Carceri incivili: anche Forza Italia denuncia i Valter Vecellio lindro.it, 28 febbraio 2019 “Assistiamo quotidianamente a un decadimento delle condizioni di vita in carcere a cui sono sottoposti detenuti e agenti di polizia penitenziaria”. Non è solo il Partito Radicale, che da sempre sono i paladini del diritto al diritto e alla dignità nelle carceri, per l’intera comunità penitenziaria. Anche una pattuglia di parlamentari di Forza Italia prende atto che la situazione nei cento e passa istituti di pena italiani ha superato di molto il limite di guardia. “Assistiamo quotidianamente a un decadimento delle condizioni di vita in carcere a cui sono sottoposti detenuti e agenti di polizia penitenziaria, a cominciare dallo stato di difficoltà e di abbandono in cui si trova talvolta la sanità penitenziaria”, si legge i un’interrogazione urgente al ministro Alfonso Bonafede, firmata da Roberto Cassinelli, Giorgio Mulé, Roberto Bagnasco e Manuela Gagliardi. “Il numero di detenuti morti nelle carceri italiane per suicidio, malattia, overdose e ‘cause non accertate’”, denunciano, “è in costante aumento dal 2016 a oggi. I detenuti nelle carceri italiane si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere”. E ancora: “Dopo il docu-film (raccapricciante) sulla cattura di Battisti, il ministro Bonafede ci dica cosa intende fare per migliorare la situazione e se è vero che, come riferiscono alcune fonti, sarebbe intendimento dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria chiudere il Distaccamento penitenziario di Genova. Sarebbe l’ennesimo colpo a un sistema sempre più lasciato al suo destino”. Chissà se, e quando, verrà la risposta; e che risposta sarà. Chi invece parla (e meglio avrebbe fatto a frenare la lingua) è un componente del Consiglio Superiore della Magistratura, il dottor Camillo Davigo. Non perché non possa, come tutti, esprimere le sue opinioni. Piuttosto perché certe affermazioni, da parte di persone che come lui ricoprono delicati incarichi, sarebbe più opportuno non venissero fatte. Per contro, almeno si sa con esattezza chi sono, e da che ‘spirito’ sono animati, qual è la ‘cultura’ di riferimento. Dunque: il dottor Davigo è componente, nell’ambito del Csm, della commissione ‘incarichi’. La “più sgradevole”, la definisce. Perché mai? “Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della mancata nomina”. Meglio scomporre l’affermazione. Se chi ‘vince’ è convinto di avere i titoli per meritare il posto ambito, perché mai dovrebbe essere grato al dottor Davigo o a chiunque altro? Se lo merita, punto. Perché il dottor Davigo (o chiunque altro) si attende ‘gratitudine’? Si dice ‘grazie’ per un favore che si riceve. Ma se un magistrato quell’incarico se lo merita non riceve un ‘favore’; al contrario, se riceve il ‘favore’, forse l’incarico non lo meritava. E veniamo, ora, agli ‘altri’: quelli che non hanno vinto; per quale contorto pensiero devono pensare che non è per mancanza di sufficiente titolo e merito, ma per mancato appoggio? Ecco sarebbe utile che la cosa fosse approfondita con qualche ulteriore domanda (e risposta). L’altro passaggio è quello relativo ai risarcimenti e alle ingiuste detenzioni. Il dottor Davigo sostiene che in “buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. Di per sé, nulla di nuovo: il dottor Davigo da sempre ha detto di credere che il mondo si divide tra colpevoli e quelli che non sono stati scoperti (per saperlo: il dottor Davigo, tra queste due categorie, dove si colloca?); il farla ‘franca’ accade perché di “norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità’. Per non dire dell’Appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo”. A questo punto sarebbe opportuno che il dottor Davigo fornisca le prove a sostegno di accuse così gravi: quali sono gli innocenti che sarebbero colpevoli di averla fatta franca? Ne faccia nomi, cognomi, indirizzi. Quali i processi d’appello celebrati nonostante la difficoltà di conoscere a fondo il processo. Il ministro della Giustizia: di fronte ad accuse così gravi, circostanziate mosse da un autorevole componente del Csm, promuove almeno un’indagine conoscitiva sul presunto fenomeno? Qualche parlamentare presenta o no interrogazioni al ministro in questo senso, ‘semplicemente’ per sapere? Ma conviene tornare sulla questione carceri. Negli ultimi dodici mesi i detenuti sono cresciuti di 2.500 unità, superano i livelli di guardia del 2011. Nel 2018 si sono tolti la vita 65 detenuti; dall’inizio dell’anno già tre morti anche tra il personale di custodia. Chissà se il ministro Bonafede se n’è accorto. Nel solo carcere napoletano di Poggioreale nel 2018 i suicidi sono stati quattro. Siamo tornati a quella disumanità, per cui l’Italia è stata condannata, nel 2013, dalla Corte di Strasburgo. Né vale l’affermazione ricorrente: costruire nuovi penitenziari; ne servirebbero almeno una quarantina, investimento minimo di un miliardo di euro, e servirebbero per dismettere quelli cadenti attuali. Nelle sue dimensioni il problema resterebbe immutato, senza considerare che i tempi di costruzione sono biblici. Nel frattempo? Particolare: al 31 gennaio le persone in attesa di primo giudizio erano 9.933: quasi esattamente il numero eccedente la capienza massima delle nostre celle. Dal tramonto all’alba di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2019 Sempre più spesso, come diceva Altan, mi vengono in mente pensieri che non condivido. Dunque non vedo l’ora che passi la famosa legge Salvini sulla (il)legittima difesa. Intanto perché voglio vedere come farà il Pd a votare contro, avendone scritta (e approvata alla Camera!) una pressoché identica nel 2016, che dava licenza di sparare ai ladri o presunti tali ma solo dopo il tramonto (Salvini e i suoi giureconsulti, tipo la Bongiorno, si limitano a estenderla al resto della giornata). Eppoi perché non c’è miglior cartina al tornasole per lumeggiare il modus governandi della Lega: approvare, con gran battage pubblicitario, gride manzoniane che non servono a nulla e a nessuno, quando non fanno danni seri, ma illudono tutti di essere più sicuri. I dati del ministero della Giustizia dicono che, di derubati che sparano ai ladri, solo 3 o 4 all’anno (in tutta Italia) vanno a processo: tutti gli altri vengono archiviati prima, in fase d’indagine, una volta appurato che stavano difendendo la propria vita o un bene proporzionato. Ergo chi straparla di centinaia, forse migliaia di derubati costretti a interminabili calvari processuali mente per la gola: basta e avanza la legge esistente, scritta non da mammolette buoniste, ma dal governo B. del 2006, sotto il ministro leghista Roberto Castelli, che rendeva più tollerante per gli sparatori il già largo Codice Rocco (1930, Anno VIII dell’Era Fascista). E nessuna nuova legge potrà mai impedire a un pm che trovi un morto ammazzato in casa d’altri di aprire un’indagine per scoprire chi l’ha ucciso e perché. Altrimenti chi volesse far fuori qualcuno non avrebbe che da invitarlo a cena, sparargli in fronte, raccontare agli inquirenti che il tizio era lì per derubarlo e pretendere che gli credano sulla parola. Dunque la legge Salvini, peraltro in forte odore di incostituzionalità in Italia e in Europa, non servirà a niente e a nessuno. Ma farà molti danni, perché illuderà i soliti esaltati che si possa sparare a vista, istigandoli a farlo. Dopodiché quelli, se ci riusciranno, finiranno in galera e, dalla loro cella, daranno la colpa a Salvini, ma troppo tardi. Se invece non ci riusciranno, finiranno essi stessi ammazzati, perché i ladri sapranno di incontrare più vittime armate e spareranno per primi più di quanto facciano oggi. L’altro giorno, in una sensatissima e dunque contestatissima intervista a La Stampa, Piercamillo Davigo faceva notare la schizofrenia dei nostri politici, che han passato 25 anni a cancellare la certezza delle pene fra indulti, depenalizzazioni, misure alternative e svuotacarceri, e ora che i buoi sono scappati dalla stalla fingono di chiudere le porte. I centrodestri e i “garantisti” un tanto al chilo, oltre ai soliti avvocati delle Camere penali, non sopportano che Davigo dica la verità: e cioè che in Italia si va in carcere di rado e, quelle rare volte, ci si resta molto poco. Ma le statistiche parlano chiaro. Chi sproloquia di sovraffollamento delle carceri e si fa forza delle continue condanne subìte dall’Italia, ignora che il nostro Paese è così furbo da prevedere per ogni detenuto una capienza minima tollerabile di 9 metri quadri per ogni cella singola, cui ne vanno aggiunti 5 per ciascun detenuto in quelle multiple. Invece la capienza minima della Corte europea dei diritti dell’uomo è di 3 metri quadri pro capite, e quella del Comitato per la prevenzione della tortura di 4. Così per l’Italia una cella di 14 metri quadri non può contenere più di 2 detenuti, mentre per la Cedu ne può ospitare 4 o 5. E l’Italia viene condannata a pesantissimi risarcimenti in base ai propri parametri, fra l’altro neppure previsti da una legge, ma da semplici regolamenti. Una follia suicida, che ci scredita come paese torturatore e ci costa pure centinaia di milioni. “L’Italia - ammise nel 2013 l’allora Guardasigilli Annamaria Cancellieri - calcola la propria capacità ricettiva secondo un parametro più alto di quello utilizzato in Europa”. Ma nessun governo ha mai fatto una leggina che ci uniformi agli standard europei. Dopodiché, tra il (presunto) sovraffollamento delle carceri e il (presunto) eccesso di carcerazione, non c’è alcun rapporto: per sapere se abbiamo troppi o troppo pochi detenuti, bisogna confrontarne il numero con quello dei delinquenti e dei delitti, oltreché col totale della popolazione. Ed entrambi i raffronti dicono che l’Italia è uno dei paesi con meno detenuti. Nessun altro Stato europeo può vantare almeno tre regioni su 20 infestate dalla criminalità organizzata, né livelli così patologici di corruzione e di evasione. Eppure abbiamo 89,3 detenuti ogni 100 mila abitanti, contro una media di 150 degli Stati membri del Consiglio d’Europa. A parte il record mondiale degli Usa (693 detenuti ogni 100 mila abitanti, per un totale di 2,2 milioni), ne hanno molti più di noi la Repubblica Ceca (205), la Slovacchia (186), il Portogallo (139), la Spagna (130), Malta (131), Lussemburgo (112), Belgio (105), Francia (102,6), Austria (95), Grecia (90). Pochi reclusi, e per poco tempo. Ogni anno entrano nelle carceri italiane 90 mila detenuti (di cui solo lo 0,3% sono colletti bianchi) e ne escono quasi altrettanti: 80 mila. Il che comporta un turn over frenetico e una durata media delle detenzioni di appena 90 giorni: per ogni ergastolano, ci sono centinaia di delinquenti che restano dentro uno o due giorni. Compresi i ladri, che per fare almeno qualche giorno di galera devono compiere sforzi immani per strappare condanne superiori ai 4 anni: fino a quella soglia (che poi è il 90% delle condanne), infatti, si sta comodamente fuori ai servizi sociali o ai domiciliari. Un ministro della Sicurezza farebbe qualcosa per assicurare i ladri alle patrie galere. Invece il ministro della Propaganda li lascia a spasso e poi affida alle vittime il compito di abbatterli a fucilate. #Daicistai: l’appello della Comunità Papa Giovanni XXIII smtvsanmarino.sm, 28 febbraio 2019 L’appello della Comunità Papa Giovanni XXIII. Da cinquant’anni offre percorsi alternativi ai detenuti per rimettersi in gioco. Non ricevendo contributi statali ha lanciato una campagna online per raccogliere fondi. Il progetto CEC, Comunità Educante con i Carceri, vuole coinvolgere e offrire una strada alternativa alle carceri tradizionali. È quello che accade a Casa Betania, la prima struttura nata della Papa Giovanni XXIII. Il percorso strutturato segue quello delle carceri Apac brasiliane: strutture penitenziarie dove sono i detenuti ad avere le chiavi delle proprie celle e nessuno vuole scappare. Sono 550 le strutture come Casa Betania della Comunità Papa Giovanni XXII sparse in tutto il mondo. Non avendo contributi da enti pubblici o privati la comunità ha lanciato la campagna #Daicistai per raccogliere fondi online da chiunque voglia aiutare. Una struttura che negli anni raccoglie storie di vite complicate ma anche rinascite e nuovi affetti. Legittima difesa, è di nuovo scontro tra l’Anm e Salvini Corriere della Sera, 28 febbraio 2019 Per il segretario del sindacato delle toghe la riforma “non s’ha da fare”. Il leader leghista replica: “Chi vuole fare politica si candidi in Parlamento”. La riforma della legittima difesa, fortemente voluta dalla Lega, slitta di una settimana ma tra una parte della magistratura e il ministro dell’Interno si riaccende la polemica. Il primo affondo arriva da Francesco Minisci, presidente Anm, che a Rai Radio1 (Radio anch’io) ha detto: “Speriamo che questo rinvio sia sine die. Che non si faccia la riforma sulla legittima difesa. E’ una riforma di cui non abbiamo bisogno. E’ un istituto sufficientemente regolamentato nel nostro sistema. Questa tutela rafforzata nel domicilio e nel negozio è stata già inserita nel 2006 quindi è una riforma di cui non abbiamo bisogno. Se un soggetto muore in un determinato contesto, il Pm e le forze dell’ordine le indagini devono farle”. Salvini: “Chi critica si candidi con la sinistra” - Pochi minuti e arriva la replica di Matteo Salvini, da Cagliari dove si trovava con il neo governatore Christian Solinas per commentare la vittoria alla regionali di domenica. “Sulla legittima difesa permettetemi un inciso che riguarda la democrazia. In Italia contano gli italiani e i parlamentari che eleggono: leggere le parole del presidente dell’Associazione nazionale magistrati - che sicuramente rappresentano una parte di quei pochissimi magistrati di sinistra che fanno più politica che giustizia - sentire che oggi il presidente dell’Anm dice “Noi vogliano che la riforma non si faccia, noi non vogliamo che il parlamento approvi una legge sulla legittima difesa” è una di una gravità assoluta. Candidati alle elezioni e fatti eleggere con la sinistra”. Magistratura indipendente: “Abbassare i toni” - “È importante abbassare i toni e recuperare un dialogo improntato al rispetto reciproco”. Sul tema interviene Antonello Racanelli, segretario di Magistratura Indipendente, la corrente più moderata dei giudici, che proprio qualche giorno fa aveva preso le distanze dal sindacato delle toghe per un comunicato molto critico proprio nei confronti del titolare del Viminale. “Ognuno faccia il suo mestiere: il Parlamento sia libero di fare le scelte legislative ad esso costituzionalmente riservate ed i magistrati dovranno applicare le leggi che saranno approvate valutando, ove ne ricorressero i presupposti, eventuali questioni di legittimità costituzionale. Ai magistrati spetta certamente la possibilità di formulare valutazioni tecniche ma non possono certamente dire se una riforma si deve o non si deve fare”, sottolinea Racanelli, che però non esclude che stavolta ci sia stato un equivoco. “Penso che il presidente Minisci stamattina sia forse stato frainteso intendendo ancora una volta esprimere le perplessità tecniche condivise da una parte della magistratura sulla riforma in itinere. Conoscendo la sua intelligenza credo non avrà problemi a ribadire il suo rispetto per la funzione legislativa del Parlamento. Nello stesso tempo è opportuno che anche da parte degli esponenti politici si evitino affermazioni che rischiano di delegittimare i magistrati e la magistratura. Cerchiamo tutti di voltare pagina - è il suo auspicio finale - nel rispetto reciproco dei ruoli”. La legittima difesa ricompare in Aula. Scontro toghe-Salvini di Fabrizio de Feo Il Giornale, 28 febbraio 2019 Il presidente dell’Anm attacca: “Spero in un rinvio sine die”. Il vicepremier: “Gravissimo”. L’Associazione Nazionale Magistrati prova a smontare la legge sulla legittima difesa. Matteo Salvini risponde per le rime. E alla fine, nonostante i mal di pancia dei Cinquestelle non troppo entusiasti delle nuove norme, la proposta di legge viene calendarizzata alla Camera per il 5 marzo, ovvero per martedì prossimo. L’esame del testo era inizialmente previsto per la settimana in corso ma un voto dell’Aula lo ha fatto slittare. Un rinvio che ha scatenato una ridda di ipotesi, alla luce delle difficoltà vissute in questi giorni dal movimento pentastellato e della disfatta subita in terra di Sardegna. Il cerchio, invece, alla fine si è chiuso. E la legge che dovrebbe considerare “sempre in stato di legittima difesa” chi, nel proprio ambiente, si difende da un’azione di terzi “posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica” inizia a vedere il traguardo. La giornata, però, è segnata fin dal primo mattino da uno scontro frontale parte della magistratura e governo. “È una buona notizia, speriamo sia sine die” attacca il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci a Radio anch’io riguardo al rinvio della discussione in Parlamento. “È una riforma di cui non abbiamo bisogno, presenta gravi profili di incostituzionalità”. La replica del vicepremier Salvini non si fa attendere. “Leggere le parole, che sicuramente rappresentano una minima parte di quei pochissimi magistrati di sinistra che fanno più politica che giustizia, del presidente dell’Anm è di una gravità assoluta”. A quel punto “candidati alle elezioni e fatti eleggere dalla sinistra. Non penso spetti a un magistrato decidere quale legge bisogna fare o non fare: applica la legge”. “La legittima difesa” comunque “sarà legge entro marzo. È in calendario alla Camera martedì, poi passerà al Senato e quindi i rapinatori avranno qualche diritto in meno e gli aggrediti qualche tutela in più”. E Giulia Bongiorno aggiunge: “Stimo il presidente dell’Anm, ma temo che non abbia avuto ancora modo di approfondire il testo. Smentisco in maniera categorica che con questa norma si impedirebbero le indagini, sarebbe grave e il testo non lo prevede”. Bordate contro la proposta di legge arrivano però anche da Maria Rosaria Guglielmi, segretario di Magistratura democratica che parla di “riforma manifesto con gravissime implicazioni sul piano culturale e giuridico”. Antonello Racanelli, segretario di Magistratura Indipendente, la corrente più moderata dei giudici, invita tutti ad “abbassare i toni e recuperare un dialogo improntato al rispetto reciproco”. “Ognuno faccia il suo mestiere: il Parlamento sia libero di fare le scelte legislative e i magistrati applichino le leggi valutando eventuali questioni di legittimità costituzionale”. I Cinquestelle, facendo buon viso a cattivo gioco, rassicurano sul percorso della legge. “La legge la condividiamo e riteniamo debba andare avanti” dice il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E Luigi Di Maio aggiunge: “La legittima difesa è nel contratto e tra le altre cose anche noi avevamo una proposta nella precedente legislatura. Non è una questione di accontentare l’uno o l’altro, ma di tenere fede agli impegni. Punto”. Nel Movimento, però, crescono i malumori. E alcuni parlamentari escono allo scoperto e annunciano che non lo voteranno. “Non intendo legittimare questo provvedimento. Il messaggio culturale che ne farà la Lega è pericoloso” dice all’Adnkronos è la deputata M5s Doriana Sarli. “Non voterò il provvedimento” aggiunge Gilda Sportiello. “Non ho neanche presentato emendamenti perché è proprio inemendabile”. Così la legge “spazza-corrotti” rischia di togliere di torno anche un po’ di Costituzione di Errico Novi Il Dubbio, 28 febbraio 2019 Che nella legge “spazza corrotti” ci fossero molteplici profili di incostituzionalità era emerso subito. Ora un articolo pubblicato dal professor Vittorio Manes su “Diritto penale contemporaneo” mette in luce con impietosa precisione il contrasto con la Carta di una delle norme più sottovalutate: la preclusione dei benefici penitenziari a chi è condannato per corruzione. La “collaborazione”, cioè il “pentimento” dei condannati per corruzione? In tanto casi sarà ““strutturalmente” difficile, se non impercorribile; a meno di non ipotizzare che la stessa debba prender forma in un mero edere contra se o in un monologo simile a quello di Krapp davanti al suo “ultimo nastro”. L’ultimo nastro di Krapp è uno strepitoso atto unico di Samuel Beckett, del 1957. Il protagonista è un clown, ormai anziano. Da giovane aveva preso l’abitudine di prendere appunti non su un qualsiasi quaderno, ma su un nastro magnetico. Nella prima scena, il vecchio Krapp riascolta la sua voce di trent’anni prima. Con quell’impeto giovanile, entusiasta e pieno di ottimistiche ambizioni che ora lo costringe solo a commiserarsi e a considerare il proprio fallimento. Non è detto che Vittorio Manes, nel proporre una simile magnifica citazione nel pieno di un rigoroso articolo di dottrina sulla “spazza corrotti” potesse immaginare che, qualche giorno dopo, l’ipotesi di confessare al giudice di sorveglianza il proprio disgusto per i misfatti compiuti in passato potesse essere immaginato in capo a Roberto Formigoni. Il mirabile articolo di Manes sull’ultima legge “anticorruzione” appare sull’ultimo numero di una delle più autorevoli riviste scientifiche in campo penalistico, “Diritto penale contemporaneo”. E offre più d’uno spunto “letterario” simile a quello appena citato. Pieno d’ironia sferzante che sembrerebbe dileggio. E che invece è disperata amarezza. Perché uno dei “miracoli” della nouvelle vague (oddio, nuova fino a un certo punto) della legislazione penale è che, a furia di spettacolarizzare la giustizia, ha costretto persino gli scienziati del diritto a praticare quando meno la trasfigurazione letteraria. Non in modo sistematico, ma come opzione di stile a cui aggrapparsi di tanto in tanto, nel pieno di analisi scientificamente rigorose, per contenere appunto lo sconforto. La fantasia creativa del legislatore si ispira alle logiche della giustizia spettacolo, del panpenalismo da propaganda- show? Ebbene, creatività artistica per creatività artistica, pure i giuristi si adattano e la mettono appunto sul piano dell’ironia, della consolazione letteraria, dell’amara ironia. L’articolo di cui si parla è intitolato esattamente “L’estensione dell’art. 4- bis ordinamento penitenziario ai delitti contro la p. a.: profili di illegittimità costituzionale”. Viviseziona, appunto, una delle norme contenute nella legge n. 3 del 2019 nota come “spazza corrotti”, approvata dal Parlamento lo scorso 21 dicembre ed entrata in vigore il 31 gennaio, con un certo ritardo anche per le perplessità del presidente Sergio Mattarella, che se l’è guardata bene prima di trovarsi costretto a promulgarla. Manes scolpisce con ragioni difficilmente confutabili, dunque, i “profili di incostituzionalità” del regime ostativo alle misure alternative al carcere imposto, fra le tante discutibili cose, da quella legge. I corrotti, oltre che “spazzati” (“lessico marziale” chiosa Manes fulmineamente al primo rigo), sono anche assimilati ai mafiosi. Nel senso che come questi ultimi non possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, se non appunto dopo aver trascorso un periodo in carcere in modo che il magistrato ne possa osservare il percorso rieducativo. E comunque la successiva, differita concessione, per esempio, della messa alla prova, è comunque subordinata alla “collaborazione”, cioè al pentimento. Che appunto, in un caso come quello di Formigoni, rischia di essere impossibile, giacché gli altri soggetti coinvolti nelle questione per cui è stato condannato sono già stati processati. Non gli resterebbe che pentirsi di se stesso, come il Krapp di Samuel Beckett. Incongruenze e incostituzionalità - Vittorio Manes non è solo uno straordinario studioso del diritto penale. Testimonia anche un riflesso della giustizia trasfigurata in illusionismo mediatico permanente. I suoi articoli scientifici offrono una chiaro esempio di tale occasionale digressione stilistica dai rigorosi e millimetrici percorsi dell’analisi giurisprudenziale, proposta come segno di sconcerto. L’articolo del professore dell’università di Bologna sulla “spazza corrotti” incrocia involontariamente - è stato pubblicato sul secondo numero del 2019 di “Diritto penale contemporaneo”, cioè a sentenza Formigoni già pronunciata - il caso dell’ex governatore lombardo. Secondo la legge entrata in vigore lo scorso 31 gennaio, a reati come quelli per i quali è stato condannato Formigoni si applica l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Manes - che all’attività accademica intreccia quella di avvocato penalista, e che in quanto tale vanta diversi incarichi nell’Unione Camere penali, in particolare come responsabile dei Rapporti con le istituzioni internazionali - ricorda che, per diversi reati contro la Pa, la collaborazione sarà appunto impossibile: “Le condotte “collaborative” evocate - originariamente pensate per il fenotipo del crimine organizzato - appaiono persino difficilmente compatibili, sul piano strutturale, con alcuni reati ora qualificati come ostativi: basti pensare al peculato (art. 314 c. p.), normalmente declinato in chiave monosoggettiva, o alla concussione (art. 317 c. p.), costruita su uno schema di plurisoggettività necessaria impropria”. Ma prima ancora che su simili incongruenze applicative, l’analisi di Manes mostra appunto con incontestabilità come la preclusione dei benefici penitenziari ai condannati per corruzione prefiguri una “illegittimità costituzionale” sia rispetto all’articolo 27, cioè al fine rieducativo della pena, che riguardo al principio della “irretroattività” della legge penale (sancita all’articolo 25). Più precisamente il professor Manes scrive che “l’inclusione nella lista dei reati contro la P. A. - non diversamente da quanto potrebbe dirsi, ben inteso, anche per altre fattispecie - presenta profili di contrasto con diversi principi costituzionali, sia in ordine al principio di ragionevolezza / eguaglianza, sia in ordine alla compatibilità con la finalità rieducativa, sia in ordine al regime intertemporale”. “Corrotti” pericolosi come boss - In primo luogo si rileva “l’irragionevolezza della presunzione di pericolosità sottesa al regime di ostatività con riferimento ai delitti contro la P. A.”, quindi al “contrasto con il principio di ragionevolezza/ eguaglianza (art. 3 Cost.)”. Negare “la sospensione dell’ordine di esecuzione e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova”, secondo la “recente giurisprudenza costituzionale” è scelta che il legislatore dovrebbe subordinare appunto a “indicatori” in grado di “opporsi all’esigenza della coerenza sistematica”. Ma, scrive Manes, “è proprio tale adeguatezza - a nostro avviso - a far difetto nel caso dei delitti contro la PA attratti ora nell’orbita dell’art. 4 bis ord. pen.: nessun particolare indicatore segnala la necessità - in simili ipotesi - di abbandonare “l’obiettivo di risparmiare il carcere al condannato”, segnalato come prioritario dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 569 del 1989 e perseguito “al massimo grado” dal legislatore sin dalla legge n. 165 del 1998, consentendo a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, ossia una misura “specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere”. i qui “la possibile violazione dell’art. 3 Cost., anche nella precipua prospettiva di una indebita compressione del principio rieducativo (art. 27/ 3 Cost.), e del principio del “minimo sacrificio necessario” che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale”. La “rottamazione” dell’articolo 27 - Considerazioni che chiariscono in anticipo quanto il giurista e avvocato rileva nel paragrafo successivo sempre riguardo alla “irragionevolezza delle deroghe imposte al principio rieducativo”. In particolare la “deroga” prevista nella “spazza corrotti” sembra rispondere a nessun altra valutazione che non sia “di schietto ordine general-preventivo, se non di pura “deterrenza”, nulla avendo a che fare la misura - e il periodo di “osservazione” intramuraria - con peculiarità trattamentali imposte dalle connotazioni strutturali dei reati in rilievo”. Ma la Corte costituzionale, ricorda Manes, “in una recente pronuncia in tema di ergastolo, ha espressamente affermato il “principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”, prima fra tutte la funzione general- preventiva, posto che tale “pur legittima” finalità non può “nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società”. Lo stop ai benefici è retroattivo? - Ma la decostruzione critica della “spazza corrotti” operata da Manes diventa ancora più serrata a proposito dell’applicazione dell’ostatività ex articolo 4 bis anche ai reati commessi ben prima che la legge fosse approvata. “I più stridenti profili di frizione costituzionale si registrano, tuttavia, sul piano della disciplina intertemporale, che implicherebbe - alla luce del “diritto vivente” - la implicita retroattività della novazione peggiorativa, a fronte dell’assenza di una norma transitoria che ne imponga la vigenza solo pro futuro”. Ora, è vero che “l’orientamento giurisprudenziale prevalente, seguendo un approccio esasperatamente formalistico, ritiene la disciplina dell’esecuzione penale - e segnatamente quelle riferibili all’ordinamento penitenziario - estranea all’ambito di garanzia dell’articolo 25/ 2 Cost., assoggettandola al principio del tempus regit actum, con conseguente applicabilità immediata - e dunque retroattiva - della nuova disciplina peggiorativa anche a fatti/ reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019”. Ma si tratta, con evidenza accessibile anche ai profani, di un paradosso. Spiega ancora Manes: “Un tale inquadramento contrasta con l’approccio sostanziale seguito dalla giurisprudenza della Corte Edu, e su questa traccia accolto anche dalla Corte costituzionale, che ha conseguentemente esteso lo spettro garantistico dell’art. 25/ 2 Costituzione”. E qui il professore di Diritto penale dell’università di Bologna cita la sentenza della Consulta n. 196 del 2010. La Corte di Strasburgo ha “affermato a più riprese” il principio che conduce a “ritenere “sostanzialmente punitive” - e ad inquadrare nel perimetro della “matière pénale” - disposizioni processuali o esecutive che abbiano una incidenza afflittiva sul trattamento giuridico penale del singolo: specie quando le modifiche intertemporali - incidendo come nel caso dell’art. 4- bis ord. pen. sulla stessa possibilità di accedere alla misura alternativa - siano tali da determinare un mutamento qualitativo della sanzione concretamente inflitta, da “alternativa” a “detentiva”; ed a fortiori quando tali modifiche non abbiano alcuna connessione con valutazioni inerenti il percorso trattamentale ma riflettano una schietta opzione di politica- criminale dettata da riconsiderazioni di stampo puramente general-preventivo”. Applicare retroattivamente l’ostatività nell’accesso ai benefici per chi è giudicato colpevole di reati contro la Pa comporta “una violazione dell’art. 25/ 2 Cost., interpretato secondo una accezione “convenzionalmente orientata” che estende il raggio di operatività della garanzia a tutte le disposizioni a contenuto afflittivo e/ o “intrinsecamente punitivo”“. Beffato chi ha scelto riti alternativi - Abbiamo lasciato in ultimo la beffa più clamorosa prodotta dalla “spazza corrotti” per chi dovrà scontrare una pena per corruzione. Ma è forse l’aspetto più cogente, certamente lo è in misura maggiore rispetto a casi come quello di Formigoni. “La modifica peggiorativa retroattiva”, spiega Manes, “implicherebbe conseguenze peggiorative imprevedibili e “a sorpresa”, travolgendo l’affidamento dell’imputato che - magari - ha optato per un rito alternativo confidando in una sanzione ricompresa entro il margine di applicazione dell’affidamento in prova senza “assaggio di pena” (come tipicamente nel caso di “applicazione della pena su richiesta delle parti”: art. 444 c. p. p. ss.), e che oggi vedrebbe inevitabilmente frustrate le sue legittime aspettative non potendo inoltrare richiesta di misura extra-muraria se non in corso di esecuzione della pena detentiva, all’esito dell’osservazione e a fronte della collaborazione”. E a questi profili “potrebbe riconnettersi, del resto, anche una violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), se lo stesso implica la possibilità di ponderare scelte anche in ordine all’iter processuale da seguire che non siano alterate - in violazione della fairness processuale - da una successiva modifica delle “regole del gioco”, alle spalle (e a detrimento) degli individui”. Ulteriori spunti, utilissimi per i difensori che si troveranno imbrigliati da una simile trappola, Manes li offre riguardo alla via perché possano essere fatte valere tali “frizioni” con la Carta. Che sono evidenti, eppure introdotte con fare così disinvolto dal legislatore da provocare un guazzabuglio anche in termini di possibili contromisure. Una leggiadria quasi inconsapevole nel manomettere l’ordinamento di fronte alla quale, in certi momenti, non si può reagire se non citando Samuel Beckett. Il giudice e i populismi, il congresso di Md di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 28 febbraio 2019 Al via i lavori delle 22esime assise della corrente di sinistra delle toghe. La segretaria uscente Guglielmi rivendica il diritto dei magistrati ad esprimere opinioni politiche e attacca i provvedimenti del governo. Ma all’interno si discute del rapporto con Area e si rischia la rottura. Difendere i diritti dentro “l’Europa dei populismi”. Questa la sfida lanciata da Magistratura democratica (Md) riunita per il suo ventiduesimo congresso da oggi fino a domenica (“anteprima” al tempio sikh di Latina con Libera e Flai-Cgil, lavori veri e propri da domani a Roma). La storica corrente di sinistra delle toghe guarda oltre il cortile di casa, al continente-fortezza in cui aumentano nazionalismi e “democrazie illiberali”. Dalla Polonia alla Turchia, dall’Ungheria alla Serbia, fuori e dentro l’Ue sono molti i paesi in cui governi nemici dello stato di diritto attaccano l’indipendenza dei giudici per avere le mani libere di colpire oppositori, minoranze, stranieri. E l’Italia non fa eccezione: senza raggiungere (ancora) gli estremi di Varsavia o Ankara, anche da noi sono riconoscibili le stesse pulsioni all’interno delle istituzioni, come mostrano la vicenda della nave Diciotti o la visita di Matteo Salvini all’imprenditore Angelo Peveri detenuto a Piacenza per tentato omicidio. L’allarme per il rischio di una fatale “mutazione genetica” della nostra democrazia, lanciato dalla segretaria generale Maria Rosaria Guglielmi - nella sua relazione già resa pubblica -, è di quelli che fanno storcere il naso ai difensori della “apoliticità” delle toghe, cioè della loro subordinazione non alla legge e alla Costituzione, ma al potere politico. Non a caso c’è chi apertamente si augura la sparizione di Md come il sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone, leghista. La sua poltrona in via Arenula è quella che fu di Cosimo Ferri, leader della corrente di destra Magistratura indipendente (Mi), che dopo cinque anni al ministero da “tecnico” di area berlusconiana è ora deputato del Pd per volere di Renzi. Nell’attuale Csm è proprio la Mi di Ferri il gruppo più forte, insieme ai centristi di Unicost, indice che la visione “apolitica”, “neutrale” e corporativa fa presa in ampi settori della magistratura. Alle accuse di collateralismo, Md risponde che la critica ai provvedimenti governativi è nella sua storia: durante la legislatura precedente toccò a riforme costituzionali, jobs act, decreto Minniti, per esempio. Nell’aggressione ai diritti, però, ora c’è un salto di qualità rispetto al recente passato. Il decreto Salvini sui migranti è, secondo Guglielmi, il “manifesto” della messa in discussione del “fondamento egualitario e solidaristico del nostro Stato costituzionale”, il ddl Pillon sull’affido condiviso dei figli uno dei segnali di “nuovo oscurantismo”, e “la messa in scena organizzata dalla propaganda di stato per “celebrare” la fine della latitanza di Cesare Battisti ha trasformato la vittoria dello Stato di diritto e la chiusura di una vicenda dolorosa della nostra storia in una pagina umiliante”, che rappresenta “un’idea arcaica di giustizia e un concetto primitivo della dignità umana”. La maggioranza M5S-Lega esprime una visione puramente repressiva del diritto penale in cui non c’è posto per le garanzie, che, invece, per la segretaria “non sono una concessione a favore degli avversari della legalità, ma un’esigenza della giurisdizione”. Il congresso romano serve alle “toghe rosse” anche per guardarsi dentro. Il voto per il rinnovo del Csm dello scorso anno ha segnato una battuta d’arresto, gettando un’ombra sulla reale tenuta di Area, il gruppo - non più semplice “cartello” - di cui Md fa parte insieme all’altra corrente progressista, Movimento per la giustizia. Fa ancora male la mancata elezione di Rita Sanlorenzo, che gareggiava per uno dei due seggi assegnati ai magistrati di Cassazione: selezionata come gli altri attraverso primarie, numeri alla mano è risultata vittima del “fuoco amico” di una parte degli elettori di Area. E proprio il rapporto fra il gruppo storico Md e la nuova aggregazione è uno dei nodi politici del dibattito interno. Un documento firmato fra gli altri dall’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, esponente di punta della sezione capitolina dei magistrati democratici, chiede maggiore coordinamento con Area “al fine di non creare fratture interne che ne indeboliscano la capacità di azione”. La segretaria, invece, e con lei la maggioranza del gruppo dirigente uscente, rifiuta limiti agli spazi di partecipazione di Md al dibattito esterno, pena la “rinuncia alla soggettività” del gruppo. Schermaglie su procedure e questioni organizzative dietro le quali si intravedono divergenze strategiche che, in prospettiva, potrebbero rivelarsi non più componibili: nessuno è ancora uscito allo scoperto, ma non è un mistero che dentro Md vi siano fautori dello scioglimento tout court in Area nel nome del superamento delle “vecchie identità ideologiche” o del ridimensionamento di Md a fondazione culturale. Caso Peveri e legittima difesa: la battaglia a parti invertite tra governo e magistrati di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 febbraio 2019 Infuria la polemica tra l’Anm, cioè l’associazione magistrati, e il governo. Succede spesso e da diversi anni. Le novità sono due. La prima è che in genere in queste contese vincono i magistrati. Stavolta mi sa che vince il governo. La seconda è che siamo abituati a vedere il governo su posizioni più garantiste e i magistrati, come è logico, su posizioni più giustizialiste. Stavolta succede il contrario. La materia del contendere è la legittima difesa. I due principali contendenti sono il capo dell’Anm Francesco Minisci e il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Gli spunti per questo nuovo scontro sono il rinvio della discussione sulla nuova legge sulla legittima difesa (legge voluta principalmente dalla Lega) e il caso di Angelo Peveri, l’imprenditore condannato per aver sparato a un ladro di benzina. La battaglia tra governo e magistrati è stata animata da dichiarazioni incrociate vicendevolmente polemiche proprio di Minisci e Salvini. L’impressione, così ad occhio, è che abbiano torto entrambi. Facciamo un riassunto di tutta la vicenda. Inizia con la decisione della Cassazione di confermare la condanna a quattro anni e sei mesi di carcere per un imprenditore di Piacenza colpevole di avere sparato a un ladro dopo averlo catturato. I fatti risalgono a otto anni fa. Angelo Peveri ha un cantiere sul fiume Tidone, a qualche chilometro dal capoluogo. Quella notte si accorge che tre ladri stanno rubando il gasolio da alcuni suoi trattori. Interviene armato di fucile, insieme ad un suo dipendente, spara tre colpi in aria che mettono in fuga i ladri, poi li insegue fino al greto del fiume e riesce a prendere e immobilizzare uno dei tre. Lo fa inginocchiare, gli afferra la testa e la sbatte più volte contro il terreno di ghiaia, poi gli spara un colpo di fucile al petto, da circa un metro, e lo ferisce gravemente. Subito dopo chiama l’ambulanza. Il ladro ferito, che si chiama Yukon Dorel, viene operato e salvato, ma perde una parte del polmone ed è dichiarato invalido al 55 per cento. Peveri va a processo per tentato omicidio. Lui si difende sostenendo che il colpo è partito accidentalmente. I giudici non gli credono e lo condannano al minimo della pena riconoscendogli anche tutte le attenuanti. Ma il minimo della pena, attenuanti comprese, è quattro anni e mezzo e Peveri deve entrare in carcere. A questo punto scoppiano le polemiche. Perché il ministro dell’Interno lo va a trovare, dichiara che secondo lui in carcere non doveva andarci, contesta la pena che gli è stata inflitta, annuncia che forse - chiederà la grazia a Mattarella. E spiega che con la nuova legge sulla legittima difesa tutto ciò non succederà più e chi si difende non potrà essere processato. Poi però annuncia anche il rinvio della discussione sulla legittima difesa (deciso forse per dare un po’ di fiato all’alleato Di Maio che non vede questa legge tanto di buon occhio). L’associazione magistrati reagisce immediatamente polemizzando con Salvini. Minisci spiega che la vicenda Peveri con la legittima difesa non c’entra niente, perché l’imprenditore non si è difeso da nulla ma ha solo punito un ladro, e spiega che le pene le decidono i magistrati e non i ministri dell’Interno, e poi si dichiara soddisfatto del rinvio della nuova legge sulla legittima difesa (che non piace ai magistrati) e aggiunge: “Spero che sia un rinvio sine die”. Salvini a questo punto torna a polemizzare spiegando che i magistrati non decidono loro se e quando si fanno le leggi e che se vogliono decidere le leggi devono candidarsi alle elezioni (argomento, non infondato, usato già più volte dal capo della Lega). Chi ha ragione? Ripeto: credo nessuno dei due. Salvini ovviamente ha torto quando si dichiara solidale con una persona che è stata condannata per aver “fucilato” un povero ladruncolo di benzina che non stava mettendo in pericolo la sicurezza di nessuno e che non aveva più nemmeno la possibilità di continuare il furto. E’ chiaro che un ministro che fa così si espone a critiche molto severe. Sostenere che non si fa niente di male a prendere un fucile e sparare a un ladro imbelle e che sta in ginocchio immobilizzato è una idiozia totale, evidente, ed è anche abbastanza grave. Ha torto anche Minisci quando dice che spera che la legge sia rinviata sine die. Vi dirò che anch’io ho questa speranza, ma non sono un magistrato né il capo dell’Anm. Penso che quella legge sia una pessima legge ma che tocchi al Parlamento decidere se va approvata o no, e non certo ai magistrati. I magistrati la devono smettere di voler influire nel percorso legislativo. Minisci ha sbagliato. Dopodiché si pone la questione del signor Peveri. Per me si è comportato malissimo. Spero ardentemente che davvero quel colpo di fucile gli sia partito per errore. Spero che i magistrati si siano sbagliati a immaginare un tentativo di omicidio. Il reato però resta, comunque, ed è un reato grave. Tuttavia, dal momento nel quale Peveri è entrato in prigione io mi sento dalla sua parte e - come per tutti i detenuti - mi auguro che possa uscire il più presto possibile. Che possa usufruire degli sconti di pena e delle misure alternative. Io penso che molto spesso il carcere sia una punizione eccessiva, e che quasi sempre sia controproducente. Se il governo del quale Salvini è vicepremier non avesse bloccato la riforma carceraria varata dal governo precedente (che pure era una riforma molto, molto prudente), Peveri avrebbe parecchie possibilità in più di uscire abbastanza presto. La nuova politica rigorosa e giustizialista decisa dal nuovo governo rende la sua situazione molto più difficile. Per aiutare Peveri però non serve a niente dire cose davvero assurde, come “ha fatto bene a sparargli”. E’ molto più saggio l’atteggiamento di sua figlia, che in Tv ha rilasciato dichiarazioni miti e ragionevoli, giurando che sua padre ha commesso solo uno sbaglio e che mai più lo rifarebbe e che mai più lo rifarà e che assolutamente non voleva sparare né tantomeno uccidere. C’è un abisso tra le parole della figlia di Peveri e le parole di Salvini. La speranza è che lo stesso Salvini si accorga di avere detto cose non sensate e che scelga posizioni più moderate e più compatibili con la Costituzione e con il buonsenso, anche quando la sua legge sulla legittima difesa andrà in aula. Il caso Formigoni, le parole di Davigo: i dubbi di un garantista di Valter Vecellio Il Dubbio, 28 febbraio 2019 L’ex presidente della Lombardia non dovrebbe stare in galera. Carissimo Dubbio, chi se non a voi, a questo giornale, “dubbioso” di nome e per costituzione, affidare il mio turbamento e, anche, sgomento? Il primo. A costo di esser scambiato per un simpatizzante di Roberto Formigoni (non lo sono mai stato); a costo di far credere di avere qualche simpatia per don Luigi Giussani e Comunione e Liberazione (mai avute, anche quando tutti ai meeting di Rimini ci correvano o si dispiacevano per i mancati inviti): ora mi sembra che siano delle grandi carognate, quelle di chi “spara” addosso a un Formigoni in ginocchio; spesso sono gli stessi che nulla dicevano quando era potente (e prepotente). Vecchia regola, essere forte coi deboli, e debole coi forti. Regola e comportamento ignobili, ripugnanti. Cattivi. Trovo inoltre incivile che Formigoni (e, beninteso, chiunque), a 72 anni sia chiuso in una cella (quale sia la cella), di un carcere (quale sia il carcere). Trovo inconcepibile che un giudice debba impiegare un mese per stabilire se Formigoni può o non può scontare la sua pena in forme diverse dalla detenzione carceraria. Quel Formigoni integralista e intollerante, che faceva falsificare arrogantemente le firme per le liste elettorali, e per questo è stato condannato; quel Formigoni che vedeva come fumo negli occhi Marco Pannella, acerrimo nemico di ogni iniziativa politica dei radicali, dei libertari, degli autentici laici e socialisti liberali; quel Formigoni che ne avrà fatte di tutte e di più. Proprio perché è Formigoni dico quello che dico. Sì, devo proprio confessare che, potessi farlo, andrei a stringere la mano di Formigoni. Oggi, sì. Secondo motivo di turbamento e di sgomento. Piercamillo Davigo, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia una lunga intervista a La Stampa. Dice che la commissione “incarichi” di cui fa parte, è la più sgradevole: “Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della mancata nomina”. Conviene scomporre la frase. Se chi vince è convinto di avere i titoli per meritare il posto ambito, perché mai dovrebbe essere grato a Davigo o a chiunque altro? Se lo merita. E perché Davigo o chiunque altro si attende “gratitudine”? Si dice “grazie” per un favore ricevuto. Se non c’è favore ma diritto, perché si deve essere grati? Veniamo agli “altri”: quelli che non hanno vinto; per quale contorto pensiero devono pensare che non è per mancanza di sufficiente titolo e merito, ma per mancato appoggio? Ecco sarebbe necessario approfondire la cosa con qualche ulteriore domanda (e risposta). L’altro passaggio è quello relativo ai risarcimenti e alle ingiuste detenzioni. Davigo sostiene che in “buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. Di per sé, nulla di nuovo: Davigo ha sempre detto che per lui il mondo si divide tra colpevoli e quelli che non sono stati scoperti (per sapere: Davigo, tra queste due categorie, dove si colloca? Oppure si deve pensare che non sia parte dell’umanità?); il farla “franca” accade perché di “norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità. Per non dire dell’Appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo”. A questo punto mi sento di dire (nei paesi dove diritto ha un senso è così): Davigo fornisca le prove a sostegno di accuse così gravi; quali sono gli innocenti che sarebbero colpevoli di averla fatta franca? Ne faccia nomi, cognomi, indirizzi. Quali i processi d’appello celebrati nonostante la difficoltà di conoscere a fondo il processo. Il ministro della Giustizia: di fronte ad accuse così gravi, circostanziate mosse da un autorevole componente del Csm, promuove almeno un’indagine conoscitiva sul presunto fenomeno? Qualche parlamentare presenta interrogazioni al ministro in questo senso, “semplicemente” per sapere? Mi si perdonerà il “cattivo” pensiero. Ma ogni volta che ascolto o leggo Davigo in automatico il pensiero al presidente della Corte Suprema Riches, immaginato da Leonardo Sciascia ne Il contesto; in particolare, il passaggio dove Riches parla dell’amministrazione della giustizia, un qualcosa simile al mistero della transustanziazione: il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo: “Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dall’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione, il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo”. Tutta colpa, conclude, di Voltaire, degli illuministi; in sostanza dei laici. Questa concezione della giustizia/ transustanziazione è il problema, la questione; e s’arriva, come si è arrivati, al punto che si tratta di difendere lo Stato, ma tutti noi, da coloro che lo Stato lo rappresentano; abbiamo uno Stato detenuto, che andrebbe liberato, ma anche solo aprire “semplici” crepe è faticosissimo. Lo si vede, se ne ha pratica, concreta dimostrazione ogni giorno. Davigo-Riches dice cose da far, letteralmente, tremare le vene ai polsi. L’indifferenza con cui queste affermazioni sono accolte, tra gli stessi colleghi di Davigo che dovrebbero essere i primi a insorgere, è ulteriore motivo di preoccupazione. Cucchi, il generale Tomasone sotto torchio al processo bis di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 febbraio 2019 La testimonianza dell’allora comandante provinciale dell’Arma diventa un caso. Il pm Musarò deposita una nota in cui il generale anticipava di sei mesi le conclusioni a cui dovevano arrivare i periti legali, non ancora nominati. Perizie poi risultate errate. È un faldone alto venti centimetri, quello dal quale il pm Giovanni Musarò estrae uno dei documenti più significativi che ha appena depositato alla prima Corte d’Assise di Roma, dove si svolge il processo bis per la morte di Stefano Cucchi, inerenti l’indagine integrativa sul depistaggio. “In atti interni dell’Arma dei carabinieri che risalgono al periodo compreso tra l’ottobre e l’inizio novembre del 2009 compaiono già le conclusioni a cui sarebbero giunti i medici legali nominati dalla Procura sei mesi dopo e che indicavano come responsabili del decesso solo i medici”, scandisce il magistrato che, malgrado la sua lunga esperienza nel contrasto alle mafie e una vita sotto scorta, non nasconde lo “sconcerto” per “l’estrema gravità di quanto accertato”. Perché, aggiunge, “si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia” e soprattutto perché “qui ormai non c’è solo in gioco la legittima richiesta di giustizia per la morte di Stefano Cucchi, ma la credibilità di un intero sistema”. È il 1° novembre 2009, due giorni dopo la riunione al vertice tipo “alcolisti anonimi” (così la definì il luogotenente Colombo Labriola, indagato) convocata dall’allora Comandante provinciale dell’Arma “per ricostruire le fasi dell’arresto” di Stefano Cucchi, quando il generale Vittorio Tomasone, oggi al vertice del comando interregionale “Ogaden” di Napoli, invia al comando generale e ad altri uffici competenti una nota nella quale descrive a quali conclusioni dovrebbe arrivare e su cosa dovrebbe lavorare il collegio peritale che sarà nominato solo il giorno dopo per affiancare il professor Tancredi nell’analisi autoptica del corpo del giovane geometra romano. “Le cause del decesso non sembrerebbero attribuite a traumi”, scrive Tomasone, “non essendo state rilevate emorragie interne, né segni macroscopici di percosse”; la frattura vertebrale e sul cocige è “riferita ad un periodo significativamente antecedente all’arresto (30 settembre u.s., come dichiarato dalla stesso Cucchi ai medici del Pertini)” e la presenza di sangue nello stomaco e nella vescica sarebbe “secondo specialisti riconducibile ad una patologia epatica e renale di cui il soggetto era già sofferente”. Perciò, conclude il generale, i medici patologi dovranno “verificare meticolosamente tutti i trattamenti clinici a cui il soggetto è stato sottoposto” dopo il suo arresto e prima della sua morte. Non essendo indagato, Tomasone è stato convocato come testimone dall’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. Ma ieri ha faticato non poco per uscire a testa alta, e mantenere inalterata la sua reputazione di buon investigatore, dall’interrogatorio cui è stato sottoposto durante l’udienza. In particolare quando, incalzato dal pm Musarò, non ha saputo spiegare come facesse ad arrivare a certe conclusioni nella nota del 1° novembre, quando lo stesso prof. Tancredi, che aveva eseguito l’autopsia il 23 ottobre, ancora il 6 novembre comunicava di non essere in grado di definire le cause di morte di Cucchi e per questo chiedeva altri consulenti. Inoltre, fa notare la pubblica accusa, “il 26 novembre 2009 lei ha ricevuto un fax con il referto del pronto soccorso dell’ospedale Vannini, dove si era recato Cucchi il 30 settembre 2009, che escludeva una frattura recente”. Eppure Tomasone assicura di non aver mai nutrito dubbi sulla “normalità” dell’arresto di Cucchi, “tutto portava ad escludere qualunque coinvolgimento diretto dei carabinieri nella morte del geometra”. Aveva indetto la riunione del 30 ottobre, dice, “per accertare quanto accaduto il più presto possibile”, visto che ormai il caso era diventato pubblico, e per “guardare in faccia” tutti i militari che avevano avuto un ruolo nell’arresto del giovane “in modo da vedere se dicevano la verità”. Evidentemente il fiuto deve aver fatto cilecca, in quel frangente, perché il generale non trovò nulla di strano, neppure per il fatto che mancasse il fotosegnalamento (Cucchi fu portato appositamente nella caserma Casilina, dove poi avvenne il pestaggio, ma il registro dei fotosegnalamenti venne sbianchettato, come hanno appurato gli inquirenti, e il suo nome sostituito con il successivo arrestato). Però, assicura il generale, “ho voluto ascoltare personalmente la telefonata fatta dalla caserma di Tor Sapienza per chiamare l’ambulanza” durante la notte, quando Stefano iniziò a stare male. Ma della mancanza del fotosegnalamento che le norme impongono e che comunque avrebbe mostrato le condizioni del volto dell’arrestato, nessuno dei cinque comandanti (tra cui anche il generale Alessandro Casarsa, oggi indagato per falso) e dei diversi carabinieri partecipanti alla riunione si preoccupò. “Non avevo motivo di sospettare qualcosa”, assicura Tomasone. Eppure la pulce nell’orecchio gli era arrivata, perché il 24 ottobre i presidenti di “A buon diritto”, Luigi Manconi, e di Antigone, Patrizio Gonnella, diffusero un comunicato stampa per denunciare che Stefano al momento dell’arresto stava bene mentre durante l’udienza davanti al gip si mostrava sofferente e riportava vistosi segni sul volto. “Sì, ricordo di averlo letto”, ammette il generale. E infatti il 26 ottobre dal Comando regionale gli avevano inviato un fax con il testo della relativa agenzia Ansa. È da quel giorno, secondo l’accusa, che inizia l’attività di depistaggio interna all’Arma. “Da allora iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica, comprese quelle false e quelle dettate”, ricostruisce il pm Musarò. Annotazioni che servivano per redigere un appunto per l’allora ministro di Giustizia Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo al question time alla Camera. “Il ministro - conclude il magistrato - per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi”. “Traffici delittuosi” e “vivere onestamente”, la Consulta boccia le formule generiche di Francesco Machina Gifeo Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2019 Corte costituzionale - Sentenze 24 e 25 del 27 febbraio 2019. La Corte costituzionale, con due differenti decisioni, ha ridisegnato in senso più garantista le misure di prevenzione. Con la sentenza n. 24/2019 (relatore Francesco Viganò), il giudice delle leggi ha infatti stabilito che è illegittimo, a causa della eccessiva genericità dei potenziali destinatari delle disposizioni, sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi”. Un principio già espressa nel 2017 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia De Tommaso contro Italia. Con la sentenza n. 25/2019 (relatore Giovanni Amoroso) ha poi stabilito che la violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (con obbligo o divieto di soggiorno) non può essere integrata dalla inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, a causa della loro indeterminatezza. Ed ha così dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 75, secondo comma, del Dlgs n. 59/2011 (Codice antimafia). Anche questa decisione si pone nel solco del processo di adeguamento ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo nella sentenza “de Tommaso”. La Cedu, infatti, aveva già riscontrato la vaghezza e la genericità delle prescrizioni di “vivere onestamente e “rispettare le leggi” ed aveva perciò affermato la violazione della Convenzione europea. Tornando alla prima pronuncia, dunque, per i giudici costituzionali, l’espressione “traffici delittuosi” non è in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione della sorveglianza speciale o della confisca dei beni. Ne consegue la violazione del principio di legalità, che esige che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si fondi su di una legge che ne determini con precisione i presupposti di applicazione. La Consulta ha invece ritenuto sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito. Tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita. La Corte ha infine precisato che la sentenza non tocca le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori. Riguardo invece alla bocciatura delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” (sentenza 25/2019), la Consulta ricorda che le Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza “Paternò’“ avevano già riconosciuto che queste esse erano prive di quel contenuto determinato e specifico che sarebbe stato necessario per dare loro un valore precettivo. Mentre, l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati - ragion d’essere delle misure di prevenzione - resta comunque soddisfatta dalla facoltà per il giudice di indicare e modulare prescrizioni specifiche nell’ambito della sorveglianza speciale. La Corte ha esteso la dichiarazione di illegittimità anche al meno grave reato contravvenzionale che si configura quando la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente e di “rispettare le leggi” è commessa dal sorvegliato speciale, senza obbligo o divieto di soggiorno. Omesso versamento, l’estinzione del reato resta più difficile di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 8521/2019. I contribuenti che avevano procedimenti in corso al 22 ottobre 2015, data di entrata in vigore delle modifiche al regime penale tributario, per omesso versamento ed indebite compensazioni, possono avvalersi della causa di non punibilità mediante pagamento integrale dell’imposta, solo se il pagamento sia avvenuto per intero entro la prima udienza utile per avanzare tale richiesta e non fino al passaggio in giudicato della sentenza. Ne consegue che, trascorsa l’udienza successiva all’entrata in vigore della nuova norma, l’imputato non può più invocare la causa di non punibilità. È questa l’interpretazione della Corte di cassazione, con la sentenza 8521depositata ieri. In base al Dlgs 158/2015 nell’articolo 13 Dlgs 74/2000, dal 22 ottobre 2015, i reati di omesso versamento (Iva e ritenute) e di indebita compensazione di crediti non spettanti non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario, comprese sanzioni e interessi, sia estinto con l’integrale pagamento del dovuto, anche attraverso conciliazione, adesione o ravvedimento operoso. Qualora, poi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito sia in fase di rateizzazione, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del residuo ed il giudice ha la facoltà di concedere una proroga di ulteriori tre mesi. In passato, invece, l’integrale pagamento del debito tributario, sempre prima dell’apertura del dibattimento, costituiva una causa attenuante della pena (riduzione fino ad un terzo). Con le sentenze n. 40314/2016 e 11417/2017 la Corte, pur indicando nella dichiarazione di apertura del dibattimento il limite di rilevanza della causa estintiva, aveva ritenuto operante, nei procedimenti in corso al 22 ottobre 2015, la causa di non punibilità anche ove fosse stata superata la preclusione procedimentale. Secondo tale orientamento, il pagamento eseguito dopo l’apertura del dibattimento, purché prima del giudicato, assumeva la medesima efficacia estintiva. Ciò anche in applicazione del principio di uguaglianza che vieta trattamenti differenti per situazioni uguali. Con la sentenza 30139/2017 la Corte ha rivisto questa interpretazione. Secondo i giudici, proprio per evitare la violazione dell’articolo 3 della Costituzione per irragionevole disparità di trattamento, il limite temporale normativamente previsto (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) doveva individuarsi entro la prima udienza utile per la richiesta di applicazione di tale causa. Ora la conferma di questo rigoroso orientamento, con la precisazione che decorsa la prima udienza utile non è più possibile far valere questa facoltà. Nella specie l’imputato aveva richiesto solo in appello l’applicazione della causa di non punibilità che tuttavia non rappresentava la prima data utile dopo le modifiche normative e, in tale occasione, non aveva neanche richiesto al giudice la prevista proroga dei tre mesi per l’estinzione del debito tributario. Campania: sanità, maggiori tutele per i detenuti irpinia24.it, 28 febbraio 2019 Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, dopo i recenti fatti critici accaduti a Poggioreale, le morti con cause ancora da accertare, ha chiesto ed ha ottenuto un tavolo di confronto con il Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Direttrice dell’istituto penitenziario di Poggioreale, i Responsabili della medicina penitenziaria Asl Na 1 C, ed il direttore della centrale operativa 118. Inoltre essendosi insediato il nuovo Commissario Straordinario, Ciro Verdoliva, il Garante gli aveva già scritto una nota elencandogli le diverse criticità riguardanti l’aria sanitaria rispetto alle attrezzature ed il personale. A seguito dell’incontro, il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello, comunica gli importanti obiettivi raggiunti: “Realizzazione all’interno di Poggioreale di una postazione di dialisi, che consentirà ai ristretti che devono effettuare trattamenti dialitici di poterli praticare in loco; Rimodernare la radiologia, con l’installazione di un nuovo impianto telecomandato, collegato in rete con una stazione refertante; Creare le condizioni per effettuare trasfusioni all’interno; Installare un defibrillatore in ogni padiglione; Raddoppiare all’interno della postazione di primo soccorso la guardia infermieristica; Aggiungere un medico di continuità assistenziale nelle ore pomeridiane, che vanno ad aggiungersi agli altri operatori sanitari già presenti h 24 “. In relazione all’incremento del personale sanitario, la direzione del carcere è stata invitata a individuare spazi idonei per gli infermieri e la guardia medica. Inoltre la direzione, per ovviare ai problemi tempistici che si presentano per l’ingresso dell’ambulanza all’interno dell’istituto, ha richiesto al direttore della centrale operativa 118 di inviare costantemente le liste aggiornate dell’elenco nominativo di tutto il personale in servizio operativo, specificandone il numero identificativo. Il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Martone, ha riferito di aver destinato € 400.0000 per le opere straordinarie di ristrutturazione, su richiesta del Garante, partendo dal padiglione S. Paolo (centro clinico del carcere) e un milione di euro per rafforzare gli impianti di sicurezza e di illuminazione. Nella stessa riunione il garante si è espresso anche sulla situazione del la mancanza del personale di polizia penitenziaria, il provveditore ha chiarito che il personale di polizia ha un numero organico di 4035 rispetto a 4071 previsti. La vera carenza non riguarda gli agenti assistenti che sono in esubero ma vi è una forte carenza di ispettori e sovraintendenti. Inoltre quasi 100 unità sono distaccati e quasi 630 agenti ogni giorno, anche se nella media, sono in malattia. Per il Garante Samuele Ciambriello: “Trovo che il raccordo avvenuto nei giorni scorsi sia stato funzionale, è importante la collaborazione tra le parti per rendere possibile un cambiamento, indispensabile per ridare dignità a chi va tolta” soltanto” la libertà personale.” Napoli: “lazzaretto Poggioreale, quando il carcere diventa un inferno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 febbraio 2019 La denuncia della parlamentare europea Eleonora Forenza dopo la sua visita. “Un moderno lazzaretto”, così viene definito il carcere di Poggioreale dalla parlamentare europea del gruppo Gue/Ngl Eleonora Forenza dopo aver visitato l’istituto penitenziario napoletano. La visita è scaturita dopo le tante segnalazioni del movimento “Ex detenuti Organizzati” guidato da Pietro Ioia, dopo gli ultimi tragici eventi come la morte di Claudio Volpe (deceduto il 10 febbraio in circostanze ancora da chiarire, sulle quali sta indagando la procura di Napoli) e dopo le mobilitazioni dei detenuti del padiglione “Firenze”. Emerge un sovraffollamento grave, causato soprattutto da un ricorso massiccio alla custodia cautelare e alla diminuzione delle misure deflattive e alternative. Gravi le criticità per l’assistenza sanitaria, con detenuti psichiatrici che hanno come disponibilità, a detta della europarlamentare, una quantità spropositata e pericolosa di psicofarmaci. Eleonora Forenza ha visitato il carcere domenica scorsa. “Ero assieme a Sandra Berardi - si legge nel suo comunicato -, presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus, che da lungo tempo collabora con me nel percorso di visite delle strutture penitenziarie e denunce delle gravi carenze del sistema carcerario italiano”. La europarlamentare spiega che dalla visita, sebbene parziale, hanno “riscontrato condizioni strutturali assolutamente inadeguate, soprattutto sotto il profilo igienico- sanitario. Ad esempio, ad eccezione del padiglione “Genova”, che è stato oggetto di recente ristrutturazione e adeguamento funzionale, con i servizi sanitari separati tra loro e dalla zona letto, nelle celle e cameroni degli altri padiglioni (che arrivano a contenere fino a 10 persone) le cucine sono ricavate in uno spazio angusto, che in origine avrebbe dovuto rappresentare l’antibagno”. Snocciola i dati sottolineando che attualmente a Poggioreale sono recluse circa 2.400 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 1659, prevalentemente in media sicurezza, di questi 180 detenuti in Alta Sicurezza 3 (padiglione “Avellino”). Situazione davvero critica nel padiglione Firenze. “Sono collocati - si legge sempre nel comunicato - i detenuti al primo reato e quelli che non sono entrati in carcere nei 10 anni precedenti al nuovo reato. I cameroni vanno da 4 a 10 posti letto, prevalentemente disposti su letti a castello, sovente fino a tre “piani”. Forenza denuncia che questa situazione, a loro parere, non rispetta i parametri minimi di 3 mq a detenuto, stabiliti dalla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. “Nel caso di Poggioreale - sottolinea - dovrebbe essere preso in considerazione un altro parametro vitale, ovvero la cubatura dei vani detentivi, che in questo caso non appare sempre rispettato. I letti a castello a tre piani, per forza di cose, sono poggiati alla parete dove sono posizionate le finestre impedendone l’apertura e, di conseguenza, è impedita una corretta areazione, fondamentale in presenza di 8- 10 persone in uno spazio che varia dai 18 ai 25 mq. Il corredo e il mobilio fornito appare visibilmente deteriorato, le pareti e i soffitti sono pieni di infiltrazioni e muffe”. La europarlamentare fa sapere che nelle scorse settimane i detenuti hanno portato avanti una battitura ad oltranza per denunciare la mancanza di acqua calda, le gravi carenze e ritardi sanitari, il caro vitto e il sovraffollamento ormai cronico. “Dalle testimonianze raccolte - spiega -, e dall’organizzazione dei cameroni riscontrata, emerge che la possibilità di usare l’acqua calda è assai limitata. In alternativa, i detenuti riscaldano l’acqua con fornellini da campeggio”. Prosegue denunciando che “l’eccessiva promiscuità di soggetti con le più disparate patologie e disabilità, in assenza di condizioni igienico- sanitarie ottimali, fanno di Poggioreale un moderno lazzaretto”. Forenza fa anche un discorso generale sul sovraffollamento cronico che riguarda le carceri italiane e indica che al 31 gennaio scorso si contano oltre 60.000 persone detenute in Italia. “Tale condizione - spiega la eurodeputata - è peggiorata anche per la mancata implementazione delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) al posto degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e dalle ultime leggi sulla “sicurezza” che hanno portato in carcere migliaia di persone per piccoli reati. A questi - aggiunge - si affiancano le centinaia di persone che si ritrovano a scontare con la detenzione residui di pena o pene minime (al di sotto dei tre anni ma anche meno) a distanza di molti anni dalla commissione del reato, rendendo difficile immaginare un rischio di reiterazione del reato o di fuga”. Poi annota che, come spesso succede, hanno “incontrato numerose persone con patologie psichiatriche e disabili. Queste categorie non sembrano ricevere l’assistenza adeguata e spesso sono affidati alle cure del “piantone”, che assiste senza sosta anche più di un disabile o anziano per 3/ 400 euro al mese. Il piantone, o “assistente alla persona”, viene letteralmente sfruttato per sopperire alle carenze croniche e strutturali del sistema carcerario”. Ai detenuti con problemi psichiatrici, anche gravi e pertanto incapaci e/ o a ridotta capacità di intendere e di volere, o con personalità tendente all’autolesionismo, denuncia che “le diverse terapie a dosaggio vengono consegnate in una unica soluzione, lasciando quindi nelle disponibilità del malato psichiatrico una quantità spropositata e pericolosa di farmaci”. Forenza tralascia in questa sede “di elencare la criticità dei ritardi nell’erogazione delle prestazioni mediche specialistiche, del ruolo della magistratura di sorveglianza o dell’area educativa”, perché ormai le ritiene “problemi strutturali del sistema penitenziario, riscontrati in praticamente tutte le strutture visitate sinora”. Per il carcere di Poggioreale chiede pubblicamente, e chiederà ufficialmente, “che intervenga immediatamente il Garante Nazionale e il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, con una ispezione approfondita”. Ivrea: Tiraboschi (Fi) “situazione carcere drammatica, o si interviene o si chiude” canavesenews.it, 28 febbraio 2019 Da ottobre non funziona anche l’impianto antincendio. La parlamentare interroga in Parlamento il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Interventi urgenti per fare in modo che il carcere di Ivrea sia sicuro, sia per i detenuti, per gli agenti di polizia penitenziaria che vi lavorano e per tutto il personale dipendente: in alternativa sarà necessario valutare “la sussistenza dei presupposti per la richiesta di chiusura urgente”: è in sintesi il contenuto di un’interrogazione indirizzata dalla senatrice canavesana di Forza Italia Virginia Tiraboschi al ministro delle Giustizia Alfonso Bonafede. D’altro canto è da mesi che l’Osapp, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, denuncia a gran voce quanto sia grave e insostenibile la situazione nella quale versa la casa circondariale eporediese: basti pensare che dallo scorso mese di ottobre non funziona più neanche il sistema antincendio. La speranza è che, coinvolgendo direttamente il ministro, si possa procedere agli interventi strutturali più urgenti. Nell’interrogazione la senatrice sottolinea come il carcere presenti diverse problematiche al limite della legalità e della dignità umana. Ma non è tutto,: la parlamentare rimarca come la direzione sia “strangolata dai debiti verso i fornitori, tano da non avere a disposizioni i fondi per la manutenzione ordinaria”. Tra le problematiche più serie si cita, nell’interrogazione, quella dell’organizzazione del personale, il sovraffollamento della struttura (250 detenuti contro una capienza di 197), il fatto che continuano ad essere ricevuti detenuti mentre ogni trasferimento viene negato per motivi di sicurezza. In conclusione, spiega Virginia Tiraboschi, o si interviene in modo risolutivo o è meglio chiudere la struttura prima che questa sorta di bomba sociale esploda in modo devastante. Parma: nel carcere di nasce una lavanderia industriale Gazzetta di Parma, 28 febbraio 2019 Un’attività di lavanderia industriale che gestirà 7.000 quintali di biancheria all’anno, conferita da strutture socio-sanitarie ed alberghiere del Nord Italia. È quella ormai prossima all’avvio, all’interno degli Istituti penitenziari di Parma nell’ambito del progetto “Sprigioniamo il lavoro”. Un’iniziativa che prevede un investimento complessivo pari a 500mila euro e che ha avuto il significativo sostegno da parte di Fondazione Cariparma, che con 350mila euro messi sul piatto della bilancia sosterrà tutte le spese necessarie all’acquisto dei macchinari industriali ed all’adeguamento degli impianti energetici. Responsabile dello sviluppo delle attività riguardanti il progetto - che, una volta a pieno regime, garantirà occupazione per 16 detenuti - sarà la Libelabor, società consortile a responsabilità limitata composta da Gruppo Gesin Proges, Cooperativa Sociale Biricca, G.S.G. Srl, Multiservice e Bowe 2014. La Libelabor si farà carico della copertura dei costi derivanti dall’inserimento lavorativo esterno al carcere dei detenuti. Ed inoltre, le aziende sosterranno progetti a favore di detenuti anziani e disabili, che non possono partecipare alle attività lavorative per ragioni di età o di salute. “È un progetto che, nel suo lungo iter, ha incontrato non poche difficoltà, poi brillantemente superate grazie alla proficua collaborazione con queste solide realtà imprenditoriali del territorio che hanno aderito”, ha riferito il direttore degli Istituti penitenziari di Parma, Carlo Berdini, illustrando i contenuti dell’iniziativa accanto, tra gli altri, a Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti del Comune di Parma. La convenzione ha una durata decennale e le aziende investiranno circa 150mila euro, per il completamento dell’allestimento della lavanderia. A “Sprigioniamo il lavoro” hanno aderito pure l’Unione parmense degli industriali e la Confederazione nazionale dell’artigianato di Parma. “Crediamo fortemente nel valore sociale di questo progetto - ha affermato Gino Gandolfi, presidente di Fondazione Cariparma: l’esperienza del carcere deve essere proficua sul piano della rieducazione delle persone che vivono lo stato detentivo. “Sprigioniamo il lavoro” va nella giusta direzione, perché darà loro la possibilità di acquisire competenze utili, spendibili in futuro sul mercato del lavoro”. Roma: detenuta uccise i figli a Rebibbia, il perito “capace in volere ma non di intendere” di Giulio De Santis Corriere della Sera, 28 febbraio 2019 Secondo la relazione del tecnico Alice Sebesta, che lo scorso 18 settembre aveva lanciato la figlia di sei mesi e il fratellino di 19 da una scala del reparto nido del carcere, “Non è imputabile”. Udienza fissata il 4 marzo. È seminferma di mente Alicia Sebesta, la mamma detenuta che lo scorso 18 settembre ha ucciso i due figli lanciandole da una scala del reparto nido nel carcere di Rebibbia. È la conclusione della perizia disposta dal giudice per le indagini preliminari Antonella Minnuni nell’incidente probatorio mirato ad accertare la capacità processuale della 33enne tedesca. L’esito della relazione del professor Fabrizio Iecher esclude che la donna possa essere processata: arrestata mentre era con i figli il 27 agosto perché trasportava dieci chili di marjuana, per l’esperto non sarebbe stata consapevole di ciò che ha fatto quando ha ucciso Fatih, sei mesi, e Divine di 19. Qualora il gip condivida il risultato della perizia, la tedesca sarà giudicata non imputabile e, di conseguenza, le sarà applicata una misura di sicurezza proporzionata alla sua pericolosità sociale. La conclusione di Iecker è diversa rispetto a quanto stabilito dal precedente perito, che invece aveva ritenuto la donna capace di intendere e volere. Giudizio che avrebbe imposto di processare la Sebesta. La relazione depositata mercoledì, da un punto di vista tecnico, è un’integrazione della perizia. A volerla il gip, sollecitato dal pm Eleonora Fini e dal difensore di Sebesta, l’avvocato Andrea Palmiero, i cui consulenti sono stati da subito concordi nel valutare la donna incapace di intendere e volere. Per giustificare il precedente parere il primo perito aveva ritenuto che la piena capacità della donna sarebbe stata dovuta alla “deliberata assunzione di sostanza stupefacente in dose massiva per un mese prima del fatto reato”. Valutazione respinta dalla procura e dal legale, sicuri dei problemi della donna, documentati anche da un lungo ricovero in una struttura psichiatrica avvenuto in gioventù. Ritenute fondate le contestazioni, il gip ha deciso di procedere all’approfondimento. La conclusione del professore, pur in linea con la procura e la difesa, rappresenta comunque una svolta nell’inchiesta. Il perito, all’esito dell’esame svolto sulla Sebesta, ritiene infatti che la donna sia capace di volere ma non di intendere. La relazione sarà discussa nell’udienza del prossimo 4 marzo. Vercelli: infermeria del carcere, l’Asl ribatte al sindacato degli infermieri notiziaoggivercelli.it, 28 febbraio 2019 “La presenza di un solo operatore solo per pochi giorni, di norma sono due per turno”. Un solo infermiere su 370 detenuti al Carcere di Billiemme, segnalava Nursind il sindacato degli Infermieri. In una nota Asl Vc ammette che in alcuni giorni (dalle 8 alle 13,30) è rimasto in servizio un solo infermiere. Ma la norma è di due per turno. Ma ecco il dettagliato report inviato dall’Asl Vc: “In relazione a quanto segnalato dal parti sindacali l’Asl di Vercelli, nell’ottica di una informazione trasparente e veritiera intende chiarire la propria posizione. Abbiamo ulteriormente verificato i turni del personale e - come già comunicato in passato - confermiamo che nell’attuale programmazione presso la casa circondariale di Vercelli risultano assegnati in tutto 6 infermieri, oltre al coordinatore, per garantire la presenza di due persone nella fascia oraria dalle 8 alle 21:30: in particolare ci sono due unità presenti di mattina e due di pomeriggio: con 3 infermieri nella fascia oraria 13:30 - 14:30 e 4 nella fascia oraria 14:30 - 15:30. Dal controllo effettuato risulta che ci sono stati pochi giorni: quattro giorni a novembre, cinque a dicembre, uno a gennaio e due a febbraio, in cui è stato presente un solo infermiere dalle 8:00 alle 13:30. Siamo consapevoli che la condizione del carcere di Vercelli, così come quella di molte altre realtà carcerarie italiane, è gravata dal sovraffollamento e, in tal senso, abbiamo ricevuto l’impegno manifestato dall’amministrazione penitenziaria nell’apportare miglioramenti sul piano strutturale non appena possibile. Ricordiamo che come Asl Vercelli la scorsa estate abbiamo investito nostre risorse per attuare interventi che potessero rendere gli ambienti più confortevoli: installazione di zanzariere, impianto di climatizzazione e sanificazione di alcune aree. Sul piano delle risorse umane evidenziamo che l’organico verrà integrato con una ulteriore risorsa; inoltre è stata già effettuata la selezione per il nuovo coordinatore infermieristico che garantirà la sua presenza cinque giorni alla settimana con supporto ai colleghi presenti in turno. In questi giorni il nostro personale riceverà anche i buoni pasto perché è stata completata la procedura specifica. Ribadiamo che le condizioni di lavoro in una struttura penitenziaria sono difficili, ma parlare di complessità assistenziale con riferimento ai detenuti presenti è di certo fuorviante, in quanto tale termine è adeguato per i servizi tipici ospedalieri soprattutto di degenza. Molte delle persone presenti sono, infatti, sottoposte a terapie farmacologiche con somministrazione orale ed è questo il principale impegno del personale infermieristico dedicato. Sono diversi, peraltro, i servizi che come Asl Vercelli abbiamo previsto; infatti risultano previsti e calendarizzati i seguenti specialisti: ginecologi, ortopedici, psichiatri, odontoiatri. Inoltre su richiesta si recano periodicamente nella struttura diabetologo, cardiologo, infettivologo e oculista. La direzione comunque intende valutare eventuali modifiche organizzative che possano favorire ulteriori miglioramenti”. Bolzano: il progetto Odós compie 20 anni Alto Adige, 28 febbraio 2019 Era il primo marzo 1999 quando parti in via sperimentale, in un appartamento di viale Druso, il progetto pilota Odós, indirizzato a detenuti ed ex-detenuti, il servizio del la Caritas ora compie 20 anni e per l’anniversario ha organizzato domani (venerdì 1 marzo), un convegno dedicato agli operatori del settore e agli interessati dal titolo “Liberare la pena” (appuntamento dalle 9 alle 16.30 presso la Sala di rappresentanza del Comune). Lucera: progetto “Ri-esco in cucina” al penitenziario foggiatoday.it, 28 febbraio 2019 Il progetto di addetto alla ristorazione è stato organizzato da Enaip Impresa Sociale, in collaborazione con il partner di progetto Formever Lab Scopo dell’intervento è far acquisire a 10 ospiti dell’Istituto di pena una qualifica professionale nel campo della ristorazione, che li aiuti a garantire e rendere esigibili i loro diritti sociali in misura uguale ai cittadini liberi. “Le mura del carcere si aprono per far passare odori, sapori, conoscenza: i detenuti imparano come comportarsi in cucina, conoscere e trattare le materie prime e a seguire le norme di igiene.” È questa la grande occasione loro offerta presso la Casa Circondariale di Lucera, dove dal mese di ottobre 2018 è attivo il percorso formativo per diventare “Addetto alla Ristorazione”, organizzato da Enaip Impresa Sociale srl, in collaborazione con il partner di progetto Formever Lab (corso realizzato nell’ambito dell’iniziativa sperimentale di inclusione sociale per le persone in esecuzione penale della Regione Puglia - Avviso pubblico n. 1/2017-). Scopo dell’intervento è far acquisire a 10 ospiti dell’Istituto di pena una qualifica professionale nel campo della ristorazione, che li aiuti a garantire e rendere esigibili i loro diritti sociali in misura uguale ai cittadini liberi, favorendo in questo modo le pari opportunità e la lotta alla discriminazione e allo stigma. La brigata “La Grotta dei Sapori”, così come ribattezzata dagli stessi corsiti, è guidata da formatori che, con dedizione e grande spirito di adattamento stanno adottando strategie partecipative e collaborative, che si sono rivelate le più efficaci per migliorare la socializzazione tra le varie personalità che compongono la classe. Sono stati, infatti, coinvolti professionisti altamente qualificati (i docenti Michele Armillotta, Pascal Barbato, Antonella Blonna, Francesca De Mare, Pietro Del Gaudio, Giovanni Di Rauso, Melania Dilillo, Morena Lombardi, Mario Ognissanti, Francesco Panniello, Vincenzo Petrillo, Giuseppe Scarlato, Anna Maria Testini e Raffaele Vitale) nonché figure di affiancamento ed accompagnamento - esperti del settore - intervenuti a sostegno educativo all’utenza (Antonietta Clemente e Umberto Di Gioia), tutti in grado di motivare ed entusiasmare i corsisti fin dalle prime lezioni, mantenendo alto il livello di partecipazione alle attività formative. “Con questo progetto intendiamo dare un’occasione a chi vive il mondo del carcere di ripartire - afferma Albino Gasparo, coordinatore di ENAIP Is per la sede di Foggia - e riscoprire una nuova vita dopo il carcere. L’impresa più complessa è fare entrare nella mente del detenuto l’idea del lavoro e pensare un percorso che porti al recupero della persona.” “È nostra convinzione - aggiunge Anna Maria Testini, Presidente di Formever Lab - che il reinserimento lavorativo dell’ex-detenuto, restituendo alla persona la sua dignità di cittadino, sia un passo necessario e determinante a ridurre le recidive di reato. Grazie anche al supporto del personale Direttivo e degli Operatori penitenziari, gli allievi Umberto, Marco, Costantino, Gabriele, Cristian, Christian, Giuseppe, Codin, Luigi, Cosimo Damiano e Claudio stanno sperimentando un nuovo modo di impiegare le loro capacità acquisendo sia conoscenze che abilità operative nel campo della ristorazione.” “La vera sfida è vivere” - “La vita ci ha insegnato a non arrenderci perché si ha sempre una seconda possibilità... e a volte pure una terza, una quarta… tant’è che ci si rende conto di aver sempre del tempo per essere ancora importanti per qualcuno che crede in te nonostante tutto”… “Poter dare un senso ai giorni in carcere ha un valore inestimabile e per un attimo ci aiuta a lasciare fuori i problemi quotidiani”. Questi alcuni dei pensieri emersi nel corso degli incontri e riportati ad alta voce dal tutor d’aula, Umberto Di Gioia, orgoglioso di potere raccontare questa gran bella esperienza. “Ritengo che i detenuti, seppure in questa insolita veste di allievi, abbiano ancora tanto da dare alla collettività - sottolinea Di Gioia. Pur avendo percorso strade sbagliate, oggi potrebbero fare inversione di marcia, segnare finalmente una svolta alla loro esistenza. Sono uomini che lasciano un enorme vuoto nelle loro famiglie, spesso obbligate a piangerli come un morto in casa: questa può essere la loro occasione per renderli finalmente orgogliosi”. “I detenuti, una volta scontata la pena, non devono solo combattere contro il pregiudizio delle persone, ma anche contro un mondo del lavoro che richiede delle competenze specifiche” ha precisato il Coordinatore di Enaip, Albino Gasparo. “Per questi motivi, con un progetto di inclusione che riabilita e con un corso professionale che permette di ottenete una qualifica spendibile sul mercato, speriamo di offrire ai 10 reclusi una possibilità concreta di rinascita e riscatto, dando così un senso alla parola rieducazione: riportare fuori, con sacrificio, il meglio di sé”. Alessandria: il Consiglio comunale saluta Marco Revelli, nuovo Garante dei detenuti di Marco Madonia alessandrianews.it, 28 febbraio 2019 Nella seduta speciale dedicata alle problematiche del carcere c’è stato spazio per un’ampia relazione del precedente garante cittadino Davide Petrini. Fra le difficoltà maggiori la mancanza di personale, la povertà fra i detenuti, la difficoltà di accedere a misure alternative alla detenzione in carcere e le strutture obsolete. E’ stato un Consiglio Comunale tematico quello che si è tenuto mercoledì 27 febbraio ad Alessandria, completamente dedicato allo stato di salute delle due strutture detentive cittadine, ormai unificate. L’occasione ha visto la presentazione ufficiale di Marco Revelli, nuovo garante cittadino dei detenuti, che subentra a Davide Petrini, dopo che quest’ultimo ha dovuto lasciare l’incarico a dicembre 2017 per problemi personali e di salute. Alla presenza dell’on Bruno Mellano, garante regionale, del vicedirettore del carcere Alberto Valentini e del responsabile dell’area educatori, Piero Valentini, il Consiglio Comunale si è aperto con il saluto del presidente Emanuele Locci e del sindaco Gianfranco Cuttica di Revigliasco, che hanno sottolineato l’importanza di dedicare una seduta a un tema così importante. Nella relazione conclusiva del suo mandato, Davide Petrini ha passato in rassegna le tante difficoltà delle strutture alessandrine, alcune legate più in generale alla condizioni delle realtà detentive in Italia e altre più peculiari del nostro territorio. “La casa circondariale di Alessandria ospitava 277 detenuti a dicembre 2017, mentre oggi sono 260, ma sono 394 le persone recluse a San Michele, con la capienza massima che dovrebbe essere di 267 unità”. Il sovraffollamento, ha sottolineato Petrini, è figlio dell’alta presenza di stranieri (138 nella Casa Circondariale, 214 a San Michele), che non riescono ad accedere a metodi alternativi per scontare la pena, nonostante il 45% di loro sconti una pena inferiore a un anno (principalmente per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e piccolo e medio spaccio). Fra le difficoltà maggiori evidenziate durante la seduta c’è la povertà di chi si trova in carcere, con una quantità di cibo distribuita non sempre sufficiente, e la mancanza di personale, non solo fra la polizia penitenziaria ma anche fra gli educatori e gli psicologi, tale da rendere impossibile la costruzione di quei percorsi rieducativi, di attività trattamentali e di offerta lavorativa che possono fare la differenza sulla percentuale di recidività di reati per chi esce dal carcere. In Italia (e vale anche per le strutture alessandrine) la media è del 70% di recidiva, ma ci sono eccezioni, come il carcere di Bollate, dove, grazie a un’adeguata attenzione alle opportunità offerte ai detenuti e a strutture che consentono una qualità di vita migliore per le persone ospitate, il tasso di ricaduta delinquenziale è “appena” del 10%. “Il carcere va considerato come un vero e proprio quartiere della città” - ha sottolineato Petrini - e investire su di esso vuol dire investire su tutta la città. Fra le eccellenze del nostro territorio è stata sottolineata la presenza di diversi ordini scolastici all’interno delle strutture carcerarie, compreso il polo universitario ospitato nella struttura San Michele. Insoddisfazione, mista a un grande senso di frustrazione, è stata espressa da Petrini per la scarsa attenzione e capacità di risolvere i problemi a livello nazionale, nonostante i richiamo e le sanzioni già ricevute dall’Italia a livello europeo: “invece che concedere il personale adeguato previsto dalla nostra pianta organica, Roma ha preferito cambiare formalmente la dotazione di personale prevista, rendendo così normale una situazione di carenza cronica”. Marco Revelli, nel suo breve intervento di saluto, ha ringraziato la città per la fiducia accordatagli, sottolineando come “sia la mancanza di risorse adeguate il nemico numero uno da combattere, a partire dalla necessità di migliorare l’assistenza psicologica e psichiatrica per i detenuti che ne hanno bisogno”. L’onorevole Bruno Mellano ha ricordato come la mancanza di strutture adeguate riguardi tutto il Piemonte (come il resto d’Italia): “abbiamo nella nostra regione 4490 detenuti, ma la capienza effettiva sarebbe di 3700 unità”. Durante il dibattito più consiglieri comunali hanno espresso perplessità sulle strutture della Casa Circondariale presente in centro, una delle pochissime realtà detentive ancora presenti nel cuore delle città. L’obiettivo nel tempo, più volte sottolineato, dovrebbe essere quello di trasformare quegli spazi in un grande polo museale a disposizione della città, ampliando piuttosto la struttura di San Michele. Napoli: in Consiglio regionale convegno sulle misure alternative al carcere askanews.it, 28 febbraio 2019 L’appuntamento “Magistratura di Sorveglianza: l’alternativa al Carcere è possibile”. “Magistratura di Sorveglianza: l’alternativa al Carcere è possibile”. E’ il tema del convegno che si terrà venerdì 1 Marzo, alle ore 9.30 nella Sala multimediale del Consiglio Regionale della Campania, organizzato dal Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. Al convegno, che sarà presieduto dal Garante, interverranno Rosa D’Amelio, Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Monsignor Pasquale Cascio, Vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi, Giuseppe Martone, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria; Maria Bove, Direttore dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Campania. Inoltre, parteciperanno alla Tavola Rotonda, Adriana Pangia, Presidente del Tribunale di Sorveglianza e Monica Amirante, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno. Saranno presenti, inoltre, rappresentanti di Associazioni, docenti universitari, avvocati e detenuti in permesso. “In una situazione di ripresa, crescente, rapida e non casuale di quel sovraffollamento che mortifica la dignità del mondo interno delle carceri, con questo convegno mettiamo in campo il tema della sinergia con la Magistratura di Sorveglianza per l’implementazione di quelle misure alternative alla detenzione che potrebbero rappresentare anche una strategia diversificata per il contrasto della criminalità” - ha detto Ciambriello. Reggio Calabria: “la mia ora di religione dietro le sbarre” di Mimmo Nasone* avveniredicalabria.it, 28 febbraio 2019 Ogni mercoledì e giovedì varca la porta del carcere: all’interno, le sofferenze di quanti stanno pagando per i propri passi falsi. Nel carcere di San Pietro c’ero già stato diverse volte: già nel 2008 mi recavo settimanalmente a fare i colloqui con un mio amico, condannato in seguito a piccoli reati che aveva commesso a causa del suo disagio sociale e psichico. Vi entravo volentieri perché potevo incontrare Peppe che poteva contare solo sull’amicizia di poche persone. Ma ricordo bene che uscivo dal colloquio sempre con un gran senso di sofferenza. Quelle vecchie “celle” con le finestre sbarrate in alto, lo scricchiolio dei cancelli di ferro che si aprivano e si chiudevano appena oltrepassati, erano parte di un ambiente che mi inquietava e mi lasciava molto perplesso circa la possibilità che quel luogo potesse servire a “rieducare”. Dopo qualche mese il mio amico venne trasferito all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. E anche lì, per più di un anno, siamo andati a trovarlo. Esperienza altrettanto traumatizzante e disumana che certamente non è servita a Peppe. Dopo qualche anno sono tornato in carcere da docente di religione: nell’anno scolastico 2015, l’Ufficio diocesano mi ha assegnato anche alcune ore da fare al Centro per l’istruzione degli adulti e tra le sedi di insegnamento c’erano anche le due case circondariali reggine. Accolsi la proposta con senso di responsabilità e con il desiderio di fare una buona esperienza di servizio. Da allora, nel corso dell’anno scolastico ogni mercoledì e giovedì, compio il mio dovere di docente di religione nelle due sedi di San Pietro e Arghillà. Non nascondo che i primi giorni di scuola a San Pietro sono stati faticosi anche perché incontravamo i detenuti in una cella adattata ad aula che era collocata accanto ad altre celle. In questi anni ho potuto sperimentare che il carcere, come dice papa Francesco, “è un luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità”. Ho incontrato uomini e donne accusati di reati gravissimi. Alcuni di loro li conoscevo per la loro appartenenza, vera o presunta, alla ‘ndrangheta e per la loro fama di criminali. Anche i detenuti, dopo qualche lezione, sapevano della mia militanza nell’associazione Libera che non avevo nascosto, ma neppure ostentato. Ho temuto che il mio riconosciuto impegno contro le mafie potesse condizionare la partecipazione dei detenuti durante la mia ora di religione. Con grande gioia invece continuo a constatare una loro costante e attenta presenza. Le scelte di vita e la storia di ciascuno, compresa la mia, cerchiamo di rivederle alla luce degli insegnamenti del Vangelo con la consapevolezza che il messaggio di liberazione di Gesù è per tutti, comprese le persone che più sono nell’errore e nell’orrore. Ogni volta che attraverso quei cancelli per entrare nelle aule dove incontro i detenuti, mi porto nel cuore l’esempio di don Italo Calabrò che, pur condannando decisamente e senza indugi la ‘ndrangheta, credeva nella possibilità che anche i mafiosi potessero riscattare la loro vita magari semplicemente facendo in modo che i loro figli non seguissero il loro esempio. *Piccola Opera Roma: Insinna recita con i detenuti, “Dalle sbarre alle stelle” domani a Rebibbia di Cinzia Valente gnewsonline.it, 28 febbraio 2019 Debutta domani nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, alla presenza dei detenuti e di studenti delle classi superiori, la tournée dello spettacolo teatrale con Flavio Insinna “Dalle sbarre alle stelle”. Per la regia di Ariele Vincenti e prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo l’evento vede il patrocinio del Ministero della Giustizia. In scena, oltre al noto attore e conduttore televisivo, ci saranno i dieci detenuti-attori che a dicembre dello scorso anno si sono esibiti nell’anteprima organizzata nel teatro del carcere San Donato di Pescara. Il ciclo di rappresentazioni proseguirà al di fuori dei penitenziari: al Teatro Flaiano di Pescara, al Teatro Stabile d’Abruzzo de L’Aquila, quindi Chieti, Napoli e infine Roma. Accompagna l’evento una mostra fotografica di Antonello Nusca realizzata con gli scatti delle giornate trascorse nella preparazione dello spettacolo. Immagini che ritraggono gli interpreti e i loro momenti di vita in carcere. L’opera è tratta dal libro “Cento lettere, dalle sbarre alle stelle” scritto con Fabio Masi (regista Rai) da Attilio Frasca, attualmente detenuto a Pescara. E’ la storia autobiografica di Attilio, raccontata attraverso dieci anni di corrispondenza con l’amico Massimo. Il protagonista, nato in una borgata della periferia di Roma, entra in una spirale autodistruttiva: droga, furti e risse allo stadio. Fino ad arrivare all’irreparabile: una condanna a 30 anni di reclusione per omicidio di primo grado. Massimo, che invece ha intrapreso una strada diversa, si è costruito una vita normale con moglie e figli. Il carcere per Frasca diventa luogo di riscatto, forte è la sua voglia di cambiare: a Rebibbia entra nella redazione del giornale interno e cura una rubrica per sei anni; nel 2015 con l’associazione “Voci di dentro” realizza con altri detenuti lavori di ristrutturazione di un’area del carcere di Pescara dove nasce, tra l’altro, il laboratorio teatrale che ha messo in scena proprio lo spettacolo “Dalle sbarre alle stelle” ispirato alla sua storia. La rappresentazione mette in luce il percorso di recupero di Attilio e ha l’intento di trasmettere importanti spunti di riflessione. In un passaggio del libro Attilio dice: “Volevo riprendermi la mia vita, quella che sognavo da bambino quando giocavo a pallone, quella che vedevo negli occhi di mio padre quando mi guardava e in mia madre mentre mi sorrideva. Avevo distrutto tutto e tutti, ma volevo ricominciare”. Un messaggio forte diretto ai giovani, soprattutto a quelli che si trovano ad affrontare un momento delicato della loro crescita. In sostegno a Radio Radicale di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 28 febbraio 2019 La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia esprime preoccupazione per il taglio dei finanziamenti a Radio Radicale che ne pregiudica l’esistenza stessa. Radio Radicale in questi anni ha svolto un importante servizio pubblico, sia con le dirette dei lavori parlamentari sia soprattutto per l’attenzione mostrata a quelle parti della società che stentano a veder riconosciuti i propri diritti, e in particolare ai carcerati. Radio Radicale è sempre stata presente ai convegni e seminari, nelle carceri e sul territorio, facendo un lavoro di documentazione preziosa che ha permesso e permette a molti volontari, detenuti, studenti, di informarsi sulle reali condizioni della Giustizia e dell’esecuzione delle pene in Italia. La pluralità delle voci, l’attenzione a queste tematiche vanno preservate sempre, perché sono questioni vitali per la nostra libertà. *Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Papa Francesco: il pentimento è una valida alternativa alla pena di morte fidelityhouse.eu, 28 febbraio 2019 Nel videomessaggio che Papa Francesco ha inviato al Congresso mondiale contro la pena di morte, che si tiene a Bruxelles, ha esortato “a compiere i passi necessari verso la totale abolizione della pena di morte”. Con un videomessaggio inviato nella sede del Parlamento europeo, a Bruxelles, dove si sta svolgendo il settimo Congresso mondiale contro la pena di morte, Papa Francesco ha rinnovato il suo appello alla vita. Il Pontefice ha dato tre indicatori atti a sostenere il suo appello per la totale abolizione della pena capitale: la dignità della persona, la vita è un dono e la possibilità di pentimento. La pena di morte è stata abolita in 142 Stati, ma nel mondo si contano circa 22mila detenuti condannati alla pena capitale. Amnesty International, nell’ultimo rapporto sulla pena di morte, ha sottolineato che nel 2017 ci son state 993 esecuzioni, 23 i Paesi coinvolti. L’appello del Papa - La pena capitale, afferma Papa Francesco, non può essere la soluzione per proteggere una comunità, anche se questa è stata la soluzione per molto tempo. Il Papa ricorda che la pena di morte chiude la porta della riconciliazione: “Nessuno può essere ucciso e privato dell’opportunità di abbracciare nuovamente la comunità che ha ferito e fatto soffrire”; ogni persona ha il diritto alla vita e la pena di morte va contro questo diritto. Sono molti i Paesi, osserva Papa Francesco, che scommettono sulla vita e non sulla pena di morte. Papa Bergoglio auspica che si continui a camminare in questa direzione, riconoscendo la dignità di ogni persona e a far in modo che la società guadagni delle vite invece che perderle eliminandole. Anche il Catechismo della Chiesa cattolica parla della pena capitale affermando che alla luce del Vangelo la Chiesa insegna “che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona” di qui il suo impegno determinato per l’abolizione in ogni parte del mondo della pena di morte. Papa Francesco non chiede di chiudere un occhio sui crimini, ma ritiene che chi ha commesso un crimine deve avere la possibilità di cambiare, di trasformarsi interiormente e di riparare il danno commesso. Abolire la pena di morte in tutto il mondo significa affermare il principio della dignità della persona umana, nella “convinzione che l’umanità può affrontare il crimine, oltre che rifiutare il male”. Furio Colombo: “Il fascismo sta tornando? No, non se n’è mai andato” di Federico Marconi L’Espresso, 28 febbraio 2019 Una politica incattivita, che esclude i più deboli. In un clima che ricorda il Ventennio. Il ritratto del nostro Paese di Furio Colombo. “Quella del governo è una coalizione che segue la logica della cattiveria. Aizzano all’odio contro il diverso, per colore di pelle, religione, idee politiche. Su questo giocano la loro propaganda e i loro provvedimenti. Odio che chiamano politica. È la cattiveria al potere”. Furio Colombo dipinge un quadro grottesco e inquietante dell’Italia del 2019. Giornalista giramondo, più volte parlamentare, alla fine degli anni 90 ha promosso l’istituzione della Giornata della Memoria delle vittime dell’Olocausto: la legge, votata all’unanimità dalle Camere nel 2000, porta il suo nome. “Il nostro Paese non poteva dare le colpe solo alla Germania nazista: la Shoah è stata una tragedia italiana”, ricorda. Oggi come allora. Un Paese cattivo e rancoroso. Vede così nero all’orizzonte? “Non è il Paese a essersi incattivito, è la politica. Bisogna distinguere le due cose: chi sta al governo si sente onnipotente, tra vecchi motti e logiche oscure. Però gli italiani non sono tutti cattivi, Lega e 5 Stelle non sono lo specchio dell’animo italiano”. Negli ultimi anni però sono aumentati gli atti di odio e di intolleranza contro le minoranze, è un dato di fatto. “È la conseguenza dell’odio e della violenza propagandata tutti i giorni. Ma sono pochi, al momento, quelli che non si vergognano di tramutare le parole in fatti. Sono frange violente e ignoranti, una minoranza molto rumorosa. Ma la maggior parte del Paese non è con loro. Il loro comportamento mi ricorda quello dei dignitari di corte in “Siddharta”, di Hermann Hesse. Quando il principe deve attraversare le strade del villaggio, si organizzano per far scomparire tutti i vecchi, i malati, i brutti, i vestiti male, quelli con il colore della pelle sbagliato. Niente doveva sconvolgere il principe, il colpo d’occhio doveva essere degno di lui. È quello che sta facendo il governo con i suoi provvedimenti, che cercano di eliminare tutto ciò di cui il Paese non sarebbe “degno”. Di cosa dovrebbe essere degno il Paese? “Indicano l’onestà, ma hanno fatto fuori solo chi aveva idee politiche differenti. L’impronta punitiva, che hanno dato a tutto, sembra essere una necessità permanente per Lega e 5 Stelle. Che, voglio sottolineare, non sono solo cattivi e punitivi: ma soprattutto tristi”. Perché tristi? “L’immagine di Di Maio che festeggia sul balcone, una cosa che nessuno aveva più fatto dopo il fascismo, oppure i sorrisoni e i bacioni di Salvini subito prima o dopo eventi drammatici vorrebbero trasformare un’immagine vincente e di forza, invece comunicano ?una profonda tristezza”. C’è stato anche chi, dal Senato, ha riportato in auge “il Protocollo dei Savi di Sion”: un falso storico tra le cause dell’Olocausto. Un altro ritorno al passato. “Un passato che torna anche in tv o al cinema. Ho visto un film appena uscito in sala, che mi ricorda le cose che mi facevano vedere e ascoltare quando ero piccolo, nella scuola fascista degli anni Trenta. Sarebbe stato perfetto per i valori e i principi che trasmette. Ma è del 2019 e nessun critico lo ha stroncato”. E quale sarebbe questo film? “Il primo re” di Matteo Rovere. Il fascismo sta tornando? “Il fascismo non sta tornando, non se ne è mai andato. Come ha scritto Umberto Eco, è eterno. È penoso che i leghisti ne siano ben consapevoli, ma non gliene freghi niente. Sono leghisti perché i diritti degli altri non contano nulla. Il capostipite del partito di Salvini non è Bossi, ma Borghezio: è lui che ha iniettato la cattiveria nella Lega di oggi. Io me lo ricordo nel 1996, quando a Torino girava con le “guardie padane”, quando con le torce andavano a incendiare i giacigli di quelli che allora chiamavano extracomunitari”. Esiste, secondo lei, un antidoto? “Dobbiamo sperare soprattutto nei ragazzi: non seguano queste persone che fanno a meno di loro senza problemi. Si mettano in gioco, senza paura: devono essere i più giovani a dire basta alla cattiveria. Poi anche gli adulti capiranno che hanno ragione, e li seguiranno”. Sri Lanka. “Mio figlio da 10 mesi in carcere senza processo”, parla la madre di Consalvo di Anna Ditta tpi.it, 28 febbraio 2019 Il 33enne di Pordenone è stato arrestato alla fine di aprile 2018 ed è in attesa di processo in un carcere di Colombo. Antonio Consalvo, 33 anni, originario di Pordenone, è stato arrestato in Sri Lanka alla fine di aprile 2018, dopo essere stato trovato in possesso di marijuana. Da allora si trova in un carcere di Colombo, la capitale del paese, in attesa di processo. Dieci mesi in cui non gli è stato concesso di conoscere il proprio destino. “Antonio era partito circa un mese prima dell’arresto, viaggiava da solo. Era abituato a viaggiare, era stato anche in Tailandia”, racconta Lucia Catania, madre di Antonio, contattata telefonicamente da TPI.it. La donna ha intenzione di raggiungere lo Sri Lanka e partirà lunedì 4 marzo. “Basta, c’è qualcosa che non va. L’ambasciata mi diceva: ‘tra un mese o due si fa il processo, un mese o due ed esce’, invece ancora non si muove nulla. Ora vado lì perché voglio capire”. Lucia Catania non sa il giorno preciso in cui il figlio è stato arrestato. “Noi lo abbiamo saputo i primi di maggio”, dice. “Gli hanno fatto fare una telefonata, hanno comunicato col papà, che poi ci ha avvisato. A quel punto ho chiamato subito l’ambasciata. Nel giro di pochi giorni mi hanno detto che lo avevano trovato. Sono andati a trovarlo e hanno saputo che Antonio aveva già preso un avvocato del posto e che lui gli procurava da mangiare, perché in carcere non danno cibo ai detenuti”. “L’ambasciata mi dava notizie di Antonio sempre tramite l’avvocato”, prosegue la madre di Antonio. “Sono passati due o tre mesi e lui non usciva. A ottobre avevo quasi fatto il biglietto e l’ambasciata mi ha scritto: ‘non faccia tutto quel viaggio, Antonio entro Natale è fuori’. Io ci ho creduto. Ma è passato Natale, è passato gennaio, non si muove niente. Non sanno perché non va avanti, non sanno niente. Antonio è stato abbandonato. Un processo rimandato continuamente, non si fa e non si sa perché”. A trovare Antonio è andata anche una signora del posto che vive nel Regno Unito e ha saputo la notizia: per caso si trovava in vacanza in Sri Lanka ed si è recata subito a trovarlo. “Mi ha contattato e mi ha detto che gli ha portato da mangiare. Antonio le ha chiesto un cuscino e dei saponi antibatterici. Non sono riusciti a fargli avere il cuscino perché non lo fanno entrare in carcere. Fisicamente Antonio stava bene, però era molto preoccupato. Ha perso le speranze, pensa di non uscire più. La seconda volta che è andata a trovarlo lui piangeva”. Fonti diplomatiche fanno sapere a TPI.it che le autorità sono in contatto con la madre di Antonio Consalvo dall’inizio della vicenda e hanno provveduto a recapitare in carcere i pacchi inviati dalla famiglia. I funzionari dell’ambasciata hanno inoltre verificato a più riprese le condizioni di salute del giovane, escludendo situazioni di pericolo, disagio, insicurezza. Il caso è seguito con la massima attenzione e fino a ieri c’è stata una visita consolare. India e Pakistan, fratelli diventati nemici: un odio eredità del passato di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 febbraio 2019 Le violenze esplose negli ultimi giorni vanno lette alla luce del retaggio coloniale e nella divisione forzata dei due Stati. In pochi mesi non fu più un unico Stato. Trionfò il caos: preludio di nuove guerre e tensioni continue. L’India coloniale non ebbe più un esercito controllato dalla ferrea disciplina britannica, svanì l’amministrazione centralizzata. E quella che tra il 1947 e il 1948 avrebbe dovuto essere una transizione essenzialmente pacifica verso la partizione secondo il governo di Londra, in concerto con il capo carismatico delle comunità musulmane Mohammed Ali Jinnah e il leader indù Jawaharlal Nehru, si rivelò una sanguinosa guerra civile, uno scontro fratricida epocale che causò oltre un milione di morti e almeno undici milioni di profughi. Andate ai musei di New Delhi, Islamabad o Lahore e troverete quanto ancora oggi quel dramma viene narrato alle due popolazioni con stupito orrore, a cementare e incattivire i rispettivi nazionalismi. Troverete le memorie dei civili braccati, delle donne violentate, degli eccidi di bambini e vecchi, dei treni di fuggiaschi assaltati, i paesi bruciati, i campi devastati. Indù e musulmani che sino ad allora avevano convissuto nei medesimi villaggi, lavorato fianco a fianco, servito nello stesso esercito erano diventati avversari per sempre. È la disumanizzazione del nemico volta a legittimare ognuno dalla sua parte la forza del proprio esercito, la santità della propria causa, sino al possesso della bomba atomica a sentinella dei reciproci confini nazionali. È solo con queste premesse che si può cercare di comprendere l’ennesima ondata di violenze esplosa negli ultimi giorni tra India e Pakistan. Le radici stanno nella loro divisione originaria, quando l’intensità dello scontro fu tale da indurre a lasciare irrisolti i problemi delle frontiere, a non affrontare di petto la questione del Kashmir conteso, delle sacche di musulmani rimaste in territorio indiano. Per convenzione si usa dire che i due vicini da quella prima guerra di fondazione hanno combattuto altri tre conflitti. Avvenne nel 1965, quando l’esercito pachistano infiltrò la porosa linea del cessate il fuoco sulle montagne per cercare di conquistare le regioni a maggioranza musulmana di Jammu e Kashmir. Doveva essere un blitz rapido. Si trasformò invece nella più grande battaglia di carri armati dalla fine della Seconda guerra mondiale allargata alle pianure del Punjab, dove il più numeroso e meglio armato esercito indiano ebbe la meglio. I cannoni ripresero a tuonare nel 1971 e anche questa volta il Pakistan venne battuto, perdendo le province orientali che da allora costituiscono lo Stato indipendente del Bangladesh. È in quel contesto che l’India si dotò dell’atomica, seguita poco dopo dal Pakistan. Negli anni seguenti le aspirazioni del Kashmir musulmano all’indipendenza dall’India videro la nascita di movimenti di guerriglia locali con il sostegno più o meno diretto, comunque discreto, dell’esercito pachistano. L’ultima campagna convenzionale fu nel 1999, quando ancora le truppe scelte pachistane, grazie al nuovo materiale per la guerra in alta quota d’inverno acquistato dagli inglesi, cercarono di conquistare il settore di Kargil sino a sfiorare i 6.500 metri di quota sul vasto ghiacciaio del Siachen, sotto la guida di un militare di professione quale fu l’ex presidente Pervez Musharraf. Ma gli indiani se ne accorsero e in pochi mesi riuscirono a recuperare il terreno perduto. Da allora però le zone d’alta montagna comprese tra le vallate di Skardu, dove passano le spedizioni alpinistiche per il K2, sino al settore di Muzaffarabad di fronte a Srinagar e il confine con la Cina (a sua volta coinvolta nel contenzioso regionale), sono al centro di una infinita guerra d’attrito. Un momento di crisi particolarmente acuto si ripropose al tempo degli attentati compiuti da una decina di estremisti kashmiri a Mumbai il 26 novembre 2008, che causarono almeno 178 morti e oltre 300 feriti. L’unico sopravvissuto tra gli aggressori, Mohammed Ajmal Amir Kasab militante nel gruppo Lashkar-e-Taiba, rivelò che erano stati tutti armati e addestrati dalle squadre speciali dell’esercito pachistano. Nicaragua. Al via il dialogo di pace: liberati cento prigionieri Avvenire, 28 febbraio 2019 Tra le prime richieste dell’opposizione, il rilascio degli altri 667 detenuti politici ancora dietro le sbarre. La Chiesa testimone al tavolo. Si sono radunate all’alba di fronte all’entrata del carcere La Modelo, vicino all’aeroporto di Managua. Oltre un migliaio di persone ha atteso impassibile l’apertura dei cancelli, da cui sono usciti i bus con i detenuti in “via di rilascio”. Immediatamente la folla dei parenti si è accalcata nella speranza di vedere il proprio caro sulle vetture. Per un centinaio di famiglie il sogno si è avverato. Tanti sono i prigionieri politici liberati dal governo di Daniel Ortega nel giorno del riavvio del dialogo con l’opposizione civile per mettere fine alla crisi in corso dal 18 aprile scorso, quando sono cominciate le proteste contro il presidente. Era stato lo stesso esecutivo a interrompere il negoziato sette mesi fa e inasprire la repressione, costata la vita ad almeno 326 persone. Altre 767 erano state arrestate, 136 di loro hanno avuto condanne pesanti. Le ultime sentenze, del 19 febbraio, hanno inflitto 216 e 200 anni di reclusione ai dirigenti contadini Medardo Mairena e Pedro Mena. Entrambi avevano partecipato alla prima trattativa che si è svolta fra maggio e luglio, con la mediazione della Conferenza episcopale nicaraguense. Come loro, molti dei negoziatori del gruppo iniziale - in galera o in esilio - sono, dunque, mancati ieri al round iniziale del “dialogo bis”, tra l’esecutivo e l’Alleanza civica, forza che raggruppa differenti settori sociali critici. I 19 delegati di quest’ultima, prima della riunione, hanno assistito alla Messa nella chiesa della Divina Misericordia, tra le più colpite dalla violenza orteguista, come dimostrano i fori di proiettili sulla facciata. A rappresentare il governo, c’erano il ministro degli Esteri, Daniel Moncada, i deputati Edwin Castro e Wilfredo Navarro e il giudice, Francisco Rosales. Il cardinale Leopoldo Brenes e il nunzio, Stanislaw Waldemar Sommertag hanno partecipato come testimoni. Il colloquio si è svolto a porte chiuse. Fonti vicine all’opposizione, hanno rivelato, però, che le prime richieste dell’Alleanza sono state la scarcerazione degli 667 detenuti politici ancora dietro le sbarre e la presenza di un mediatore internazionale.