Tre milioni nel 2019 per lavori di pubblica utilità di Valentina Stella Il Dubbio, 2 febbraio 2019 Accordo tra il capo dell’amministrazione penitenziaria e la Cassa ammende presieduta dall’ex magistrato Gherardo Colombo. Stanziati da Cassa Ammende circa 3 milioni di euro per la copertura nel 2019 di circa 3.000 sussidi ad altrettanti detenuti selezionati per svolgere lavori di pubblica utilità. È l’accordo che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha raggiunto con la Cassa presieduta dall’ex magistrato Gherardo Colombo. Tutti i detenuti coinvolti ricevono un corso di formazione qualificante e dopo un primo periodo di attività gratuita prevista dalla legge potranno ottenere un sussidio finanziato da Cassa delle Ammende. In particolare, a Roma, come annunciato dalla Garante dei diritti dei detenuti della Capitale, Gabriella Stramaccioni “saranno attivati presto sussidi relativi a rimborsi spesa per 150 detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso, 50 di Rebibbia penale e 20 dell’istituto femminile. Verranno erogati per l’attività da loro svolta in forma volontaria così come previsto dalla legge. Il sussidio verrà erogato direttamente all’istituto penitenziario di provenienza e finalizzato alle esigenze dei detenuti stessi”. L’iniziativa si inserisce nel filone che Basentini, appena arrivato al Dap aveva individuato: “Migliorare la condizione di vita del detenuto nelle carceri, trovargli possibilità di lavoro attraverso dei protocolli”. Proprio qualche giorno fa nella Capitale, alla presenza della Sindaca Raggi e del Capo del Dap, hanno preso il via i primi lavori di manutenzione da parte dei detenuti asfaltatori di Rebibbia di alcuni tratti stradali di Roma. A loro sarà affidato anche il compito di riparare le buche, che stanno mettendo a dura prova la pazienza dei romani, sempre sotto il controllo della polizia penitenziaria. I 30 reclusi selezionati e formati da Autostrade per l’Italia al termine riceveranno un attestato professionale per operare in qualità di asfaltatori e manutentori di strade, un volta scontata la pena. Si tratta del primo di dieci interventi di pubblica utilità che saranno svolti nell’ambito del protocollo d’intesa tra Roma Capitale, Dap e Società Autostrade, firmato il 7 agosto scorso. È nato in questo modo il format “Mi Riscatto per…”, nuovo e moderno esempio di best practice per il reinserimento sociale che, dopo la Capitale, altre città - Milano, Palermo, Napoli, Torino - stanno bissando con successo, dando piena esecuzione all’articolo 20 ter del Decreto Legislativo del 2 ottobre 2018 n. 124, relativo alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Seguiranno a breve nuove intese con i Comuni di Firenze, Venezia, Potenza, Bari, Lecce, Catania e Catanzaro. Le Città Metropolitane aderenti al format “Mi Riscatto per…” in particolare quantificano di volta in volta il risparmio ottenuto dal lavoro dei detenuti, così al termine del lavoro di pubblica utilità il recluso otterrà dal Giudice di Sorveglianza la remissione del debito. “Questo - ha dichiarato Vincenzo Lo Cascio, responsabile della Task - force lavori di pubblica utilità - costituisce un passaggio importante per la vita di questa persona una volta che avrà scontato la pena e sarà uscita dal carcere: il debito accumulato con lo Stato per il mantenimento in carcere è infatti una delle cause, se non la principale, per cui il detenuto non cerca un lavoro in regola una volta fuori”. Potrebbe esserci anche un risvolto internazionale: il Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) in Messico ha scritto al Ministro Bonafede e al Capo del Dap che “Mi riscatto per Roma può essere di grande interesse per il Messico e per questo abbiamo intenzione di verificarne la sua trasferibilità”. Per una giustizia riparativa, carcere extrema ratio: le proposte del Cnca nelpaese.it, 2 febbraio 2019 Pensare di affrontare una questione complessa come quella della giustizia penale con un demagogico “chiudiamoli tutti in galera e buttiamo la chiave” significa non fare i conti con i tanti, gravi limiti del carcere e con un dato di fatto incontrovertibile: le misure alternative alla detenzione e i percorsi di accompagnamento all’uscita dal carcere - un detenuto su quattro, terminata la pena, non sa dove andare - producono un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%. Più carcere non significa più sicurezza, semmai il contrario. E la giustizia riparativa - un modello che mette al centro non solo l’autore del reato, ma anche la vittima e la comunità coinvolta nel reato - è un riferimento fondamentale per costruire nuove pratiche di giustizia che sappiano davvero farsi carico della sofferenza che i reati producono, abbassare la conflittualità sociale e prevenire nuovi illeciti. Questo ha dichiarato Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), aprendo oggi a Roma il convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”, organizzato dal Cnca in collaborazione con il Coordinamento Italiano Case Alloggio/Aids (Cica). L’incontro è l’evento finale del progetto “La pena oltre il carcere”, l’iniziativa finanziata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e realizzata dal Cnca, in partenariato con Cica, che si è proposta di conoscere e sperimentare esperienze innovative nell’ambito delle pratiche di giustizia riparativa nelle organizzazioni associate ai due coordinamenti, al fine di favorire il recupero sociale di detenuti, ex detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria sia adulti sia minori. Cambiare paradigma - La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dei condannati e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, che si preoccupa solo di punire il reo con il carcere e la vergogna. “L’interesse per la giustizia riparativa”, ha spiegato il presidente del Cnca, “non è certo casuale. Nell’ultimo decennio le nostre organizzazioni hanno incontrato sempre più la realtà del carcere, impegnandosi in percorsi di messa alla prova dei minorenni, ma anche per contenere i danni di leggi carcerogene come la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione: nel 1990 i detenuti erano 36.300, nel 2018 ben 60mila, a cui vanno aggiunte le persone in misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova, che erano, al 30 novembre 2018, quasi altrettante (54.682); il 30% dei detenuti nelle carceri italiane è punito per violazione della legislazione sulle droghe contro il 15%della media europea (per i reati economico-finanziari sono nelle carceri italiane lo 0,4% dei detenuti contro una media europea dieci volte superiore; in Germania il numero di detenuti per reati in materia di droghe è pressoché pari a quello dei detenuti per reati economico-finanziari). Nello stesso periodo di tempo è scoppiata la questione carcere: un sovraffollamento talmente grave da determinare una sentenza di condanna del nostro paese da parte della Corte europea per i diritti umani. Un’onta che rischia di ripetersi presto: al 30 novembre 2018, si trovavano in carcere 60mila detenuti, 10mila in più rispetto ai posti disponibili. Le condizioni di vita nei penitenziari sono spesso insostenibili. Nel 2018 sono morte in carcere 148 persone. Di esse, ben 67 per suicidio. E nei penitenziari italiani sono rinchiuse 45 madri con 55 bambini, anch’essi, di fatto, detenuti.” “Dobbiamo cambiare paradigma”, ha affermato De Facci. “Il carcere va inteso come extrema ratio. La giustizia riparativa è un approccio che non chiama in causa solo il livello giuridico, ma il contesto sociale e, dunque, il sistema delle politiche sociali senza il quale non è possibile realizzare percorsi efficaci per ridurre i reati e le cause che li generano. Noi pensiamo che le nostre comunità locali debbano imparare a riparare piuttosto che a buttare via ciò che si è rotto”. “L’aspetto culturale è cruciale”, ha confermato Paolo Meli, presidente del Cica. “Le nostre comunità di accoglienza ospitano persone sieropositive e malate di Aids, alcune con problemi di carattere penale. Nel loro caso, allo stigma dell’Aids si unisce quello della detenzione. Ciò genera anche auto-stigma e ulteriore chiusura in sé con la conseguente rinuncia a investire in un futuro possibile e diverso. L’approccio della giustizia riparativa può aiutare ad affrontare questo triplo stigma che rischia di essere letale per gli individui e per la collettività, e per il quale sono necessarie anche azioni continuative di informazione, sensibilizzazione e formazione.” Proposte per far partire davvero la giustizia riparativa in Italia - “La giustizia riparativa sta muovendo i primi passi nel nostro paese”, ha notato ancora De Facci. Il progetto “La pena oltre il carcere” - a cui hanno dato un contributo determinante e assai competente sia la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova sia il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia - è stato l’occasione per le nostre organizzazioni aderenti, per tanti operatori del terzo settore e delle istituzioni pubbliche coinvolti in diversi appuntamenti di scambio e conoscenza in questi mesi, di cominciare a ragionare insieme su questo approccio. Un confronto da cui sono emerse diverse proposte per affermare la giustizia riparativa nel nostro paese: riprendere la riflessione istituzionale aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale, che avevano dedicato un approfondimento specifico al tema della giustizia riparativa e della giustizia di comunità. È auspicabile che il Governo in carica, contrariamente ai segnali mandati finora, comprenda l’importanza di un tale lavoro e proceda nella stessa direzione; destinare finanziamenti adeguati per implementare interventi di giustizia riparativa e misure alternative al carcere. Al momento, gli stanziamenti sono del tutto insufficienti; costruire sui territori luoghi di collaborazione inter-istituzionale e con tutti i soggetti del terzo settore e della comunità locale interessati, spazi che siano in grado di coordinare l’attività dei diversi attori. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha realizzato una rete istituzionale di referenti regionali per la giustizia riparativa, che costituisce un primo passo nella giusta direzione; implementare iniziative di formazione - d’intesa con le strutture del Ministero della Giustizia competenti - per formare operatori in grado di svolgere in modo professionale il ruolo di mediatori-facilitatori dei processi di giustizia riparativa; nell’ambito della giustizia minorile è essenziale che accanto alla messa alla prova - una misura sperimentata con successo da 30 anni esatti - siano attivati percorsi più squisitamente connessi al modello della giustizia riparativa; nel campo della giustizia riferita agli adulti, va evitato che la messa alla prova - introdotta nell’ordinamento per i maggiorenni solo tre anni fa - sia utilizzata solo in una logica di riduzione delle presenze in carcere. Un modello per valutare l’impatto sociale - Il convegno è stato l’occasione anche per presentare il modello di valutazione dell’impatto sociale messo a punto dal Cnca in collaborazione con Luigi Corvo, docente di Imprenditoria sociale e innovazione presso il Dipartimento di Management e Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata. Il modello è stato impiegato per valutare la ricaduta sociale degli interventi realizzati in favore di detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria dalle organizzazioni coinvolte nel progetto “La pena oltre il carcere”. “È il contributo del Cnca al dibattito sul tema”, ha spiegato De Facci. “Siamo convinti che l’impatto sociale non sia solo un elemento per esercitare funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo delle attività del terzo settore, come sembrerebbe in alcune prese di posizione, ma un elemento costitutivo della definizione di impresa sociale. E riteniamo che non sia importante solo cosa fai, ma anche chi sei e come fai le cose”. “Per avere una giustizia giusta, capace di affrontare la solitudine della vittima e di responsabilizzare individui e comunità”, ha concluso De Facci, “serve un grande investimento collettivo. Va fatto subito. Per non vedere ancora persone morire di carcere e per smettere di attizzare una rabbia sociale che non fa bene alla vita democratica.” Mauro Palma: non banalizzare, meglio parlare di ricostruzione dei legami sociali “La giustizia riparativa presenta un rischio, se la si banalizza: pensare che si limiti a un rapporto binario fra autore e vittima”. Lo ha detto Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, durante il convegno promosso oggi a Roma da Cnca e Cica. “Attualmente - ha continuato -, anche da parte della stampa c’è la richiesta che al carcere si accompagni la sofferenza per il detenuto. Come, per esempio, nel caso Battisti è stato sottolineato che, tornato in Italia, sia stato assicurato a sei mesi di isolamento dimenticando che la misura fosse normalmente prevista”. “Quando parliamo di rieducazione - ha osservato - ciò ha a che vedere con il sociale e non con l’etica. Compito delle istituzioni infatti è la reintroduzione sociale”. “Non uso il termine riparativa ma di giustizia ricostruttiva dei legami sociali perché il reato non si ripara. La ricostruzione avviene lungo due direttrici: una che guarda al passato e una al futuro. Nel passato c’è il riconoscimento dell’aggressione del bene e di chi lo ha subito. La vittima ha il diritto a veder riconosciuto come male quello che ha subito. La direttrice in avanti ha tre aspetti: il primo è non volere che si ripeta ciò che è avvenuto, il secondo è rappresentato dalle strategie, il terzo è che tutti gli attori si sentano coinvolti”. “Come rispondiamo al reato? dovrebbe essere la domanda, non come puniamo il reo? - ha criticato il garante. Piuttosto di parlare di pena parlo di progetto e invece di parlare di singolo, parlo di più attori. È un percorso molto complesso e solo attraverso l’accettazione di questa complessità possiamo non fare degli errori”. Infine, il monito: “Non bisogna cadere nel pericolo che la risposta al reato sia privatizzata”. Allarme violenza nelle carceri italiane di Silvia Mancinelli Il Tempo, 2 febbraio 2019 Diecimila quattrocento ventitré atti di autolesionismo compiuti dietro le sbarre delle carceri italiane nel 2018, quasi mille in più rispetto ai 9.510 dell’anno precedente. Un dato enorme che fa ancora più impressione se letto così: quasi ventinove detenuti ogni giorno provano a farsi del male, a uccidersi, spesso riuscendoci. A denunciare il fenomeno in aumento è il sindacato autonomo della polizia penitenziaria puntando il dito, ancora una volta, contro la vigilanza dinamica e quindi la sensibile riduzione di controlli da parte degli agenti. “La situazione si è notevolmente aggravata rispetto al 2017 - spiega il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Su 10.423 atti di autolesionismo, 1.198 sono tentati suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria (nel 2017 furono 1.135), 7.784 le colluttazioni (che erano state 7.446 l’anno prima). Alto anche il numero dei ferimenti, 1.159, e dei tentati omicidi in carcere, che nel 2018 sono stati 5 e nel 2017 furono 2. La cosa grave è che questi numeri si sono concretizzati proprio quando sempre più carceri hanno introdotto il regime penitenziario “aperto”, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le sezioni detentive e controlli sporadici e occasionali della Polizia Penitenziaria”. I dati in questione riguardano soprattutto detenuti stranieri, che oggi nelle carceri italiane sono più di 20mila. I ferimenti da loro commessi sono stati 624 (551 quelli degli italiani), le colluttazioni 4.142 (contro le 3.304 dei nostri connazionali), 587 i tentati suicidi (rispetto ai 557 messi in atto da italiani) e ben 5.708 gli atti di autolesionismo (che sono stati 3.802 per i detenuti “di casa”). “Lasciare le celle aperte più di otto ore al giorno senza far fare nulla ai detenuti, come lavorare, studiare, essere impegnati in una qualsiasi attività, è controproducente perché lascia i detenuti nell’apatia - aggiunge Capece. Non riconoscerlo vuol dire essere demagoghi e ipocriti. La proposta del sindacato è quindi di sospendere la vigilanza dinamica: sono state smantellate le politiche di sicurezza delle carceri, con detenuti fuori dalle celle per ore e venticinquenni che incomprensibilmente continuano ad essere ristretti in carceri minorili”. Ma non solo il sistema aperto e meno controllato: il sindacato dei baschi azzurri punta infatti il dito anche contro l’impennata negli ultimi dieci anni dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni Novanta sono passati oggi ad essere oltre 20mila. “Far scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia” commentano dal Sappe. “Ma l’Amministrazione Penitenziaria guidata da Francesco Basentini fa poco o nulla su questo, preferendo esser forte con i deboli”, conclude Capece commentando la decisione del Capo Dap di sospendere dal servizio il poliziotto penitenziario di Campobasso che ha sventato, con altri colleghi, l’evasione di un detenuto utilizzando metodi non proprio “ortodossi”. Il trentasettenne romano, recluso nella struttura penitenziaria per rapina e furto, aveva tentato di dileguarsi appena sceso dall’automezzo della Polizia che lo aveva riportato in carcere dopo una visita medica in ospedale. Il video amatoriale girato in strada, e diventato virale, immortala due dei tre agenti mentre puntano la pistola contro l’uomo, già colpito con uno schiaffo. Assistenza ad agenti Penitenziaria. Firmato accordo Dap-Ordine Psicologi di Marco Belli gnewsonline.it, 2 febbraio 2019 Monitorare e verificare periodicamente lo stato psicologico del singolo operatore di Polizia Penitenziaria per fornirgli una forma di ausilio e sostegno nei casi in cui si manifestino sintomi di disagio e di disadattamento. È l’obiettivo che si sono prefissati il Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise, per conto del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e l’Ordine degli Psicologi del Lazio con il protocollo d’intesa firmato qualche giorno fa. L’accordo intende promuovere il benessere organizzativo degli operatori penitenziari e le misure di contrasto del disagio all’interno del contesto lavorativo, al fine di migliorare nel complesso le condizioni di lavoro del personale che svolge le sue mansioni quotidianamente in istituto. In particolare ogni volta che singoli operatori manifestino sintomi di disagio e disadattamento, sarà attivata una procedura di ausilio e sostegno coordinata dalla rete professionale di counseling psicologico e di psicoterapia messa a disposizione dall’Ordine degli Psicologi. Inoltre, saranno predisposti una serie di seminari con incontri finalizzati a fornire attività professionale di natura informativa e formativa per sensibilizzare gli operatori penitenziari riguardo all’importanza della possibilità di chiedere un aiuto professionale in caso di disagi particolarmente significativi a livello relazionale. Il protocollo, sottoscritto dal Provveditore regionale Cinzia Calandrino e dal vice presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio Pietro Stampa, avrà validità fino al 31 dicembre prossimo e potrà essere tacitamente rinnovato per un altro anno. Per l’attuazione delle iniziative previste nell’intesa viene infine istituito un Comitato paritetico composto da tre rappresentanti per ciascuna parte, con il compito di definire contenuti e modalità delle iniziative, monitorare lo stato di attuazione delle stesse e i risultati conseguiti e individuare le misure da adottare per la risoluzione delle problematiche eventualmente evidenziate. Educazione al dovere per conquistare i diritti di Alberto Brambilla Corriere della Sera, 2 febbraio 2019 I politici parlano poco degli adempimenti dei quali tutti devono farsi carico che costituiscono la condizione per le prerogative dei singoli. Se riavvolgete il nastro delle dichiarazioni di politici, professori, giornalisti, laici, religiosi e così via degli ultimi anni scoprirete che la parola più usata è “diritto”, seguita da “lotta alle disuguaglianze”, “non lasceremo indietro nessuno” e “eliminare o ridurre la povertà”; la parola meno usata è “dovere” seguita da “rafforziamo le nostre coscienze”. Eppure se ci riflettiamo bene non possono esistere i diritti senza i doveri. “L’adempimento del dovere per ogni individuo è un prerequisito per i diritti di tutti. Diritti e doveri sono interrelati in ogni attività sociale e politica dell’uomo. Mentre i diritti esaltano la libertà individuale, i doveri esprimono la dignità di quella libertà”. Questa la sintesi della Dichiarazione americana dei diritti e doveri dell’uomo, adottata nell’aprile del 1948, che nei 37 articoli contiene un elenco dei diritti, civili e politici, economici, sociali e culturali delle persone, ma altresì un elenco dei doveri che le stesse hanno nei confronti dei propri simili e della società. Potremmo dire che la dichiarazione americana è differente e in un certo senso (considerando la differenza temporale) completa quella post rivoluzione francese perché introduce un prerequisito ai diritti che è il dovere di cui parla, in un documento che presenta ancor oggi tutta la sua forza e attualità, Giuseppe Mazzini nel suo Doveri dell’uomo dell’aprile del 1860; leggiamo: “La cultura del diritto ha generato uomini che si sono impegnati nel miglioramento della propria condizione senza provvedere a quella degli altri; in conseguenza della teoria dei Diritti, gli uomini, privati di una credenza comune, calpestano le teste dei loro fratelli... È dunque una questione di educazione. Educazione a un principio: il Dovere. Attraverso l’educazione al Dovere si può arrivare a comprendere che lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori. Questo non vuol dire rinunciare ai diritti, bensì arrivare al loro raggiungimento attraverso la pratica dei Doveri. Quando udite dire dagli uomini che predicano un cambiamento sociale che lo fanno per accrescere i vostri diritti, è opportuno diffidare della proposta perché loro conoscono i mali che vi affliggono e la loro condizione di privilegio giudica quei mali come una triste necessità dell’ordine sociale; per questo lasciano la cura dei rimedi alle generazioni che verranno”. È di 159 anni fa ma sembra un testo scritto a seguito di questi ultimi 10 anni in cui i vari governi che si sono alternati (ben 5) hanno parlato solo di diritti e non di doveri, fatto una quantità di promesse che sono sfociate in una spesa sociale per assistenza passata dai 60 miliardi del 2008 ai 110 miliardi di trasferimenti all’Inps del 2017; a questi si dovrebbero sommare i circa 10 miliardi spesi dagli enti locali per l’assistenza (stima Rgs) e gli oltre 12 miliardi di euro spesi dagli enti locali e dalle istituzioni centrali per la funzione casa (regole Sespross 2010 per gli esperti). In totale quindi oltre 130 miliardi spesi con pochi controlli (secondo una indagine della Guardia di Finanza, 6 dichiarazioni Isee su 10 per ottenere sconti all’università, sui ticket sanitari, sulla casa e così via, sono false) e dispersi in oltre 30-40 misure senza uno straccio di banca dati dell’assistenza (a differenza di quanto accade in Germani, Svizzera e altri Paesi) per censire le erogazioni a livello individuale (codice fiscale) e familiari. Ma nonostante questo enorme esborso, difficilmente sostenibile nei prossimi anni, i livelli di povertà non sono diminuiti e i diritti non sono aumentati. Perché un’enorme massa di malati, nel momento peggiore della loro vita, deve migrare negli ospedali del Nord per avere cure decenti? Eppure la spesa sanitaria pro capite varia di poco da Regione a Regione. Si dice malasanità ma si dovrebbe dire mancanza di un minimo di senso del dovere di chi è pagato per curare. E così pure per gli abusi edilizi, per i mancati controlli sui lavoratori in nero e sui falsi invalidi, sugli evasori e così via. Molto spesso la mancanza di diritti è causata da quelli che non fanno il proprio dovere, la povertà economica deriva dalla povertà educativa e sociale e i mancati diritti dei bambini spesso sono causati dai loro genitori. L’impegno di tutti in questo 2019 dovrebbe essere quello di indicare a fronte di ciascun diritto il dovere equivalente (dichiarazione americana); non promettere solo soldi o prestazioni assistenziali ma dare educazione (Mazzini) e migliorare le coscienze di tutti noi verso gli altri. Aumenterebbero i diritti, si ridurrebbe la spesa e sarebbe una società migliore. Caso Diciotti, i giudici e l’accusa a Salvini: “Scelta politica? Sì ma c’è il reato” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 febbraio 2019 La difesa del ministro dell’Interno e le valutazioni del Tribunale: violata la Costituzione. Che dietro la decisione di Matteo Salvini ci fosse la “volontà politica” di attuare il suo programma elettorale e di governo in tema di immigrazione, l’ha riconosciuto anche il Tribunale dei ministri che chiede di processarlo per sequestro di persona. Sono i tre giudici di Catania, infatti, a scrivere nella relazione inviata al Senato che la scelta dei ministro dell’Interno di non far scendere i 177 profughi dalla nave Diciotti “non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri”. La linea del governo - Esattamente la linea del governo, quindi, rivendicata pure dal premier Conte, e dall’altro vice-premier Luigi Di Maio. È su queste basi che, secondo l’autodifesa di Salvini, si fonda il “perseguimento di un preminente interesse pubblico” che dovrebbe portare la Giunta e l’assemblea dei palazzo Madama a negare l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Ed è su questo punto che, sgombrato il campo da equivoci più o meno strumentali sull’immunità parlamentare e il garantismo, si dovranno pronunciare i senatori. Compresi quelli del Movimento Cinque stelle. I quali tuttavia sono chiamati a fare i conti pure con le valutazioni che proprio su questo aspetto ha già fatto il Tribunale dei ministri, in attesa che la Camera di appartenenza del ministro pronunci l’ultima parola. Se infatti il procuratore Carmelo Zuccaro, nella sua richiesta di archiviazione, ha ritenuto di doversi fermare davanti alla “scelta politica che competeva al ministro nella sua veste istituzionale”, e “come tale insindacabile da parte del giudice penale”, il tribunale afferma che le conseguenze non sono così scontate. Obblighi costituzionali - “Le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in luogo sicuro”, scrivono i tre giudici del collegio. Ricordando le sentenze della Corte costituzionale secondo cui “la discrezionalità nella gestione dei fenomeni migratori incontra chiari limiti, sotto il profilo della conformità alla Costituzione e del bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale, trattandosi di un bene che non può subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati”. È ciò che non sarebbe avvenuto nel caso della Diciotti. Migranti nell’hotspot - Secondo il tribunale Salvini poteva perseguire il proprio obiettivo politico senza violare i trattati e le altre norme richiamate dai giudici: “Le persone soccorse ben potevano, in conformità alle Convenzioni internazionali vigenti, essere tempestivamente sbarcate ed avviate all’hotspot di prima accoglienza per l’attività di identificazione, salvo poi, in caso di esito positivo della riunione del 24 agosto (quella in cui l’Unione europea avrebbe dovuto rispondere alle richieste italiane, ndr), essere smistate negli hotspot di destinazione secondo gli accordi eventualmente raggiunti a livello europeo”. La vicenda - Queste considerazioni del tribunale partono dal presupposto che quando Salvini ha avviato il braccio di ferro non concedendo il permesso di sbarco richiesto dalla Guardia costiera, i 177 migranti bloccati a bordo della Diciotti fossero già in territorio italiano. Il ministro continua a ripetere che in quell’occasione ha “difeso i confini del Paese”, ma i profughi soccorsi e accolti sulla motonave militare li avevano attraversati da tempo. Si trovavano in Italia, e secondo i giudici non c’erano ragioni - né politiche né di altro genere - per non farli scendere e identificarli secondo le procedure già predisposte dalle autorità di pubblica sicurezza. Che, come hanno spiegato i funzionari del Viminale interrogati, avevano deciso di far attraccare la Diciotti a Messina poiché i migranti dovevano essere portati nel centro di raccolta di quella città. All’ultimo momento, invece, è arrivato l’ordine di far attraccare la Diciotti a Catania. Pier Ferdinando Casini: “La magistratura non può sindacare il governo” di Tommaso Labate Corriere della Sera, 2 febbraio 2019 Presidente Casini, come voterà su Salvini? “Sto riflettendo con molta serietà. Ma un presupposto mi è chiaro. Il tema non è Salvini. Questa è una questione che riguarda l’equilibrio istituzionale tra poteri dello Stato. Tutti dovranno farci i conti perché, stavolta, di scorciatoie non ve ne saranno. Per nessuno”. Si riferisce ai M5S? “Qua tutti pensano di lavarsi la coscienza in questa disputa pro o contro Salvini. Il Pd, che osteggia Salvini, voterà per consegnarlo ai giudici. Il M5S, che con Salvini governa, sta iniziando una lunga retromarcia che forse li porterà a votare a favore. Ciascuno, così facendo, si arrenderà a evitare, per l’ennesima volta, il tema di come il Parlamento rischia di essere subordinato alla magistratura. Il M5S, poi, non potrà andare avanti con la sua idea originaria di un giustizialismo fine a se stesso, sulla quale tra l’altro è nato e cresciuto”. In che senso? “Se votano a favore di Salvini non potranno continuare a sostenere che tutte le volte che il Parlamento nega un’autorizzazione in realtà sta semplicemente usurpando la politica salvifica dei magistrati”. Dunque voterà contro la richiesta dei giudici. “Il mio giudizio politico su Salvini è chiarissimo. Da ministro sta instillando un pericoloso veleno sui temi dell’immigrazione e non solo, per questo mi sono espresso decine di volte contro di lui in Senato. Ma non si tratta di votare contro o a favore del politico Salvini. Qua si tratta di decidere su un delicatissimo tema di equilibrio tra poteri dello Stato. E il sottoscritto non lascia alla magistratura il compito di sindacare sulle scelte del governo. Perché di questo si tratta”. Voi senatori dovrete... “Siamo chiamati a decidere se Salvini, bloccando la nave Diciotti, si è mosso secondo un interesse privato oppure se ha agito seguendo una legittima indicazione politica del governo che, ripeto, non condivido. Siamo seri, qualcuno può pensare che Salvini si sia mosso come un sequestratore seguendo un suo interesse privato? Faccio mio un pensiero di Orwell: il vero senso della libertà è usarla per dire ciò che la maggior parte delle persone non vogliono ascoltare”. Lei è stato eletto col Pd… “Dopo 35 anni di vita parlamentare non ho bisogno di esami del sangue di nessun tipo. Rispondo ai miei elettori per le scelte politiche che sono chiamato a compiere e per questo ho sempre votato e continuerò a votare contro il governo. Ma sulle istituzioni rispondo anche alla mia coscienza e ai miei valori. Qua siamo di fronte a un’ingerenza impropria della magistratura sulla politica, di fronte a un delicatissimo tema di equilibrio tra poteri dello Stato. Chi pensa di voltarsi dall’altra parte illudendosi che la questione è solo Salvini commette un gravissimo errore”. Campania: Ciambriello “nella Regione la metà dei minorenni italiani sotto processo” cronachedellacampania.it, 2 febbraio 2019 Metà dei minorenni italiani con problemi con la giustizia è in Campania ed i reati commessi sono molto gravi: un dato allarmante sul quale Samuele Ciambriello, garante delle persone private della libertà personale, ha riferito stamane intervento al workshop “Criminalità minorile” promosso dalla presidente dell’Associazione Akira, Iolanda Ippolito. “Sottrarre un minore a un contesto familiare che incanala la sua vita a un destino di illegalità e anti-socialità è, in astratto, giusto e doloroso, ma occorre farlo prima del reato e del reato grave” ha detto Ciambriello. “A febbraio 2018 - ha spiegato - in tutta Italia c’erano 11.916 minorenni e giovani adulti in carico ai servizi della giustizia minorile, di questi 1.430 donne. Solo in Campania 5.000. Un esercito numeroso nei centri penali per minorenni, nelle comunità private, in carico agli uffici di servizio sociale, in misura alternativa sostitutiva. 3.772 per indagini sociali e progetti trattamentali. Messi alla prova 2.157. In Campania dal tribunale per minorenni di Napoli e Salerno più di un migliaio”. Il Garante dei detenuti, nel corso della sua relazione, ha evidenziato come ci sia stato “un mutamento del reato” in quanto “prima i minori venivano arrestati per accattonaggio, piccoli furti, oggi, girando per le carceri, incontro ragazzi e ragazze condannati a 15/18 anni per omicidio”. Secondo Ciambriello “gli adolescenti di oggi spesso non sanno perché compiono un reato. Sono adolescenti a metà. Vogliono tutto e subito. Hanno la morte dentro, un vuoto valoriale. Vivono un’emarginazione sociale, una povertà educativa e culturale”. Una situazione difficile che rende necessario un intervento sul minore prima che sia troppo tardi. “Può solo il carcere essere la risposta che mette tranquillità e sicurezza - ha concluso Ciambriello - rispetto alla devianza e alla microcriminalità? Si pensa davvero ad abbassare, arretrare la soglia minima di punibilità, cioè mettere in carcere un dodicenne, un tredicenne, perché è già adulto, aggressivo, violento, furioso?”. Viterbo: due suicidi e un presunto pestaggio, il ministero attiva il Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2019 Lo ha riferito il Sottosegretario Ferraresi dopo l’interrogazione di Riccardo Magi. Il deputato di +Europa ha chiesto chiarimenti al ministro sugli episodi nel carcere laziale denunciati dal nostro giornale. La procura di Viterbo sta svolgendo indagini al carcere di Viterbo con l’apertura di diversi fascicoli su alcuni suicidi e un procedimento penale a carico di ignoti in merito al presunto pestaggio - segnalato da Il Dubbio avvenuto nei confronti del detenuto Giuseppe De Felice. A renderlo noto è il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi del Movimento Cinque Stelle rispondendo all’interpellanza urgente presentata dal deputato Riccardo Magi di +Europa, sottolineando che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è attivata fin da subito per poter procedere alle ispezioni. Nell’interpellanza, il radicale Magi ha chiesto se i fatti riportati rispondano al vero e se il ministro interpellato “non ritenga di dover promuovere con urgenza un’ispezione presso il carcere di Viterbo per verificare il rispetto della legge e dei diritti dei detenuti garantiti dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali, al fine di evitare in futuro il ripetersi dei fatti riportati in premessa”. A quali fatti si riferisce? Uno riguarda la denuncia riportata dal Dubbio, da parte della moglie di De Felice, il 31 enne ristretto nel carcere di Viterbo, il quale sarebbe stato picchiato selvaggiamente dagli agenti penitenziari. De Felice, precedentemente recluso a Rebibbia, è nel carcere laziale da circa un mese. Si trovava nel quarto piano D1, quando, come riferito dalla moglie, “gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due; mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce”. A quel punto un agente penitenziario lo avrebbe portato sulla rampa delle scale e una decina di agenti penitenziari, senza farsi vedere in volto, lo avrebbero massacrato di botte. De Felice ha raccontato alla moglie che gli agenti avrebbero indossato dei guanti neri e una mazza bianca per picchiarlo. “Si tratterebbe - spiega Magi durante l’interpellanza, se confermato, di un episodio gravissimo, tra l’altro in un carcere che ha fama di essere un istituto “punitivo”, e in cui negli ultimi mesi si sono verificati due suicidi”. Il deputato riporta il caso di altri due suicidi citati dal Dubbio. Uno riguarda Di Nino Andrea, un detenuto che si è suicidato quest’estate. Nell’interpellanza, citando sempre la ricostruzione del nostro giornale, Riccardo Magi racconta che i vicini di cella avrebbero chiesto agli agenti di intervenire dopo che il detenuto, in stato di forte agitazione, aveva urlato che si sarebbe suicidato, ma gli agenti avrebbero sottovalutato il problema e sarebbero ritornati dopo due ore, quando oramai il ragazzo era morto con il cappio ricavato dal lenzuolo. L’altro episodio avvenuto sempre quest’estate nel carcere di Viterbo, riguarda il suicidio di Hassan Sharaf, un egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, ma è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Il ragazzo, durante la visita di una delegazione del garante regionale dei detenuti, mostrò all’avvocata Simona Filippi alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima. Il Garante Anastasia ha fatto un esposto sulla vicenda di Hassan, che aveva riferito al garante di avere “molta paura di morire”. Come detto, il sottosegretario Ferraresi ha risposto che attualmente la Procura sta compiendo accertamenti su tutti i casi elencati e ha sottolineato che il ministro della Giustizia, dopo la pubblicazione dell’articolo de Il Dubbio sui presunti pestaggi, ha subito attivato il Dap per effettuare l’ispezione necessaria previo il nulla osta dell’autorità giudiziaria. Ma essendoci una indagine in corso, ancora non è stato possibile. Ferraresi ha tenuto a precisare che è alta l’attenzione del ministero sulle vicende viterbesi. Novara: detenuto morì dopo il ricovero, ora sul caso indaga la procura generale di Marco Benvenuti La Stampa, 2 febbraio 2019 Ci sono pareri medici contrapposti. E ora è la procura generale a volerci vedere chiaro sulla morte di un detenuto nel settembre del 2015. Da Torino, infatti, è stata avocata l’inchiesta per omicidio colposo legata al decesso di Paolo Guerrieri, borgomanerese, in carcere a Novara per scontare una condanna per furti. Malato di diabete, si era sentito male in cella il 28 agosto, era stato trasportato al Maggiore, sottoposto a terapia farmacologia e poi a intervento, e infine trasferito ai domiciliari all’ospedale di Borgomanero, dove era morto il 26 settembre per emorragia celebrale. Dopo tre anni di indagini, la conclusione cui era arrivata il pm novarese Francesca Celle è che nella vicenda non c’era stata alcuna negligenza da parte dei diversi medici che hanno visitato e assistito il detenuto. Ecco perché era stata chiesta l’archiviazione per i tre indagati, il medico del carcere, quello del pronto soccorso del Maggiore che per primo ha visitato Guerrieri e infine il neurochirurgo che l’ha operato. Per il consulente tecnico della procura di Novara l’intervento era stato tempestivo così come le procedure seguite corrette. A diverse conclusioni erano arrivati i consulenti dei familiari del detenuto. All’udienza fissata per l’opposizione all’archiviazione, il colpo di scena: avocazione revocata e invio degli atti a Torino. Vicenza: la protesta dei detenuti “carcere invivibile e cibo scadente” di Andrea Alba Corriere del Veneto, 2 febbraio 2019 “Il cibo è cattivo, il carcere invivibile. Il governo non fa nulla per noi”. Con queste grida, ieri mattina, una cinquantina di detenuti del penitenziario di Vicenza ha bloccato un altro detenuto che portava il pranzo per tutti: la polizia penitenziaria è riuscita a fermare la protesta dopo alcune ore, denunciando i responsabili. È accaduto alle 11 circa, quando un detenuto proveniente dalla cucina è arrivato nella settima sezione del carcere Del Papa. Nell’ala, di recente edificazione, vige il regime aperto. Quando l’uomo con il carrello dei pasti è arrivato, una cinquantina di altri carcerati ha bloccato l’ingresso dell’ala ma anche l’uscita, di fatto costringendolo a rimanere dov’era. La protesta, dai toni accesi ma pacifica, era rivolta inizialmente soprattutto ai pasti, considerati non all’altezza, ma poi le critiche si sono estese all’organizzazione del carcere in generale. La polizia penitenziaria è intervenuta mediando per ore: alle 14 circa la situazione si è sbloccata. “Tre o quattro detenuti, quelli che avevano incitato gli altri alla protesta, sono stati portati nella sezione a regime chiuso - spiega Leonardo Angiulli, sindacalista della Uil polizia penitenziaria - verranno denunciati per interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale. Tutti gli altri verranno segnalati al consiglio di disciplina”. Il sindacalista sottolinea “la grande professionalità degli agenti che hanno gestito la situazione, riuscendo a fare in modo che nessuno rimanesse ferito. Ma le difficoltà nel carcere di Vicenza sono sempre maggiori. Nonostante tutte le promesse che c’erano state, non è arrivato alcun rinforzo di personale. Gli agenti hanno un’età sempre più avanzata, i turni di lavoro sono sempre più lunghi e stressanti, inoltre l’organico si riduce: in due anni ci sono stati dieci pensionamenti”. Ivrea (To): i Radicali denunciano “un carcere precario” torinoggi.it, 2 febbraio 2019 Patrizia De Grazia e Giovanni Oteri, militanti dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta di Torino, accompagnati dal Consigliere Regionale Luca Cassiani e dalla Garante dei Detenuti Paola Perinetto, hanno fatto visita alla Casa Circondariale. Nella mattinata di ieri, venerdì 1° Febbraio, Patrizia De Grazia e Giovanni Oteri, militanti radicali dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta di Torino, accompagnati dal Consigliere Regionale Luca Cassiani e dalla Garante dei Detenuti Paola Perinetto, hanno fatto visita alla Casa Circondariale di Ivrea. Patrizia De Grazia e Giovanni Oteri, dichiarano: “Siamo rimasti piacevolmente colpiti dal clima di umanità che abbiamo potuto respirare all’interno del carcere di Ivrea. Quasi la totalità dei detenuti è libera di uscire dalle proprie celle a partire dalle nove del mattino fino alle 18, con le sole eccezioni dei pasti, serviti tramite carrello del vitto di camera in camera. Abbiamo potuto constatare che molti dei detenuti sono impegnati durante la giornata in diverse attività formative, ricreative e lavorative. Alcuni si occupano della cucina, altri del bar della struttura, tutti hanno la possibilità di accedere alle biblioteche interne, alla palestra (negli orari prestabiliti), alle sale di socialità e ai diversi laboratori”. “Nonostante l’impegno di Personale della Polizia Penitenziaria, Garante, Educatori e l’elevato numero di volontari, tuttavia, l’Istituto Penitenziario di Ivrea presenta molteplici gravi problematicità strutturali. L’edificio è stato costruito negli anni Ottanta, il campo sportivo, che i detenuti vorrebbero (legittimamente) poter utilizzare durante tutto il corso dell’anno, è agibile soltanto nei mesi estivi ed è più simile a un campo di patate che non a un vero campo sportivo, inoltre riteniamo molto grave che l’impianto antincendio sia ancora totalmente fuori uso nonostante le svariate segnalazioni e che gli allarmi anti intrusione siano parzialmente o completamente non funzionanti ed ormai irreparabili”. “Si tratta di un carcere altamente sovraffollato, dove la capienza massima sarebbe di 192 posti, a fronte degli oltre 270 detenuti presenti all’interno della struttura. Ricordiamo a tale proposito, che la Casa Circondariale di Ivrea è spesso oggetto di sfollamenti provenienti da carceri vicine (l’Istituto Lorusso-Cotugno di Torino in particolare), a causa del diffuso e gravissimo problema del sovraffollamento carcerario che affligge il nostro Paese da sempre e che la volontà politica delle classi dirigenti presenti e passate non è mai stata abbastanza seria da affrontare di petto. Riscontriamo inoltre un paradosso nella presenza, all’interno di un carcere maschile, di un’ala apposita dedicata a detenuti transessuali che quotidianamente affrontano il processo (già piuttosto difficile, lungo e faticoso fuori dal carcere), di transizione per cambiare sesso”. “A nostro avviso queste persone, donne a tutti gli effetti, si vedono fortemente discriminate dalla impossibilità di stare a contatto con gli altri detenuti di una struttura carceraria impossibilitata (in quanto istituto maschile) a rispondere pienamente alle loro esigenze. Segnaliamo tra le altre gravi problematiche che la Direttrice dovrà presto essere sostituita da persona ancora da individuarsi e il comandante del reparto delle guardie carcerarie rimarrà in carica per i prossimi tre mesi durante soli tre giorni alla settimana, non essendoci la possibilità di sapere chi sia l’effettivo comandante”. “L’ASL competente segnala inoltre la possibilità che l’impianto dell’acqua risulti a rischio legionella. La carenza di personale di ogni ordine e grado (Circa 150 agenti per 270 detenuti e soli 4 educatori) rende difficile la gestione dell’istituto. Segnaliamo infine la presenza all’interno della struttura di un 40% di detenuti tossicodipendenti, i quali dovrebbero effettuare percorsi riabilitativi al di fuori dell’ambiente carcerario; si registra infine la presenza di svariati “internati”, ovvero ex detenuti, che già hanno scontato la propria pena e dovrebbero essere sottoposti a misure di sicurezza al di fuori del carcere, ma rimangono nei fatti all’interno della struttura per un tempo potenzialmente infinito”. Lucca: spazi inutilizzati al carcere di S. Giorgio, si valuta esposto luccaindiretta.it, 2 febbraio 2019 Un esposto alla Corte dei Conti per sbrogliare la situazione degli spazi (il padiglione nuovo, ndr) e dei materiali inutilizzati alla Casa circondariale san Giorgio di Lucca: è l’idea che emerge oggi (1 febbraio), da parte del consigliere Nicola Buchignani, in seno alla Commissione politiche sociali. L’esborso - come spiega la garante dei detenuti, l’avvocato Mia Pisano - di 900mila euro “ad oggi si è tradotto in un nulla di fatto. Una parte di quei soldi, peraltro, poteva essere utilizzata per assumere nuovo personale, cronicamente carente”. Una proposta, questa, che incontra l’approvazione degli altri consiglieri, disposti a valutarla come extrema ratio. L’amministrazione comunale, nel frattempo, dà ufficialmente il “via” ad una serie di progetti finanziati all’interno del San Giorgio: “La prima iniziativa - ricorda l’assessore Lucia Del Chiaro - è un corso che faremo insieme al Comune di Capannori per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Poi organizzeremo un corso di cucina per 15 detenuti (2 giorni a settimana per 100 ore totali, ndr) ed attività ludico ricreative da affidare alla società Libertas. Lavoriamo anche con il gruppo volontari carcere: abbiamo chiesto loro di aiutarci a rilanciare il tema del volontariato all’interno del carcere”. Questioni, quelle rappresentate, che innescano una serie di nodi a cascata. Spazi che non possono essere aperti, corsi che rimangono in stand by, possibilità di riabilitazione e reinserimento sociale che vengono distillate nel tempo, invece di scorrere fluide. È la fotografia che affiora dalla lettura fornita dalla garante dei detenuti. Una relazione annuale, la sua, che espone criticità e proposte ai consiglieri ed all’assessore Lucia Del Chiaro. I problemi restano noti. In primis, come detto, le lacune legate al personale: “Un tema dilagante a livello nazionale - spiega Pisano, giunta alla fine del triennio di mandato - e particolarmente ingente a Lucca, anche alla luce dell’impossibilità ad oggi di aprire un’intera sezione (proprio per l’assenza di personale, ndr) che resta ancora in blocco. Servirebbero nuovi innesti ed un ricambio costante. Questo consentirebbe ai detenuti di vivere in modo sicuramente più dignitoso”. Un’area, viene ricordato, che donerebbe anche maggiore respiro alle attività pensate per coinvolgere e recuperare i detenuti (dai corsi di cucina all’istruzione). Inoltre “poter lavorare di più all’interno della struttura - prosegue Pisano - si tradurrebbe in una gratificazione per gli ospiti del San Giorgio, li formerebbe, permetterebbe di mandare qualche soldo alle famiglie”. In cantiere per l’anno prossimo, intanto, c’è il progetto di far presentare ad un detenuto un libro che racconta la sua storia di riabilitazione: “Oggi - afferma la garante - collabora con uno studio legale, grazie alle competenze giuridiche maturate in carcere. Vorremmo che diventasse un esempio per i detenuti e per le scuole locali: i bambini devono comprendere che, dentro al carcere, si può anche ricominciare”. Oltre a questo, per la salute fisica e mentale dei detenuti, è vitale che venga utilizzata una palestra. “Altrimenti - precisa la garante - sono costretti a passare tutto il tempo a dormire o a transitare per i corridoi, dove è sufficiente uno sguardo sbagliato perché si creino problematiche che il personale non riesce a gestire”. Paradossale, per certi versi, la situazione vissuta dai detenuti: “Hanno soltanto una televisione con sette canali - puntualizza Pisano - perché l’attuale direzione ritiene che non ci siano i fondi per sostenere questo genere di spese. Il direttore Ruello, del resto, deve far tornare i conti all’interno di una struttura vetusta”. Un impegno, quest’ultimo, che i consiglieri presenti in Commissione si impegnano ad affrontare, a patto che si tratti di una questione meramente economica. Particolari, questi, che rischiano di alimentare un malumore già più che latente all’interno del San Giorgio: “Un detenuto - l’episodio raccontato - è stato sanzionato perché in possesso di due sveglie. La persona che era uscita prima di lui gli aveva donato la sua, ma il regolamento impone che non si possano ricevere oggetti da altri detenuti”. Un altro colpo ferale alla vita del carcere viene inferto “dall’immobilismo di chi potrebbe dare una mano”: “Fa male - l’appello già noto di Pisano - che nella città del volontariato manchino associazioni disposte ad aiutarci a tenere aperti i locali”. Per il consigliere Fabio Barsanti “è necessario che l’amministrazione continui a sollecitare le istituzioni affinché si sblocchino situazioni annose, come quella legata alla mancata apertura del padiglione nuovo”, mentre il consigliere Di Vito invita alla praticità “per risolvere situazioni piccole, ma importanti, come quelle legate alla televisione. L’attività fisica, poi,è fondamentale: consente di scaricare le tensioni accumulate”. Una situazione che, per il consigliere Pilade Ciardetti, “Deve essere risolta al più presto, insistendo con il nuovo Governo per tutelare la dignità dei detenuti”. L’Aquila: carcere di Preturo costruito su terreni di uso civico, rischio abbattimento di Roberto Ciuffini news-town.it, 2 febbraio 2019 Il 6 marzo il Tar dell’Aquila sarà chiamato a pronunciarsi sul ricorso presentato dall’Amministrazione separata dei beni di uso civico (Asbuc) di Preturo per chiedere che l’Agenzia del Demanio ottemperi alla sentenza, definitiva e inappellabile, con cui, nel 2014, il Commissariato per il riordino degli usi civici ha riconosciuto la natura demaniale di uso civico di una parte dei terreni - 40mila metri quadri - su cui sorge il carcere delle Costarelle. Con quella sentenza, il magistrato aveva stabilito che i terreni dovessero tornare agli Usi Civici perché, a suo tempo, non vennero né alienati né sottoposti al normale iter per il mutamento di destinazione d’uso. Una vicenda lunga 36 anni, che potrebbe concludersi con un esito incredibile. Qualora, infatti, il ricorso dovesse essere accolto dal tribunale amministrativo, l’Agenzia del Demanio dovrebbe, teoricamente, restituire i terreni all’Asbuc. Ma visto che una parte consistente di essi (10mila mq) è stata edificata, l’unica soluzione per dare esecutività alla sentenza sarebbe quella di demolire l’istituto penitenziario. Il carcere, in altri termini, andrebbe smantellato. Per scongiurare questa eventualità, l’Asbuc ha proposto al Demanio di arrivare a un accordo extragiudiziale prima della sentenza del Tar. “C’è ancora tempo, a patto che ci sia l’impegno e la voglia di riaprire la trattativa” hanno affermato ieri in conferenza stampa Antonio Nardantonio e Nello Alfonsetti, rispettivamente presidente e vice presidente degli Usi Civici di Preturo “La demolizione del carcere avrebbe un impatto importante sul territorio, in termini sociali, di perdita di posti di lavoro e anche di costi economici”. La stessa Asbuc denuncia, tuttavia, “l’insensibilità” dell’Agenzia, che finora si è sempre mostrata poco collaborativa: “Oltre a non aver applicato la sentenza del Commissariato, confermata anche in sede di Appello” hanno spiegato Nardantonio e Alfonsetti “non ha mai nemmeno risposto alle nostre proposte di mediazione o fatto delle contro proposte”. Nello specifico, gli Usi Civici avevano prospettato all’Agenzia la possibilità di indennizzare i terreni pagando 1 milione e 200mila euro. “Cifra anche piuttosto bassa” hanno detto Nardantonio e Alfonsetti “considerando che la giurisprudenza ha decretato che l’alienazione di terreni gravati da uso civico vada fatta a prezzi di mercato. Ci sarebbero, poi, anche gli interessi, quantificabili in circa 3 milioni di euro, ma avevamo detto all’Agenzia di essere disposti a rinunciarvi. Dall’altra parte, però, non abbiamo mai ricevuto risposte”. L’Asbuc, tuttavia, punta il dito anche contro “l’ottusità e il pressapochismo della nostra classe politica, che ha ignorato la gravità del problema”. Enna: con i detenuti per presentare il campo di zafferano cubonews.it, 2 febbraio 2019 Il 31 gennaio, alle ore 20.00, presso la casa Circondariale “L. Bodenza” ad Enna, si è tenuta una “Cena al profumo di zafferano”, aperta ad ospiti della comunità esterna ed Autorità civili locali, per presentare alla città il progetto “Orto dentro… viola zafferano”, proposto dall’Associazione “Per un mondo di sorrisi”. Il Progetto, in fase sperimentale, avviato lo scorso agosto su un’area verde incolta di mq 450, ha permesso di impiantare 55 chili di bulbi di zafferano, grazie all’impegno volontario di 7 detenuti guidati dalla responsabile del progetto, Salvina Russo. Il primo anno d’impianto, nonostante le avverse condizioni climatiche estive, nel mese di novembre, ha regalato, con grande soddisfazione, soprattutto dei detenuti partecipanti, un delizioso giardino pieno di fiori viola i cui stimmi, dorati e preziosi, verranno utilizzati per la preparazione di prelibate pietanze per la “Cena al profumo di zafferano”, in collaborazione con l’Istituto Alberghiero “Federico II” di Enna e grazie agli sponsor, Gruppo Giovanni Arena e Garden Massimo Di Serio. L’Associazione “Per un mondo di sorrisi” sta già provvedendo, in accordo con la Casa Circondariale, a trovare fondi di finanziamento per la vita futura del progetto attraverso Cassa delle Ammende. L’idea progettuale è quella di “fare impresa” e “dare ai detenuti opportunità spendibili dentro…e fuori”, dato che la coltivazione dello zafferano in agricoltura biologica è una produzione strettamente legata al “Piacentino Ennese”, prodotto di eccellenza di origine protetta “D.O.P”. Per questo motivo, l’ipotesi progettuale per Cassa delle Ammende prevede anche la realizzazione di un impianto di caseificazione all’interno della Casa Circondariale, per la produzione del “Piacentino Ennese”, il cui ciclo produttivo impone un rigido disciplinare sia per i metodi che per i tempi di stagionatura. Nel corso del restante periodo di tempo si effettuerebbe la caseificazione di altri tipi di formaggi della tradizione casearia dell’ennese. Quest’anno sarà installato, proprio nel terreno ove insiste lo zafferano, un piccolo impianto di compostaggio. Rossano Calabro (Cs): per 16 detenuti un sogno chiamato laurea di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 2 febbraio 2019 Si apre l’anno accademico per 16 detenuti-studenti del carcere di Rossano Calabro. Con l’evento di inaugurazione nella casa di reclusione in provincia di Cosenza sono ufficialmente iniziate le lezioni per gli iscritti ai vari corsi di laurea che si svolgono in collaborazione con l’Università della Calabria (UniCal). Su quasi trecento detenuti presenti nel penitenziario calabrese 16 hanno scelto di intraprendere il percorso universitario: un numero significativo considerato che in tutta Italia sono circa 600 i detenuti che frequentano una facoltà. Nel complesso sono 19 i detenuti delle diverse carceri del Cosentino iscritti ai corsi dell’Unical. Il direttore della casa circondariale rossanese, Giuseppe Carrà, valuta così il progetto di collaborazione con l’ateneo: “Abbiamo iniziato nel 2011 e, dopo un prima fase di rodaggio, ha ormai raggiunto un elevato livello di organizzazione”. Alcuni detenuti hanno già completato con successo la carriera accademica. “Abbiamo quattro laureati, due nel 2017 e due nel 2016 - precisa Carrà -. Hanno conseguito il titolo triennale ma non vogliono fermarsi: adesso puntano alla laurea magistrale. E pensare che alcuni dei laureati di oggi, quando sono entrati in carcere, non sapevano neanche firmare”. Lo studio e la cultura come antidoto all’illegalità e come trampolino verso una vita diversa. Su questo punta Massimo Parisi, provveditore regionale per la Calabria dell’Amministrazione penitenziaria: “Crediamo molto nell’istruzione e nella possibilità che i detenuti si approprino di competenze da mettere a servizio di un loro progetto di vita futura”. Parole che fanno il paio con quelle del rettore dell’ateneo calabrese, Gino Mirocle Crisci, che rivendica con orgoglio il contributo dato al progetto: “La cultura può avere un suo ruolo fondamentale nel coinvolgimento di queste persone sfortunate. A Rossano c’è anche uno spazio apposito riservato allo studio, nulla è improvvisato, come invece era prima, adesso tutto è ben strutturato”. L’impegno per la crescita culturale e la formazione dei detenuti rappresenta un lungimirante investimento in prevenzione e sicurezza, a beneficio dell’intera collettività: “C’è stato un giovane detenuto - sottolinea Crisci - che ci ha detto che da quando ha scoperto il mondo della conoscenza si sente davvero cambiato dentro”. L’acquisizione di conoscenze e abilità professionali può consentire ai detenuti, una volta tornati in libertà, di trovare un lavoro portando così a termine il percorso di rieducazione e reinserimento nella società. “Gli studi sull’argomento e le statistiche - ha spiegato il direttore Carrà - ci dicono in modo chiaro che la cultura e il lavoro influiscono positivamente abbassando i tassi di recidiva dei comportamenti illegali”. L’impegno dell’UniCal non si esaurisce nelle lezioni e negli esami universitari: sia nella casa di reclusione di Rossano che negli istituti di Paola, Castrovillari e Cosenza, gli studenti iscritti all’ultimo anno della facoltà di Giurisprudenza potranno anche svolgere un periodo di tirocinio. L’ateneo provvede, inoltre, a sostenere economicamente i detenuti in difficoltà con il pagamento delle tasse universitarie. Verziano (Bs): le ore d’aria del detenuto rugbista “così combatto rabbia e solitudine” di Federico Gervasoni La Stampa, 2 febbraio 2019 Un pallone ovale per giocarsi una seconda possibilità. Ben Smail Arbi, tunisino, è un detenuto. Da oltre tre anni sta scontando nella casa di reclusione “Verziano” di Brescia una condanna definitiva per spaccio di droga. Ma cos’è la libertà? Se lo chiedete a lui la risposta è semplice: due placcaggi sul prato e un drop in mezzo ai pali. Da diverso tempo Ben Smail ha ottenuto un permesso speciale per buona condotta che gli permette di uscire e potersi allenare tre sere a settimana insieme ai compagni del Rugby Cus Brescia, squadra che milita nel campionato di C2, la più bassa divisione italiana. Si avvicina il debutto Il talento c’è, la possibilità di giocare pure. Così i dirigenti della società lombarda hanno deciso di assegnargli un posto da seconda linea in mischia. Un sogno, il suo, che si è realizzato in fretta. Si tratta del primo detenuto in Italia che viene tesserato da una realtà rugbistica. “Sono contentissimo di averlo accolto con noi - spiega il direttore sportivo Marco Piotti. Si è perfettamente integrato nel gruppo e non vediamo l’ora di vederlo esordire in campo con la nostra maglia”. La data del debutto nel torneo è fissata per il prossimo 17 febbraio, in casa contro i rivali del Nordival Rovato. “È da almeno un mese che non smetto di pensare a quel giorno”, ammette felice Ben Smail, un ragazzone alto un metro e novanta il cui fisico sembra davvero cucito su misura per questo sport. Un inizio difficile Arrivato nel nostro Paese da adulto, i primi ricordi di Ben Smail dalle nostre parti non sono per nulla positivi. Troppi gli errori commessi che oggi sta faticosamente pagando nelle difficoltà di una piccola cella divisa con altre tre persone. “Prima di entrare in carcere non avevo mai visto in vita mia un pallone da rugby. Mi è bastato giocarci la prima volta nell’ora d’aria per capire quanto fosse utile a insegnarmi a rispettare prima me stesso e poi tutti gli altri - continua. Devo ringraziare il tecnico Roberto Pegoiani che dopo avermi insegnato le basi e i rudimenti del gioco si è preso interamente a cuore della mia questione”. “Hip, hip, libertà” È proprio da una telefonata tra l’ex rugbista Pegoiani e l’amico di sempre Oliviero Geroldi che è partita tre anni fa l’avventura della squadra di rugby in carcere a Verziano, il secondo penitenziario della città dopo Canton Mombello. L’ovale dietro lo sbarre. Un’esperienza nata con lo scopo di insegnare un gioco leale basato su valori come il rispetto, il sostegno e la disciplina. Tutto nasce dalla convinzione che il reinserimento nella società contemporanea sia possibile, dando alle persone recluse un’opportunità per dimostrare la propria volontà di ricominciare. I detenuti che lo praticano sono almeno una ventina tra cui appunto Ben Smail. Sul pratone spelacchiato della casa di reclusione si abbracciano alla fine di ogni partita e insieme gridano il loro motto: “Hip, hip, libertà”. Un rifugio Grazie all’apertura della direzione del carcere, il trentenne tunisino è stato accolto lo scorso dicembre dal Cus Brescia e subito ha stretto amicizia con i compagni e l’allenatore Ugo Pierato. “Si allena con tanto impegno ed è una persona che non si tira indietro davanti a nulla”, racconta con soddisfazione Maichol Piscitelli, tra i più forti mediani della provincia e ritenuto uno dei veterani della squadra. “Sono convinto che Smail abbia delle ottime potenzialità e di conseguenza si trovi a vivere questi rari momenti di serenità come una vera possibilità di riscatto”, aggiunge. Del resto, il rispetto che impari sul campo, con l’ovale stretto intorno al petto non ti abbandonerà mai nemmeno fuori dal rettangolo di gioco. “Attraverso il rugby io ho trovato finalmente un rifugio che potesse placare la rabbia, la sofferenza e in parte persino la solitudine accumulata tutti i giorni dentro a quattro mura - prosegue la seconda linea tunisina. Mettermi in gioco mi ha permesso di riflettere molto sui reati commessi anni fa, restituendomi un enorme progetto di dignità. Fuori ho una famiglia che mi aspetta e la mia testa è sempre con loro”. Lottando per i vertici della classifica, ora Ben Smail Arbi aiuterà il Rugby Cus Brescia a vincere il campionato. E il Rugby Cus Brescia aiuterà lui a riconquistarsi la propria libertà. La zona grigia alimenta la rabbia dei traditi di Enzo Scandurra Il Manifesto, 2 febbraio 2019 Finiremo mai di stupirci di come le frottole, le giravolte del Ministro della Paura ricevano il consenso o la complicità, di tanta parte del popolo italiano? Magari tra qualche anno non sarà più così, come già capitato a Renzi, ma in questo momento storico il ministro può dire, negare, contraddirsi, perfino mascherarsi da Pulcinella, ma resta in cima alle classifiche degli uomini politici più acclamati. Tanto vale chiedersi perché, pur a fronte di tante balle, continua a riscuotere un tale successo. Perché dovunque il vento della storia soffia a favore dei populisti, dei sovranisti, comunque a destra? Per colpa di Renzi che ha sbriciolato la sinistra? Per colpa della sinistra che ha finito con l’inseguire le sirene ingannevoli della globalizzazione e dello sviluppo? I fatti del mondo ci dicono che la nostra civiltà, conquistata faticosamente (col sangue) nel corso dei secoli, è solo una crosta sottile pronta a sfaldarsi al primo richiamo della foresta. Non è una rendita acquisita per sempre, si può tornare indietro e la storia lo ha dimostrato diverse volte. Si può oltrepassare quella sottile zona grigia che ci separa dalla barbarie, regredendo giorno per giorno, perdendo di vista la natura, le nostre amicizie, ciò che indissolubilmente ci lega come specie che non ha a disposizione se non il mondo che abitiamo. Le parole conclusive di Levi ne I sommersi e i salvati ce lo insegnano ancora: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo. Può accadere, e dappertutto”. Vi ricordate quel brano recitato da Ascanio Celestini che diceva “io non sono razzista…, però…”, questa è stata la sinistra, un po’ snob, un po’ buonista, un po’ progressista, un po’ moderata. Però pronta a salvare i potenti, a perdonare i peccatori (immobiliaristi, banchieri, manager), fino ad essere circondata dall’indifferenza e perfino dall’ostilità della gente. Non ha mai alzato la voce con i più forti, mai difeso abbastanza le ragioni dei più deboli. Ha girato le spalle ai più umili e volto lo sguardo ai potenti (“abbiamo una banca!”). Ci ha insomma convinti che se anche questo mondo non era perfetto, non potevamo chiedere di più. Il riformismo, sconfitto dalla storia (e ancora oggi invocato), è scaduto nel gioco al ribasso, convinti che noi eravamo i più furbi, i più colti, i più saggi e l’avremmo avuta vinta sui barbari che non capivano le nostre illuminate ragioni. Salvini è mosso da un’antropologia feroce che conosce bene le debolezze dell’uomo, le sue fragilità, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij che parla ai più (al popolo) un linguaggio capace di volgere a proprio favore la rabbia dei traditi. Il Grande Inquisitore non combatte la debolezza degli uomini, ma anzi la corteggia, la coltiva sapendo che essa si trasformerà nella sua arma più potente. È ancora Primo Levi a ricordarci che la rottura della solidarietà tra prigionieri fa in modo che la ricerca della salvezza individuale nei lager (i salvati), si trasforma nel tradimento dei fratelli (i sommersi). Perché oltrepassata la sottile zona grigia si scopre che il male è dentro di noi e la politica servirebbe a far emergere la parte migliore contrastando quella peggiore sempre in agguato. E anche gli ideali universalistici spesso sovrastano la dimensione quotidiana dell’uomo di strada che, seppure non ha il coraggio e la forza di rinnegarli, è pronto a salire sul carro di coloro che li combattono per un desiderio folle di rivincita, di contare, ammaliato dalle belle parole del “caporale Hitler”, egli stesso mosso da una volontà di riscatto rispetto alla cultura del suo tempo che lo vedeva un perdente. Compito della sinistra sarebbe stato piuttosto far capire come la libertà, l’emancipazione e la conquista di una solidarietà non data in natura, è un percorso difficile che presuppone passo dopo passo il superamento del proprio egoismo proprietario. Ma farlo con l’esempio e non gridandolo al cielo o nei rituali dei convegni tra coloro che parlano la stessa incomprensibile lingua. L’assalto al cielo era questo semmai, spronare costantemente l’uomo a superare le proprie debolezze insieme agli altri, loro stessi deboli, senza perdere il sorriso. Corsa agli armamenti. L’Europa tra due fuochi dopo il ritiro di Trump dal Trattato Inf di Paolo Valentino Corriere della Sera, 2 febbraio 2019 Le accuse incrociate di violazioni tra Usa e Russia. L’incognita del posizionamento di nuove armi. Negoziato tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica, firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, il Trattato Inf (Intermediate Range Nuclear Forces) proibisce sviluppo, produzione e spiegamento di tutti i missili nucleari basati a terra con raggio d’azione tra 500 e 5.500 chilometri. È stato il primo accordo nella storia del disarmo atomico a prevedere l’eliminazione fisica di un’intera classe di armamenti: Washington mandò al macero i Pershing e i Cruise schierati in Europa, Mosca eliminò i suoi SS-20 puntati contro i Paesi europei della Nato. È dal 2014, sotto l’Amministrazione Obama, che gli Usa accusano la Russia di violare l’intesa. Pomo della discordia è il missile Iskander nella variante 9M729, nel codice Nato SSC-8, che secondo i russi avrebbe un raggio di soli 480 chilometri, ma che secondo il Pentagono può volare fino a 2.500 chilometri, cioè in palese violazione dell’Inf. Di più, l’Amministrazione Trump sostiene che il sistema sia stato non solo testato, ma già spiegato a Ekaterinburg, a Est degli Urali, e nel poligono di Kapustin Jar, non lontano da Volgograd, l’ex Stalingrado. Il Cremlino respinge le accuse ma non fornisce prove. In una visita organizzata la scorsa settimana fuori Mosca per un centinaio di giornalisti e addetti militari, i russi hanno mostrato un container di lancio del SSC-8 ma non il missile stesso. Secondo l’esperto tedesco Markus Schiller, l’argomento di Mosca che gli SSC-8 sarebbero una versione modernizzata degli SSC-7, il cui raggio è appunto di 480 chilometri, non convince, poiché le nuove rampe di lancio sono costruite in modo da far sospettare un raggio molto più lungo. La Russia sostiene che il sistema di difesa anti-missile già installato dagli americani in Romania (e prossimamente anche in Polonia) non sia in grado di lanciare solo ordigni difensivi (cioè mirati a distruggere missili in arrivo) del tipo Mk-41, ma anche missili BGM-109 Tomahawk, che nella versione più moderna hanno un raggio di 2.500 chilometri e possono anche essere dotati di testate nucleari. Il Pentagono ribatte che i lanciatori stazionati in Romania sono programmati solo per un sistema difensivo. Ma secondo Schiller, “basterebbero poche ore per cambiare il software” e renderli compatibili con i micidiali Tomahawk. Di più, secondo i russi un’altra classe di missili previsti per il sistema di difesa, gli SM-3, potrebbero diventare offensivi, cambiandone l’inclinazione e dando loro una traiettoria balistica. Nell’uno e nell’altro caso, agli occhi di Mosca si tratta di violazioni dell’Inf. Certo c’è un’asimmetria nelle accuse reciproche: quelle dei russi si basano infatti su interpretazioni controverse dell’accordo, mentre quelle degli Usa sugli SSC-8 si fondano sul fumus di un inganno deliberato da parte di Mosca. Tuttavia è sospetto anche il rifiuto degli Stati Uniti di rendere pubbliche foto satellitari e altre informazioni, che il Pentagono dice di avere e che dimostrerebbero in modo inconfutabile le violazioni di Mosca. Che succede adesso? Con l’annuncio di Mike Pompeo che, causa le ripetute violazioni russe, gli Usa sospendono il rispetto del Trattato, inizia da oggi un periodo transitorio di sei mesi, durante i quali le parti sono ancora formalmente vincolate all’accordo. Una breve finestra, che dovrebbe essere utilizzata nell’improbabile tentativo di salvarlo. In assenza di “compliance” da parte di Mosca, Washington si ritirerà definitivamente dall’Inf. La situazione europea. “Senza il Trattato Inf ci sarà meno sicurezza”, avverte il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. La fine dell’intesa sui missili intermedi darebbe infatti il via a una nuova corsa agli armamenti nucleari. Libere da ogni vincolo, verosimilmente anche da quello del New Start che limita i missili strategici fino al 2021 e difficilmente verrà rinnovato, Washington e Mosca potranno riarmare di pari passo con il vero convitato di pietra della partita, la nuova Superpotenza cinese, che non ha mai firmato alcuna intesa sul disarmo. Tradotta nel teatro europeo, la fine dell’Inf riaprirebbe il tema lacerante di uno stazionamento di nuove armi atomiche americane nel Vecchio Continente. Il riarmo nucleare in Europa diventerebbe una sorta di danno collaterale della nuova confrontazione strategica globale. Migranti. Due anni di accordo tra Italia e Libia: più morti e meno diritti umani di Adriana Pollice Il Manifesto, 2 febbraio 2019 Rapporto Oxfam. “Lo scacco ai diritti umani in quattro mosse”: così Oxfam Italia e Borderline Sicilia descrivono, nel report pubblicato ieri, gli effetti dell’accordo Italia - Libia sui migranti sottoscritto due anni fa, con l’avallo dell’Ue. “Lo scacco ai diritti umani in quattro mosse”: così Oxfam Italia e Borderline Sicilia descrivono, nel report pubblicato ieri, gli effetti dell’accordo Italia - Libia sui migranti sottoscritto due anni fa, con l’avallo dell’Ue. Il dato più drammatico è la crescita del tasso di mortalità: in due anni sono annegate 5.300 persone, di cui 4mila solo nella rotta del Mediterraneo centrale, passando da 1 vittima ogni 38 arrivi nel 2017 a 1 ogni 14 nel 2018. “L’anno scorso la Guardia costiera libica ha intercettato 15mila persone riportandole indietro - spiega il curatore del report, Paolo Pezzati -. Attualmente, in 6.400 sono intrappolati in luoghi di detenzione ufficiali in Libia ma molti di più sono detenuti in carceri non ufficiali, alcune gestite da gruppi armati libici. Ma secondo l’Onu anche i centri ufficiali, in diversi casi, sono gestiti da persone coinvolte nella tratta di esseri umani”. Oxfam, insieme a 50 organizzazioni, ha inviato una lettera aperta ai governi Ue affinché blocchino la politica dei respingimenti verso Tripoli e, attraverso il Consiglio europeo, ratifichino la riforma del Regolamento di Dublino con la redistribuzione automatica dei richiedenti asilo. L’esatto opposto, quindi, di quanto avviene adesso grazie all’accordo Italia - Libia, firmato dall’allora premier Paolo Gentiloni il 2 febbraio 2017. I principali leader europei l’hanno accolto con entusiasmo, “nonostante nelle tre pagine - si legge nel report - non siano mai citati i diritti umani e non emergano vincoli nei confronti della Libia riguardo il suo impegno nel rispetto e nella tutela dei diritti umani”. Il primo punto dell’asse è stata la costituzione della Guardia costiera libica. L’Italia aveva cominciato già dal 2016 a inviare motovedette, formazione e sostegno economico. L’ultimo finanziamento, del 2018, prevede un nuovo invio di 20 navi per un valore di 9 milioni di euro. Poi è arrivata la zona Sar libica: istituita tramite dichiarazione unilaterale, approvata dall’International maritime organization nel giugno 2018. Così un’agenzia dell’Onu, l’Imo, ha dato il suo avallo mentre altre agenzie Onu chiarivano che la Libia non è un paese sicuro e che i migranti “vivono sotto il costante rischio di privazione della libertà e arresto arbitrario, aggressione, furto e sfruttamento da parte di attori statali e non statali”. la mossa seguente è stata modificare la missione navale europea di Frontex, passando da Triton a Themis: su richiesta del nostro governo, l’obbligo di sbarco dei naufraghi non è più nei porti italiani ma nello scalo più vicino al salvataggio; la linea di pattugliamento è stata ridotta da 30 a 24 miglia nautiche dalle coste italiane. Il terzo passaggio è stata la politica dei porti chiusi: il ministro Matteo Salvini fa quello che il predecessore Marco Minniti aveva chiesto ma non ottenuto (per l’opposizione del collega alle Infrastrutture Delrio) cioè cerca di bloccare l’attracco delle Ong in Italia. I primi a farne le spese sono stati i migranti a bordo dell’Aquarius, costretti a dirigersi a Valencia. Da lì in avanti si è instaurata una prassi che viola le norme internazionali: si subordina lo sbarco a un accordo di redistribuzione tra gli stati, violando il diritto dei naufraghi a ottenere subito un porto sicuro. B.B., un eritreo di 29 anni, era sulla nave Diciotti, bloccata per 5 giorni a Catania lo scorso agosto su ordine di Salvini: “A bordo le condizioni erano terribili. Era impossibile stare al sole ma c’era solo un tendone. L’ombra non bastava per tutti e quando pioveva ci bagnavamo. C’erano solo due bagni. Un marinaio con un tubo ha spruzzato acqua per un minuto su dieci persone alla volta, nude dietro un telo di plastica. Quella e` stata l’unica occasione, per noi uomini, di lavarci”. La mossa finale è la creazione di un nuovo nemico, le Ong. Dal 2014 al 2017 le navi delle Ong hanno salvato la vita di 114.910 persone, pari al 18,8% del totale. Nel 2017 però inizia a montare una campagna di discredito delle Ong, definite complici degli scafisti. “Dal 2015 l’agenda migratoria dell’Ue è stata basata sul presupposto di non far entrare i migranti - spiega Pezzati -. Per quelli che riescono a entrare, si sono messi in piedi gli accordi per bloccare i movimenti secondari. L’opposto, quindi, di quanto si dovrebbe fare, cioè regolare gli ingressi con un approccio di lungo periodo. Ormai è diventato superfluo presentare le tante evidenze sulle violazioni dei diritti perché i governi aizzano l’opinione pubblica a fini di politica interna, l’effetto prodotto è la disumanizzazione dei migranti. Si equiparano le decisioni dei governi al diritto quando, invece, è il diritto che dà la cornice entro cui deve rientrare l’azione politica”. In Libia, intanto, il business dei centri di detenzione prospera: “Già nel 2017 gli osservatori iniziavano a lanciare l’allarme riguardo la progressiva istituzionalizzazione di leader di milizie o clan che controllavano importanti parti del territorio libico”, spiega Oxfam. L’agenzia Onu Unsmil ha chiesto la chiusura dei centri ufficiali “con evidenze di violazione dei diritti umani più problematici”, tra cui Zuwara, Shuhada, Al-Nasr / Al-Zawiya, Gharyan. Un ragazzo eritreo ha raccontato: “Degli europei con la scritta Unhcr sono venuti una volta a visitare il campo, ma non eravamo liberi di parlare con loro, i militari del campo ci controllavano, e anche le persone in visita sembravano spaventate”. Australia. Rifugiato detenuto scrive libro su Whatsapp e vince premio letterario di Cristina Barbetta Vita, 2 febbraio 2019 Si chiama Behrouz Boochani, è uno scrittore curdo iraniano rifugiato, e ha scritto un romanzo dal centro di detenzione di Manus Island (Papua Nuova Guinea), isola in cui è imprigionato da quasi 6 anni. Il libro ha vinto il più prestigioso e importante premio letterario d’Australia ma non può ritirarlo. Uno scrittore rifugiato curdo iraniano ha vinto il più importante premio letterario australiano, grazie a un libro scritto interamente su Whatsapp, un messaggio alla volta. Si chiama Behrouz Boochani e ha lavorato al suo romanzo per più di 5 anni, nel centro di detenzione di Manus Island (Papua Nuova Guinea), isola in cui è imprigionato dal 2013, per avere tentato di raggiungere in barca l’Australia dall’Indonesia. Il 31 gennaio Boochani ha vinto il Victorian Prize for Literature, del valore di 100.000 dollari australiani, e anche il premio per la saggistica ai Victorian Premier’s Literary Awards, che ammonta a 25.000 dollari australiani. La sua opera è stata selezionata tra quelle di 28 finalisti. Ma l’ingresso in Australia gli è negato, e il premio è stato ritirato a Melbourne dal suo traduttore, Omid Tofighian. Le politiche di immigrazione del Paese prevedono che le migliaia di rifugiati che cercano di raggiungere l’Australia dall’Indonesia in barca siano confinati nel centro di detenzione di Manus Island, o in quello di Nauru, un’isola sperduta in mezzo all’Oceano Pacifico, di fatto sotto la giurisdizione dell’Australia. Il romanzo si intitola: “No Friend But the Mountains: Writing from Manus Prison” (“Nessun amico a parte le montagne: racconto dalla prigione di Manus”). È stato scritto in lingua farsi, sul telefonino, dalla prigione di Manus. E inviato al traduttore, che ha lavorato assieme all’interprete per tradurre il testo in inglese. Il libro è il racconto autobiografico del tentativo di Boochani di andare in Australia in barca dall’Indonesia e della sua prigionia nel centro di detenzione di Manus. “La ragione per cui ho scritto questo libro sul mio telefono, e l’ho inviato messaggio dopo messaggio, è che davvero non mi sentivo al sicuro con le guardie e le autorità”, spiega Boochani al Guardian. “Perché avrebbero potuto in ogni momento attaccare la nostra stanza e prendere le cose di nostra proprietà”, prosegue. Il libro è stato descritto come “una voce di testimonianza, un atto di sopravvivenza. Un racconto lirico in prima persona. Un grido di resistenza. Un ritratto vivido di 5 anni di incarcerazione ed esilio”. “Per lungo tempo ho cercato di descrivere la situazione all’interno di Manus Island, la vita all’interno della sua prigione, ma penso che il linguaggio giornalistico non abbia la capacità di descrivere questa vita, e la sofferenza e il modo in cui funziona il sistema qui”, dice Boochani al Guardian Australia, e precisa: “Ho lavorato al mio libro per 5 anni. Ho pensato che il modo migliore per me di esprimere i miei pensieri e di raccontare la storia della prigione di Manus e le storie di Manus Island - e anche di Nauru- fossero scrivere un romanzo”. Zambia. Emergenza nelle carceri peggiori dell’Africa fides.org, 2 febbraio 2019 La Caritas a fianco ai detenuti. Costruire un futuro per i detenuti, credendo nel reinserimento e nella loro redenzione. Da questa convenzione parte il progetto messo in campo dalla Caritas Zambia, in collaborazione con Celim, una Ong italiana da anni attiva nel Paese, per aiutare i carcerati zambiani. Secondo una classifica pubblicata dalla rivista statunitense “Forbes”, il sistema carcerario dello Zambia è il peggiore dell’Africa. I detenuti sono costretti a vivere stipati in celle di piccolissime dimensioni. Nello spazio nel quale dovrebbero vivere ottomila detenuti ne sono ammassati 25mila. Al mondo solo ad Haiti, nelle Filippine e in Salvador i carcerati vivono in condizioni peggiori. “Nella carceri zambiane - spiega a Fides Lara Viganò di Celim - i detenuti muoiono per mancanza di acqua, cibo e cure: mancano i servizi medici di base, le infrastrutture sono insufficienti o decadenti e le medicine scarseggiano. In particolare, i bisogni delle donne e dei bambini non vengono adeguatamente affrontati. Le donne incinte non ricevono trattamenti né nutrienti adeguati alla loro condizione e i figli delle detenute sono costretti a condividere il pasto con le madri. Il sistema penitenziario dello Zambia sta cercando di trasformarsi puntando sulla riabilitazione più che sulla punizione anche perché il tasso di recidiva è alto (30%). Ma i mezzi sono scarsi”. Il progetto si concentra anzitutto sulla formazione. Nelle sette prigioni in cui Caritas Zambia opera, si sono organizzati corsi professionali per i detenuti (elettricista, falegnameria, meccanica ecc.)aiutandoli a sostenere gli esami di qualifica professionale. L’idea di base è costruire, insieme a loro, capacità che possano spendere una volta usciti di prigione”. In questo contesto si inserisce anche il progetto di realizzare degli orti che ha una doppia valenza: offre la possibilità di imparare il mestiere dell’agricoltore. In secondo luogo, permette di avere verdura fresca per variare la dieta dei detenuti “L’attenzione alla salute - osserva Lara Viganò - è uno dei punti qualificanti del progetto. Negli anni abbiamo cercato di prestare attenzione alla condizioni igienico sanitarie dei detenuti e, in particolare, delle detenute e dei loro bambini. Nella prigione di Mazabuka, un penitenziario in pessime condizioni, abbiamo realizzato una clinica e organizzando corsi di formazione sanitaria. L’obiettivo è garantire la presenza costante di una persona preparata a intervenire in casi di emergenza ma anche di più semplici malanni”. Il progetto, iniziato nel 2016, prosegue nel 2019 con due obiettivi ambiziosi. “Nel nuovo modulo che abbiamo pensato - conclude Lara Viganò - ci concentreremo sul reinserimento economico-sociale. Creeremo centri nei quali, una volta riguadagnata la libertà, gruppi di ex detenuti potranno lavorare insieme e offrire ai concittadini i loro servizi come piccoli artigiani. In secondo luogo lavoreremo per la riconciliazione favorendo l’incontro dei detenuti con i loro famigliari, con le vittime e offrendo loro servizi di counseling. Siamo convinti che il reinserimento non solo sia possibile, ma sia doveroso e che queste persone possono dare ancora molto al loro paese”.