Quel che Bonafede non vuole sapere di Roberto Saviano L’Espresso, 3 febbraio 2019 Carceri sovraffollate. Il ministro vuole costruirne di nuove. Ma tutti gli esperti dicono che la repressione ha fallito. Il carcere è un buco nero del quale nessuno (o quasi) vuole occuparsi. In Italia il mondo carcerario è seguito, dai Radicali e da chi gravita attorno a loro. Quindi se il ministro della Giustizia Bonafede volesse farsi un’idea realistica delle azioni per migliorare la condizione dei detenuti nelle carceri italiane, essendo totalmente a digiuno dell’argomento, dovrebbe studiare l’archivio di Radio Radicale, archivio che qualunque sia il destino della Radio, sarebbe opportuno mettere al riparo, perché di pubblica utilità, come ha raccontato L’Espresso la settimana scorsa. Archivio grazie al quale è possibile, ad esempio, ascoltare in maniera integrale e senza mediazioni, il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, che è un po’ un caposaldo della retorica grillina. Quel processo si trova solo lì. Ma tornando alle carceri, bisogna prendere atto che il problema, ovunque e non solo in Italia, è il loro sovraffollamento. E la soluzione non è quella più intuitiva e banale di costruire altri istituti penitenziari, ma la strada giusta da intraprendere sarebbe quella di analizzare le cause che portano un numero così alto di persone in carcere e provare a capire se non sia piuttosto il caso di prevedere percorsi alternativi alla carcerazione. Ma sulle carceri è facile speculare, quando non si sa davvero di cosa si sta parlando e soprattutto quando ogni discorso diventa un’occasione di propaganda politica presso una platea che le immagina popolate da esseri che, dopo aver commesso reati, di umano non hanno più nulla. La verità sul carcere è che per risolvere i problemi divenuti ormai strutturali (mancanza di spazio, sovraffollamento, impossibilità di accedere a pene alternative e spesso di avere cure mediche adeguate) dovrebbe accadere qualcosa di assolutamente irreale: i governi non dovrebbero farsi condizionare dall’opinione pubblica. Rispondere a sollecitazioni come: “chiudeteli in carcere e buttate la chiave”, “lasciateli marcire in carcere” (tante volte è stato lo stesso Salvini a parlare così) è quanto di più sbagliato e pericoloso per la sicurezza di tutta la società. Ma se di questo i cittadini non hanno contezza, non è accettabile che anche i ministri ignorino informazioni che dovrebbero invece conoscere o che, e sarebbe ancora più grave, pur conoscendole, le manipolino per generare paura e insicurezza. Ecco perché la possibilità, dopo attente valutazioni, di scontare la pena in situazioni alternative dovrebbe essere un punto fermo nel programma di ogni partito politico, qualunque sia il suo colore. Ma il sovraffollamento delle carceri e l’impossibilità di accedere a pene alternative non è un dramma solo italiano. È celebre l’affermazione di Obama: “Gli Stati Uniti hanno il 5 per cento della popolazione mondiale, ma il 25 per cento sul totale degli incarcerati a livello planetario”. Questo porta a riflettere da un lato sulla lotta alla droga, che riempie le carceri perché fatta essenzialmente di arresti di piccoli spacciatori. Dall’altro sull’accanimento contro le minoranze: pensare che i bianchi delinquano meno significa andare in giro ancora con gli strumenti di Lombroso nel borsello. Sta di fatto che in tutti i Paesi civili sorgono istanze che riguardano modifiche da apportare agli ordinamenti carcerari. In Bulgaria, il ministro della Giustizia dice che la riforma del sistema penitenziario è una questione nazionale. In Romania, per effetto di una legge del 2017, c’è stato il rilascio anticipato di 14 mila detenuti e tra loro la recidiva è stata bassissima (del 5 per cento). La soluzione starebbe, almeno per iniziare, nell’individuare ambiti in cui la repressione ha fallito (me ne verrebbe in mente uno, la legalizzazione delle droghe, ma rischierei di ripetermi) e quindi depenalizzare; e la soluzione sta anche nel comprendere che le condanne brevi (ne parla il Guardian in uno studio sulle condizioni delle carceri nel Regno Unito) non possono essere scontate in carcere, ma in comunità. Per chi ha commesso reati che prevedono una condanna di qualche mese, il carcere può essere solo un luogo di radicalizzazione al crimine, non di rieducazione. Ma essendo queste considerazioni di buon senso, mi domando perché ogni volta che si parla di carceri, di sovraffollamento e di pene alternative, il ministro Bonafede assicura che altri istituti sono in costruzione e ignora puntualmente le reali cause del problema. Ad ogni modo, se gli servissero informazioni, l’archivio di Radio Radicale per ora è a sua disposizione. Giustizia riparativa. Cnca e Cica: il carcere sia extrema ratio Avvenire, 3 febbraio 2019 Più carcere non significa più sicurezza, semmai il contrario. Che il carcere sia l’extrema ratio è l’assunto intorno al quale si è svolto a Roma il convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”, organizzato dal Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) e dal Coordinamento italiano case alloggio Aids (Cica). “Pensare di affrontare una questione complessa come quella della giustizia penale con un demagogico “chiudiamoli tutti in galera e buttiamo la chiave” significa non fare i conti con i tanti, gravi limiti del carcere e con un dato di fatto incontrovertibile: le misure alternative alla detenzione e i percorsi di accompagnamento all’uscita dal carcere producono un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%”, spiega Riccardo De Facci, presidente del Cnca. La giustizia riparativa - modello che mette al centro non solo l’autore del reato, ma anche la vittima e la comunità coinvolta - è “fondamentale per costruire nuove pratiche di giustizia che sappiano davvero farsi carico della sofferenza che i reati producono, abbassare la conflittualità sociale e prevenire nuovi illeciti”, sottolinea De Facci. Sono stati ricordati i dati allarmanti sul sovraffollamento (60mila i detenuti al 30 novembre 2018) e sui morti in carcere (148 nel 2018, di cui 67 suicidi). È stato anche presentato il modello, messo a punto con l’Università Tor Vergata, per valutare l’impatto sociale degli interventi realizzati dalle organizzazioni coinvolte nel progetto “La pena oltre il carcere”. Caiazza (Ucpi): “L’emergenza carceri è più grave di quella che si dice” cronachedellacampania.it, 3 febbraio 2019 Per il presidente dell’Unione camere penali italiane (Ucpi), l’avvocato Gian Domenico Caiazza, “i dati sulle carceri sono taroccati”, e l’emergenza è ancora più grave di quello che si pensa. Caiazza ne ha parlato nel corso di un incontro tra magistrati e avvocati organizzato a Bologna. “Il problema - ha ribadito a margine dell’iniziativa - sta già esplodendo in tutta la sua straordinaria gravità, purtroppo sarà questione solo di aspettare gli eventi”. Secondo Caiazza la percentuale del calcolo dell’indice di sovraffollamento viene fatto sul numero dei posti-carcere disponibili, che sono 50mila. “Quindi si dice: 60mila detenuti su 50mila posti, ma non è così. Quei 50mila posti-carcere sono astrattamente disponibili - ha spiegato - ma perlomeno tra i 5 e i 6mila di quei posti non sono disponibili perché sono porzioni di carcere completamente abbandonate o in corso di ristrutturazione”. Per il presidente dell’Ucpi “si danno indicazioni consapevolmente manipolate. Chi meglio del ministero sa che i posti-carcere disponibili non sono effettivamente 50mila ma 44-45mila?”. Per risolvere il sovraffollamento, inoltre, non basterebbe costruire nuove carceri. “Va bene ma ne parliamo tra 10 anni, per quanti posti-carcere poi? 300, 400, mille?”, si domanda Caiazza. “Dobbiamo ragionare sull’abbandono di questa ossessione carcerocentrica - ha aggiunto il presidente dell’Ucpi, che la sanzione penale debba essere scontata solo in carcere è una follia contraria a ogni approdo del pensiero giuridico moderno europeo, sappiamo che le misure alternative abbattono la recidiva”. La condanna degli innocenti di Alessandro Barbano Il Foglio, 3 febbraio 2019 Un milione e mezzo di persone attende 4 anni per poi essere assolta. L’orrore della non-giustizia illiberale. Immaginate di restare quattro anni sotto inchiesta, e magari di averne trascorsi una parte in carcere o agli arresti domiciliari, di avere perso il lavoro e di aver sconvolto la vostra famiglia e i vostri affetti, e alla fine di questo calvario di essere stati assolti. Poi moltiplicate ciò che avete immaginato accadesse a voi per un milione e mezzo di persone. E avrete la percezione corretta di ciò che avviene in Italia. La notizia l’ha data il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un imputato ogni tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Aggiungete le assoluzioni in appello e in Cassazione, e proiettate, come ha fatto l’alto magistrato, questo dato su scala nazionale per un decennio. Avrete la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione. Ora immaginate che la notizia sia del tutto ignorata dalla stampa e dalle tv italiane, fatta eccezione per il Corriere della Sera, che la riporta in un articolo di Luigi Ferrarella solo a pagina 21, in un’edizione, quella di domenica scorsa, aperta in prima pagina dall’ultimatum della Ue a Maduro e dalla divisione del governo italiano sul destino del regime illiberale venezuelano. E chiedetevi, da ultimo, se non abbiamo, noi italiani e le nostre élite che ci rappresentano e ci raccontano, due occhi e due misure per la libertà. Si dirà: vuoi mettere a confronto una dittatura feroce con una democrazia? Il paragone certamente non regge. Ma proprio perché la nostra civiltà democratica origina oltre due secoli fa nel pensiero di patrioti liberali come Cesare Beccaria, non dovremmo ignorare l’orrore che si nasconde in certi angoli oscuri delle democrazie. Perché di orrore si tratta. Un immenso carico di dolore, privazioni, lutti, ferite tra le famiglie e le generazioni, che si infligge per mano dello Stato. E che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta e contribuisce ad avvelenare ancora di più il clima di una comunità già esasperata da un declino economico e civile che si trascina ormai da decenni. La prima cosa da fare è chiedersi perché abbiamo, del nostro paese, un racconto rovesciato. Perché ci indigniamo se i processi prescritti arrivano al nove per cento e restiamo impassibili se i processi indebiti, inutili e ingiusti superano il cinquanta. Vuol dire che noi tutti, cittadini ed élite, abbiamo fatto nostra una visione giudiziaria della democrazia, che assegna alla giustizia una funzione suprema di controllo dell’intero spazio civile. Ma vuol dire anche che questo controllo delegato rappresenta ormai per una parte della magistratura il fine in grado di giustificare qualunque mezzo, in nome di una visione per così dire sostanzialista. Così, se la pubblica accusa istruisce processi che in un caso su due sono diretti contro persone innocenti, la circostanza non suscita particolare turbamento. Di fronte a dati tanto drammatici, una parte dei pm pensa e dice senza pudore che il processo è lo spazio civile necessario ad acclarare l’innocenza del cittadino. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che fuori dal processo siamo tutti presunti colpevoli. Mi viene in mente a tal proposito una singolare risposta di un magistrato della procura di Napoli. Era scattata, qualche anno fa, un’inchiesta denominata Affittopoli, che aveva portato in carcere e agli arresti domiciliari una sessantina di professionisti e amministratori cittadini. Ma dopo un mese di detenzione il Tribunale del Riesame aveva revocato i nove decimi dei provvedimenti cautelari richiesti dalla procura e autorizzati dal gip, sostenendone la pressoché totale infondatezza. Al giornalista che gli chiedeva conto di quella macroscopica smentita, il magistrato rispondeva che si trattava della “normale dialettica tra pubblica accusa e giudici di garanzia”. L’orrore alligna e prospera dietro e dentro simili risposte burocratiche. Perché niente quanto la burocrazia è in grado di operare una scissione tra il piano delle idee e quello della realtà, facendo precipitare le persone coinvolte nel crepaccio aperto da questa frattura. Purtroppo questo approccio non è isolato. Lo dicono i numeri, a volerli ascoltare. Quelli della Corte d’Appello di Milano raccontano di 121 mila fascicoli di indagini preliminari che sono rimasti aperti per oltre due anni e che, secondo l’ultima riforma del processo penale varata dal governo Gentiloni, dovrebbero essere avocati dalla Procura generale. Sennonché la Procura generale non ha i mezzi per surrogare i magistrati inadempienti. E questo può voler dire molte cose, a seconda dell’angolazione con cui si guarda al problema. La prima è che i magistrati sono pochi. Certamente è vero, ed è quasi un miracolo che, come sostiene il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, si raggiunga qualche risultato nelle condizioni date. La seconda è che non è colpa della prescrizione se i processi non si celebrano. Ma piuttosto, come ammette la presidente della corte d’Appello di Milano, Marina Tavassi, “i processi non si fanno per innumerevoli ragioni e, quindi, si prescrivono”. La terza è che in quel crepaccio che si apre tra le regole della legge e la prassi sono cadute almeno 121 mila persone, ma in realtà molte di più, se si considera che alcune inchieste riguardano decine di indagati. Da questa ultima angolazione la questione assume un significato diverso, e forse più ampio. Se anche i magistrati inquirenti fossero incrementati del 20 o del 30 per cento, non resterebbe forse un numero insostenibile di innocenti, condannati insieme con le loro famiglie a un’attesa straziante? La dimensione dell’orrore non è quantitativa, ma qualitativa. Riguarda l’idea che il processo sia una circostanza normale, e non piuttosto eccezionale, della democrazia. Per comprendere quanto questa prospettiva sia deviante si deve parlare con i figli degli indagati e dei processati innocenti, le vittime ultime della giustizia. L’ampiezza del dolore da loro patito dimostra quanto invasivo possa risultare l’esercizio dell’azione penale, in nome di quel popolo assunto di questi tempi come fattore legittimante di ogni regressione civile. Una giustizia che ascoltasse davvero le persone, di cui il popolo è fatto, rispolvererebbe dagli archivi del Palazzo di giustizia di Roma la circolare che lo stesso procuratore Pignatone inviò due anni fa ai suoi sostituti, ammonendoli affinché l’iscrizione di una persona nel registro degli indagati non fosse un atto automatico, rispetto a una denuncia, né tantomeno un atto sempre dovuto, ma presupponesse l’accertamento di “specifici elementi indizianti”. La circolare non sortì nei fatti alcun un effetto pratico, ma smascherò indirettamente, e forse involontariamente, l’ipocrisia di un sistema per metà accusatorio e per metà inquisitorio, che ha nel ruolo del pm il simbolo della sua contraddizione. Le fa eco due anni dopo la denuncia del presidente del Tribunale di Torino. Quando propone l’abolizione dell’udienza preliminare e l’obbligo per i pm di “esercitare l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee a convincere il giudice della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”, l’alto magistrato non fa che invocare un rimedio inquisitorio che rimetta, in capo alla pubblica accusa, la titolarità e insieme la responsabilità di decidere sul processo dell’indagato. Né Pignatone, né Terzi dimostrano di avere la soluzione in tasca per guarire un sistema così confuso e così illiberale, ma l’inadeguatezza dei rimedi da entrambi suggeriti mostra quanto sia difficile pretendere che il pm sia contemporaneamente parte e terzo, sia capace di avviare tempestivamente l’azione penale in nome della sua obbligatorietà e allo stesso tempo valuti con prudenza e senza pregiudizio gli indizi nei confronti dei possibili soggetti da indagare, cercando poi allo stesso modo le prove a loro carico e a loro discarico. E da ultimo li porti a giudizio solo quando sia certo di poter provare la loro colpevolezza. Significa chiedere alla pubblica accusa più di ciò che un magistrato inquirente, per esperto ed equilibrato che sia, possa dare. Significa, ancora, prendere atto che il filtro di terzietà del gip e dell’udienza preliminare è del tutto insufficiente rispetto alla complessità del dramma processuale, e soprattutto personale, che in quella sede si compie. Che poi è la causa per cui a un esercito di innocenti, già passati attraverso il calvario e, spesso, la gogna di due anni di indagini preliminari, viene inflitta la condanna anticipata e aggiuntiva di un processo lungo oltre ogni ragionevole limite. Il fatto che alcuni magistrati giudicanti inizino a denunciare quest’orrore è segno che, timidamente, qualcosa si muove nel sonno consueto di un corpo dello Stato abituatosi a delegare a una minoranza militante la sua rappresentanza. Ma per ribaltare il racconto di una giustizia feroce bisognerebbe avere il coraggio di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, limitare l’abuso della custodia cautelare, riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia fondata sul sospetto e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische e, da ultimo, ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi e aumentando le garanzie della difesa. È l’esatto contrario di ciò che si propone di fare il governo gialloverde e la maggioranza che lo sostiene e che ha già approvato, con effetto dal 2020, lo stop alla prescrizione sine die dopo il giudizio di primo grado. Vuol dire negare a quei perseguitati per quattro anni l’unica via d’uscita che restava loro per sottrarsi al calvario. È la giustizia dei presunti colpevoli, evocati più volte da magistrati come Pier Camillo Davigo. Si fonda sulla funzione redentrice del pm e sul rafforzamento dei suoi poteri nel processo, sull’aumento delle pene e sulla dilatazione della legislazione speciale. È la giustizia capovolta di un paese incattivito, dove perfino la condanna degli innocenti non fa quasi più notizia. Uno stato di calamità per salvare l’infanzia di Titti Marrone Il Mattino, 3 febbraio 2019 Si dovrebbe proprio proclamare, quello “stato di calamità criminale per minori” rievocato - come paradosso - durante il processo per l’assassinio della bimba Chicca, che a 6 anni venne violata e poi scaraventata giù da un terrazzo del Parco Verde di Caivano. Si dovrebbe, e non solo come paradosso, se si pensa a due storie di fronte a cui la mente avrebbe voglia di scappare, di sigillarsi chiudendosi alla loro comprensione. La prima è quella del video denunciato dal consigliere regionale Francesco Borrelli e diffuso via chat sui cellulari, dove quattro bambini - perché questo si è, ancora bambini, quando si hanno tra i 10 e i 13 anni-vengono mostrati intenti in pratiche sessuali. E all’obbligo pubblico di un’allerta speciale a difesa dei piccoli ci chiama la fine atroce di Giuseppe, il bimbo di Cardito ammazzato a colpi di scopa dal patrigno, su cui emergono nuovi e sempre più inquietanti particolari. Che fanno risaltare una ferocia, un accanimento animalesco così inaccettabili da rendere difficile al giudice di completare la lettura stessa del verbale. E come dargli torto? Si può essere un magistrato più che abituato a storie tremende, messo alla prova dal confronto con il crimine nelle sue molteplici declinazioni, ma non poter accettare una realtà così simile a una discesa agli inferi della coscienza umana. Perché non è dato di rimanere impassibili arrivando all’ultima riga di un rapporto dove si parla del massimo stravolgimento dell’ordine naturale della vita. Dove un adulto, cioè colui che dovrebbe avere il compito di cura, tutela, protezione rispetto di chi è piccolo, si trasforma nel suo peggiore aguzzino. Dove un uomo afferra una scopa, piega un ginocchio, vi spezza sopra il bastone e con quello colpisce, colpisce e colpisce il bambino Giuseppe fino a tramortirlo in modo irrimediabile. E alterna i colpi su di lui a quelli inferti alla sorellina di 8 anni, Noemi, perché entrambi lo hanno infastidito con il loro giocare. Perché i loro salti di allegria necessari all’infanzia hanno incrinato la testata del letto nuovo o anche disturbato l’impulso al riposo di una mente offuscata dall’eccesso di spinelli. Si tratta di “folle abitudine al male”, così ha detto l’arcivescovo di Pompei nell’omelia per i funerali di Giuseppe. E un’abitudine che rende indifferenti, la stessa che induce a scambiarsi in chat, con altri, un video come quello emerso grazie alla segnalazione di Borrelli. Quattro bambini dalle sembianze ancora infantili, che fanno sesso come adulti esperti, ripresi in modo assolutamente riconoscibile chissà da chi, in immagini destinate ad attizzare la fantasia marcia di un vasto pubblico di consumatori di pedopornografia. Immagini che potrebbero segnare le esistenze dei bambini per sempre, come una casistica ampia e a volte dolorosamente tragica ci ha costretto a imparare. Ed è inevitabile chiedersi dove fossero i genitori, che cosa diavolo facessero mentre i loro bambini si lasciavano riprendere in quelle immagini, quanto sapessero dei loro incontri, del loro modo di vivere il web. Così viene anche da domandarsi se una certa diffusa tendenza ad interpretare i ruoli genitoriali come “liquidi” non induca padri e madri a una nuova permissività, quella dell’uso indiscriminato della rete consentito ai figli. Preferendo saperli impegnati on line, con la nuova babysitter chiamata internet, piuttosto che impegnarsi nella buona vecchia pratica del guardarli negli occhi per parlare loro intimamente, direttamente. Anche assumendosi la responsabilità dello scontro, di non derogare dal proprio ruolo di genitori, prendendo su di sé il compito, in deciso declino, di pronunciare i famosi “no”. Fatto sta che è addosso ai bambini che cade il peso maggiore dell’incrudelimento generalizzato di una contemporaneità permeata dalle paure amplificate, dalle diffidenze per gli altri, dalla tendenza all’isolamento. Ecco perché lo “stato di calamità criminale per minori” rischia di essere un’urgenza reale e non un paradosso. Perché troppe volte, ad andarci di sotto, sono i bambini, i più deboli. Così, se ci mettiamo a pensare a un’immagine simbolo della condizione dell’infanzia, non è inappropriato identificarla nella vecchia foto scattata nel ghetto di Varsavia, del piccolo ebreo con le mani alzate in un gesto disarmato che mai nessun bambino dovrebbe fare. Un segno metonimico che dovrebbe riaccendere la fiammella asfittica della nostra umanità, tutte le volte che torna un’altra immagine inguardabile. Di piccoli migranti respinti, di bambini violati, di infanzia negata dalla nostra indifferenza. Se la giustizia prova a riempire il vuoto in cui nascono i delitti dei ragazzi di Alberto Pellai Famiglia Cristiana, 3 febbraio 2019 Fa discutere la decisione del giudice che ha emesso un’ordinanza di messa alla prova per il minorenne che ha ucciso un clochard. Un clochard di 64 bruciato vivo da due minorenni. Uno ha 17 anni, l’altro 13. Un delitto, hanno raccontato i due ragazzi, avvenuto per noia. “Non sapevamo come passare il tempo e allora abbiamo buttato nell’auto dove dormiva il clochard e che da tempo era diventata la sua casa, fazzoletti di carta cui avevamo dato fuoco. Così, tanto per vedere che cosa succede a provare a far bruciare un uomo”. Una storia e una testimonianza che denunciano il vuoto totale in cui si è consumata una tragedia così atroce. Vuoto di pensieri, di ideali, di compassione, di responsabilità. Vuoto pneumatico, appunto. Il giudice che ha emesso l’ordinanza ha stabilito che per il 17enne si deve proseguire con la messa alla prova all’interno della comunità dove risiede già da mesi, in conseguenza del reato compiuto. Il 13enne invece è uscito dal procedimento in quanto non imputabile. Se hai meno di 14 anni di fronte alla legge non rispondi delle tue azioni. E questa decisione agita i cuori e le coscienze di molte persone. “Se lasciamo i ragazzi in una condizione di totale impunibilità di fronte alle cose atroci di cui possono rendersi responsabili, nessuno imparerà più il nesso causa-effetto delle azioni malvagie che compie. Se non c’è una sanzione, pesante almeno quanto il reato commesso, allora l’idea che ne scaturisce è che tutti, quando sono piccoli, possono fare tutto, macchiarsi di tutte le colpe possibili, senza portarne addosso le cicatrici e senza doverne subire alcuna conseguenza”: è questo quello che pensano oggi molti adulti. Il tema è davvero complesso. Da una parte, chi lavora con i minorenni sa con quanta facilità essi si mettono nel territorio del rischio e del pericolo, dell’autolesività e dell’eterolesività senza riflettere sulle implicazioni di ciò fanno. Spesso fanno cose terribili per noia, appunto, come i due protagonisti di questa vicenda. Oppure per vedere che effetto fa sfidare la norma, entrare nella zona delle trasgressione. Si mettono a fare gli spavaldi coinvolgendosi in azioni estreme dove qualche volta ci scappa il ferito (se non addirittura il morto) come lanciarsi da un albergo dentro una piscina, oppure stringersi una corda al collo fino a sentirsi svenire oppure sfidare fino all’ultimo secondo il treno che gli viene incontro, rimanendo incollati al binario. Allo stesso modo, possono molestare un barbone, spaventare un extracomunitario che chiede l’elemosina, sfregiare un automobile, vandalizzare un edificio. Quando gli si chiede se si rendono conto della gravità di ciò che hanno commesso, ti guardano a volte con quell’occhio vuoto (vuoto appunto), come a dirti: “Ma è davvero così grave? Davvero state a fare tutta questa cagnara per una roba così?”. Credo che il giudice che ha dovuto decidere abbia basato la sua decisione su una profonda compassione per il vuoto che si è trovato davanti. Ha sentito che prima ancora di punire, era necessario “costruire” e “riempire” uno spazio interno di cui nessuno, probabilmente fino a quel momento, si era preso la cura - e la responsabilità - educativa. Ecco il senso della “messa alla prova” per un minore che ha compiuto reato. È un percorso previsto per un minorenne che, nel proprio periodo evolutivo, si macchia di un reato, ma forse ha ancora la possibilità di non essere il “reato” di cui si è macchiato. Ovvero, il giudice punta a immaginare che un giovane possa fare un errore - anche gravissimo come in questo caso - ma se aiutato e supportato possa ancora permettersi di non diventare egli stesso un “errore per sempre”. Lo fa anche supportato dal fatto che le neuroscienze e gli specialisti dell’età evolutiva sanno che quando cresci senza nessuno che ti offre modelli e ti insegna competenze, vivendo immerso in un vuoto che da esteriore si trasforma in interiore, l’esperienza dell’errore è più possibile e più frequente. Questa ordinanza farà discutere perché la gravità del reato effettuato, se la prova avrà buon esito, non sarà in alcun modo corrisposta da una sanzione comparabile al delitto cui viene associata. Probabilmente, il giudice ha fatto la sua valutazione alla luce di elementi che ai più sfuggono. La situazione raccontata dalla cronaca è stata ben descritta nel romanzo “La cena” di H. Koch (edito in Italia da Neri Pozza), un libro che colpisce come un pugno nello stomaco, perché lì ci sono due ragazzi di buona famiglia che si macchiano dello stesso identico reato di cui ci parla la cronaca. Dal romanzo sono stati tratti due film, uno italiano intitolato “I nostri ragazzi” (regia di De Matteo) e uno statunitense intitolato The Dinner (regia di Oren Moverman con Richard Gere). Vale la pena leggere il libro o guardare almeno uno di questi due film per comprendere che certe brutte storie dei nostri ragazzi originano in un clima di relativismo morale ed etico, di cui il mondo adulto deve sentire la corresponsabilità e farsi carico del bisogno di ricostruire le premesse delle alleanze educative a tutti i livelli. Altrimenti come adulti, rischiamo solo di lamentarci del fatto che le colpe di alcuni giovanissimi non sono mai sanzionate come si deve. Ma dove c’è un giovanissimo che si macchia di un reato, spesso c’è un mondo adulto che è spaventosamente vacante o latitante rispetto ai bisogni educativi di chi lì è nato e cresciuto. Campania: detenzione minorile, dati allarmanti di Tommaso D’Angelo cronachesalerno.it, 3 febbraio 2019 “A febbraio 2018, in Campania vi erano 5.000 soggetti in carico al servizio della giustizia minorile. Un esercito numeroso nei centri penali per minorenni”. A rendere noti i dati, ieri mattina, è stato Samuele Ciambriello, garante dei Detenuti della Regione Campania, nel corso di un workshop sulla criminologia minorile svoltosi presso la sala del Gonfalone del Comune di Salerno. “Un paese civile si misura dalla capacità che ha di mettere un criterio di giustizia, dignità e umanità nelle proprie carceri. Alla persona che sbaglia deve essere tolto il diritto alla libertà ma non quello alla dignità”. In Campania, attualmente, ci sono più di 7.600 adulti detenuti, con un esubero di 1.600 persone, in 15 istituti penitenziari; di questi, più di 300 sono donne. Una situazione decisamente poco positiva è quella riguardante il carcere per sole donne di Pozzuoli: “Una casa circondariale super affollata - afferma Ciambriello - che arriva a far utilizzare a 10/12 persone un solo bagno e, fino a tre anni fa, non era nemmeno presente il bidet”. Altri dati non rassicuranti sono quelli legati alla carenza di personale dedito al recupero e alla rieducazione di chi commette errori più o meno gravi: “In Italia - prosegue Ciambriello - ci sono 58.000 persone che sono nella cosiddetta area penale esterna, sono cioè in affidamento in prova, semiliberi, svolgono lavori di pubblica utilità, lavori socialmente utili. Solo nella nostra regione sono 7.400, a Napoli circa 5.000 e di loro si occupano 24 assistenti sociali. Ma di che parliamo? In tutta la regione Campania ci sono 15 psicologi, 95 educatori; quando una persona viene arrestata e va in carcere, lo stesso giorno viene visitata dal medico e poi c’è uno psicologo o una psicologa, poi chissà se li vede più”. Per ciò che concerne la situazione dei minorenni con devianze, che solo in Campania sono circa 5.000, sempre il Garante dei Detenuti della Regione dichiara: “In tutta Italia, i dati del Dipartimento della Giustizia Minorile di febbraio 2018, ci dicono che siamo a quota 11.000 però non bisogna fare di tutta l’erba un fascio e definirli microcriminali e pensare che facciano tutti parte di baby gang e paranze. Ci sono, infatti, bambini che vivono una povertà economica, una povertà familiare, conoscono trenta parole e le sanno in dialetto, rispetto a chi conosce mille parole e sa una lingua straniera. Ci sono adolescenti che evadono l’obbligo scolastico, in tutta Italia, l’anno scorso, dovevano arrivare 500.000 ragazzi al diploma delle scuole medie superiori, ben 80.000 non ci sono arrivati e di questi 12.000 in Campania, ma mica sono tutti delinquenti? Chi evade l’obbligo scolastico, chi non arriva al diploma, come viene agganciato dalla politica, dalle figure degli assistenti sociali? In che misura noi creiamo luoghi, zattere, momenti d’incontro per questi ragazzi? Non possiamo - conclude Samuele Ciambriello - attenderli negli uffici dell’assistente sociale, non possiamo aspettarli in una parrocchia o in un centro giovanile, dobbiamo creare più spazi, più operatori di strada, dobbiamo mettere in campo figure sociali. Questo vale anche per i detenuti”. Campania: la nuova cooperazione organizzata di Peppe Pagano e Simmaco Perillo La Repubblica, 3 febbraio 2019 NCO è un consorzio di cooperative sociali che mira alla restituzione di dare dignità e opportunità alle persone, con particolare attenzione per i soggetti svantaggiati. Attraverso un modello di welfare comunitario e il riutilizzo sociale di beni confiscati alla criminalità organizzata o beni comuni, promuove una filiera produttiva pensata per generare inclusione, occasioni di lavoro dignitoso e percorsi terapeutici, riabilitativi e di salute per persone svantaggiate e a rischio marginalizzazione come minori, persone con disagio psichico, ex detenuti ed ex tossicodipendenti. L’obiettivo è quello di contribuire a una crescita civile del territorio e fare in modo che le persone fragili, con i loro bisogni e le loro potenzialità, siano protagoniste del loro percorso di salute e/o di inclusione sociale. Nella nostra visione la comunità assume un ruolo fondamentale in quanto è soggetto attivo nel processo di riabilitazione e di inclusione dei soggetti svantaggiati e allo stesso tempo il destinatario ultimo e privilegiato delle attività di economia sociale. NCO perché negli Anni Settanta e Ottanta il territorio campano ha conosciuto la brutalità della Nuova Camorra Organizzata, un raggruppamento camorristico che ha segnato il passaggio da forme arcaiche di criminalità a sistemi organizzati di tipo imprenditoriale, determinando una sua espansione nel tessuto economico e un forte condizionamento della vita sociale e produttiva. Al di là dell’ironia, riprendendo la sigla NCO, il gruppo fondatore ha voluto lanciare un messaggio al territorio: la risposta civile alla violenza criminale deve essere altrettanto “organizzata” ed il primo passo da compiere è la riappropriazione di quello che la criminalità ha sottratto. E si tratta di una rivoluzione e di una riappropriazione non solo di tipo materiale o culturale ma anche di tipo semantica...perché oltre ai “beni” bisogna riprendersi i termini, quelle parole che in passato non andavano pronunciate, e bisogna rimetterle nell’immaginario collettivo in termini propositivi. Con la costituzione del consorzio NCO, ci si riappropria di un acronimo che ha seminato terrore, sottosviluppo e morte, per ridare al territorio speranza, dignità e sviluppo. Esso promuove un “sistema” in cui i cittadini vengono coinvolti in un percorso di riappropriazione del territorio, in particolare di beni confiscati e beni comuni, finalizzato alla creazione di un’economia sociale a attraverso percorsi di cura e benessere nei quali inserire le persone svantaggiate. Il Consorzio NCO è essenzialmente un consorzio di servizi alle cooperazione sociale, che tende a proporsi come uno stimolatore di politiche di sviluppo territoriale. Di fatto, non eroga direttamente servizi alla persona e non si occupa direttamente di attività imprenditoriali, ma opera prevalentemente attraverso le cooperative sociali consorziate come un agente di sviluppo territoriale. NCO offre ai propri soci rappresentanza politica, formazione, progettazione sociale, promozione delle attività, supporto organizzativo, consulenza, capitale sociale, nonché l’utilizzo del marchio a cappello “NCO”, un brand istituzionale e territoriale ad altissima valenza simbolica che, pur non avendo una vera anima commerciale, è un marchio riconosciuto di qualità umana, produttiva e sociale. NCO è una rete che si regge sullo star bene insieme, sulla collaborazione sincera e sulla coltivazione di un capitale di relazione. La grande importanza che il consorzio dà alla comunicazione fa di NCO un “naturale” incubatore sociale, che negli anni ha promosso e accompagnato e ispirato la creazione di numerose imprese no profit, per cui è stato ed è tutt’ora una fonte di ispirazione, la dimostrazione che “si può fare”, una “buona strada” che i cittadini volenterosi di ogni territorio possono percorrere. Al centro del nostro modello di welfare c’è la persona, che è protagonista del suo percorso di salute ed è portatore di un valore “aggiunto” per il territorio. Si tratta di un modello di welfare comunitario che mette al centro la persona e i suoi bisogni, e le sue potenzialità, rendendola protagonista della sua salute, ma anche del riscatto sociale del territorio a cui appartiene. Il modello di welfare promosso dal consorzio NCO, è basato sull’attuazione dei Ptri - Progetti Terapeutici Riabilitativi Individualizzati sostenuti, in Regione Campania, dai Budget di Salute (BS). Il sistema dei Ptri/BS a va percorsi di “capacitazione” e benessere nelle aree delle principali determinanti sociali della salute: apprendimento/espressività, formazione/lavoro, casa/habitat sociale e socialità/ e attività in cui la comunità stessa è sempre un soggetto attivo in questi processi. Le cooperative che si sono riconosciute nel consorzio NCO, insieme ad un gruppo di psichiatri triestini di ispirazione basagliana (tra cui Angelo Righe e Franco Rotelli) sono state le prime in Campania a sperimentare questi percorsi. Grazie al successo della sperimentazione, la Regione Campania si è dotata di una legge in materia [art. 46, L.R. 1/2012; DGRC 483 del 21/09/2012; Decreto Commissaria ad Acta N° 16 del 11/02/2013] ed è stata avviata l’esperienza dei Ptri (Progetti terapeutico-riabilitativi individuali) sostenuti dai budget di Salute. Questo sistema, finanziato in parte dai comuni e in parte dalle Azienda Sanitaria Locale prevede la progressiva riduzione degli interventi riabilitativi a livello sanitario (per esempio somministrazione di farmaci) per soggetti con disagio mentale per prestare maggiore attenzione agli aspetti relazionali e sociali della vita quotidiana (famiglia, casa, lavoro). L’obiettivo è di limitare nel tempo il supporto erogato sostituendolo con la capacità di autogestione ed autodeterminazione degli utenti. Grazie al lavoro “sulla persona” svolto dalle cooperative, gli utenti rafforzano ad esempio la propria autonomia abitativa, si abituano a convivere con altre persone, seguono percorsi di socialità per abituarsi a relazionare con gli altri, seguono progetti di inserimento lavorativo che, tramite un’adeguata formazione professionale, consentono loro di valorizzare le proprie conoscenze e competenze. Roma: disagiati, migranti e disoccupati, “chi li impiegherà vincerà gli appalti” di Lorenzo D’Albergo La Repubblica, 3 febbraio 2019 Dopo il successo del progetto che ha visto impegnati i detenuti di Rebibbia nella cura di verde e strade e l’impiego dei rom nella raccolta differenziata, la giunta punta ancora sull’inclusione sociale. Il Comune favorirà l’assegnazione dei bandi alle aziende che impiegheranno disoccupati, rifugiati, disabili, ex tossicodipendenti, ex detenuti e donne vittime di violenza. L’idea è della sindaca Virginia Raggi e venerdì sera ha ottenuto il via libera del resto della giunta. Dalle buche alla cura del verde, nel valutare le offerte arrivate in Comune per il bando di turno, i tecnici capitolini dovranno favorire le aziende che impiegano i lavoratori delle fasce sociali più fragili. Disoccupati che in passato abbiano già svolto attività di volontariato, ex detenuti, ex tossicodipendenti, disabili o disagiati mentali, chi non riesce a trovare un posto per “avanzata età anagrafica”, donne vittime di violenza e stranieri che abbiano già ottenuto lo status di rifugiato politico: chi avrà in organico una o più di queste categorie, al momento dell’apertura delle buste, avrà un premio. A parità di offerta, otterrà quel punto in più necessario ad aggiudicarsi la gara. L’indirizzo della prima cittadina è chiaro: dopo il lavoro con i detenuti di Rebibbia, già al lavoro sul verde e sulla manutenzione stradale, il Campidoglio cerca il bis con l’obiettivo di “reinserire nel ciclo produttivo tutti quei soggetti che si trovino in una situazione di cosiddetto “svantaggio sociale”. Il tentativo è quello di replicare l’accordo con il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un progetto che, come si legge nella memoria di giunta già inviata alla direzione generale di palazzo Senatorio, “oltre al notevole successo presso la cittadinanza, ha dimostrato come Roma Capitale può dotarsi di personale dedicato a temi sensibili quali il decoro urbano, con spese contenute e utilizzando il lavoro qualificato di persone in stato di detenzione”. Ora la platea si allarga. E dovranno essere dirigenti e funzionari a trovare la giusta chiave per buttare giù bandi “che prevedano l’inserimento all’interno degli atti la previsione del riconoscimento di un punteggio premiale ai concorrenti che avanzino all’amministrazione progetti, anche temporanei, che favoriscano l’inclusione lavorativa”. Una volta trovata l’intesa con l’Anac, il Campidoglio 5S darà il via alla sua declinazione del concetto di “solidarietà sociale”. Favorendo chi impiegherà migranti con lo status di rifugiato e disabili, soggetti in fase di disintossicazione e donne in difficoltà. Per i giovani in cerca di impiego, categoria inserita in prima battuta e poi stralciata dall’atto, resta il reddito di cittadinanza. Con le 8 ore di lavoro a settimana da mettere a disposizione del Comune. Anche in questo caso i campi sono quelli più sguarniti: buche, sfalcio e differenziata. Busto Arsizio: carcere senza medici, tocca agli agenti di Angela Grassi La Prealpina, 3 febbraio 2019 Già prima di Natale il problema si faceva sentire in modo pressante, ora la situazione è peggiorata: in carcere, in via Per Cassano, mancano medici e la polizia penitenziaria si trova a occuparsi di incombenze non propriamente di sua competenza. Da mesi non si trova una soluzione. Tre medici hanno lasciato l’area sanitaria senza essere rimpiazzati. Di notte, di conseguenza, manca la copertura, mentre la legge prevede la presenza di camici bianchi 24 ore su 24 là dove i reclusi superino le cento unità. A Busto, purtroppo, si oltrepassano di parecchio le 400 presenze, quindi la possibilità di malori di vario genere è alta. “La competenza medica in tutti gli istituti italiani, per tutto ciò che concerne l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, è di pertinenza dell’Asst di competenza, in questo caso dell’Asst Valle Olona - spiega Paolo Delli Veneri, esponente della Uil Penitenziaria - Gli agenti subiscono notevoli ripercussioni: in caso di problemi di vario tipo nelle ore notturne, il personale di servizio è costretto a valutare personalmente l’eventuale necessità di contattare la guardia medica o il 118, con la diretta responsabilità sulla salute dei detenuti in caso di situazioni di emergenza”. Il sindacato ha chiesto tempo fa al proprio comandante e al direttore della struttura di interessare l’Asst, che però ha di recente cambiato vertice e avrà probabilmente bisogno di tempo per affrontare anche questa problematica. “Gli agenti - continua Delli Veneri - non hanno ricevuto precise disposizioni rispetto alle situazioni di emergenza. Di fatto, oltre a garantire la sicurezza dell’istituto, devono vegliare anche sulla salute dei detenuti, rischiando, non avendo le competenze specifiche, immaginabili conseguenze in caso di gravi episodi”. Uil Penitenziaria ha anche altri appunti da fare alla direzione, rispetto alla presenza di oggetti non consentiti. Quando vennero trovati due cellulari in altrettante celle, nel corso di una ispezione straordinaria, il direttore Orazio Sorrentini disse che ipotizzava che i telefoni fossero stati introdotti da detenuti che escono per lavoro o per alcune giornate di libertà, affermando che nei loro confronti non sempre si proceda con i controlli di massima sicurezza. Delli Veneri replica: “Il dirigente ritiene plausibile che i detenuti che beneficiano di permessi premio oppure godano di altri benefici che permettono loro di lavorare all’esterno, una volta che rientrano in istituto, non vengano controllati solo perché più affidabili. Dissento totalmente e prendo le distanze, a nome mio e dei miei colleghi di polizia penitenziaria, da queste dichiarazioni. Indipendentemente dalla tipologia, i detenuti indistintamente vengono controllati in modo scrupoloso e attento. A maggior ragione questo accade con chi, per ragioni varie, rientra in istituto dopo brevi periodi di permesso”. Milano: polizia penitenziaria, si paga anche il letto in caserma di Marco Galvani Il Giorno, 3 febbraio 2019 La decisione del Ministero per gli agenti che dormono in istituto. Fino a 100 euro al mese di affitto. E ora arrivano pure gli arretrati. Contrordine: il posto letto in caserma si paga. E pure con gli arretrati. L’ultima stangata sulla polizia penitenziaria arriva con una circolare ministeriale che, a detta del Dipartimento dell’amministrazione carceraria, fornisce “l’esatta interpretazione” della legge che, nell’ottobre del 2017, dava agli agenti la “facoltà di pernottare in caserma a titolo gratuito, compatibilmente con la disponibilità di locali”. Correggendo una precedente disposizione che prevedeva il pagamento di un “affitto” mensile. E adesso, “a distanza di un anno si cancella per via amministrativa una norma con la spiegazione che ci sarebbe la copertura economica soltanto per 800 alloggi”. E invece i posti letto in caserma sono 4.400 in tutta Italia. La maggior parte concentrata al Nord. Soltanto in Lombardia, dei quasi 4mila agenti in servizio (anche se le carte del ministero ne prevedrebbero 5.219), poco meno della metà vive nelle caserme in carcere o in pochi chilometri dall’istituto. Il Dipartimento ha presentato il conto: mediamente, soltanto per l’anno di arretrati, la cifra è di circa 650euro a testa, con un contributo mensile che varia tra i 50 e i 100 euro a seconda della metratura. “Siamo al paradosso - denuncia Gennarino De Fazio della segreteria nazionale Uil penitenziari -, a maggior ragione di fronte a una emergenza conclamata sulle condizioni delle caserme e gli organici della polizia penitenziaria. Il personale accasermato, poi, è obbligato a intervenire in qualsiasi momento, giorno e notte, in caso di emergenze. E nonostante questo, si chiede loro pure di pagare il posto letto. Cosa che, invece, non avviene negli altri corpi dello Stato”. Sia chiaro, “non stiamo parlando di cifre esorbitanti, ne siamo consapevoli, ma c’è anche una questione di principio e di rispetto. Senza contare che gli alloggi nella maggior parte dei casi sono in condizioni strutturali, igieniche e sanitarie pessime”. Resi vivibili soltanto con interventi pagati di tasca loro dagli agenti. A Monza, ad esempio, nella caserma Pastrengo - alle porte del centro - vivono una sessantina di agenti: in una delle tre palazzine abitano 15 poliziotti con le rispettive famiglie, un’altra è completamente disabitata perché non c’è caldaia, il terzo edificio, invece, ha problemi alla rete idrica e fognaria, e il terzo piano è stato dichiarato inagibile da anni. E nelle giornate di pioggia, l’acqua arriva fino al piano terra”. Rincara la dose Domenico Benemia, segretario regionale Uil penitenziaria, “il Dipartimento non può cambiare le carte in tavola: faremo ricorso al Tar”. Agrigento: nasce “Adotta una sezione” per aiutare i detenuti agrigentonotizie.it, 3 febbraio 2019 L’amministrazione penitenziaria sottoscriverà un protocollo d’intesa con i club service della provincia. “Adotta una sezione”. È con lo scopo di elaborare un progetto comune di collaborazione in favore dei detenuti che, oggi, il direttore della casa circondariale Di Lorenzo e il capo dell’area educativa trattamentale, Maria Clotilde Faro, hanno incontrato i club service della provincia di Agrigento. L’obiettivo è realizzare una serie di interventi non soltanto di carattere materiale, che pure permetterebbero all’amministrazione penitenziaria di tamponare le emergenze che purtroppo attanagliano la struttura detentiva, ma anche ad indirizzo trattamentale. Durante l’incontro, che ha visto una nutrita partecipazione - i club service presenti erano: Cif San Biagio Platani, Cub delle mamme di Canicattì, Fidapa Agrigento, Fidapa Palma di Montechiaro, Lions Club Agrigento Host, Lions club Campobello di Licata, Rotary Club Agrigento, Rotary club Canicattì, Sorotptmist Agrigento e Rotary Club Palma di Montechiaro e Licata - sono stati vari punti comuni. Ci si è aggiornati ad una nuova riunione durante la quale verrà sottoscritto un protocollo di intesa tra tutti i club service presenti e con quanti altri, nel frattempo, seppure assenti al primo incontro, si aggregheranno. Modena: la redenzione dei libri, premiati i detenuti poeti e scrittori di Stefano Luppi Gazzetta di Modena, 3 febbraio 2019 L’8 febbraio al Teatro delle Passioni la proclamazione dei vincitori. Elena Ferrante tra i giurati Il miglior romanzo scritto in carcere sarà pubblicato in e-book da Giunti-Bompiani. “Il premio “Sognalib(e)ro per le carceri” - spiega Giordano Bruno Ventavoli, responsabile di “Tuttolibri” di La Stampa e ideatore della iniziativa - permette di portare i libri, simbolo di libertà e fantasia, in dieci carceri italiane, ossia negli luoghi chiusi per antonomasia. Venerdì prossimo annunceremo i vincitori delle sezioni narrativa ed inediti”. Ventavoli spiega così l’iniziativa legata alla lettura per i detenuti, introducendo la serata finale che si svolgerà venerdì 8 febbraio, tra premiazioni, letture e teatro, alle Passioni di via Carlo Sigonio (ore 20.30, ingresso libero fino ad esaurimento posti). L’iniziativa, promossa dal Comune di Modena con la Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore e Bper Banca ha visto il coinvolgimento di novantasei detenuti di otto istituti tra cui il Sant’Anna di Modena (gli altri sono Milano - Opera, Trapani - Cerulli, Torino - Lorusso e Cutugno, Brindisi, e tre carceri femminili: Pisa, Pozzuoli e Roma Rebibbia - Stefanini). “L’obiettivo - continua Ventavoli - è quello di promuovere la lettura e la scrittura negli istituti penitenziari, dimostrando come la cultura possa essere un importante strumento di riabilitazione. Lo dico senza retorica, ma è stato bellissimo vedere come si siano costituiti i gruppi di lettura nelle carceri e che alcuni detenuti abbiano detto di avere iniziato a leggere proprio in questa situazione. Sono anche arrivati commenti e qualcuno di loro ha anche scritto alcuni testi. Erano dieci le galere coinvolte, poi due si sono sfilate perché i gruppi di lettura sono stati sciolti visto che le persone avevano esaurito le loro pene”. Il programma della serata finale è stato presentato al palazzo comunale dal vicesindaco Gianpietro Cavazza e da Ventavoli stesso insieme a Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche, Eugenio Tangerini, dirigente relazioni esterne Bper e Stefano Tè, regista del Teatro dei Venti. Per l’8 febbraio è previsto un programma “denso” che rispecchia la caratura del giovane premio, “controllato” da una giuria che oltre all’ideatore vede impegnati anche la scrittrice Elena Ferrante (“ma non ho avuto con lei rapporti diretti, solo mediati”, spiega Ventavoli), l’autore modenese Walter Siti e Antonio Franchini, direttore editoriale di Giunti editore. I detenuti del Sant’Anna e della casa-lavoro di Castelfranco leggeranno le classifiche dei libri - i detenuti hanno letto e votato tre libri: “L’arminuta” di Donatella di Pietrantonio (Einaudi),”Una storia nera” di Antonella Lattanzi (Mondadori) e “Perduto in paradiso” di Umberto Pasti (Bompiani) - e le motivazioni dei voti. Per quanto riguarda la sezione inediti i premiati sono gli stessi detenuti che hanno scritto i loro testi: uno per la poesia, uno per il racconto e uno per il romanzo. Quest’ultimo verrà pubblicato in e-book da Giunti-Bompiani e la casa editrice fiorentina donerà alle biblioteche delle carceri partecipanti 1.500 libri del proprio catalogo titoli. Sarà invece la casa editrice digitale “Il Dondolo” del Comune di Modena (diretta da Beppe Cottafavi) a pubblicare in e-book una antologia degli scritti inediti presentati per il concorso. Chiude lo scrittore Walter Siti: “Sarebbe facile scherzarci sopra parlando di letteratura d’evasione invece favorire la lettura e la riflessione sulla lettura in carcere è una cosa molto seria. I romanzi aiutano a tenere insieme la realtà e la fantasia”. Le parole e la prova dei fatti di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 3 febbraio 2019 Le dichiarazioni sui migranti e sulla sicurezza, le promesse sullo sviluppo, il lavoro e gli investimenti: l’esecutivo continua a vendere promesse. La vicenda della nave Diciotti ha indotto il governo a misurarsi con il grande tema della “responsabilità”. La magistratura ha chiesto al Parlamento di rendere formalmente imputabile il ministro Salvini per eventuali reati personali. Il premier Conte ha deciso di spostare la discussione dal piano giuridico a quello politico. Mi assumo io la responsabilità, ha sostanzialmente detto. Le scelte sul caso Diciotti sono state condivise dall’intero governo e hanno risposto a gravi minacce pubbliche, ha aggiunto. Per ora non c’è evidenza che comprovi le affermazioni del governo: bisogna aspettare le carte. Sin d’ora è però utile riflettere su alcune implicazioni generali di questo specifico episodio. Quello di responsabilità politica è un concetto impegnativo. In democrazia, chi governa deve tener in conto gli interessi degli elettori (in particolare i propri) ed è principalmente a loro che deve dare conto delle proprie scelte. Il tutto, ovviamente, nel rispetto dei vincoli dello Stato di diritto. Ma non c’è solo la responsabilità elettorale. L’azione di governo deve poggiare su alcuni elementi essenziali: competenza, capacità di diagnosticare correttamente i problemi, di rispondere a sfide improvvise e soprattutto di salvaguardare le condizioni che consentono al sistema Paese di crescere in un contesto di stabilità sociale e politica. Prendiamo un momento per buona la giustificazione offerta da Conte sul blocco degli sbarchi: minacce alla sicurezza. Ma minacce simili non provengono anche dalla disastrosa gestione delle strutture in cui vengono parcheggiati i migranti già sbarcati? Molti di loro fuggono e si riversano sulle strade come clandestini. Un fenomeno che si aggraverà con le restrizioni del decreto Salvini. Perché il governo non si fa carico anche di queste sfide? Giovanni Sartori distingueva fra responsabilità dipendente o “ricettiva” (quella verso gli elettori) e responsabilità indipendente o “funzionale”. In questo secondo caso, il punto di riferimento è “l’interesse dell’intero”, non quello di questa o quella parte. Si può discutere sui contenuti e sui modi di tutelare questo interesse. Tuttavia alcuni beni collettivi sono scontati, in particolare lo sviluppo del Paese nelle sue varie dimensioni, a partire da quella economica. Su questo fronte il governo sta giocando col fuoco. L’Istat ha confermato che l’Italia è in recessione. Alcuni ministri hanno cercato prima di screditare dati e analisi. Poi di incolpare i governi precedenti. Un tentativo che lascia il tempo che trova. Solo i posteri potranno azzardare sentenze e comunque i fatti di oggi riguardano solo ed esclusivamente chi governa oggi. È vero che anche gli altri Paesi Ue rallentano. Ma, appunto, “rallentano”, mentre noi precipitiamo sotto lo zero. Come ha ricordato ieri il Governatore Visco, le frenate congiunturali degli altri Paesi tendono da noi a trasformarsi in periodi di persistenti stagnazioni. Altro che boom imminente (Di Maio) o fra sei mesi (Conte) per gli effetti della legge di bilancio. Secondo gli esperti, l’impatto sul Pil di quota cento e del reddito di cittadinanza (i due piatti forti) sarà uno zero virgola. Abbastanza per parlare di “ripresa incredibile”, di un 2019 “bellissimo” (sempre Conte)? Quanto ai famosi investimenti, senza una dettagliata strategia di sblocco l’idea che vi possa essere un rapido impatto sul Pil non è credibile. Come ha osservato Dario Di Vico su queste colonne (Corriere 1 febbraio), il nodo degli investimenti pubblici è intricatissimo e il governo non sembra proprio avere la capacità tecnico-amministrativa per districarlo. È lecito inoltre esprimere forti dubbi sulle ambiziose iniziative di accompagnamento al lavoro previste per i beneficiari del reddito di cittadinanza e dunque sulla crescita dell’occupazione. Ci sarà infatti una sfasatura temporale tra l’erogazione dei primi sussidi e l’entrata in vigore di quelle iniziative. È chiaro che i tempi di erogazione rispondono a logiche elettorali: l’interesse dell’”intero” può aspettare. Quanto più la responsabilità elettorale prevale sulla responsabilità funzionale, tanto più è probabile che l’interesse generale sia sacrificato rispetto agli interessi di parte. O meglio, gli interessi “supposti”. Molti dei nuovi pensionati si ritroveranno a casa con un trasferimento inferiore a quello standard e senza possibilità di integrarlo con altri redditi da lavoro. I loro figli e nipoti vedranno aumentare il già enorme fardello che il debito pubblico scarica sulle loro spalle. Questi effetti convengono davvero alle “parti” rappresentate da Di Maio e Salvini? Il governo non sembra misurarsi con i fatti, preferisce vendere illusioni. Se l’impostazione non cambia, invece di proteggere e promuovere l’intero, questo governo rischia di spezzarlo. A quel punto non ci sarà certo bisogno della palla di cristallo per indovinare quale sarà la sentenza dei nostri posteri sulle politiche gialloverdi: gravemente insufficienti. Moltissime persone senza dimora non potranno beneficiare del reddito di cittadinanza di Antonio Mumolo Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2019 Il Decreto Legge n. 4 del 2019 introduce l’ormai noto reddito di cittadinanza, che ammonterà a 780 Euro mensili. Di questi, 280 saranno versati a titolo di contributo per l’affitto a chi potrà dimostrare di essere titolare di un contratto di locazione. Le poche persone senza dimora che, come vedremo, riusciranno ad avere i requisiti per accedere al beneficio, non potranno comunque ricevere i 280 euro, perché vivono in strada o nei dormitori e dunque non sono locatari di immobili. Rimangono 500 Euro. Lo stesso Decreto Legge stabilisce che, per ottenere questo beneficio, è necessario essere stati residenti in Italia per un minimo di 10 anni, di cui consecutivamente almeno gli ultimi due che precedono la presentazione della domanda. Sono quindi escluse tutte quelle persone, e sono tante, che sono diventate povere, sono finite in strada ed hanno perso la residenza ovvero sono state cancellate dalle anagrafi dei comuni in cui prima risiedevano. Allo stesso modo vengono escluse tutte quelle persone che, avendo chiesto la residenza in una via fittizia, istituita da alcuni comuni proprio per dare la residenza alle persone senza dimora, l’hanno ottenuta ma non hanno ancora maturato i due anni consecutivi di iscrizione anagrafica. Bisognerà poi mantenere la residenza per tutto il periodo in cui si percepisce il reddito di cittadinanza. Sono perciò escluse tutte quelle persone che, pur ottenendo il beneficio perché povere, perdono la residenza mentre stanno percependo il reddito di cittadinanza, con l’ulteriore paradosso di perdere questo contributo proprio quando ne hanno più bisogno. Ecco allora perché molte persone senza dimora, le più povere e le più deboli, non potranno avere accesso a questa misura. Non sembra questo lo scopo della legge. Non sarebbe il caso di cambiarla rivedendo questi requisiti? Speriamo che il governo lo faccia, sempre che si comprenda che la realtà è più complicata di slogan o proclami. *Presidente Avvocato di strada Onlus Corsa agli armamenti. Anche la Russia sospende l’Inf: “costruiremo un nuovo missile” Corriere della Sera, 3 febbraio 2019 Il presidente russo invita i ministri della Difesa e degli Esteri a non “aprire alcun dialogo con Washington” sul Trattato. Il monito di Pechino: “Conseguenze negative”. Dopo il passo indietro degli Stati Uniti dal Trattato antimissili Ing, Vladimir Putin ha annunciato, in un incontro con i ministri della Difesa e degli Esteri, che anche Mosca sospende l’accordo, che potrebbe essere cancellato tra sei mesi. “Faremo come segue - ha detto Putin in un incontro con il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov e con il ministro della Difesa Serghiei Shoigu. Forniremo una risposta speculare. I partner americani hanno annunciato la sospensione della loro partecipazione al trattato e anche noi la sospenderemo”. Il Trattato, che era stato siglato nel 1987, vieta la costruzione e messa in opera di razzi a breve e media gittata. Il presidente russo ha anche comunicato che Mosca inizierà subito la costruzione di nuovi missili, tra cui quelli supersonici, e ha chiesto ai ministri di non iniziare alcun negoziato con Washington. Ieri il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aveva invece lasciato aperta la porta al dialogo: “Siamo ancora pronti e disponibili a impegnare Mosca sul fronte del controllo delle armi nucleari”. Il presidente russo, però, ha voluto precisare che la Russia non schiererà missili a breve e media gittata a meno che non lo facciano gli Stati Uniti: “Partiamo dal presupposto - ha detto Putin - che la Russia non dispiegherà missili a gittata intermedia e inferiore, se tali armi appariranno, né in Europa né in altre regioni del mondo, finché armi di tale tipo prodotte in Usa non appariranno nelle medesime regioni del mondo”. Anche la Cina batte un colpo. Pechino, che non ha firmato alcun trattato per la riduzione degli armamenti, invita Stati Uniti e Russia a mantenere l’Inf avvertendo che il ritiro dell’amministrazione di Donald Trump, annunciato ieri, potrebbe innescare “conseguenze negative”. Una nota del ministero degli Esteri rimarca che la “Cina è contraria al ritiro degli Usa e sollecita Stati Uniti e Russia a risolvere in modo adeguato le differenze attraverso un dialogo costruttivo”. Migranti. Caccia grossa a chi aiuta: la crociata più feroce di Matteo Salvini di Fabrizio Gatti L’Espresso, 3 febbraio 2019 Prima l’accanimento contro le Ong. Ora gli sgomberi dei Cara. La guerra agli Sprar. E l’isolamento di chi assiste i migranti. È la fase due del Viminale. La più violenta. Ma nonostante tutto, le iniziative di solidarietà non si fermano. A mezzanotte e un quarto di martedì 22 gennaio il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, 46 anni, pensa al suo ultimo post prima di andare a dormire. Centodiciassette migranti sono annegati da poche ore tra la Libia e l’Italia. Altri cento, compresi alcuni bambini, sono rimasti per dodici ore alla deriva senza soccorsi su uno scafo che imbarcava acqua. Quarantasette, per sua decisione, sono prigionieri da giorni sulla nave Sea Watch 3 che nessun porto vicino accoglierà. E lui, il ministro-vicepremier del governo del cambiamento italiano, viene improvvisamente attraversato da un sentimento di tenerezza. Facebook immortala il momento, con foto, data e orario: “Un gattino lasciato tra la spazzatura come se fosse un ferrovecchio. Idioti e vigliacchi”, scrive Salvini sulla sua pagina personale e incolla indignato l’articolo sul felino adulto abbandonato dentro una gabbietta a Mestre, “tra il bidone della carta e quello della plastica, per terra”, come spiegano le prime tre righe della dolorosa cronaca. Sì, bisogna cominciare a chiamarla per come appare: una devianza da quell’equilibrio mentale e umano che ogni democratico, ogni politico, ogni partito costituzionale, di qualunque colore, sa di dover sempre rispettare di fronte alla sofferenza di uomini, donne e bambini. È ormai incontrollabile la velocità con cui questo governo sta demolendo l’immagine e le funzioni della nostra democrazia. E anche come, contemporaneamente, stia criminalizzando gli stranieri a colpi di sgomberi per trasformarli nel nemico necessario allo scopo: giusto perché sia chiaro a tutti gli immigrati, a noi e magari all’Europa che dal mese di gennaio 2019 l’Italia ha dichiarato guerra al mondo della solidarietà e ai suoi abitanti non solo in mare, ma anche a terra: alla rete locale dei Cara, degli Sprar e a tutto ciò che ha un sorriso. È la strategia della paura trasformata in legge dalla maggioranza gialloverde in Parlamento, con l’approvazione due mesi fa del suo decreto di presunta sicurezza. Se la doverosa tutela di un animale domestico merita più attenzione di tutto il resto, però, abbiamo già superato i confini dell’orrore. Fermiamoci un attimo e ripassiamo cosa è accaduto quest’ultima settimana, nel misero silenzio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e dell’azienda-patron del governo, la Casaleggio associati. Al suo risveglio, la mattina dopo aver scritto il post sul gattino, Matteo Salvini manda la polizia a Castelnuovo di Porto appena fuori Roma per scacciare dal centro di accoglienza il primo gruppo di stranieri regolari. Proprio così: erano regolari fino all’approvazione del decreto sicurezza che da un giorno all’altro ha cancellato gran parte delle forme di protezione umanitaria e ha trasformato migliaia di persone già in Italia in immigrati illegali. Nelle stesse ore l’altro vicepremier del Movimento 5Stelle, Luigi Di Maio, nomina Lino Banfi ambasciatore all’Unesco per la nostra cultura, nell’anno in cui Matera ne è la capitale europea: come se aver recitato nel film “Kakkientruppen” basti come curriculum internazionale. Sempre nelle stesse ore, nella grande piazza davanti alla stazione Centrale di Milano, riapre il mercato quotidiano di cocaina gestito da bande di criminali africani che non sarebbe male veder processati con i loro fornitori italiani e poi rimpatriati. Ma qui nessuno manda poliziotti o carabinieri. Ci pensa Brumotti: arriva infatti l’inviato in bici della tv della famiglia Berlusconi, si prende le minacce dei pusher, un calcio che gli rompe un cerchione e, alla fine, anche i complimenti del ministro dell’Interno-vicepremier della Lega. “Un abbraccio all’amico Brumotti, un ringraziamento per le sue inchieste, il mio impegno a combattere i delinquenti ogni giorno, con ogni mezzo, strada per strada”, gli scrive Salvini su Facebook. Sempre nelle stesse ore di martedì 22 gennaio, il giorno in cui dal mare sbarca sulla terraferma la politica del “saremo cattivi” già promessa nel 2009 dall’altro ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni, pochi italiani decodificano la lucida follia della propaganda gialloverde: la tenerezza per il gattino, un attore nazional-popolare alle Nazioni Unite, la polizia contro gli inermi di Castelnuovo di Porto e la telecamera GoPro tra gli spacciatori sul casco di Brumotti per l’audience serale di Striscia la notizia. Pochi italiani, sì, praticamente nessuno. Infatti, nelle stesse ore, il gradimento di Matteo Salvini su Facebook sfonda il muro di tre milioni e quattrocentomila seguaci, o followers, o likers, come si chiamano oggi i simpatizzanti del consenso digitale. Il record dei record, per un politico europeo. E cominciano ad arrivare i saluti di qualche gilet-jaune, i giubbotti gialli della protesta francese contro il presidente Emmanuel Macron che l’accoppiata di vicepremier Salvini-Di Maio, nelle stesse identiche ore, insulta a distanza: ma senza avere il coraggio e la capacità di portare il loro dossier a Parigi e trasformare le critiche sul neocolonialismo in Africa e soprattutto in Libia, a volte fondate, in sana politica internazionale. Certo, immaginate l’ambasciatore Lino Banfi in missione all’Eliseo. Nella totale assenza del nostro ministero degli Esteri sulla questione, magari una risata servirebbe. Almeno nei saluti: “A fra poco o, come dicono i francesi, a frappé!”. A Castelnuovo intanto, nelle stesse ore, i centocinquanta che non potranno rinnovare il permesso di soggiorno vengono sloggiati in quattro e quattr’otto. Gli altri con il permesso sono già saliti su un pullman diretto verso centri più piccoli sparsi per l’Italia. Gli ultimi, per un totale di cinquecento persone, verranno spostati entro fine mese. La questura ha scelto la giornata più fredda di gennaio per mandare i nuovi irregolari a dormire sui marciapiedi. Le telecamere li riprendono mentre si allontanano tirando un trolley, confezionato come uova di Pasqua in cellophane colorati. Ma è l’audio che colpisce, più delle immagini. È il ticchettio della pioggia sugli ombrelli che proteggono le telecamere e i cameraman dei telegiornali: la colonna sonora di un film in cui è l’eroismo dei più deboli a perdere. Un senegalese racconta che se avesse i soldi, tornerebbe subito a casa. Si chiama rimpatrio volontario assistito, lo prevede la legge. Ma Salvini ha tagliato i fondi anche a quello. Perché forse rimpatriarli è contrario allo scopo: i migranti devono andare a dormire per strada, devono ridurre le stazioni come Termini in dormitori per disperati. Così che il popolo che sostiene questo governo possa vederli e aver sempre più paura. Se poi qualcuno di loro, spinto dalla fame o dalla rabbia, si mette a delinquere, tanto meglio. Se poi qualcuno degli altri si fa carico di un presunto destino non suo e comincia a sprangare o a sparare, come ha già fatto un leghista a Macerata proprio un anno fa, amen. Non si vede altra logica in quello che stanno facendo. A noi non resta che brandire la Costituzione, l’articolo 2, l’articolo 3, l’articolo 4, l’articolo 8, l’articolo 10 e tutti gli altri. Come fanno con una pacifica marcia di protesta gli abitanti di Castelnuovo, il loro sindaco Riccardo Travaglini in prima fila, il parroco José Manuel Torres, il vescovo Gino Reali, i sindacati locali, gli ospiti rimasti e i dipendenti del centro di accoglienza che perderanno il lavoro. Come fanno gli instancabili volontari del centro Baobab della capitale, costretti dopo ventotto sgomberi a inseguire gli sfollati con pasti, tè e coperte. E a loro volta inseguiti e denunciati da una polizia irriconoscibile, obbligata dal ministero a fare sgomberi su sgomberi, ovunque vadano, senza nessuna logica strategica, economica, sociale. Come fa la Caritas di Milano che continuerà ad assistere anche chi ha non ha potuto rinnovare i documenti. Come fanno migliaia di maestri e professori che, ogni mattina in classe, cercano di costruire e integrare il nuovo Paese necessario che Salvini, Di Maio, il loro segugio premier, la famiglia Casaleggio e l’inviato della peggiore educazione americana, Steve Bannon con la sua scuola italiana di agenti del populismo, godono nel veder distruggere. Quando la notte del 25 agosto 1989 a Villa Literno vicino a Caserta una banda di camorristi uccise il bracciante sudafricano Jerry Maslo, gli italiani manifestarono in strada ovunque e il governo concesse i funerali di Stato. Oggi soltanto la piazza di Salvini è così affollata. Perché il suo è un ritrovo digitale, raggiungibile gratis da casa con il telefonino: tre milioni e quattrocentomila seguaci su Facebook, al netto di qualche curioso, sono una massa sempre adunata, giorno e notte. Ma sono anche gli spettatori di un’arena insaziabile: guardano e pretendono l’appagamento delle loro frustrazioni. Il gladiatore là in mezzo sa che per non perderli deve rispettare le regole del cinema d’azione: tensione, tensione, tensione. E se la settimana non ne prevede, basta inventarla: sgomberi, sgomberi, sgomberi. È la democrazia diretta. E già mostra le sue deviazioni totalitarie. Solo qui, dal di dentro, si può neutralizzare il fiato carico di violenza di questa macchina infernale. Servirebbero oggi sempre di più squadre di partigiani della Costituzione armati di conoscenza per connettersi, smentire, deridere. Ma eccolo anche stasera rubare su Facebook l’ora dei telegiornali. Mentre a Castelnuovo si scioglie la pacifica manifestazione, Matteo Salvini inscena il suo pistolotto: ventitré minuti e dieci secondi di video-selfie per riassumere la giornata. Camicia fresca, nodo della cravatta così così, bava agli angoli della bocca, rigurgitino ogni tanto da post aperitivo preso al volo. Non serve più la perfetta posa che Silvio Berlusconi immortalava nelle videocassette preconfezionate da consegnare ai Tg. Parla del Cara sgomberato vicino a Roma, dei porti chiusi, dei barconi abbandonati in mare. E i messaggi di giubilo scorrono inarrestabili, come una slot-machine quando scarica le monetine: quattrocentomila visualizzazioni in dodici ore, ventitremila commenti, seimilacinquecento condivisioni. Tocca problemi veri: i flussi irregolari dalla Libia, l’Italia lasciata sola (che grazie a Salvini e Di Maio lo è ancora di più). Ma snocciola falsità tipiche di ogni propaganda. “I bambini non si toccano”, dichiara. Senza dire che i bimbi trasferiti senza preavviso con i loro genitori dal centro di Castelnuovo di Porto hanno già dovuto perdere bruscamente la scuola, l’amicizia dei compagni e quella sicurezza familiare che il ministro-premier evidentemente riconosce ai gatti, ma non agli scolari. Adesso manca solo il caso di cronaca che libera lo stomaco. Salvini puntuale ci arriva poco dopo. Insulta un nigeriano di 41 anni arrestato a Napoli per aver cercato di violentare una donna italiana: “Questo schifoso era qua a spese degli italiani”, dice il ministro dell’Interno. Gli risponde un fan in camicia nera: “I cittadini dovrebbero smetterla di dare l’allarme. La polizia chiamatela dopo per raccogliere i pezzi”. È la pagina ufficiale del capo del Viminale. Nessuno cancella: forse perché lo si ricordi, la prima volta che qualche camorrista torna a sparare a uno straniero. La minaccia oggi è la piazza leghista di tre milioni e quattrocentomila italiani che non ragionano più. Nemmeno quando il loro idolo parla dei cinque milioni di connazionali in difficoltà economiche: proprio lui che è il leader di un partito che ha truffato quarantanove milioni allo Stato italiano e non li ha ancora restituiti. E dopo Castelnuovo toccherà al Cara di Mineo in provincia di Catania e ad altri centri. Serve il caos. La macchina della propaganda ha bisogno di tensione: per far dimenticare il grande furto e accerchiare i 5 Stelle. Dopo una breve notte riecco la voce di Matteo Salvini: alle 7.30 è già in diretta su Rai Radiouno. I primi centocinquanta stranieri hanno trascorso la loro alba al gelo. I quarantasette sulla Sea Watch sono ancora in alto mare. Il gatto di Mestre ha trovato ospitalità in un centro di accoglienza per animali. Migranti. Permessi umanitari, il decreto sicurezza sarà applicato solo tra un anno di Franco Vanni La Repubblica, 3 febbraio 2019 Per il tribunale la norma che riguarda i rifugiati non ha valore per le richieste presentate fino al 5 ottobre 2018, data della pubblicazione. Per i giudici del tribunale di Milano, il decreto Salvini che ha cancellato la figura della protezione internazionale per gli stranieri che chiedono il permesso di soggiorno non ha valore retroattivo. Quindi, per tutti i ricorsi contro la bocciatura di richieste di protezione presentate alle commissioni territoriali prima dell’entrata in vigore del decreto, il 5 ottobre 2018, vale la vecchia legge. A ciò si aggiunge che, a causa del tanto lavoro che le Commissioni prefettizie devono smaltire, le prime pratiche presentate dopo l’entrata in vigore del decreto non saranno discusse prima del prossimo maggio. Calendario delle udienze alla mano, gli stranieri che decideranno di impugnare in tribunale un eventuale diniego non si vedranno fissare l’udienza prima del marzo 2020.1n pratica, nelle aule di giustizia milanesi non si avrà alcuna applicazione del decreto del ministero dell’Interno prima di un anno e due mesi da oggi. Che il decreto Salvini non abbia valore per le domande di protezione internazionale presentate fino al 5 ottobre 2018, lo ha affermato nei giorni scorsi la procura generale della Cassazione, pronunciandosi sul caso di un cittadino del Bangladesh a cui era stato negato il permesso di soggiorno in nome del decreto Salvini, nonostante la domanda fosse stata presentata prima dell’entrata in vigore della norma. I giudici di Cassazione devono ancora pronunciarsi su quel caso (il verdetto è atteso a giorni) ma a Milano, da mesi, le sentenze già si uniformano al principio della non retroattività. Sono numerosi i verdetti che, nel valutare i ricorsi presentati da stranieri a cui era stato negato il permesso di soggiorno richiesto per ragione umanitarie, chiariscono come le nuove previsioni del decreto Salvini “non trovano applicazione ai processi in corso, mancando una norma transitoria che disponga in tal senso per le domande che come quella in esame erano pendenti, alla data di entrata in vigore del decreto, davanti al giudice a seguito del diniego da parte della Commissione territoriale”. I giudici che si occupano di immigrazione - un pool di magistrati delle sezioni Dodicesima e Prima civile - hanno applicato questo criterio a casi molto diversi fra loro. Il decreto Salvini non è stato ritenuto applicabile, ad esempio, in una sentenza dello scorso 21novembre che riguardava un cittadino del Mali che il 6 aprile aveva fatto ricorso contro il rifiuto da parte della Commissione della sua domanda di protezione, motivata da un lungo periodo di sequestro di persona che avrebbe subito nel suo Paese da parte di ribelli armati, a partire dal 2012. In un altro verdetto, del 17 ottobre, i giudici hanno dichiarato non applicabile il decreto Salvini nel decidere sul ricorso di un senegalese che il 28 maggio 2018 aveva impugnato il rifiuto del permesso di protezione internazionale, richiesto in nome dell’estrema povertà della propria famiglia. Questo non significa che i ricorsi degli stranieri siano per forza accolti, ma semplicemente che il giudice continua a decidere considerando l’ipotesi della protezione internazionale, la cui applicazione è stata molto limitata dal governo. Per Vinicio Nardo, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Milano, d’impostazione del tribunale è sacrosanta, la non retroattività è pacifica da un punto di vista giuridico”. Un timore degli avvocati è che il decreto Salvini - quando sarà applicato anche nelle aule di giustizia - produrrà un grande aumento del numero di cause, portando il tribunale alla paralisi. “Quando si toccano i diritti fondamentali delle persone, si verifica sempre un altissimo numero di impugnazioni e una conseguente dilatazione dei tempi”, dice Nardo. Tutto questo in attesa che qualche giudice, ovunque in Italia, decida di sollevare la costituzionalità del decreto stesso di fronte alla Consulta, quando si troverà a doverlo applicare. “La prospettiva molto concreta è che, quando la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi, tutti i procedimenti a livello nazionale saranno congelati in attesa di una decisione”. Se questo dovesse accadere prima del marzo 2020, e se la norma dovesse poi essere dichiarata incostituzionale, a Milano potrebbe non aversi mai una sentenza su un caso di protezione internazionale decisa in base al decreto dello scorso ottobre. Migranti. Gli sgomberi senza metodo producono insicurezza di Stefano Allievi La Stampa, 3 febbraio 2019 Il ministro dell’Interno l’ha già preannunciato: dopo Castelnuovo di Porto, il prossimo passo sarà la chiusura del Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Mineo, il più grosso e discusso d’Italia. È una buona notizia, in sé: a Mineo, tra infiltrazioni mafiose, racket, caporalato, prostituzione e spaccio, c’è più o meno di tutto. E lo si sa da tempo, grazie a inchieste giornalistiche e della magistratura: la sorpresa, semmai, è che sia ancora aperto. A patto però che cambino le modalità di azione. La vicenda di Castelnuovo ha fatto capire alla pubblica opinione che gli sgomberi, se condotti come avvenuto, oltre alla violenza del metodo, sono controproducenti rispetto allo scopo dichiarato: produrre sicurezza. Senza preavviso agli operatori e ai sindaci, interrompendo percorsi di integrazione (di bambini e ragazzi a scuola, di adulti nel lavoro, di apprendimento della lingua), separando le persone, senza conoscere le future destinazioni, senza progettualità, con molte persone che finiranno per strada e diventeranno irregolari, non solo si rischia, ma si ha la matematica certezza di ottenere l’effetto opposto. Perché la sicurezza - è quasi un teorema sociale - è figlia precisamente di percorsi virtuosi di inserimento, di occasioni di integrazione, di costruzione di legame sociale e fiducia, di prospettive. Bene quindi che si proceda alla chiusura dei megacentri. Male che si proceda in questo modo. La preannunciata e benvenuta chiusura del Cara di Mineo costituirà anche una assunzione di responsabilità - non pretendiamo una lezione di umiltà - per il centro-destra, e per la Lega in particolare. L’opinione pubblica è di memoria corta. Ma immaginiamo che qualcuno si ricorderà, per l’occasione, di chi l’ha aperto: un governo Berlusconi, che vedeva al ministero dell’Interno, proprio come oggi, un leghista, Roberto Maroni (mentre i governi di centro-sinistra successivi hanno la grande colpa di non aver fatto nulla per risolvere la questione, man mano che i problemi emergevano in tutta la loro gravità). Del resto era al governo il centro-destra anche all’epoca della sottoscrizione degli sciagurati accordi di Dublino (che rendono responsabile del destino del richiedente asilo il Paese di primo approdo), e del bombardamento in Libia, che ha trasformato il Paese da destinazione finale di flussi migratori, quale era ai tempi di Gheddafi, a Paese di transito verso l’Europa: un grande buco nero in cui prosperano le bande di trafficanti. Non è un problema di scaricabarile politico, che ha poco rilievo. A destra come a sinistra vi sono specifiche colpe, sottovalutazioni, cecità ideologiche, che hanno finito per produrre la situazione in cui ci ritroviamo oggi. Ma riconoscere gli errori del passato, da parte di tutti, è un passo necessario e indispensabile di assunzione di responsabilità collettiva, per poter affrontare seriamente un grande fatto epocale - le migrazioni - che è un problema complesso, dalle molte sfaccettature, e non consente soluzioni semplici, tanto meno semplicistiche. Migranti. SeaWatch, Zuccaro smentisce Salvini: “Nessun reato dall’ong” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 3 febbraio 2019 Aperta un’inchiesta contro ignoti, ma per il procuratore di Catania fu legittima la scelta di non andare in Tunisia. “Nessun rilievo penale” può essere mosso alla Sea Watch 3 per avere salvato i 47 migranti in mare, tra cui quindici minorenni, e neppure per avere scelto di fare rotta verso la Sicilia. A valutare la correttezza dell’equipaggio della nave, sulla base degli elementi raccolti dagli investigatori, è Carmelo Zuccaro, capo della Procura di Catania, che tuttavia ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando l’associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Chi abbia commesso il reato rimane la grande incognita, considerato che il procuratore scagiona del tutto l’equipaggio della Ong tedesca. La nave, battente bandiera olandese e rimasta in mare 19 giorni prima dell’autorizzazione all’approdo a Catania, resta però ancora nel porto alle falde dell’Etna, perché la procura ritiene che si ci siano “dati significativi sull’inidoneità tecnico strutturale della nave a effettuare un’attività sistematica di soccorso in mare” sollevando 32 anomalie riscontrate in seguito ai controlli della guardia costiera. Insomma, Sea Watch ha fatto bene a salvare i migranti ma non può navigare con la missione precisa di soccorrere naufraghi perché lo scafo non sarebbe idoneo. Dai pm comunque non è arrivata alcuna richiesta di sequestro, nonostante qualche giorno fa il ministro degli Interni Matteo Salvini avesse affermato: “Mi risulta che ci siano più elementi di irregolarità nella Sea Watch: col mare in tempesta invece di andare in Tunisia sono venuti in Italia”. Ma la ricostruzione della Procura smentisce il capo del Viminale. Per Zuccaro il soccorso è stato legittimo perché “il gommone”, sul quale si trovavano le 47 persone, “era a rischio affondamento” e nella zona di intervento “da due giorni nessuna motovedetta libica è intervenuta”. Il mancato approdo in Tunisia, spiega il magistrato, è “una scelta giustificata” dal maltempo e dal rifiuto del paese nordafricano di concedere porti alle navi Ong neppure per fare rifornimenti. La stessa marina olandese aveva chiesto alla Tunisia di dare assistenza alla Sea Watch, ma senza ricevere risposta. Per questo, osserva Zuccaro, “non può pertanto ritenersi ingiustificata la scelta del comandante della motonave di dirigersi verso nord alla ricerca di un porto sicuro”. Per la Ong tuttavia “non si tratta di una vittoria”, perché “mai si dovrebbe verificare un tale accanimento contro chi svolge nelle migliori intenzioni un’attività umanitaria che cerca di colmare il vuoto lasciato in un’area dove le persone continuano a morire affogate, quando non sono ricondotte alle terribili vessazioni che trafficanti, aguzzini e carcerieri infliggono loro in Libia. Rispetto alle “anomalie” contestate dai pm, la Ong chiarisce che “nessuna nave, di soccorso e non, indipendentemente dalla sua registrazione, è preposta alla permanenza a bordo per lunghi periodi dei naufraghi soccorsi”. “Nel caso specifico, in data 24 gennaio, la Sea-Watch 3 - sottolinea la Ong - comunicava l’intenzione di dirigersi verso il porto di Siracusa proprio per via della condizione di precaria sicurezza a bordo legata alla situazione di rilievo umanitario risultante dal soccorso e protratta per via della mancata assegnazione di un pos. Tale richiesta ha ricevuto un diniego immotivato da parte delle autorità italiane, che l’hanno quindi deliberatamente costretta a restare in mare, all’ancora, a un miglio dalla costa, per 7 giorni”. Per Nicola Fratoianni (Leu) le valutazioni dei pm “smentiscono i proclami del governo” e dovrebbero indurre “Salvini e Toninelli a chiedere scusa e a nascondersi per la vergogna”, mentre per il presidente del Pd, Matteo Orfini, adesso “la stessa verifica deve essere fatta sull’operato di Salvini e del governo, invece di scappare dal processo”. Medici senza frontiere intanto conferma che i 32 migranti maggiorenni sbarcati dalla Sea Watch “sono stati per due anni prigionieri in Libia in condizioni disumane” e che in “molti mostrano evidenti segni di violenza e tortura”. Il meccanismo di assegnazione ai sette Paesi europei che hanno accettato di diversi la loro accoglienza non ha iter veloci. I precedenti parlano di tempi lunghi, come già accaduto a Pozzallo e a Malta per altri due casi del genere, dove ci sono ancora migranti in attesa di essere trasferiti. Saranno le commissioni di ciascun Paese a stabilire la loro idoneità, cosicché i migranti rimangono al momento dell’hotspot di Messina. Ieri Rossella Muroni, deputata di LeU, ha visitato l’hotspot. “Le persone accolte nel centro di Messina possono cominciare a uscire - dice Muroni - Nulla si sa però sulla loro destinazione. Ed è su questo che chiederò formalmente accesso agli atti. L’Italia deve tornare a essere un Paese civile dove valgono i diritti e l’umanità resta un dovere”. Stati Uniti. Trentamila bambini migranti del Guatemala “prigionieri” in Messico Nicola Nicoletti Avvenire, 3 febbraio 2019 Lo conferma l’Unicef con i dati relativi alle Carovane del 2018. E Trump insiste: legge d’emergenza per finanziare il muro se non c’è l’accordo alla Camera entro il 15 febbraio. Il presidente Usa Donald Trump conferma al “New York Times” di essere pronto a dichiarare l’emergenza nazionale per costruire il muro al confine con il Messico. “È tutto pronto, ho creato le condizioni per fare quello che farò”, ha detto il presidente rispondendo a una domanda. Il “piano B”, rivelato ieri dai media, dovrebbe scattare se l’accordo per evitare un nuovo shutdown il 15 febbraio non includerà i soldi per il muro. “Aspetterò fino al 15. Ma penso sia una perdita di tempo”, ha detto. Poco prima Trump era tornato anche sulla questione dello scontro con i democratici alla Camera: “Un accordo senza muro col Messico non funziona. Sta giocando” aveva detto Trump rispondendo alla speaker della Camera Nancy Pelosi, la quale aveva ribadito che “non ci sarà nemmeno un soldo” nel testo che repubblicani e democratici stanno negoziando per evitare un nuovo shutdown il prossimo 15 febbraio. “Pelosi pregherà per un muro”, ha aggiunto, ricordando l’arrivo di nuove carovane di migranti dall’Honduras. Intanto emerge che nel 2018 oltre 30mila bambini arrivati da Honduras, Guatemala ed El Salvador sono stati trattenuti temporaneamente in centri di detenzione in Messico. Numeri che parlano chiaro di come, assieme ai loro genitori, anche i figli hanno preso parte alle carovane del migrante e a tutti i gruppi di migranti che si sono messi in marcia nell’ultimo anno. Caldo, freddo, fame, stanchezza hanno colpito anche i piccoli viaggiatori, denuncia l’Unicef per bocca della sua portavoce Paloma Escudero. La violenza e l’instabilità politica dei Paesi di provenienza rimangono i motivi per i quali queste famiglie sono partite per arrivare in Messico e poi, magari, passare la frontiera per gli Usa. Il 17 gennaio 2019 oltre 12 mila persone, fra cui tremila bambini, hanno compiuto il percorso da Tecun Uman, in Guatemala, fino a Tapachula, confine sud del Messico, dove la rappresentante dell’Unicef si è recata per constatare le condizioni dei bimbi. Il rischio della divisione dalle loro famiglie è un serio pericolo per la sicurezza anche psicologica dei piccoli migranti. “Sia che questi bambini rimangano in Messico sia che procedano verso nord, è fondamentale che rimangano con le loro famiglie, che non finiscano nei centri di detenzione e che vengano protetti durante tutto il viaggio”, spiega la Escobedo. Anche se il Messico sta attuando misure sempre maggiori per salvaguardare i diritti dei bambini in transito o che chiedono asilo nel Paese, persistono degli ostacoli. In Chiapas, a Tapachula, in un centro che ospita circa 1000 migranti, la Escobedo ha visto madri e bambini dormire sul pavimento e nei corridoi. Molti non sanno cosa sarebbe successo e quando avranno il permesso di lasciare il centro. L’Unicef sta fornendo assistenza tecnica diretta all’Agenzia per l’Assistenza sociale e alle Autorità per la Protezione dell’infanzia per assicurare che i bambini non accompagnati ricevano cure e attenzioni. Non sono pochi i minori che viaggiano completamente da soli. Al trauma di violenza e povertà che avevano a casa loro, questi ragazzini stanno sperimentando quello dello sfollamento e dell’insicurezza di viaggio troppo lungo”, ha dichiarato la portavoce dell’Unicef mentre 3mila bambini in queste ore aspettano il visto di permanenza in Messico. Turchia. Le richieste dei curdi in sciopero della fame devono essere accolte di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2019 Possibilmente mentre sono ancora vivi. Stando a quanto dichiarava qualche giorno fa il medico Fahrettin Gulsen, gli attivisti curdi in sciopero della fame “non accettano alcun trattamento e ogni infiammazione potrebbe propagarsi ai polmoni. Questa eventualità è quella che al momento ci preoccupa maggiormente. Ne abbiamo parlato con loro proponendo di sottoporli a un trattamento medico, ma hanno risposto negativamente”. Da ormai 50 giorni Fahrettin Gulsen si occupa della salute di 14 curdi in sciopero della fame a Strasburgo e nell’intervista appariva seriamente preoccupato. “In tutti gli scioperanti - aveva aggiunto - abbiamo riscontrato un problema di acufene agli orecchi (ronzii, fischi a livello interno in mancanza di suoni o rumori nda). Rileviamo inoltre problemi di nausea, praticamente in tutti i militanti mentre fino a qualche giorno fa solo alcuni ne erano afflitti”. Il medico ha poi dato conferma che i curdi in sciopero della fame soffrono di problemi legati alla pressione arteriosa con conseguenti sintomi quali vertigini, insonnia, debolezza. “Alcuni - ha riferito - non riescono a dormire che per una o due ore al giorno”. Si tratterebbe comunque di “sintomi gravi”. In alcuni di loro, già dal 43° giorno di sciopero, abbiamo riscontrato evidenti tremori. Quanto alla percentuale di zuccheri nel sangue, Gulsen ha riferito di “serie fluttuazioni”. Per esempio nei militanti con un tasso di glucosio più basso “abbiamo riscontrato un significativo aumento man mano che i giorni di sciopero si allungavano. Riteniamo che tale aumento del tasso di glucosio nel sangue potrebbe causare danni irreversibili e che in futuro potrebbero insorgere problemi di natura cardiaca”. Inoltre gli attivisti sono maggiormente esposti al rischio di infezioni in quanto il loro sistema di difesa immunitaria è più debole e tale rischio aumenta anche a causa delle tante persone che vengono a visitarli per solidarietà. Il medico non esclude che possano avvenire dei decessi, almeno fintanto che gli scioperanti rifiutano ogni genere di cura. La perdita di peso è ugualmente importante così come la carenza di proteine. Infatti comporta sia una aumento della fatica muscolare, sia un calo della vista. Ha poi voluto specificare come i sintomi riscontrati non fossero “normali già dopo 43 giorni di sciopero della fame”. Si tratterebbe quantomeno di “sintomi precoci”. E infine Gulsen ha concluso con un appello affinché “le richieste degli attivisti (principalmente la fine dell’isolamento per Ocalan come richiesto da molteplici organismi internazionali e da personalità della cultura e della politica nda) vengano soddisfatte nel migliore dei modi così che la loro protesta giunga a conclusione senza ulteriori complicazioni, senza danni permanenti per la loro salute”. Ancora più seria la situazione di Leyla Guven, l’esponente curda uscita di prigione il 25 gennaio (ma le accuse nei suoi confronti rimangono in piedi, tutte) che ha voluto proseguire nella protesta. Ormai in sciopero della fame da circa 90 giorni, si nutre solo con sale e vitamine. Identica la sua richiesta: porre fine al disumano isolamento per il leader curdo, fondatore del PKK, Abdullah Ocalan. La parlamentare di HDP era stata arrestata nel 2018 in quanto aveva contestato gli attacchi dell’esercito turco contro il cantone curdo-siriano di Afrin. Anche nel suo caso i medici si mostrano alquanto preoccupati. Leyla ha perso peso e massa muscolare, soffre di febbre e nausea e i suoi organi interni rischiano di collassare. Non ha perso comunque la sua determinazione: “Se quel tiranno fascista (un evidente riferimento a Erdogan nda) vuole che noi paghiamo un prezzo, ebbene, in quanto donna curda sono disposta a pagarlo e contenta di farlo” ha dichiarato in questi giorni. Al momento della liberazione, Leyla aveva detto di aver avuto qualche difficoltà nel lasciare la cella nel carcere di Amed in quanto “quello è il luogo dove la mia resistenza era iniziata, dove i muri sono impregnati dello spirito della resistenza del 14 luglio (il riferimento è alla resistenza dei prigionieri del Pkk del 14 luglio 1984 nda). Qui ho percepito concretamente tale spiritualità e sto cercando di preservare quel sentimento”. Si era poi rivolta a quanti dall’esterno avevano supportato la sua azione di protesta, a coloro che avevano raccolto e divulgato le rivendicazioni dei militanti in sciopero “espandendo la resistenza ovunque”. “Io ho compiuto il primo passo - ha ricordato - ma ora i prigionieri nelle carceri lo stanno portando avanti. Ècon entusiasmo che dalle prigioni verrà infranto quel crimine contro l’umanità che è l’isolamento e nessuno dovrà più esservi sottoposto”. Venezuela. Amnesty: le autorità devono rilasciare i giornalisti detenuti welfarenetwork.it, 3 febbraio 2019 Con riferimento alle notizie sulla detenzione di almeno 11 giornalisti in Venezuela questa settimana, Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe, ha dichiarato: “La detenzione di giornalisti è un palese e profondamente preoccupante attacco alla libertà di espressione e al diritto alla verità, nel vano tentativo di impedire al mondo di vedere le massicce violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità venezuelane”. “Una stampa libera è fondamentale per la difesa dei diritti umani in qualsiasi paese del mondo. Le autorità venezuelane devono garantire che i giornalisti siano in grado di lavorare in condizioni di sicurezza senza timore di rappresaglie, ordinare immediatamente il rilascio incondizionato di tutti i membri della stampa che restano in detenzione e astenersi dal deportare giornalisti stranieri che coprono le proteste in corso e la crisi istituzionale”. Iran. Impiccati 11 detenuti per traffico droga progettoitalianews.net, 3 febbraio 2019 Ieri, in un carcere di Shiraz nell’Iran centrale, è stata eseguita l’impiccagione di undici detenuti condannati per traffico di droga. Le esecuzioni per droga sono frequenti in Iran, dove si rischia la pena di morte anche per stupro, adulterio e rapina a mano armata. Il traffico di droga è un fenomeno che preoccupa nella Repubblica islamica, Paese di transito per il contrabbando di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan, principale produttore mondiale di oppio, col quale ha in comune 900 km di confine.