione innalzando la qualità degli elementi edili e strutturali e materiali da costruzione con un’alta percentuale di riciclabilità e certificazioni Ecolabel.Il nuovo istituto penitenziario è stato progettato con prestazioni energetiche in classe A4, con sostanziale annullamento del fabbisogno energetico e attribuzione della categoria Nzeb (edifici ad energia quasi zero) nonché Carbon Zero. Il sistema di captazione fotovoltaica in copertura raggiunge un’estensione pari a 20.000 mq e consente di classificare il complesso come Energy Plus. La metodologia operativa full BIM, quale strumento di lavoro utilizzato per tutte le fasi progettuali, metterà a disposizione un modello digitale completo di tutte le caratteristiche degli elementi edili-strutturali e di tutte le componenti impiantistiche: un prezioso strumento che sarà in grado di ottimizzare tutte le attività manutentive. Varese: in carcere col piumino di Barbara Zanetti La Prealpina, 4 febbraio 2019 Temperature polari ai Miogni: parenti, detenuti e guardiani al gelo nella sala colloqui. “Abbiamo freddo”. Di togliere il piumino o il cappotto, non ci pensano nemmeno. E non perché il luogo dove si trovano mette freddo nell’anima. Perché i caloriferi non ci sono e quando ci sono funzionano poco e male. Sono comunque insufficienti per garantire un minimo di tepore in spazi nemmeno troppo grandi ma di certo poco accoglienti, sotto tutti i punti di vista. Nel carcere dei Miogni, i detenuti hanno temperature accettabili nella sezione, cioè nelle celle e negli spazi che normalmente frequentano, da quando è stato rifatto l’impianto, anche se il caldo viene pesantemente raffreddato dagli infissi in ferro parecchio datati. Naturalmente non ci sono vetri nelle celle ma una sorta di plexiglass, sono state installate guarnizioni ed è stata posata una gran quantità di silicone per isolare le piccole finestre, ma con risultati poco efficaci. Il freddo, il freddo vero, viene invece affrontato quando i detenuti vanno nella sala colloqui. Prima e dopo vengono perquisiti, la stanza dove avviene questa operazione d’obbligo è priva di riscaldamento. E tutta l’area è nelle stesse condizioni. Condizioni che vivono pure gli agenti (anche se cercano di correre ai ripari sotto le divise) ma soprattutto i visitatori, cioè i parenti e chi ottiene un permesso per scambiare due parole con il proprio caro o l’amico. Le proteste hanno superato la stanza dei colloqui della casa circondariale. A rimanere in attesa intirizzite sono spesso mogli e compagne dei detenuti, in attesa di entrare nella sala colloqui, idem dopo aver varcato la soglia. Situazione analoga nella stanza del rilascio di permessi e pacchi. I caloriferi ci sono anche, ma o non funzionano o non sono sufficienti per garantire un clima accettabile, soprattutto dove vi sono ampi spazi, come nella sala colloqui. “La temperatura è almeno tre gradi sotto i 18”, dicono le voci di protesta. Anche gli agenti di polizia penitenziaria che operano a turno in quella parte del carcere sono costretti a stare in stanze dove è difficile non provare un brivido di freddo. Singolare che la stanza delle perquisizioni sia totalmente priva di caloriferi, mentre se gli agenti tentano di attaccare una stufetta nella sala del controllo visivo (durante appunto i colloqui), salta spesso la corrente. Le lamentele sono state formalizzate dai sindacati dagli agenti della polizia penitenziaria anche durante l’ultimo incontro. La richiesta, ormai “sul tavolo” della direzione da anni, riguarda la possibilità di trasformare la block house, in sostanza la guardiola che sorge accanto al cancello di ingresso: esiste un condizionatore e non un impianto di riscaldamento vero e proprio, il tetto è piatto e in cemento, la temperatura inadeguata sia in estate sia in inverno. Soprattutto, in inverno. E poi quella guardiola dà le spalle alla strada e da sempre viene denunciata la pericolosità del lavoro e delle scarse possibilità di reale controllo da una simile postazione. Orvieto (Pg): il carcere di notte resta senza acqua umbriaoggi.news, 4 febbraio 2019 I parlamentari umbri Franco Zaffini ed Emanuele Prisco di Fratelli d’Italia interrogano il ministro. “Poche divise, automezzi in cattivo stato, caserme fatiscenti, turni di servizio troppo lunghi, riposi settimanali impossibili da godere, aumento delle malattie da stress legate al lavoro”: attraverso un’interrogazione al ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, i parlamentari umbri Franco Zaffini ed Emanuele Prisco di Fratelli d’Italia vogliono sapere quali politiche abbia intenzione di mettere in pratica il governo per garantire la “necessaria considerazione alla polizia penitenziaria”. “Da tempo ormai - si legge in una nota - i sindacati denunciano la carenza di personale nelle carceri italiane”. “In questo contesto - aggiungono il senatore Zaffini e il deputato Prisco - la situazione è aggravata da discutibili iniziative promosse da alcune direzioni. A Orvieto, per esempio, come denunciato dai sindacati, è stata interrotta l’ erogazione dell’ acqua corrente nelle ore notturne, provvedimento che inevitabilmente ha riguardato gli agenti in servizio e i colleghi alloggiati nelle caserme”. “Dai quali - sottolineano nella nota i due parlamentari - si continua a pretendere il pagamento delle utenze nonostante il servizio sia stato interrotto”. Gli esponenti di Fratelli d’Italia chiedono al ministro di “accertare le responsabilità di quanto accaduto nell’istituto penitenziario di Orvieto ripristinando al più presto l’ erogazione dell’ acqua per gli agenti”. Venezia: mense in carcere, indetto lo sciopero alla Giudecca e S. Maria Maggiore La Nuova Venezia, 4 febbraio 2019 La protesta delle lavoratrici di Food Facility per il mancato pagamento degli stipendi. Disagi nelle carceri venete. Dopo l’avvertimento dei giorni scorsi, arriva anche l’ufficialità: mercoledì prossimo, la mensa delle carceri veneziane (Santa Maria Maggiore e la casa di reclusione femminile della Giudecca) si fermerà per un giorno. La causa è lo sciopero dei lavori e delle lavoratrici della Food Facility, azienda che rientra all’interno del consorzio Unilabor e incaricata del servizio di mensa all’interno delle carceri del Veneto. La protesta (indetta dalle sigle sindacali Filcams Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil) esplode dopo le proteste degli ultimi mesi a causa del mancato pagamento delle mensilità ai lavoratori, e coinvolge anche i penitenziari di Udine, Treviso, Vicenza, Rovigo, Pordenone, Verona. Già ad ottobre, una protesta di diversi giorni aveva bloccato il servizio di pasti all’interno delle carceri veneziane per quasi una settimana. A farne le spese, il personale amministrativo e gli operatori penitenziari spesso impiegati fino a tarda notte. A difesa degli operatori penitenziari, a sua volta, interviene la Fp-Cgil. Il sindacato esprime preoccupazione per le condizioni di lavoro all’interno delle carceri in un ambiente di lavoro complesso e delicato, che fronteggia da anni in tutt’Italia i problemi cronici del sovraffollamento e della mancanza di personale. Nonostante le rassicurazioni dell’amministrazione penitenziaria, che di recente ha detto di aver preso le contromisure per evitare disagi in seguito allo sciopero dei lavoratori della mensa, la Cgil si dice “sconcertata”: “La cosa più grave e inaccettabile è il fatto che l’amministrazione, nonostante la protesta fosse nell’aria, non ha attuato alcunché per far sì che il personale possa consumere i pasti, lasciando così a digiuno i lavoratori”. La normativa, ricorda ancora la Cgil, prevede che la mensa di servizio sia obbligatoria e che, in caso di situazioni d’emergenza, vada garantito il buono pasto. Milano: residenza ai senzatetto, “ora reddito e cure sanitarie” di Andrea Senesi Corriere della Sera, 4 febbraio 2019 Il piano del Comune di Milano, quattro nuovi sportelli e due centri. Gli uffici comunali come residenza anagrafica per poter beneficiare delle cure mediche e del reddito di cittadinanza. Stranieri e italiani che vivono in strada e che non possono accedere ai documenti di base, dalla carta d’identità alla tessera sanitaria: è per loro che sarà esteso l’esperimento della “residenza fittizia” presso alcune case comunali. Sono già trecento i clochard che nel corso degli ultimi mesi hanno usufruito dell’opportunità, registrando il proprio domicilio presso il Cam Garibaldi. L’amministrazione vuole estendere ora la pratica di regolarizzazione a tutta le zone della città: quattro nuovi sportelli stanno per aprire con l’obiettivo di arrivare a uno per municipio e raddoppiare, “come minimo”, la quota dei domiciliati presso le sedi del Comune. Milano come Barcellona. La tessera sanitaria e gli altri documenti personali sono strumenti indispensabili per accedere al medico di base e, un domani, persino al reddito di cittadinanza. “Grazie a un bando pubblico, allo sportello già attivo in municipio 1 presso il Cam Garibaldi di via Strehler 1, se ne aggiungeranno ulteriori quattro. Via Oglio 18 in zona 4, viale Tibaldi 41 in zona 5, viale Legioni Romane 54 in zona 6 e via Quarenghi 21 in zona 8. “Nei prossimi mesi - garantiscono da Palazzo Marino - verranno attivati anche quelli nei municipi 2, 3, 7 e 9 in modo che le persone senza fissa dimora, che dimostrino di avere una relazione continuativa con il territorio ed esprimano la volontà di rimanere a Milano, possano essere accompagnati nella presentazione della richiesta della cosiddetta residenza fittizia”. L’assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino spiega il senso dell’operazione: “Ho il timore che paradossalmente molti senza dimora, tra cui tantissimi italiani, che avrebbero i requisiti per il reddito di cittadinanza rischino di essere tagliati fuori perché incapaci di dimostrare la propria residenza. Agganciarli con gli sportelli vorrà dire tentare di ricostruire il loro quadro anagrafico”. Cinque i morti, da novembre a oggi, tra i senzatetto che dormono per strada anche d’inverno. L’ultimo risale a più di un mese fa, al 2 gennaio. Gli “irriducibili”, quelli che rifiutano ogni tipo di ricovero nei 2800 posti letto messi a disposizione dal pubblico e dal privato sociale, sono stimati dagli operatori intorno alle trecento unità (per segnalare le persone in difficoltà è attivo il numero 0288447646). La rete di accoglienza del Comune si va allargando, proprio in questi giorni, con l’apertura di due nuove strutture. La prima, nella periferia sud della città, in via Ripamonti 580, si trova all’interno di un bene confiscato alla criminalità organizzata che prima ospitava un night club. Il centro, gestito da Remar Italia onlus, vincitrice dell’avviso pubblico, metterà a disposizione 50 posti letto per tutta la durata del piano freddo, fino a fine marzo. Ma l’intenzione dell’amministrazione è di tenerlo aperto in modo permanente trasformandolo in un centro che accolga i clochard insieme ai loro cani. La seconda struttura è in via Don Carlo San Martino, sopra il centro per anziani “Acquabella”, all’interno di uno spazio che era sede dei servizi sociali territoriali. In collaborazione con i gestori, Cisom e Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia, il Comune metterà a disposizione 20 posti letto in piccole stanze da quattro posti ciascuna, con servizio docce e uno spazio comune per i pasti. La sperimentazione durerà fino a fine marzo. “La nostra azione si sviluppa in una doppia direzione”, dice l’assessore Majorino: “Quella di affrontare l’emergenza quando fa particolarmente freddo e quella di rafforzare in maniera sempre più significativa un sistema permanente che si occupi di chi non ha una casa, non solo per dargli un posto dove dormire, ma soprattutto per coinvolgerlo in un percorso di reinclusione sociale”. “Il figlio del boss”, la storia vera di Paquale Mauri di Candida Morvillo Corriere della Sera, 4 febbraio 2019 Dall’infanzia pericolosa nel Napoletano alla ricerca della madre. Il racconto nel suo libro. Il giorno del 2004 in cui un sicario ha ucciso suo padre in un bar, Pasquale Mauri era a pochi metri. Avevano appena fatto pace dopo l’ennesima, furiosa, lite. “Anche se “fatto pace” è esagerato: in verità, non ci siamo mai capiti”, racconta lui al Corriere, provando a spiegare cosa significa essere una persona perbene e insieme il figlio di un boss e non di uno qualunque. Vincenzo Mauri, detto “Vincenzo Settevite”, è stato il padrone di Sant’Anastasia, vicino Napoli, ed è stato “celebre” per affari di traffico di droga, usura, slot machine e appalti edili, e perché era considerato immortale, sopravvissuto ad agguati di cui nessuno ha saputo tenere il conto. Ricorda Pasquale: “Per dirne uno: in Perù, una pallottola gli aveva traforato il cranio da parte a parte. Operato prima lì, poi a Napoli, si narra che gli si era spappolato mezzo emisfero destro. Erano sicuri o la morte o danni permanenti, invece, si svegliò e guarì”. Ora, Pasquale, 38 anni, ha messo la sua storia in un libro, “Il figlio del boss. Una storia vera”, edito da Cairo, scritto con la giornalista Graziella Durante: “L’ho fatto perché spero che tanti con una situazione come la mia capiscano che hanno delle vie d’uscita. L’ho scritto per raccontare ai miei figli, di 12 e 14 anni, chi è il padre e chi era il nonno”. I suoi anni dell’innocenza sono stati pochi: “Alle elementari, la maestra ci diede un tema sulle città visitate. Io scrissi di Rebibbia, uno dei posti dove andavo a colloquio da papà, senza capire che erano carceri”, ricorda, “per me, Rebibbia era il nome di una città”. Poi, piano piano, iniziò a capire che lo scuolabus lo caricava per ultimo e lo scaricava per primo per “rispetto” e per paura: per limitare i rischi che fosse ucciso in una vendetta trasversale. “Non sono mai stato invitato a una festa di compagni di classe: la gente perbene mi evitava, temevano di finire in una sparatoria, ma io che ne sapevo? Per me erano cattiverie”. Cresciuto dalla nonna, gli era stato detto che la madre era morta, ma quando ha 7 anni, la donna gli confessa che la mamma è viva, anche se lei non sa dov’è. “Da quel momento, sono stato ossessionato dalle domande”, racconta, “perché se n’è andata? Perché mi ha lasciato in un inferno di silenzi, urla, minacce e con una sola lezione da imparare: non devi parlare. Mi chiedevo anche: perché stare zitto? Che sapevo che non avrei dovuto dire? Ma qualunque cosa era meglio che non la sapessi. Una volta guidavo e papà pretendeva di dirmi la strada. Mi arrabbio, chiedo perché e risponde che, se no, veniamo sparati. Scesi dalla macchina e lo lasciai là”. A 13 anni, Pasquale aveva rubato le chiavi di un appartamento misterioso, scoprendo che era stato abitato da sua madre: “Trovai delle lettere spedite da Manchester: scoprii che mamma era di là, che mio padre la picchiava, la teneva segregata, che i parenti di lei la imploravano di scappare col bimbo. Per anni, mi sono chiesto perché era partita senza di me. Poi, seppi da una zia che lei voleva rapirmi, ma papà la scoprì e la mise a forza su un aereo, da sola”. Questo è, forse, il momento in cui ce n’è abbastanza perché Pasquale decida di non voler diventare come lui. Si è messo a cercare la mamma solo quando il padre è morto perché, da vivo, lui gliel’avrebbe impedito. “A Manchester, quando finalmente ho rintracciato dei parenti, ho dovuto passare l’esame di una sfilza di zii: temevano che volessi uccidere mamma. Ci hanno messo tre mesi a portarmi da lei”. La sessantenne Sharon Benson è un’apparizione: alta, bionda, occhi azzurri, eterea. La voce di Pasquale s’incrina. Quella che ritrova è anche una donna traumatizzata, che fa vita ritirata a San Francisco e, dopo qualche mese, gli chiede di non cercarla più, perché “non sa come si fa la madre”. Lui non si rassegna: “Mando mail, la chiamo, ma niente. Vorrei sapere come sta. Vorrei solo dirle che, quando pensavi di aver risolto tutto, l’abbandono fa più male”. Per il resto, ha dato in beneficenza i soldi ereditati dal padre, ha avviato due negozi di abbigliamento. Dipinge con un certo successo. È felice? “Io ai miei figli posso spiegare che non c’è soddisfazione se non ti sei sudato quello che hai. Che si campa pure della soddisfazione di aver camminato sempre diritto”. Da ex detenuti al set, anche questa è la fiction di Angelo Faraci scomunicando.it, 4 febbraio 2019 Così dopo 30 anni dalle pellicole storiche del grande Marco Risi con i suoi film storici “Ragazzi fuori” e “Mery per sempre”, oggi il giovane attore-regista palermitano ha voluto sui suoi set girando la seconda parte di “Ciò che non ti ho detto” volti e vissuti dei ragazzi dei quartieri di Palermo, che interpretano la loro vita e la loro storia. L’attore-regista palermitano è il nuovo nome del cinema che punta tra azione e cronaca ad accendere il fari sulla “legalità” ed il diritto di vivere in una società migliore zeppa di buoni valori e fuori dai luoghi comuni. Angelo Faraci, già sulla ribalta cinematografica da attore, volto da fiction, ora si cimenta anche dietro la macchina da presa girano dopo il successo della prima puntata il seguito di “Ciò che non ti ho detto”. Classe 1989, Angelo può considerarsi l’ideatore della fiction tv siciliana distribuita per varie tv sui canali nazionali ed a Malta e che oggi è visibile anche in streaming. Il progetto cinematografico, dopo il successo della prima puntata, adesso lo vede impegnato negli ultimi ciack della seconda serie che Faraci ha voluto realizzare punteggiando di set tutta la Sicilia coinvolgendo anche tanti nomi del cinema italiano di ieri e di oggi, e ricercando anche “volti nuovi”; tanto per fare qualche nome: Patrizia Tirendi, Giuseppe Lucania, Totò Borgese, Michele Li Volsi, Antonio Macaluso, Marika Faraci, Anna Teresi, Marco Perillo e tanti altri oltre lo stesso Angelo Faraci, nelle vesti del protagonista. Tematica forte, quella voluta dal regista, che “vola oltre” la semplice fiction “spettacolare” e “d’azione”, un classico delle serie tv, ma che intende lanciare un messaggio ben preciso alle giovani generazioni, ovvero, come spiega lo stesso registra “quello di sottrarsi al culto dell’illegalità e condurre una vita sana, ancora a principi positivi, alla luce del sole, senza mai finire in giri strani e di malaffare”. Nella stesura del copione del film - che sta già facendo parlare di se suscitando interesse e curiosità - Angelo Faraci sta coinvolgendo diversi volti prettamente siciliani con un vissuto non del tutto facile. Così nelle riprese ecco apparire davanti la macchina da presa anche ex detenuti, coinvolti appositamente per rispecchiare certe realtà siciliane, crude, dure, reali. Dunque tanti volti “presi dai borghi e dai quartieri”, un tocco di neoralismo, che da il senso del reale, del vero, del vissuto al lavoro cinematografico dove questi autentici autodidatti nella recitazione, alla prima esperienza cinematografica, interpretano loro stessi e la loro vita. Così il nostro giovane regista vuole dare proprio una possibilità di riscatto in particolare ad alcuni di loro, considerati gli ultimi, ma come dice Angelo i primi sul set, poiché nel film hanno dato una prestazione da grandi attori. A loro va da subito “un mega augurio” per il loro riscatto, perché quest’occasione, con in molti altri casi verificatisi nel mondo del cinema italiano e non solo, vedi appunto i film di Risi, possa diventare un’occasione nuova, da prendere al volo. Corsa al riarmo. Il pericolo del ritorno dell’opzione nucleare di Guido Moltedo Il Manifesto, 4 febbraio 2019 Il ricorso all’atomica dunque torna a essere “un’opzione”. Dopo le torri gemelle, era stata l’amministrazione Bush a mettere sul tavolo delle “opzioni” possibili l’uso dell’arma nucleare. “Un’opzione come l’aria condizionata in automobile”, scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre. Quell’articolo iniziava con queste parole: “Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica” È suggestivo e inquietante, molto più che un avvincente romanzo spionistico, il racconto di un presidente degli Stati uniti pupazzo e agente del Cremlino. Indubbiamente fa presa. E fosse una bufala? C’è solo da aspettare un po’ per appurarlo, quando l’inchiesta condotta dal silenzioso e operoso Mueller svelerà quanto c’è di fondato e quanto di romanzato in quel che si dice e si scrive a proposito di Donald Trump, a partire dalla sua fortunata campagna presidenziale in poi. Nel frattempo, in attesa del verdetto dell’inflessibile special counsel, è consigliabile la lettura di certe cifre riguardanti il complesso militare-industriale (definizione di Eisenhower), unite alla lista delle misure prese nei confronti di Mosca da parte dell’attuale amministrazione. Esercizio istruttivo, al termine del quale vien da pensare che non c’è miglior nemico del migliore amico del presidente, per chi lavora oggi con Trump nel campo della guerra, che è il più importante comparto economico americano. Mai così florido, mai in forma così smagliante. Mai così quintessenziale. Basti dire che il segretario alla difesa reggente, dopo l’allontanamento del generale Jim Mattis, è Patrick Shanahan, trent’anni trascorsi ai vertici della Boeing, il secondo fornitore del Pentagono. Non solo di aerei, ma anche di missili e di sistemi d’arma che sono al centro del pacchetto di trilioni destinati all’ammodernamento dell’arsenale nucleare, che seguirà il ritiro degli Usa - in esecuzione a partire da oggi - dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sulle armi nucleari firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987. Con amici così, Putin può star tranquillo. D’altra parte, il suo agente a Washington gli aveva già manifestato la sua sottomissione con la conferma delle sanzioni economiche dopo l’annessione della Crimea; con il sostegno a una forza di rapido impiego della Nato, trentamila soldati, schierati contro un ipotetico attacco russo; con l’aumento dal 2 al 4 per cento delle spese militari imposto agli alleati atlantici. E poi con la fornitura di armi all’Ucraina, che Obama aveva negato. Con il mancato ritiro, dopo l’annuncio, dalla Siria, mentre, che si sappia, neppure uno dei 50.000 militari americani di stanza in Europa è riuscito tornare a casa, nonostante i proclami del presidente filorusso. Più la ciliegina dell’ingresso del Montenegro nella Nato che, come scrive The American Conservative, “è evidentemente irrilevante per la sicurezza nazionale statunitense”, ma è un chiaro segnale ostile nei confronti di Mosca. Ma, s’obietta, il vero obiettivo del ritiro dall’Inf non è la Russia di Putin, è la Cina di Xi. Potenza nucleare del Pacifico, la regione dove si gioca la grande partita strategica, ma potenza fuori dei trattati firmati da Usa e Russia, dotate di missili intercontinentali e di immensi arsenali atomici. Oggi Pechino è in cima alla lista degli avversari dell’America di Trump. Sì, si può anche ragionare sui reali obiettivi a breve e medio termine della mossa del presidente statunitense. Il che però non può distogliere l’attenzione dagli effetti incontrollabili che essa produce, aprendo di fatto la strada a una giungla atomica. A una corsa illimitata al nucleare. Innanzitutto da parte della Russia che vede saltare un accordo di cui è contraente principale. Fosse anche vero che non è il bersaglio numero uno, non può stare ferma, nella logica della reciproca deterrenza. Una corsa che vede impegnate anche altre medie e piccole potenze nucleari, nelle diverse aree del mondo, e ovviamente la Cina in primis. Quali vincoli possono essere imposti se i due giganti militari rompono il patto? Quale limite può essere posto, chi può porlo, all’impiego di armi nucleari tattiche? Con questo “libera tutti”, il ricorso all’atomica dunque torna a essere “un’opzione”. Dopo le torri gemelle, era stata l’amministrazione Bush a mettere sul tavolo delle “opzioni” possibili l’uso dell’arma nucleare. Dopo il crollo dell’Urss, fino all’11 settembre, quell’idea sembrava destinata a diventare, se non un tabù, un’ipotesi militare, certo non politica, dentro una residuale logica di deterrenza. Finita l’era Bush, con Obama sembrava che ci si potesse di nuovo avviare verso un mondo addirittura post-atomico. Adesso torna l’idea dell’”opzione” nucleare. “Un’opzione come l’aria condizionata in automobile”, scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre. Quell’articolo iniziava con queste parole: “Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica”. Parole indimenticabili. Oggi ancora più inquietanti, in un mondo in cui si sfarinano gli ultimi residui di misure condivise a tutela dell’equilibrio nucleare. Giappone. Anziani spinti al crimine: “Meglio il carcere a una vita di stenti” di Christian Martini Grimaldi La Stampa, 4 febbraio 2019 Chi pensava che il Giappone invecchiasse a un ritmo vertiginoso (nel 2030 un terzo della popolazione sarà over 65) forse è perché non ha mai gettato un’occhiata nel microcosmo delle carceri del Paese dove il tasso di crescita della popolazione anziana negli ultimi anni è lievitato a un ritmo doppio di quello della popolazione generale. Se negli Anni 70 la percentuale degli anziani con le divise “a strisce” (che qui sono tinta unita rosa e blu, rispettivamente per donne e uomini) era un mero 2,5%, negli ultimi anni sfiora i120% (nella prefettura di Tokushima uno su quattro). I crimini più comuni sono i piccoli furti, il conto al ristorante non saldato, il viaggio a scrocco sul treno. Le pene vanno da 6 a 4 anni e per molti detenuti l’ansia alla lettura della sentenza non ha nulla a che fare con la durata della pena in sé ma si proietta oltre la condanna da scontare, quando la vita di tutti i giorni tornerà a farsi sentire in tutto il suo vuoto di senso. Infatti se il carcere offre tre pasti caldi garantiti tutti i giorni, medicine gratuite, dottori e assistenti a volontà, allora la vera prigione diventa quella là fuori, fatta di bollette da pagare, le spese del medico che non si possono procrastinare, e l’incurabile solitudine (muoiono così, kodokushi, 30.000 anziani l’anno). Per di più, se hai passato i 65 anni, un comodo letto, al contrario dei “normali” detenuti che solitamente si devono accontentare di un semplice futon su tatami, non te lo nega a nessuno: infliggere agli anziani affetti da cronici mal di schiena l’obbligo di ripiegare ogni giorno il futon equivarrebbe ad aggiungere un ulteriore inutile pena. A pranzo, oltre carne e pesce, servono anche il rice porridge cucinato appuntino per quei palati che non possono più sfoggiare una solida dentatura. Il Paese dei manga sembra un fumetto: quello in cui il gradino più basso della dignità umana diventa la prima delle sefety net, reti di sicurezza. Le pensioni, per molti che continuano a riceverle tra le sbarre, sono infatti talmente misere (55.000 yen - 430 euro) che l’alternativa di passare qualche mese al caldo e al sicuro (tra gli anziani molti sono ex senzatetto) diventa persino “atarimae”, ovvia. Non sono pochi gli anziani che compiono furti mirati per finire in questa “casa di cura” alternativa. Nonostante l’alto tasso di attempati galeotti le carceri vengono disciplinate con l’inflessibilità tipica di un penitenziario (cura delle uniformi e pulizia delle stanze) anche se la semplice messa in riga dei detenuti, tra acciacchi fisici e mentali, può richiedere anche dieci minuti. Uno degli incarichi che ogni secondino giapponese non può snobbare di questi tempi non è quello di sedare risse o fare la voce grossa ma curarsi di aprire, all’ora dei pasti, quelle minuscole porzioni di condimento contenute in involucri trasparenti la cui foratura è possibile solo attraverso un preciso e mirato strappo che per un over 70 con le mani rigide e anchilosate può trasformarsi in una soluzione indistricabile pari a un cubo di Rubik. Ma per gli stoici agenti di custodia questa non è neppure la più seccante delle incombenze, piuttosto lo è quella di mantenere l’ordine. E non per via di soggetti irascibili e indisciplinati come verrebbe naturale pensare in un luogo che vede convivere uno accanto all’altro truffatori, ladri e assassini, ma perché spesso il minuto dopo che un ordine è stato impartito molti tra i “senior” o lo dimenticano o fanno qualcosa che non ha nulla a che fare con quello che era stato loro chiesto. Gli anziani carcerati che non riescono a tenere il passo con il resto della camerata vengono introdotti nel yougokoujo, una sorta di detenzione separata, dove gli inquilini passano il giorno a comporre origami e omamori, a rodare sedie e tavolini, anche se nelle ore post prandiali, confessano testimoni, la siesta diventa l’attività più apprezzata. Ma dormire nelle prigioni del Sol Levante dove il lavoro è d’obbligo è un tabù. Bisogna infatti giustificare agli occhi dei contribuenti che i soldi spesi se pur non riusciranno a ottenere il fine ultimo della rieducazione del detenuto (il tasso di recidiva tra gli anziani è altissimo, 70%) comunque saranno serviti a creare una qualche forma di ricchezza materiale, che non avrà la nobiltà del primo fine ma varrà pur sempre qualcosa (gli oggetti costruiti dagli anziani vengono rivenduti in precisi giorni dell’anno in varie città e anche in Rete: ci sono 2200 aziende che si avvalgono di questi “artigiani al gabbio”). Ai carcerati malati di demenza che dopo furti reiterati - al primo furto si chiude un occhio, al secondo scatta una sanzione, dal terzo in poi non c’è clemenza che tenga - finiscono in carcere li aspettano lavoretti manuali tassativamente ripetitivi, come levigare con una carta vetrata un incastro di legno da montare. Quando gli viene chiesto a cosa stanno lavorando non sanno cosa rispondere, ma serve pur sempre ad ammazzare il tempo. Ma la demenza senile è una doppia causa di carcerazione per i più anziani. Ci sono infatti detenuti che per disperazione arrivano ad uccidere il partner di una vita malato di Alzheimer. Col tempo la coppia che aveva regolato i propri ritmi sui reciproci bisogni si vede venir meno le quotidiane certezze, e quello che prima appariva come un fidato sostegno per assorbire i malanni dell’incipiente senilità e condurti con serenità verso l’ultimo porto diventa un fardello ogni giorno più pesante. A quel punto la voglia dimettere fine al supplizio finisce facilmente per confondersi con una catarsi. Stati Uniti. New York, carcere Brooklyn senza luce e riscaldamento Ansa, 4 febbraio 2019 Da giorni, al carcere di New York a Brooklyn elettricità e riscaldamento sono razionati e hanno lasciato i detenuti al freddo e senza luce. Una condizione difficile, esasperata ulteriormente dall’ondata di freddo che si è abbattuta su New York facendo crollare le temperature. Fuori dal carcere, il Metropolitan Detention Center, sono iniziate proteste: le condizioni dei detenuti, affermano i manifestanti, violano i diritti umani. Nel carcere ci sono 1.600 detenuti che sono rimasti al freddo a causa di un problema elettrico provocato da un incendio, che ha infatti fatto saltare il pannello per il controllo dell’elettricità lasciando il carcere quasi al buio e senza riscaldamenti. Il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha inviato generatori e coperte per i detenuti, mentre le autorità carcerarie spiegano che la situazione tornerà alla normalità a breve. Venezuela. Da Guaidó un appello all’Italia: “Riconoscete la svolta, unitevi all’Ue” di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 4 febbraio 2019 Il leader dell’opposizione chiede al governo: “Ascoltate le voci dei vostri connazionali che vivono qui. Non c’è più tempo, tutte le vie di dialogo sono esaurite”. Juan Guaidó è rimasto senza voce. “Scusatemi, ma devo mandare alcune risposte per email”, sussurra al telefono accettando la proposta di intervista. L’ultimo filo se n’è andato sul palco di Las Mercedes, domenica pomeriggio, davanti a centinaia di migliaia di persone sotto il sole di Caracas, e nonostante due bottigliette d’acqua. Da quando il 23 gennaio scorso il 35enne ingegnere di Voluntad Popular è uscito dall’anonimato per diventare uno dei protagonisti delle cronache mondiali non ha mai smesso di parlare. Almeno una volta al giorno in pubblico, poi nelle riunioni, nelle audioconferenze segrete con i suoi per Whatsapp, o per rassicurare la moglie Fabiana a fine giornata, poiché non torna quasi mai in casa per dormire. Dodici giorni incredibili. Il presidente “incaricato” del Venezuela si sposta per la capitale Caracas praticamente sempre in moto, anonimamente sotto un casco nero e dietro un volontario che guida. Anche questo alla lunga non fa benissimo alla gola. “Ma anche se non posso gridare troppo oggi è venuto il momento di rivolgere alcune parole agli italiani”. Ecco l’intervista che Guaidó ha concesso ieri sera al Corriere. La posizione italiana sui fatti del Venezuela, per ragioni interne alla nostra politica, sta impedendo una posizione europea più esplicita a vostro favore, come è stata sollecitata da partner come Francia e Germania. Come giudica questo atteggiamento del governo italiano? “Non è facile per noi capire la politica italiana o le difficoltà interne del vostro governo ad assumere certe posizioni. Immagino che anche il resto del mondo non possa capire fino in fondo come funzionano le cose da noi. Ma qui ci sono alcuni fatti evidenti che in Italia si devono conoscere. In Venezuela negli ultimi quindici anni sono morte a causa della violenza 250 mila persone. Nel nostro Paese c’è stato un bagno di sangue a causa dell’esplosione della criminalità, alla quale vanno aggiunte le azioni delle forze di repressione di Maduro che hanno commesso innumerevoli violazioni dei diritti umani comprese vere e proprie esecuzioni. Questa è la triste realtà del nostro Paese, sono fatti. Se i governi europei vogliono contribuire a fermare tutto questo devono muoversi in blocco affinché le forze che ancora sostengono Maduro sentano tutto il peso della pressione diplomatica e politica dell’Europa. È molto importante per noi e per il ritorno della democrazia in Venezuela”. Sarebbe disponibile a entrare in contatto con Roma, fare qualche passo formale per tentare di convincere il governo italiano a riconoscerla ufficialmente? “Faremo tutto quello che è possibile affinché il governo italiano aggiunga il suo appoggio, per noi importantissimo, al resto dell’Unione europea. Nella grande manifestazione di domenica si sono espressi sul palco vicino a me anche i rappresentanti della grande comunità italo-venezuelana. Spero che il governo italiano ascolti con attenzione il loro messaggio”. Sta scadendo l’ultimatum di alcuni Paesi europei dato al governo di Nicolas Maduro, affinché faccia un passo indietro e convochi libere elezioni. A questo punto crede che arriveranno altri riconoscimenti alla sua leadership? “Aspettiamo con ansia le loro decisioni nelle prossime ore. Siamo in contatto permanente con i governi di Spagna, Francia, Regno Unito e Germania. Sono stati loro i più solidali con noi e stanno monitorando in continuazione i fatti del Venezuela. Il loro appoggio per noi è stato fondamentale. Mi hanno detto che manterranno la parola e il loro ultimatum di otto giorni, riconoscendo la nostra presidenza ad interim”. La creazione di un cosiddetto gruppo di contatto, che inizierà a riunirsi nei prossimi giorni a Montevideo, in Uruguay, non rischia di portare la soluzione della crisi a tempi indefiniti? Come vedete questa iniziativa? “Sull’iniziativa proposta da Messico e Uruguay devo dirle con sincerità che tutte le forze democratiche venezuelane pensano che le possibilità di dialogo con il governo di Maduro si siano esaurite. Tutta l’opposizione è unita su questo punto. Il regime ha negato qualsiasi possibilità di accordo politico nel quadro della nostra Costituzione. Continuano a parlare di dialogo per prendere tempo, come i Paesi latinoamericani del gruppo di Lima possono testimoniare. Le forze che ancora sostengono il governo di Maduro non cederanno fino a che non saranno messe alle corde, con tutta la pressione politica internazionale che sia possibile esercitare”. A dodici giorni dall’inizio della sua sfida la situazione è ancora di stallo. Cosa può fare ancora l’opposizione affinché il governo non ne approfitti per stabilizzare le cose? “Non c’è stallo e non c’è alcuna possibilità che l’attuale situazione in Venezuela si stabilizzi, ne potete star certi. Da qui possiamo andare soltanto a un cambiamento radicale”. Venezuela. Dirigenti Citgo in carcere chiedono aiuto a Washington agcnews.eu, 4 febbraio 2019 Sei dirigenti di Citgo Petroleum, detenuti preventivamente in una prigione venezuelana da più di un anno, hanno chiesto al Dipartimento di Stato americano di aiutarli a vincere la loro causa, hanno detto i membri della famiglia e gli avvocati. Stando a Reuters, Jose Luis Zambrano, Alirio Zambrano, Jorge Toledo, Tomeu Vadell e Gustavo Cardenas, tutti gli ex vice presidenti della società con sede a Houston e la maggior parte di loro cittadini statunitensi, insieme all’ex presidente del Citgo Jose Pereira sono stati arrestati nel novembre 2017 dopo essere stati convocati in una riunione presso l’ufficio di Caracas della società madre Petróleos de Venezuela, S.A., Pdvsa. I dirigenti sono stati accusati di appropriazione indebita, in quanto funzionari pubblici che agiscono di concerto con un imprenditore, riciclaggio di denaro sporco e cospirazione in relazione a un accordo mai concluso per rifinanziare il debito di Citgo. Ad oggi, non si è ancora tenuta un’udienza preliminare. “Li hanno privati di un giusto processo e del loro diritto a un processo rapido”, ha detto un gruppo di 13 familiari e avvocati in una lettera aperta al governo degli Stati Uniti; “L’intervento del governo americano potrebbe essere la nostra unica possibilità di liberare i sei detenuti”. Hanno detto di aver contattato il Dipartimento di Stato americano, diversi senatori e membri del Congresso prima di ricorrere ai media. Il governo degli Stati Uniti non ha fornito alcuna indicazione chiara dei progressi sui casi, hanno detto. Il Dipartimento di Stato ha detto di non essere stato in grado di commentare lo stato dei privati cittadini americani: “Continuiamo a lavorare a stretto contatto con i partner internazionali per garantire la sicurezza dei cittadini americani in Venezuela”, ha detto in un’e-mail. L’appello è emerso nella battaglia sul destino di Citgo tra il governo socialista di Nicolas Maduro e l’opposizione guidata dal presidente del Congresso Juan Guaido, scatenata dal sostegno degli Stati Uniti all’opposizione. Guaido ha detto di voler nominare un nuovo consiglio di amministrazione della società, ora nelle mani di funzionari nominati da Maduro. Gli avvocati dei dirigenti hanno documenti che mostrano che i negoziati di rifinanziamento del debito sono stati approvati dal consiglio di amministrazione della Pdvsa; Reuters riporta un documento Pdvsa in base al quale il consiglio di amministrazione nel giugno 2017 ha approvato l’inizio delle trattative con Apollo Global Management Llc e la sua unità Frontier Management Group. L’accordo non è mai stato firmato. Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti nell’agosto 2017 hanno bloccato qualsiasi accordo. Emirati Arabi. L’appello a Papa Francesco “Chieda il rilascio dei dissidenti” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 febbraio 2019 Papa Francesco è da ieri sera negli Emirati Arabi Uniti, nella sua prima visita nei paesi della penisola araba: una regione segnata da una forte repressione del dissenso, nella quale è in corso dal marzo 2015 un sanguinosissimo conflitto, quello dello Yemen, in cui gli stessi Emirati sono pesantemente implicati. Per le autorità emiratine è un’occasione d’oro per promuoversi come moderne paladine del dialogo. Non è un caso che abbiano ufficialmente proclamato il 2019 “anno della tolleranza”. Di tolleranza, in realtà, nel paese ce n’è veramente poca. Dal 2011, per evitare gli influssi della “primavera araba”, il governo ha sistematicamente ridotto al silenzio le voci critiche, come quelle degli attivisti, dei giudici, degli avvocati, degli accademici, degli studenti e dei giornalisti attraverso gli arresti arbitrari, le sparizioni forzate e la tortura. Lo scorso anno le autorità emiratine hanno continuato a imporre gravi restrizioni alle libertà d’espressione e d’associazione, applicando le leggi antiterrorismo e quelle contro la diffamazione Amnesty International ha chiesto a papa Francesco di sollevare la questione dei diritti umani nei colloqui col governo di Abu Dhabi segnalando in particolare i casi dei difensori dei diritti umani Ahmed Mansoor, Nasser bin Ghaith e Mohammed al-Roken, che stanno scontando lunghe condanne solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione.