Carceri, a che punto è la riforma? di Maria Concetta Tringali repubblica.it, 27 febbraio 2019 Fico in visita a Catania per un protocollo coi detenuti minorenni. La Consulta entra nelle carceri. Ma dietro a una rinnovata stagione di buoni propositi, la situazione in Italia sconta ancora sovraffollamento e carenze di ogni genere. Il governo nel frattempo lavora a una riforma. L’istituto minorile di Bicocca si trova dentro a un complesso penitenziario più grande, fatto di casermoni grigi, poco fuori dalla città di Catania e accanto alle aule bunker realizzate negli anni dei grandi processi di mafia. Lo si intravede percorrendo in macchina la tangenziale ovest. Il 25 febbraio scorso, quella struttura è stata teatro di una visita che Roberto Fico ha definito “una pietra miliare della mia esperienza di presidente della Camera”. In quel luogo di detenzione per minorenni è stato infatti presentato un protocollo che raccoglie oltre alla firma del presidente anche quella dei ministri alla Giustizia e all’Istruzione. Il progetto si chiama “Percorsi di cittadinanza. La Camera incontra i Giovani”. “Oggi le istituzioni sono vicine a questi ragazzi - spiega Fico. L’investimento principale deve essere nell’istruzione, nella scuola, nella formazione, negli educatori, con gli assistenti sociali per cercare di cambiare veramente le cose”. La via tracciata dovrebbe coincidere, dunque, con quella della legalità, “fondamentale - continua il parlamentare - perché io qui intravedo tutte le risorse del nostro futuro”. Il tema è dei più delicati, un nodo irrisolto nel nostro paese da decenni. La politica ci consegna una battaglia che è da sempre in cima alle priorità per il partito radicale; poi, fuori dai palazzi, tutte le denunce dell’associazionismo che si fa portavoce della questione, con Antigone e Luca Coscioni in prima linea. È di qualche settimana fa, ad esempio, l’intervento a favore dei clochard di via della Conciliazione di una serie di detenuti impegnati nella preparazione e nella distribuzione di pasti caldi. In quel caso, il progetto di Isola Solidale provava a incrociare vite difficili e storie di senza fissa dimora. Ma a fronte dei protocolli d’intesa che lasciano certamente prevedere un lavoro di buone prassi, accanto ai permessi speciali per reclusi prestati ad attività solidali e socialmente utili, la realtà nelle carceri italiane qual è? Per chi volesse provare a fare il punto oggi c’è uno sguardo in più che apre un nuovo canale di osservazione. È infatti dello scorso autunno un’iniziativa che nasce dalla volontà del presidente della Corte Costituzionale e che si inserisce in quello che è stato definito “Viaggio in Italia”. Giorgio Lattanzi parla del progetto in una lunga intervista, resa lo scorso 14 febbraio ai microfoni di Radio Radicale: “È la prosecuzione di un’esperienza nata dalla volontà di far uscire la Corte dal palazzo, per incontrare i cittadini e farci conoscere non solo attraverso le sentenze”. E nello specifico dà una precisa indicazione, non solo di metodo. La Consulta entra negli istituti di pena perché “bisogna far capire che la Costituzione e la Corte Costituzionale esistono anche per le persone detenute”. Come dire, la Carta è di tutti. “Conoscere la realtà carceraria da dentro mi pareva un’esigenza”, nelle parole del suo presidente le premesse sono già chiarissime, rintracciabili tutte nel comunicato della Corte che richiama l’articolo 27 della Costituzione, che finalizza le pene alla “rieducazione” del condannato ““Mai più un carcere cimitero dei vivi”, giurarono i padri costituenti”. Cosa emerge sin da subito è l’impossibilità di un resoconto univoco circa lo stato delle case circondariali e dei penitenziari italiani. E questo è un primo dato. Anche nelle dichiarazioni del giudice Lattanzi, pertanto, ogni realtà ha una sua fisionomia che è del tutto diversa dalle altre. Ma accedere a un quadro di sintesi si può e si deve. Allo scopo, la relazione annuale del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale srotola numeri e dati: nei primi mesi del 2018 erano 58.569 i detenuti delle carceri italiane; siamo arrivati oggi a contarne circa 60.000, a fronte di una capienza effettiva di 45.000. Il sovraffollamento è perciò, innegabilmente, il primo dei problemi. Tocca picchi del 200% a Como, e del 190,5% a Taranto. A cominciare dalla insufficienza di spazio, fino alle gravi carenze nelle condizioni igienico-sanitarie, sono condizioni obiettivamente riscontrabili in molta parte delle strutture di detenzione del nostro paese. Quello che attiene alle condizioni di chi sconta una pena è chiaramente un tema che parla della dignità di uomini e donne, che pone sul tavolo la questione dei diritti umani. Ma il Parlamento cosa fa? Era in Senato da marzo dello scorso anno, uno “Schema di decreto legislativo recante riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario”. Presentato dal Ministro per i rapporti con il Parlamento dell’allora Governo Gentiloni, appena l’ultimo giorno della diciassettesima legislatura, il disegno di legge prendeva le mosse da una legge delega del 23 giugno 2017 n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che demandava al Governo il compito di adottare i decreti necessari per novellare l’ordinamento penitenziario. Siamo ancora nella fase di scrittura di questa riforma. Cerchiamo intanto di capire dove stiamo andando o dove dovremmo andare, partendo dalla legge delega. Quella mette in fila una serie di criteri e principi direttivi a cui l’esecutivo dovrebbe attenersi nella scrittura del decreto legislativo. Sono paletti che disegnano il contorno del futuro provvedimento normativo. Tra questi spiccano l’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione. Sul punto il nuovo esecutivo non si trova d’accordo tanto che ha eliminato quelle previsioni dal nuovo testo, licenziato da Conte ai primi di agosto, sul filo di lana, nell’ultimo giorno utile per l’esercizio della delega. Tra quelli disegnati dal Parlamento c’è poi tutta una serie di interventi volti a novellare l’esecuzione intramuraria della pena detentiva. La delega prevede che si viaggi verso obiettivi di incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario che esterno; di valorizzazione del volontariato; che si affermi il diritto all’affettività per i reclusi e che si potenzino le necessarie forme di assistenza sanitaria, inclusa quella psichiatrica, negli istituti di pena. Capitolo a parte è dedicato alla esigenza che si prevedano interventi specifici per favorire l’integrazione dei detenuti stranieri. Chiara la necessità di una produzione normativa volta al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti e la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, ad esempio attraverso la sorveglianza dinamica. Previsioni specifiche la legge delega le impone anche nell’ottica di una efficace tutela delle donne recluse e delle detenute madri. La rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato conclude i punti principali. Fin qui il Parlamento. Il governo in carica dà una attuazione alla delega che in definitiva è meno rigorosa, discostandosene in una buona parte, come abbiamo visto. Sul testo originario ci sono tuttavia una serie di indicazioni che bisognerebbe tenere in debita considerazione. L’analisi d’impatto, formulata dall’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, reca ad esempio priorità quali la valorizzazione del detenuto come persona; il contrasto alle discriminazioni legate alla identità di genere e pone una attenzione particolare a evitare che la detenzione si trasformi in una sorta di “moltiplicatore delle vulnerabilità dei soggetti”, come di fatto accade. Si guardi poi alle sollecitazioni che giungono dal Garante nazionale che su quello schema di decreto sollevava alcune criticità. Tra queste, un’osservazione che può dirsi perlopiù recepita nel testo scritto dal governo gialloverde, è il rilievo circa la visita da eseguirsi sul detenuto all’atto dell’ingresso nell’istituto di pena. Occorre che quella sia compiuta in maniera accuratissima, in modo che possano emergere eventuali maltrattamenti subiti nelle fasi precedenti a quell’ingresso. Il pensiero corre a Stefano Cucchi, pestato a morte mentre era sotto la custodia dello Stato. Per essere chiari, le raccomandazioni richiamano gli standard europei ed è d’auspicio a che la norma prodotta possa rispettarli. I parlamentari di Fi: “morti in aumento in cella, Bonafede riferisca subito in Aula” savonanews.it, 27 febbraio 2019 “Il numero di detenuti morti nelle carceri italiane per suicidio, malattia, overdose e “cause non accertate” è in costante aumento dal 2016 a oggi”. “Assistiamo quotidianamente a un decadimento delle condizioni di vita in carcere a cui sono sottoposti detenuti e agenti di polizia penitenziaria, a cominciare dallo stato di difficoltà e di abbandono in cui si trova talvolta la sanità penitenziaria”. Lo scrivono in una interrogazione parlamentare urgente al ministro Bonafede i parlamentari di Forza Italia Roberto Cassinelli, Giorgio Mulè, Roberto Bagnasco e Manuela Gagliardi. “Il numero di detenuti morti nelle carceri italiane per suicidio, malattia, overdose e “cause non accertate” è in costante aumento dal 2016 a oggi. I detenuti nelle carceri italiane si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. Dopo il docu-film (raccapricciante) sulla cattura di Battisti, il ministro Bonafede ci dica cosa intende fare per migliorare la situazione e se è vero che, come riferiscono alcune fonti, sarebbe intendimento dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria chiudere il Distaccamento penitenziario di Genova. Sarebbe l’ennesimo colpo a un sistema sempre più lasciato al suo destino”, concludono i parlamentari azzurri. Se il paese applaude la giustizia da strada di Piero Colaprico La Repubblica, 27 febbraio 2019 Applauso alla sentenza calibro 9. L’applauso agli assassini: non del tutto una novità, specie in questi ultimi anni di “politica della paura”. Ma ieri sera, a Rozzano, è successo davanti alla caserma dei carabinieri. E l’applauso è andato a chi non poteva sottrarsi alla vendetta a mano armata, a chi ha scelto di emettere più rapidamente della magistratura la sentenza di morte. E non solo la sua, ma quella dell’intera sottocultura della strada, perché a Rozzano, Rozzangels, come la chiamano, la sentenza l’ha eseguita uno, ma larga parte della famiglia era d’accordo. O, se non si può parlare della famiglia, a essere d’accordo con l’assassino era il clan, visto che parecchi protagonisti di questa storia sono ben conosciuti dal luogotenente Massimiliano Filiberti, ex detective della seconda sezione, Rapine e Omicidi. In questa storia c’è una vittima. Una bambina di cinque anni. Ed era da tempo che, nel quartiere delle case Aler, case popolari, tutti sapevano di quello che le era capitato. Il mormorio, il bisbiglio era passato di balcone in balcone, sino a diventare una fragorosa, insistente, agghiacciante vox populi. Di queste voci era ignaro il suocero, era appena tornato da Scampia, dove abita, a poca distanza dalle “Vele”, e due sere fa camminava accanto a un giardinetto riservato ai bambini. Ed è là che è stato abbattuto. Un amico del padre assassino, ieri mattina, s’è presentato davanti alla caserma e, davanti ai cancelli, gridava: “Poi ditelo alla gente perché ha sparato, le persone devono sapere che cosa ha subito la bambina”, gridava. Nel frattempo l’assassino ha visto amici e parenti e, appena dopo pranzo, ha bussato al cancello. Meglio costituirsi a chi l’aveva già arrestato tempo fa, per estorsione, che farsi prendere. Regala attenuanti e non aggravanti. Dalla “gazzella” nera che dopo l’interrogatorio lo scorta verso il carcere, questo padre-assassino manda un bacio. Lo fa con le braccia dietro la schiena. Per lui e per i suoi quelle manette sono il segno dell’inevitabile “giustizia della strada”. Comprensibile forse. Pericolosa senza dubbio. Legittima difesa, il rinvio favorisce la Lega: ridurrà gli interventi in aula di Francesco Grignetti La Stampa, 27 febbraio 2019 L’allarme dell’ex Guardasigilli Orlando: “Io rinvierei questo provvedimento all’infinito. Il problema è che con questo escamotage sarà impedita una discussione seria”. Legittima difesa, apparentemente c’è un rinvio. Alla Camera se ne parlerà non questa settimana, infatti, bensì la prossima. Ma quel che può sembrare uno sgarbo alla Lega, e che qualcun altro aveva interpretato come un favore chiesto da un vicepremier all’altro perché in grande difficoltà con i suoi, in realtà è tutt’altro. È un furbo escamotage che permetterà alla Lega di portare a casa il risultato tra sette giorni con matematica certezza. Ecco perché ieri è stato proprio un leghista a chiedere il rinvio sul ddl che più di tutti sta a cuore a Matteo Salvini: perché così scatterà il cosiddetto “contingentamento” degli interventi. Che i grillini non siano felici della riforma della legittima difesa, di pura marca leghista, è noto. Ma non è e non sarà un problema nella convivenza tra i due partiti. Luigi Di Maio ha voluto rimarcarlo anche ieri: “Tutto il cronoprogramma delle leggi non cambia. È una fake news che avrei chiesto di rimandare la legittima difesa”. Di contro, appariva più che tranquilla il ministro Giulia Bongiorno, Lega: “Credo e spero che avremo la legge entro marzo”. È scontato, insomma, che la settimana prossima sarà votata la riforma. Poi ci dovrà essere un ulteriore passaggio al Senato. Ma la strada è spianata. Lo ha ben capito Andrea Orlando, Pd, ex ministro della Giustizia: “Noi - dice - a differenza di Forza Italia che cerca di scavalcare a destra la Lega proponendo forse la legge del taglione, saremmo favorevoli ad un rinvio all’infinito di questo scellerato provvedimento. Però non ci sfugge che il rinvio impedirà una discussione congrua sul testo, perché con il contingentamento impedirete una discussione seria su un provvedimento che fa uno sfregio al nostro ordinamento giuridico”. Se Forza Italia e FdI gridano allo scandalo per il rinvio, e vorrebbero il voto subito, superando a destra la Lega, a sinistra sono ormai rassegnati. L’unica possibilità che vedono per rallentare la corsa del provvedimento è far leva sul malumore grillino, specie dopo la batosta elettorale in Sardegna. Insiste Orlando, rivolto al M5S: “Volete mettere un velo pietoso su una contraddizione esplosa nelle elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna: l’inseguimento dissennato del populismo penale utilizzato da Salvini in queste settimane premia la Lega e porta alla catastrofe il Movimento 5 Stelle”. Gli fa eco Nicola Fratoianni, Sinistra italiana: “Mi auguro che M5S abbia uno scatto di dignità. Sono molto spaventato di questa deriva che rischia di spingere il Paese dentro una dinamica barbara”. Quale sia il pericolo, lo denunciano i magistrati progressisti della corrente di Area: “Il messaggio che si vuol far passare, è la legittimazione della giustizia privata, della vendetta. Passa l’idea che lo Stato non sia in grado di garantire la sicurezza”. Ritenere proporzionata qualunque difesa, secondo i magistrati di Area è una violazione dei principi costituzionali: “La vita, la salute e l’incolumità personale, nella scala dei valori costituzionali sono tutelati in massimo grado anche quando appartengono ad un soggetto che commette reato, rispetto ad altri come i beni patrimoniali”. La “pedagogia nera” e la sua alternativa di Daniele Novara Avvenire, 27 febbraio 2019 Logica delle armi e rifiuto della diversità. Quali messaggi sono sottesi a certi gesti, quali valori o disvalori vengono così veicolati in particolare ai più giovani? E quali possono esserne le conseguenze sullo sviluppo della loro personalità? “Che sia in galera un imprenditore che si è difeso e sia fuori un rapinatore in attesa di un risarcimento dei danni significa che bisogna cambiare le leggi. Cercheremo di fare di tutto perché stia in galera il meno possibile”. Sono state le prime parole del ministro dell’Interno Salvini all’uscita dal carcere di Piacenza, sabato 23 febbraio, dove è andato a esprimere la sua solidarietà ad Angelo Peveri un imprenditore condannato in via definitiva perché, con un dipendente, una notte del 2011 ha immobilizzato, sparato e ferito gravemente una persona ormai inerme, un cittadino europeo, un romeno residente in Italia, che aveva cercato di rubare del gasolio da un escavatore della sua ditta, più volte presa di mira dai ladri. Per Salvini un caso di legittima difesa. Per i giudici (ma anche secondo le ricostruzioni balistiche) il tentativo di farsi giustizia da sé. Per questa ragione, Angelo Peveri dovrà scontare 4 anni e mezzo di carcere (l’accusa è di tentato omicidio). E il ministro dell’Interno non ci sta. Non c’è da stupirsi. Fatto salvo che non sono certo io a sostenere la detenzione come giusta punizione, non voglio neppure che sia difeso il diritto di uccidere. È solo l’ultimo episodio che vede Matteo Salvini affermare uno stile, una visione del mondo, che va ben oltre una generica linea politica e si concretizza, nei gesti, nel linguaggio perfino nell’abbigliamento, in una vera e propria pedagogia nera. Quella descritta dalla psicoanalista svizzera Alice Miller in saggi come “La persecuzione del bambino”, una pedagogia basata sulla paura e sulla mortificazione, che infonde nei bambini il senso della loro colpevolezza e cattiveria, li rende fragili, dipendenti. Una pedagogia della paura perché questa è la linea politica: paura del diverso, dello straniero, di chi ha la pelle nera; bisogno di possedere e usare un’arma, chiusura dei porti ai poveracci e dei centri di accoglienza ai senza potere: sono tutte diverse declinazioni di quest’unica, perversa, pedagogia che, purtroppo, sta avendo molta presa sulle giovani generazioni. Ecco perché noi adulti dobbiamo fermarci a riflettere sul fatto che considerare le armi ‘la base della sicurezza’ o ritenere un ‘diritto’ quello di uccidere un ladro, sono due convinzioni che ci fanno precipitare indietro nel tempo, ci fanno tornare dritti all’epoca dei duelli. Generando mancanza di lucidità e di pensiero critico. Non solo. Si tratta di una visione che affonda le sue radici nella più retriva cultura patriarcale, maschilista, dispotica. Non a caso diversi esponenti del partito di Salvini si sono distinti per le loro dichiarazioni sessiste, anch’esse figlie di questa stessa mentalità, che rifugge dalle differenze e che, per sostenersi, ha bisogno di trovare sempre nuovi nemici. Gli stranieri, quelli con la pelle nera, i romeni, i cinesi, le donne, i rom, gli omosessuali e così via. Matteo Salvini, che stupido non è, ricorre a questa filosofia perché sa che la caccia al nemico è un tema forte, che unisce, compatta. E attira gli elettori. Purtroppo, però, rischia anche di segnare le menti dei più giovani, ragazze e ragazzi che stanno crescendo, quindi meno strutturati e, per via dell’età, già fisiologicamente propensi a vedere le cose in modo un po’ estremo, ‘bianco o nero’. Salvini semplifica, e le semplificazioni piacciono, un po’ come nei videogiochi, dove è sempre molto chiaro chi sono quelli da distruggere. Oggi, nel nostro panorama politico, sono stati via via sdoganati i peggiori comportamenti della natura umana, ci si fa vanto di sparare sentenze a raffica, di attaccare questo o quello, di ‘cantarle chiarè, urlare, aggredire. Ripeto: è una pedagogia nera, contro la quale opporsi con forza. Come? Non con un eccesso di mitezza. Ma opponendo resistenza, rigore civile e morale, e aiutando le giovani generazioni a cogliere le sfide del nostro tempo, anziché averne paura. Contribuendo tutti a una società in cui si parlano più lingue, dove culture diverse entrano in contatto e si mescolano dando origine a nuove espressioni culturali, dove possano convivere religioni diverse, nel rispetto delle donne e dei bambini. I giovani non devono avere paura del futuro. E non devono temere i conflitti, che sempre si generano nell’incontro tra diversi. Educatori, genitori, e insegnanti possono contrapporre al pensiero unico della pedagogia nera la capacità di gestire le contrarietà e viverle come sfide, opportunità, occasioni di crescita, apprendimento e felicità. In una parola, dobbiamo sforzarci di imparare, tutti insieme, una nuova cittadinanza. Legge Spazza-corrotti: un Dna segnato dal giustizialismo di Gian Domenico Caiazza* Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2019 Una maggioranza parlamentare e di governo che chiama “Spazza-corrotti” una legge (la legge 3/2019) in tema di reati contro la Pa, per Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione camere penali italiane, dà l’idea di come il legislatore intenda affrontare il tema del diritto penale. A completare il quadro ci pensano le misure introdotte: l’aumento delle sanzioni accessorie; l’ostatività verso ogni forma di pena alternativa o di permessi premio; l’agente infiltrato; l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado. L’Ucpi ha combattuto con forza contro il provvedimento ottenendo per ora il posticipo di un anno della sua entrata in vigore, ma si augura che l’attività di contrasto continui. La semantica - più che mai negli atti politici - è sempre rivelatrice. Una maggioranza parlamentare e di governo che ha icasticamente inteso denominare “Spazza-corrotti” un disegno di legge in tema di reati contro la pubblica amministrazione, progetto che poi è diventato legge 3/2019, non poteva esprimere con più chiarezza la propria idea del diritto penale. Una idea cioè schiettamente etica, neo-retributiva, che concepisce la incriminazione non come mera prescrizione di regole di comportamento sociale cui doverosamente conformarsi, ma come individuazione di uno standard morale la cui violazione esige, anche emotivamente, una compensazione prossima alla vendetta da parte della comunità sociale offesa e dunque alla umiliazione del reo piuttosto che al progetto della sua emenda. La pena come marchio di infamia gronda copiosamente dal testo normativo appena varato dal nostro Parlamento. Basti pensare alla valorizzazione ipertrofica delle pene accessorie, potenziate nel loro catalogo e - soprattutto - nella loro ultrattività rispetto alla pena principale e finanche alla riabilitazione. Basta una pena superiore a due anni per la gran parte dei reati contro la Pa (sono esclusi solo l’abuso d’ufficio e il peculato d’uso) per rendere perpetua la interdizione dai pubblici uffici e la inabilitazione a contrattare con la pubblica amministrazione, salve le ipotesi del fatto di lieve entità e del ravvedimento operoso contemplate dall’articolo 323-bis del Cp. E anche se la pena è contenuta nei due anni ed è condizionalmente sospesa, il Giudice può disporre, anche in caso di patteggiamento della pena, che le pene accessorie temporanee mantengano la propria esecutività. Con la stessa logica, si è disposto che nemmeno l’esito positivo della messa alla prova possa estendere i propri effetti estintivi sulla pena accessoria, mentre in caso di riabilitazione occorrerà il decorso di ulteriori sette anni perché la pena accessoria perpetua possa finalmente estinguersi. Siamo dunque alla damnatio memoriae, alla pena tendenzialmente perpetua, al marchio di infamia pressocché indelebile impresso sulla pelle del reo; al disinteresse dichiarato e rivendicato per le possibilità di recupero sociale del condannato. E infatti, a completare nel modo più esplicito questa idea della riduzione a spazzatura sociale di chiunque compia un delitto contro la pubblica amministrazione, ecco la iperbolica inclusione dell’intero catalogo dei reati di cui all’articolo 32-quater del Cp in quello di cui all’articolo 4-bis, comma primo, dell’Ordinamento penitenziario. Vale a dire: ostatività verso ogni forma di pena alternativa (esclusa la liberazione anticipata) o di permessi premio, e immediata esecuzione in carcere della pena. Il concussore o il peculatore trattati dunque, dal punto di vista penitenziario, alla pari di un capo mafia, anzi peggio considerata la sostanziale inesigibilità (nella gran parte delle ipotesi concrete) di una condotta collaborativa o di ravvedimento operoso nei confronti dei secondi rispetto al primo. Per sovrappiù, la furia giacobina dei neo-riformatori ha fatto sì - non è chiaro se per scelta o per disattenzione tecnica - che, diversamente dalle precedenti implementazioni del catalogo dei reati ostativi di cui all’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario qui non sia stata prevista una norma transitoria che ne sancisse la irretroattività, vista la natura meramente processuale di quella norma secondo la tetragona giurisprudenza della Suprema corte. Con la aberrante conseguenza che l’imputato che abbia rinunziato (patteggiamento) o affievolito (rito abbreviato) il proprio diritto di difesa, o anche solo abbia ritenuto di non avere motivo di attivare condotte di ravvedimento operoso in corso di dibattimento, contando su un quadro normativo favorevole alla possibile esecuzione della pena in forma alternativa al carcere, si trovi -nella imminenza della definitività del giudizio di responsabilità - di fronte a una modificazione unilaterale da parte dello Stato delle regole pattizie stipulate con i suoi cittadini al momento del fatto. Perfettamente in linea con la ispirazione giustizialista dell’intero impianto della legge 3/2019 è la estensione ai reati contro la Pa dello strumento investigativo dell’agente infiltrato di cui all’articolo 9 della legge 146/2006 (ma anche dell’agente provocatore, sotto le mentite spoglie di quella surreale immunità garantita al correo che si pente dopo quattro mesi dal fatto, e prima della sua iscrizione nel registro degli indagati). Si tratta, come è a tutti noto, di uno strumento nato per consentire all’investigatore di penetrare all’interno di strutture criminali di natura associativa (criminalità organizzata, terrorismo, traffico internazionale di stupefacenti etc), al fine di acquisire dati di conoscenze altrimenti difficilmente acquisibili. Arduo comprenderne la concreta applicazione alle indagini relative a reati contro la Pa, che, per loro natura e salvo eccezioni, si esauriscono in condotte puntuali, circoscritte nel tempo e in prevalenza marcatamente individualistiche. Si tratta di una innovazione figlia piuttosto di esigenze di comunicazione politica simbolica, che ha alimentato una idea della stessa pubblica amministrazione come una sorta di indistinta associazione per delinquere nei cui gangli occorre dunque infiltrare agenti sotto copertura. Una idea quasi infantile, vicina alla “pancia” della pubblica opinione ma lontana dalla realtà della gran parte di quei fenomeni criminali. Una recente ricerca dell’Istituto Eurispes ha peraltro efficacemente dimostrato come il fenomeno corruttivo, certamente diffuso nel nostro Paese, è tuttavia incommensurabilmente moltiplicato nella percezione sociale da una ossessiva campagna politica che riduce a corruzione ogni atto di pubblica amministrazione del proprio avversario (o “nemico”, sarebbe meglio dire). Ed è sempre la legislazione penale simbolica che ha ispirato la inopinata introduzione in questa legge della norma che abolisce la prescrizione dopo la pronunzia della sentenza di primo grado. Su di essa si è già detto tutto e con la massima autorevolezza, se solo si consideri la formidabile sottoscrizione dell’appello dei penalisti italiani al Capo dello Stato da parte di oltre 150 docenti di diritto penale, processuale, costituzionale di tutte le Università italiane, perché il Presidente valutasse i plurimi profili di incostituzionalità di quella norma. Qui mi preme evidenziarne la eclatante strumentalità demagogica e populista, visto che essa interviene, con pretese salvifiche, sulla prescrizione dei reati dopo la pronunzia della sentenza di primo grado, quando secondo i dati ufficiali del ministero di Giustizia si sono a quel momento prescritti già il 78% del totale dei reati che annualmente si estinguono per tale ragione! Il posticipo di un anno della sua entrata in vigore è stato il minimo tributo che la maggioranza parlamentare ha dovuto pagare a quella straordinaria risposta della comunità dei giuristi che l’Unione delle camere penali ha saputo organizzare nel Paese; ma tanto è sufficiente per rafforzare ancor di più le ragioni di una attività di contrasto -politica e culturale - che deve continuare, in nome di una idea liberale della giustizia penale oggi più che mai indispensabile per le sorti della nostra democrazia. *Presidente dell’Unione delle camere penali italiane Il rapporto ombra contro la violenza sulle donne: “Italia sessista” di Simona Musco Il Dubbio, 27 febbraio 2019 Il testo è stato redatto da 25 associazioni coordinate dalla rete dei centri antiviolenza D.I.RE. Di fronte alla violenza sulle donne, l’Italia ha reagito soltanto sul versante normativo e sulla criminalizzazione delle condotte, senza fare nulla per applicare in maniera efficace quelle norme. E il nuovo governo si è presentato “come reazionario rispetto ai diritti e alle libertà delle donne”, delineando “un quadro molto preoccupante”. È questa l’immagine sconfortante offerta dal primo “Rapporto ombra”, elaborato da 25 associazioni e professioniste coordinate da “Donne in rete contro la violenza”, per verificare l’applicazione della Convenzione di Istanbul. Un documento ratificato dall’Italia nel 2013, ma, nei fatti, mai applicata. A denunciare la situazione, ieri, ci hanno pensato le diverse associazioni anticipando la visita di marzo del gruppo di esperte sulla violenza contro le donne in Italia, primo Paese a finire sotto osservazione del Consiglio d’Europa. La discussione, moderata dalla caporedattrice del Dubbio Angela Azzaro, ha focalizzato le numerose criticità: una cultura misogina, la carenza di un’adeguata educazione sin dalla scuola e nella formazione professionale in grado di superare gli stereotipi, la disomogeneità e l’insufficienza dei dati, le criticità nel processo penale e in quello civile, le difficoltà delle donne migranti, aggravate dal Decreto sicurezza e il vuoto informativo sulle ragazze con disabilità e sulle mutilazioni genitali. Senza contare i fondi altalenanti e distribuiti a macchia di leopardo sul territorio. Troppi, dunque, gli ostacoli, in un contesto sociale caratterizzato da pregiudizi nei confronti di quelle donne che decidono di denunciare. Un arretramento culturale che pervade anche la politica, denuncia il report, la quale “non ha voluto” potenziare gli strumenti per contrastare la violenza. “È un momento storico critico - ha sottolineato Lella Palladino, presidente di D. i. Re - Il Paese sta scivolando in una deriva di limitazione dei diritti fondamentali, negando i principi della sua Costituzione”. L’incontro di ieri “ha valenza politica”, dunque, per riportare avanti le lancette dell’orologio in un Paese dove l’accesso alla giustizia per le donne vittime di violenza è sempre più difficile e, a volte, criminalizzante. “Noi vogliamo che le donne vengano messe in sicurezza - ha evidenziato - ma contrastiamo ogni deriva securitaria. La legge prova ad azzerare la dimensione politica dietro la violenza e non connette la stessa con la discriminazione che le donne vivono”, complice un linguaggio dei media che rende inutile la prevenzione. L’appello è quello per la costituzione di un programma che riesca, nei prossimi mesi, “a ribaltare” le politiche attuali, che riportano le donne indietro nei loro diritti, ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, statistica ed editorialista de La Stampa. “Tutto va inserito in un preciso contesto politico - ha spiegato - che, a 11 anni di crisi economica, da cui le donne sono uscite meglio degli uomini, ma sfiancate e divise, ha aggiunto un attacco ai diritti: dal punitivo ddl Pillon, alla politica pro natalista della Lega. Dobbiamo vincere ed essere unite”. Tante cose che un tempo provocavano vergogna, ha evidenziato Elena Biaggioni, del centro antiviolenza di Trento, “sono state sdoganate e misoginia e sessismo vengono esibiti con disinvoltura. L’Italia ha già ricevuto diverse raccomandazioni negli anni, che devono essere considerate una base di partenza”. Ma manca una strategia per la prevenzione, complice un forte livello di assuefazione, che “non fa che giustificare e incitare episodi di violenza”, ha evidenziato Claudia Signoretti, di Parteciparte. “Nelle scuole serve un’educazione che promuova le differenze e il rispetto dell’altro nei rapporti - ha evidenziato - Ciò che è stato fatto è frutto del lavoro di singoli docenti che spesso vengono ostacolati o boicottati, nel silenzio delle istituzioni”. A ciò si aggiungono “campagne di disinformazione”, come il tentativo di attribuire “significati strani” ai programmi di educazione sui generi, delegittimando le competenze, mentre le campagne di sensibilizzazione “ripropongono lo stereotipo delle donne come soggetti passivi e deboli, parlando come se fosse solo un loro problema”. Ma le criticità riguardano anche le forti differenze tra nord e sud, ha evidenziato Maria Rosa Lotti, de Le Onde di Palermo, un quadro che si innesta sul non riconoscimento dei servizi specialistici. “Non c’è alcuna risorsa”, ha ammonito, e le poche presenti sono destinate basandosi sull’assistenzialismo e non sulla qualità. “Si pensa che più servizi significhi più risposte - ha aggiunto Ciò crea più consenso, ma anche minore qualità”. Le donne rimangono vittime, dunque, non essendo messe nelle condizioni di ricostruire il proprio futuro, perpetrando la stessa cultura che genera la violenza: “quella patriarcale, che sta dentro una modalità di gestione del potere”, ha concluso. Il problema della strategia si associa a quello della carenza dei dati, evidenziato da Paola Sdao, del Centro Lanzino di Cosenza, strumento essenziale per monitorare il fenomeno e definire politiche di contrasto. In Italia “manca un sistema di dati condiviso” e le uniche indagini presenti sono quelle Istat, risalenti al 2006 e al 2014, che dipingono un quadro preoccupante: una donna su tre ha subito violenza fisica e sessuale dal partner o dall’ex, il 96 per cento delle violenze non viene denunciato e il 65 per cento dei maltrattanti è italiano, contrariamente alla narrazione voluta dalla politica. “Serve un nuovo approccio politico alle rilevazioni - ha aggiunto - che devono essere periodiche, puntuali e complete”. Violenze di genere, l’ok degli avvocati sulla legge: “Le tutele vanno estese” di Errico Novi Il Dubbio, 27 febbraio 2019 Il Ddl Bongiorno sul codice rosso ieri l’audizione del Cnf. Il ministro Giulia Bongiorno lancia almeno un appello alla settimana: “Fate presto”. Si rivolge al Parlamento, dov’è all’esame la legge sul “codice rosso”, ossia la corsia preferenziale per le indagini sulle violenze di genere. Un disegno di legge che è stato condiviso con il guardasigilli Alfonso Bonafede e che la titolare della Pubblica amministrazione coltivava da anni. Ne aveva fatto l’obiettivo dell’associazione “Doppia difesa”, in cui si è impegnata insieme con Michelle Hunziker. Ieri la commissione Giustizia di Montecitorio ha svolto una nuova giornata di audizioni e ha sentito anche una componente del Consiglio nazionale forense, l’avvocata Maria Masi, che sul tema delle tutele nei confronti delle donne e in generale della parità ha alle spalle incarichi nelle istituzioni forensi, a cominciare dal coordinamento della rete “Comitati pari opportunità”. È stata interpellata su tutti i punti qualificanti del ddl governativo. In particolare sull’introduzione dell’obbligo, per il pm, di ascoltare la vittima di violenze in famiglia entro 72 ore dalla querela. “Chi come la deputata Annibali ha firmato altre proposte di legge collegate teme che la previsione possa insinuare nella donna l’idea che il magistrato consideri in partenza scarsamente attendibile la sua denuncia”, spiega Masi. “Perciò si propone di precisare che l’assunzione di informazioni va fatta se la vittima “ne fa richiesta”. Ho detto che può andar bene, ma anche che un simile fenomeno non si fronteggia con la singola specifica misura ma con l’integrazione di diversi interventi”. La Convenzione di Istanbul, ricorda la consigliera Cnf, “sintetizza la strategia da adottare nelle tre “P” di “protezione, prevenzione e punizione”. Ecco, nessuna delle tre risposte basta, servono tutte e certo la tempestività dell’azione giudiziaria, fissata nel ddl del governo, è importante. Come lo è la previsione di informare la vittima sulle misure cautelari imposte alla persona denunciata, in modo che sappia se quest’ultima potrebbe avvicinarsi di nuovo”. La fretta di Bongiorno, tradotta in nuove regole per le indagini, è legata a una constatazione: il tempo è fattore decisivo rispetto alla possibilità di prevenire i reati più gravi. Da ultimo è tornato sul punto il “Rapporto ombra” delle “Donne in rete contro la violenza - D. i. Re” (di cui diamo conto anche in altra parte del giornale, ndr). “La legislazione italiana in materia”, vi si legge, non è “implementata in modo fa dare risposte efficaci a donne e figli”. Ci sarebbero “ancora troppi ostacoli, sia con le forze dell’ordine, che con i professionisti socio-sanitari, dovuti non solo alla scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza”. Una versione esasperata, forse, di un concetto che in modo meno catastrofista è stato rilanciato dalla stessa Bongiorno pochi giorni fa in un’intervista alla Rai: “Spesso non viene percepita l’urgenza”, ha detto “quando le donne denunciano”. Cosa che fino a qualche annoi fa, peraltro, avveniva con minor frequenza: “Prima il problema era convincere le donne ad andare in Procura o dai carabinieri: da questo punto di vista è stata fatta un’operazione culturale importante. Ma poi le denunce restano sulle scrivanie dei magistrati con tanti altri fascicoli”. E magari, quando finalmente si procede, si è già precipitati dal maltrattamento in famiglia a reati più gravi. Sulla formazione e la ricettività delle forze dell’ordine si è espressa nei giorni scorsi anche l’Associazione italiana giovani avvocati, a propria volta audita in commissione Giustizia: c’è una “necessità di formazione degli operatori carcerari ed extracarcerari”, secondo la nota diffusa dall’Aiga, “affinché la pena possa svolgere appieno la funzione rieducativa del reo”. Aspetto da non sottovalutare: si fa prevenzione anche col recupero di chi ha già commesso reati di genere. All’articolo 4 del ddl governativo infatti si parla di corsi destinati anche alla “polizia penitenziaria”, dunque anche al “trattamento delle persone condannate” per i reati contro donne e minori. Resta quell’alea di rischio, che ancora Aiga segnala: “La maggior tutela delle vittime non deve contrastare in alcun modo con la tutela dei diritti dell’indagato/imputato e col principio della presunzione di innocenza”. Sembra un pericolo controllabile: formare le forze di polizia a prendere sul serio le donne che denunciano potrebbe essere l’occasione per istruirle anche a un approccio costruttivo con chi sconta la pena. Sarebbe una doppia rivoluzione culturale, persino insperata. Maria, pentita di ‘ndrangheta: “Io una morta che cammina” di Antonio Crispino Corriere della Sera, 27 febbraio 2019 “Sono fuggita in Germania perché in Italia non ero al sicuro”. Maria Vallonearanci, pentita di ‘ndrangheta: “Il sistema di protezione italiano non garantisce l’anonimato, ci mette a rischio. Sopra alla mia casa segreta a Lucca abitava un avvocato del mio paese nipote di avvocati che la ‘ndrina aveva a libro paga”. Il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho: “Ci sono delle difficoltà nel sistema di protezione”. Poche ore dopo la pubblicazione della prima parte della nostra video inchiesta sui collaboratori di giustizia, da Rossano, in Calabria, è partita una telefona verso la Germania. “Ci confermi che davvero non vai a testimoniare?”. A ricevere la telefonata è stata Maria Vallonearanci, la pentita di ‘ndrangheta che in chiusura della scorsa puntata diceva: “Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia non mi ha garantito la tutela dei figli minori e un nome di copertura. Se così stanno le cose io ai processi non mi presento”. Maria, un caso in Germania - È diventata un caso in Germania, al punto che Rtl (la principale emittente televisiva) e il settimanale Stern le hanno dedicano un approfondimento di quasi quaranta minuti. Perché Maria ha rifiutato il programma di protezione per i pentiti in Italia e attualmente si nasconde nei land tedeschi. Il marito di Maria (ora ex marito) fa parte del clan Acri-Morfò. Lo ha denunciato lei stessa ai magistrati (insieme ad altri capindrina) svelando i traffici illeciti tra Calabria e Germania. Più precisamente, Maria ha contribuito alla scoperta di un “Inter Club” a Fellbach, vicino Stoccarda, che fungeva da deposito di droga e banconote false oltre che da sede per i summit di mafia. Così è stato possibile ricostruire anche la rete di ristoratori italiani che nel Baden Wuttemberg erano costretti a comprare olio, vino, frutta, pesce e lavorati per la pizza solo da “mamma ‘ndrangheta”. Affari a cui la stessa Maria prendeva parte con un ruolo ben preciso: punire quelli che non pagavano il pizzo. “Mi chiesero di incendiare l’auto a un ristoratore che nel Baden non voleva pagare” ci conferma. Nessuno più di lei era adatto per quel ruolo: nata in Germania, a Backnang, e con un marito dal nome pesante: Natale Acri, capobastone del clan Acri-Morfò di Rossano, in provincia di Cosenza. Dopo il pentimento le sue dichiarazioni sono finite in due importanti processi come “Stop” e “Stige”, e ha testimoniato contro 28 affiliati. Complessivamente, hanno portato in carcere circa duecento persone, tra cui politici locali e imprenditori. Poi qualcosa non ha funzionato e quel qualcosa è il programma di protezione che aveva sottoscritto con il Servizio Centrale. “I miei figli non potevano andare a scuola perché c’erano problemi con i nomi di copertura; a Lucca sono stata trasferita in un appartamento dove scopro che il mio vicino di casa era un avvocato del mio stesso paese, Rossano, nipote di avvocati che la ‘ndrina aveva a libro paga; nel ritirare la pensione di invalidità di mia figlia (nella località segreta) scopro che all’ufficio postale di Rossano conoscevano dove e in che giorno la riscuotevo; quando mia figlia ha avuto bisogno di alcuni interventi chirurgici non ho potuto chiedere assistenza all’Asl perché i documenti di copertura che mi fornirono non lo consentivano… Presa dalla paura, ho rinunciato al programma e mi sono nascosta in Germania, prima dai miei genitori a Winnenden e poi in altri land”. Le falle della copertura in Italia - L’elenco delle cose incredibili che capitano sotto copertura ce lo fa durante una videochiamata. È in un’auto e si sposta di frequente. “Qui rischio tutte le mattine, sono una morta che cammina. Dal carcere di Milano dove è recluso Tonino Palmieri (il boss che gestiva i traffici illeciti attraverso l’”Inter club” di Fellbach) mi sono arrivate delle lettere di minaccia. Dice che se mi presento ai processi non vedrò i miei figli crescere”. Attualmente è la polizia tedesca (Ika) a garantirle una qualche forma di protezione. “Lo fanno in via ufficiosa, non potrebbero e non sono obbligati” spiega Maria. Al telefono ci conferma anche che dopo la sua denuncia alla stampa le hanno garantito un monitoraggio almeno fino a quando dall’Italia non arriveranno notizie sul tipo di tutela che meriti. Il collaboratore: “Quattro anni e mezzo allucinanti” - Durante l’intervista a Maria ci arriva una telefonata da parte di un collaboratore di giustizia. È il primo pentito del clan Zagaria, quello che ha testimoniato sui rapporti tra i fratelli dell’onorevole Luigi Cesaro di Forza Italia e il clan dei Casalesi. Ha saputo della nostra inchiesta e ci tiene a dire la sua a costo di essere espulso dal programma di protezione (i collaboratori non possono avere contatti con gli organi di informazione). “Non mi interessa, sono quattro anni e mezzo che vivo una situazione allucinante. Mi hanno portato in una località ad alto rischio, forse mi vogliono far ammazzare. Già in passato un carabiniere, che adesso è stato arrestato, mi accusò falsamente di evasione”. Ci riferisce che la compagna ha da poco partorito e ha avuto problemi con i bambini. “È un macello, non riescono a garantirmi l’assistenza sanitaria. Io ero consapevole di dover fare una vita disgraziata ma i miei figli non c’entrano. Se tornassi indietro non rifarei mai più questo passo. Piuttosto prenderei una fune e mi impiccherei in cella”. “La bomba a orologeria” - A Roma, in un angolo di piazza Venezia incontriamo don Marcello Cozzi dell’associazione “Libera contro le mafie”. “Lo dissi già due anni fa quando fui audito in Commissione parlamentare antimafia: “Attenzione, corriamo il rischio di avere davanti a noi una specie di bomba a orologeria”“ commenta. In vent’anni ha assistito più di cento collaboratori di giustizia. “La centesima pecorella”, come li chiama nel suo libro Ho incontrato Caino, è stata Gaspare Spatuzza, l’omicida di Pino Puglisi e responsabile della stagione delle stragi. “Le criticità di questi programmi di protezione sono oggettivamente tante, anche se tutti dobbiamo riconoscere il grande merito che hanno avuto nel far cambiare vita a mafiosi incalliti”. Racconta casi estremi. Come quello di una testimone di giustizia che dopo il cambio temporaneo delle generalità non è più riuscita a riavere il proprio nome e cognome perché al Viminale hanno perso la documentazione. Oppure la storia di un pentito che per essere andato al Pronto Soccorso in preda a un forte mal di denti è stato scoperto: la tessera sanitaria di copertura non risultava da nessuna parte. Così come, in presenza di bambini, il collaboratore non ha la possibilità di presentare la storia pediatrica del figlio in quanto viene cancellata con la nuova identità. Il procuratore nazionale antimafia - “Seguo il caso paradossale di un altro pentito che chiameremo Mario. Dopo essere uscito dal programma di protezione non può vivere nella stessa provincia della moglie e dei figli. Loro risultano ancora sotto protezione ma questa gli fu accordata proprio in virtù del pentimento dello stesso Mario”. È Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia a confermare l’inadeguatezza del programma di protezione anche sulla scorta delle “doglianze che arrivano da tutte le procure distrettuali”. Ed ecco l’elenco degli aspetti da rivedere secondo il procuratore: “La prima difficoltà riguarda le generalità di copertura: devono essere mantenute o nel corso del tempo si dovranno modificare? Il collaboratore prima o poi le perderà o tornerà alle generalità originarie? Quindi sarà costretto a manifestare chi è realmente? Con quali rischi?”. L’altro problema riguarda gli uffici che se ne devono occupare. “Deve essere un terzo estraneo? In questo caso siamo sicuri che riesca a garantire la segretezza?”. Allo stesso tempo, secondo De Raho, ci deve essere un ampliamento della sfera territoriale dove andare a pescare le abitazioni di copertura, anche in considerazione del numero elevato di collaboratori e parenti (quasi seimila), il più alto di sempre che rende complicata l’applicazione della legge sui pentiti: “A volte vengono scelti comuni il cui numero di abitanti è talmente basso che è implicita l’esposizione del collaboratore e della sua famiglia. Oppure non si tiene nella dovuta considerazione la presenza in quel posto di altri affiliati ai clan o addirittura di rivali”. Suggerisce un ripensamento delle misure di protezione anche a seguito di quanto accaduto a Marcello Bruzzese: “È stato ucciso la notte di Natale, è un modo tipico di operare della ‘ndrangheta che ha voluto punire non solo Bruzzese ma mandare un messaggio a tutti i collaboratori di giustizia”. Cucchi, la verità del generale. In aula la resa dei conti sui depistaggi dei carabinieri di Carlo Bonini La Repubblica, 27 febbraio 2019 Oggi depone come teste Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma. Nel suo ufficio vennero convocati i militari coinvolti nell’arresto e nel pestaggio. C’è un convitato di pietra al cuore del processo ai responsabili dell’omicidio di Stefano Cucchi e dei due depistaggi che, nel 2009 e 2015, avrebbero dovuto far deragliare per sempre la ricerca della verità. E oggi, dopo nove anni di silenzio, si giocherà l’osso del collo e una significativa fetta di reputazione dell’Arma dei Carabinieri, di cui porta i gradi di generale di corpo d’armata. È Vittorio Tomasone, Comandante Interregionale “Ogaden” di Napoli. Nell’ottobre del 2009, nei giorni della morte di Stefano, era Comandante provinciale di Roma. E nel suo ufficio, fissando l’interlocutore, giurava sul suo “onore di uomo e di carabiniere” che l’Arma era “estranea” a quello scempio. Che le responsabilità del pestaggio andavano cercate in chi, poi, sarebbe stato processato da innocente: gli agenti di polizia penitenziaria in servizio nelle celle del Tribunale di Roma, dove Stefano aveva atteso il suo processo per direttissima. Ebbene, questa mattina, Tomasone dovrà giurare di nuovo. Questa volta, però, di fronte alla Corte d’Assise che processa i carabinieri responsabili del pestaggio di Stefano e dove è chiamato a deporre come testimone dalla difesa della famiglia Cucchi. Dunque, con un obbligo di “verità” che assumerà per lui dimensioni meno confortevoli - perché disciplinato dal codice penale - rispetto ai conversari con cui, nel 2009, appellandosi al patrimonio di stima che aveva costruito intorno a lui, riuscì a confondere la prima indagine della Procura e anche il lavoro della stampa. E un redde rationem cui il generale Tomasone arriva nudo. Perché il tempo ha capovolto il quadro. A 64 anni, ha visto sfiorire la possibilità di diventare Comandante Generale cui tutti lo indicavano come predestinato. Per modi, cultura, capacità di dialogare con la politica. Per il posto che occupava nella considerazione di Leonardo Gallitelli, potentissimo e influentissimo Comandante generale dal 2009 al 2015. Soprattutto, l’indagine bis della Procura di Roma, condotta con coraggio da un pm antimafia, Giovanni Musarò, ha schiantato il muro di omertà, connivenza, paura, ricatti, con cui era stata sequestrata dentro l’Arma la verità su Stefano. Ha travolto il generale Alessandro Casarsa (indagato per falso), allora comandante del Gruppo Roma, che a Tomasone direttamente riferiva sul caso Cucchi e che - come ha ammesso durante l’interrogatorio il suo ex numero due, il tenente colonnello Francesco Cavallo - diede ordine di istruire i comandanti delle caserme di competenza (Massimiliano Colombo Labriola a Tor Sapienza e Luciano Soligo a Montesacro Talenti, anche loro ora indagati) di aggiustare le relazioni di servizio dei carabinieri che avevano avuto un ruolo nel fermo di Stefano e nella sua custodia. Ha documentato come l’allora Reparto Operativo, incaricato di consegnare alla Procura i nastri con le registrazioni delle comunicazioni tra le pattuglie che erano state impegnate nel fermo di Cucchi e la centrale operativa, aveva non solo omesso di trasmettere quella in cui uno dei carabinieri (Vincenzo Nicolardi) si augurava che Stefano “morisse, mortacci sua”, ma anche di dare un nome alle voci che colloquiavano, per renderne meno agevole l’identificazione. Di più: ha scoperto come, nell’ufficio di Tomasone, in quell’ottobre 2009, vennero convocati tutti i carabinieri coinvolti nel fermo di Stefano, nel suo pestaggio, nella manomissione delle relazioni di servizio e della prova regina del luogo in cui il pestaggio si era consumato (il registro del fotosegnalamento della caserma Casilina, dove Cucchi era stato portato, venne sbianchettato) per una sorta di prova generale della “recita a soggetto” che avrebbero dovuto inscenare di lì a qualche giorno di fronte al pm Vincenzo Barba. Ancora nel 2015, la coltre di omissioni e ricatti, cementata da quel primo depistaggio del 2009, aveva cercato di proteggere Tornasone e la sua catena di comando. Al punto che a farne le spese sono stati altri due ufficiali, indagati dalla Procura: il colonnello Lorenzo Sabatino (già comandante del Reparto Operativo di Roma e oggi Comandante provinciale a Messina) e il capitano Tiziano Testarmata (del Nucleo Investigativo di Roma). Portando il conto dei carabinieri a diverso titolo indagati nel depistaggio della verità a 7. Senza contare i 5 già imputati per il processo che si sta celebrando in corte di assise. Dodici militari, tra ufficiali, sottufficiali e appuntati sono troppi per liquidare la faccenda come una questione di “mele marce”. Soprattutto se quei 12 militari disegnano un’intera catena di comando. Dodici militari sono troppi per consentire al generale Tomasone la via di fuga più comoda. “Non aver saputo”, “non aver capito”. Firenze: il carcere di Solliccianino dopo 22 anni perde la sua direttrice di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2019 Margherita Michelini, è stata demansionata e sarà vicedirettrice a Sollicciano. I detenuti hanno firmato un documento per chiedere di impedirne il trasferimento: “ha posto sul terreno pratico il buon senso oltre la norma”. Dopo 22 anni da direttrice di due carceri importanti, distinta per il suo impegno profuso per rendere il carcere più umano, è stata demansionata dall’amministrazione penitenziaria per svolgere il lavoro da vicedirettrice nel carcere di Sollicciano. Parliamo di Margherita Michelini, 22 anni di direzione, prima della custodia attenuata del carcere femminile di Empoli e successivamente di quella maschile del Mario Gozzini di Firenze. Quest’ultimo conosciuto come il “Solliccianino” è diventato un esempio virtuoso grazie al suo impegno affiancato dalle istituzioni toscane, il personale civile, gli agenti penitenziari e il mondo del volontariato laico e religioso. Nonostante, come detto, il suo impegno, ma anche le sue condizioni di salute e il suo ricorso al Tar del Lazio per affermare il diritto di essere assegnata nuovamente al Gozzini, il Dap ha comunque deciso di trasferirla con il ruolo di vice direttrice. Già ad ottobre scorso, era arrivata l’indiscrezione sull’allontanamento della direttrice (previsto dall’avvicendamento dei direttori in tutta Italia) con cui i detenuti hanno instaurato nel corso di questi 6 anni un rapporto quasi familiare. E sono stati proprio i detenuti, 75 sui 100 complessivi, a firmare un documento in cui si è chiesto di impedire il trasferimento della direttrice storica del carcere. “Vogliamo precisare - hanno sottoscritto i detenuti - la nostra contrarietà a questa decisione improvvisa e inopinata. La nostra direttrice aveva chiesto di restare nella stessa sede riscuotendo verbali assicurazioni che così sarebbe stato. Ci sorge pertanto il sospetto che possa trattasi si un colpo di mano”. I reclusi hanno pregato di far scongiurare il trasferimento visto il rapporto con la direttrice Michelini, che “ha instaurato nell’istituto un clima improntato a forte caratura empatica, ponendo sul terreno pratico il buon senso oltre la norma”. I reclusi, nella petizione, avevano anche accennato alle precarie condizioni di salute della direttrice, da anni in lotta contro il cancro: “Da anni combatte contro pesantissime condizioni di salute che però non fanno venire meno il suo impegno lavorativo, le sue condizioni di salute sono tali da rendere impensabile un eventuale trasferimento in altre città”. Già allora circolavano le ipotesi - poi purtroppo confermate - dello spostamento di Michelini alla vicedirezione del più grande carcere di Sollicciano. Su questo hanno detto i reclusi: “Non comprendiamo e non giustificheremo l’eventuale spostamento, in qualità di vicedirettore, al vicino carcere di Sollicciano richiedendo tale ruolo un impegno lavorativo insostenibile (viste le dimensioni del carcere)”. La lettera si è chiusa con un accorato appello all’amministrazione penitenziaria: “Nell’esprimere solidarietà alla nostra direttrice, ci auguriamo che il sussurrato provvedimento possa rientrare e che il clima di serenità o collaborazione possa continuare a Solliccianino”. Una posizione, quella dei detenuti, condivisa anche da molte delle associazioni che da anni lavorano all’interno del carcere. Margherita Michelini ha sempre organizzato momenti per creare ponti con l’esterno. Da ricordare quando, nel 2017, realizzò un evento all’interno del carcere, in occasione della rificolona, una festa tradizionale del folclore fiorentino. Vi partecipò una delegazione dell’associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi” con la presenza di Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, e Paolo Hendel, iscritto anche lui al partito. Era il periodo della riforma dell’ordinamento penitenziario, in via di approvazione, quando, poi l’allora governo decise di non emanarla più. La Michelini, in una amara lettera pubblicata da La Nazione, ha espresso amarezza e delusione per il suo trasferimento, concludendo con la speranza di non essere dimenticata. Napoli: don Peppe Diana, il prete che disse no alla dittatura dei clan di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 27 febbraio 2019 Venticinque anni dopo l’uccisione del prete nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe, Luigi Ferraiuolo lo ricorda nel libro “Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra”. “Faceva caldo, era pomeriggio. Ero da poco parroco. In quegli anni c’era un morto ogni due giorni. I camorristi erano i padroni di tutto. Si permettevano di correre in giro sulle macchine coi mitra in mano”. Venticinque anni dopo l’uccisione del prete nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe il 19 marzo 1994, Luigi Ferraiuolo ricorda nel libro “Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra” come tutto cominciò nell’estate del 1991. “San Nicola di Bari era la mia chiesa da un paio di anni”, raccontava il sacerdote, “Era immersa nei vicoli. Se non la conoscevi non ci sapevi arrivare. Ero orgoglioso di esserne il parroco. Ero il parroco casalese di una parrocchia di Casale. Ero lì quando mi giunse una telefonata”. Un nuovo omicidio. Non era un camorrista, il morto. Era un ragazzo dei Testimoni di Geova, si chiamava Angelo Riccardo, aveva ventuno anni, stava tornando con quattro amici da Baia Domizia e la loro auto era passata davanti agli assassini nel momento in cui avevano cominciato a sparare contro un sicario detto “‘o cocchiere”. Peppino Diana ne restò profondamente scosso. Ne nacque un volantino firmato da parroci e comunità parrocchiali della zona. Titolo: “Basta con la dittatura armata della camorra”. Seguivano parole d’accusa. Parole che, scrive Ferraiuolo, “erano ferro bollente: bastavano da sole per decretare la condanna a morte dei firmatari, tanto erano dure contro la criminalità ma anche contro le Istituzioni. Il ciclostile fece il giro di tutte la case del circondario” e venne inviato alle più alte cariche dello Stato, al vescovo di Aversa, a quello di Caserta. Fu lì che venne rotto il silenzio. Lì che si avviò il processo che avrebbe portato allo scioglimento dei Comuni più inquinati, alle prime denunce, a una stagione di rinascita. “La camorra ha assassinato il nostro paese, “Noi” lo si deve far risorgere”, scrisse Don Peppino Diana prima di essere ammazzato. È cambiata, da allora, Casal di Principe. Basti ricordare che cinque anni fa scelse come sindaco Renato Natale, che a suo tempo la camorra aveva condannato a morte. Il percorso da compiere è ancora lungo. Ma è avviato. Proprio nella scia di una frase bellissima di quel parroco martire: “A me non importa sapere chi è Dio. A me importa sapere da che parte sta”. Parma: “Sprigioniamo il Lavoro”, progetto sociale all’interno del carcere ilcaffequotidiano.com, 27 febbraio 2019 Prosegue “Sprigioniamo il lavoro” l’iniziativa che prevede l’avvio di una attività di lavanderia industriale all’interno del Penitenziario di Parma: a tal fine, nel dicembre scorso, si è costituito il nuovo soggetto imprenditoriale che sarà responsabile dello sviluppo delle attività del progetto per la gestione della lavanderia che lavorare 7.000 quintali di biancheria all’anno conferita da strutture socio sanitarie e alberghiere del nord Italia. La Libelabor (società consortile a responsabilità limitata composta dalle aziende Gruppo Gesin Proges, Coop. Sociale Biricca, G.S.G. s.r.l., Multiservice Soc. Coop. e Bowe 2014 s.r.l.s) si farà inoltre carico della copertura dei costi derivati dall’inserimento all’esterno del carcere di detenuti che saranno ammessi ai benefici del lavoro esterno. Gli inserimenti saranno realizzati nelle aziende partner che saranno anche coinvolte nel finanziamento di progetti ed iniziative a favore dei detenuti anziani e disabili che non possono partecipare alle attività lavorative per motivi di salute ed età avanzata. Un’apposita convenzione è già stata sottoscritta tra la Libelabor e la Direzione degli Istituti Penitenziari Parma. La fase iniziale del progetto vede anche il coinvolgimento del Clepa Comitato locale esecuzione penale adulti organo di collegamento tra le politiche penali del Comune di Parma e l’amministrazione penitenziaria. L’amministrazione di Parma sostiene l’avvio degli inserimenti dei detenuti al lavoro. L’importo complessivo del progetto prevede un investimento di oltre 500 mila euro, per il quale è stato determinante il ruolo della Fondazione Cariparma (che, a beneficio della Amministrazione penitenziaria, contribuirà con 350mila euro sostenendo le spese per l’acquisto dei macchinari industriali e l’adeguamento degli impianti energetici) e delle aziende, che investiranno ulteriori 150mila euro per il completamento dell’allestimento della lavanderia. A “Sprigioniamo il lavoro” hanno anche aderito la Confederazione nazionale dell’artigianato di Parma e l’Unione parmense degli Industriali. L’accordo porta il carcere di Parma su un piano di rilevante importanza nel contesto regionale dell’Emilia-Romagna sotto il profilo delle opportunità di lavoro offerte ai detenuti rispondendo così al mandato istituzionale della giustizia in ambito penale che è quello del recupero attraverso il lavoro. Il progetto si è concretizzato anche grazie a confronti e valutazioni tra il Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri, il Direttore del carcere Carlo Berdini e Fondazione Cariparma. Alla presentazione stampa dell’iniziativa sono intervenuti Gino Gandolfi Presidente Fondazione Cariparma, Gloria Manzelli Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Emilia-Romagna e Marche Carlo Berdini Direttore degli Istituti penitenziari di Parma in procinto di trasferimento, Roberto Cavalieri Garante delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale del Comune di Parma e i rappresentanti della società consortile Libelabor. Salerno: detenuti pizzaioli, più vicino il sogno del forno in carcere di Alfonso Sarno Il Mattino, 27 febbraio 2019 Portare il mondo nel carcere e favorire il reinserimento ed il recupero sociale dei detenuti è la missione del progetto “La pizza buona dentro e fuori” che ha come obiettivo l’apertura di una pizzeria sociale all’interno della Casa Circondariale di Salerno. Partito nel novembre dello scorso anno ha subito calamitato, per la sua forza innovativa, l’interesse generale riuscendo in circa quattro mesi a metter insieme, tra donazioni e raccolta fondi, circa 10.400 euro. Quasi la metà della somma necessaria per avviare la prima fase che prevede nell’ambito dell’avviso pubblico-Por Campania 2014/20 sull’inclusione socio-lavorativa dei detenuti di formarli all’interno della struttura penitenziaria; sperimentando poi in locali già individuati e per un giorno a settimana l’apertura verso l’esterno. Ieri, al Trianon di piazza Flavio Gioia Carmen Guarino, presidente della Fondazione Casamica, Antonia Autuori, presidente della Fondazione Comunità Salernitana, Paola De Roberto, presidente della Commissione Politiche sociali, e Rita Romano, direttrice del Carcere di Fuorni hanno illustrato il lavoro compiuto e presentato il calendario delle cene organizzate dai ristoranti e pizzerie aderenti al progetto e finalizzate alla raccolta fondi. “Le buone notizie - dice Guarino - corrono più veloci delle cattive e la presenza dei ristoratori lo dimostra”. La prima serata, sold out, si è avuta, lo scorso dicembre, alla Resilienza, a seguire la Pizzeria Trianon {21 marzo), i ristoranti Casa Mia (10 aprile), Il Tegamino (14 maggio), Nice (18 giugno), Elpis (19 luglio), Hydra Sud e Sapori (3 settembre), Trattoria del Padreterno (2 ottobre), Pizzeria Più (6 novembre) e Donna Margherita (10 dicembre). Un forte solidale impegno evidenziato dalla giornalista Luciana Mauro, presidente dell’associazione “Scriptorum” che ha fatto da fil rouge nella chiamata alle arti, rimarcato da Paola De Roberto: “Stiamo dimostrando quanto sia positiva la collaborazione tra pubblico e privato: scardina ideologia ed appartenenza politica. Tutti i componenti della mia commissione, di maggioranza e di opposizione, hanno immediatamente sposato il progetto perché è un invito al dialogo ed alla reciproca comprensione”. Per la Autuori l’ennesima prova della sensibilità dei salernitani, grazie al contributo del 5 x 1000 delle entrate 2016 hanno permesso alla Fondazione di offrire un primo, decisivo sostegno e che si arricchisce di nuove sfumature nell’intervento della direttrice Romano: “Penso ad un progetto in cui riabilitazione e riparazione si uniscano strettamente e che, con parte dei guadagni, il detenuto risarcisca la vittima del reato”. Torino: reati sessuali e rischio recidiva, il progetto pilota per la riabilitazione di Lorenzo Bodrero Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2019 Il Garante dei detenuti della città di Torino, Monica Cristina Gallo: “Parte della collettività ha un’idea di sicurezza sociale secondo la quale siamo più al sicuro solo se teniamo le persone rinchiuse in carcere, ma le persone detenute non lo sono per sempre, e la vera sicurezza va costruita qui, all’esterno delle carceri, con percorsi che portino ad una maggior consapevolezza verso i reati e alla riscoperta di valori perduti”. Diminuire la recidiva. È questo il mantra che gli addetti ai lavori ripetono nei confronti dei cosiddetti “sex offender”, uomini - ma anche donne - detenuti con sentenza definitiva per reati di natura sessuale. Il pensiero comune li vorrebbe far “marcire in cella”, rinchiuderli e “gettare la chiave”. Ma la realtà è che una volta scontata la pena anche loro, come tutti gli altri detenuti, tornano liberi. Come impedire dunque che commettano nuovamente lo stesso reato? “È una lotteria”, afferma Georgia Zara, ricercatrice italiana presso l’istituto di criminologia dell’università di Cambridge. “In Italia la valutazione del rischio di recidiva è inesistente e la partecipazione a un percorso riabilitativo durante la detenzione dipende dall’iniziativa del singolo carcere e dalle risorse disponibili”. Non esiste una regia nazionale, dunque, volta alla riabilitazione del detenuto. Lei è la coordinatrice del progetto Sorat (Sex Offenders Risk Assessment and Treatment), il primo in Italia con l’obiettivo di studiare tra i detenuti per reati sessuali il rapporto tra diniego del reato e recidiva. Perché un elemento che accomuna i sex offender è il fatto che tutti negano, in parte o in toto, il fatto commesso o la responsabilità o le conseguenze sulle persone offese. Oppure lo minimizzano. E su questo spunta un altro nervo scoperto della giustizia italiana. A spiegarlo è ancora Zara: “In fase processuale se l’imputato nega o minimizza l’accaduto questo rischia di essere percepito come assenza di pentimento, in altre parole il diniego viene considerato come un chiaro indice di ricaduta criminale”. Dopo una carriera dedicata allo studio delle devianze sessuali e dieci anni in qualità di esperto del Tribunale di sorveglianza di Torino (l’istituto che gestisce le richieste di misure alternative alla detenzione) conosce le motivazioni alla base del diniego, che possono essere molto diverse tra loro. Inoltre, se la negazione persiste durante la detenzione le possibilità di accedere a misure alternative (semi libertà, arresti domiciliari, servizi sociali, scarcerazione anticipata) si riducono al minimo. “In sintesi - continua Zara - nel nostro Paese l’idea di punizione è condizionata dal livello di diniego presente: più alto il diniego, maggiore il rischio di ricaduta criminale percepita. Ma da un punto di vista scientifico questo non regge, creando così un circolo vizioso: se queste persone non vengono trattate allora come pensiamo di ridurre il rischio di ricaduta?”. Il progetto Sorat (finanziato dalla Compagnia di San Paolo e in partenariato con il carcere, il Dipartimento di psicologia di Torino, quello di salute mentale dell’Asl di Torino2, il Gruppo Abele e il Centro studi Agire Violento) vive di due anime. La prima, già attiva da qualche anno grazie agli sforzi del Gruppo Abele, prevede terapie di gruppo quindicinali e colloqui individuali con il detenuto. Gli obiettivi sono stimolare una riflessione su quanto accaduto, riconoscere e gestire le emozioni, prendere coscienza delle conseguenze. Un’elaborazione di se stessi e del reato, dunque, che è imprescindibile affinché non si ripeta. “Ma sono iniziative a spot, ogni anno il progetto va a singhiozzo e deve essere rifinanziato con evitabili tempi morti in cui si interrompe il percorso terapeutico. Inoltre la competenza dovrebbe essere ministeriale e non lasciata alla società civile, in questo caso la fondazione San Paolo che supplisce l’assenza di responsabilità statali”, afferma Leopoldo Grosso, terapeuta e presidente onorario del Gruppo Abele, partner del progetto e titolare della parte trattamentale. “Il limite più grave è che con il fine pena manca chi dia seguito al trattamento”, aggiunge. In teoria farsene carico spetterebbe alle Asl che possono mettere a disposizione il servizio psichiatrico. “Il problema però - precisa Grosso - è che il sex offender nella stragrande maggioranza dei casi non presenta patologie psichiatriche”. Il risultato è che una volta tornati in libertà sono abbandonati a se stessi. La seconda anima è invece una prima assoluta in Italia. Consiste nello studio scientifico condotto dalla professoressa Zara e il suo team i quali, analizzando lo storico di ciascun detenuto e attraverso la compilazione di questionari mirati, raccoglieranno dati sul rapporto tra carriera criminale, diniego del reato e recidiva. Una mole di informazioni mai raccolta prima nel nostro Paese che consentirà di stilare i profili di ciascun sex offender e i relativi rischi di ricaduta, e formeranno la base su cui analizzare futuri dati sia nazionali sia provenienti da un singolo carcere. È in corso una mini rivoluzione. Partito nel 2017, SORAT si è concentrato su un campione di 70 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. “Non possiamo aspettarci che la sola detenzione possa essere sufficiente per attivare un processo di rinuncia da parte dell’ex detenuto. Il trattamento di queste persone deve essere basato scientificamente e non su improvvisazioni o luoghi comuni”, spiega Georgia Zara. Uno di questi è credere che tutti i predatori sessuali siano uguali. “Niente di più sbagliato”, precisa la ricercatrice di Cambridge, “così come è errato pensare che la sola detenzione basti a impedire il ripetersi del reato”. Da chi usufruisce di materiale pedo-pornografico al molestatore, dal pedofilo allo stupratore. I profili sono tanti e molto diversi tra loro. Così come diverse sono le identità di chi ha commesso reati sessuali. Nel carcere di Torino, ad esempio, il campione è estremamente eterogeneo. “Sono 130 al momento, si va dall’imprenditore all’insegnante, dal medico al migrante e oscillano tra i 24 e gli 83 anni di età”, afferma Arianna Balma Tivola, responsabile dell’area trattamentale del carcere di Torino. “C’è chi è recidivo e chi è dentro per la prima volta, chi ha una carriera criminale diversificata e chi invece ha commesso solo uno o più reati di natura sessuale”. Su 60mila detenuti in Italia, 3.215 sono sex offender (circa il 5%), tra questi vi sono 61 donne. “Con il progetto Sorat saremo in grado di proporre un trattamento il più possibile differenziato per ciascuno di loro (a Torino, ndr) per affrontare quelle che sono le problematiche di ognuno, nella speranza che questo vada a influire positivamente sul rischio di ricaduta una volta scontata la pena”, continua Balma Tivola. “Parte della collettività ha un’idea di sicurezza sociale secondo la quale siamo più al sicuro solo se teniamo le persone rinchiuse in carcere”, afferma Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti della città di Torino. E aggiunge: “Ma le persone detenute non lo sono per sempre, e la vera sicurezza va costruita qui, all’esterno delle carceri, con percorsi che portino ad una maggior consapevolezza verso i reati e alla riscoperta di valori perduti”. Come la bellezza. Dal 2012 il liceo artistico è entrato nelle celle dei sex offender di Torino. Circa 50 detenuti ogni anno prendono parte a cinque ore di lezione quotidiane. I loro lavori oggi tappezzano le sale colloqui del penitenziario torinese e copie di manufatti egiziani sono state recentemente esposte all’interno del Museo Egizio. Le stesse che dal 14 febbraio al 25 marzo saranno in mostra all’interno del Tribunale di Torino in un progetto ideato dall’ufficio del Garante comunale, il Museo stesso e la sezione carceraria degli istituti Plana e Primo. La recidiva si combatte anche con l’istruzione. Torino: riprodurre l’arte egizia, il futuro dei detenuti ha le forme del passato di Cinzia Valente gnewsonline.it, 27 febbraio 2019 “Liberi di imparare. L’antico Egitto nel carcere di Torino” entra nel Palazzo di Giustizia di Torino. La mostra è stata realizzata grazie alle attività di inclusione sociale rivolte ai detenuti, frutto della collaborazione tra il Museo Egizio, la Casa Circondariale Lorusso-Cutugno e l’Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Torino. Allestita nella caffetteria della cittadella giudiziaria torinese, al cui interno già lavorano alcune persone soggette a restrizione, potrà essere visibile al pubblico fino al 25 marzo. Nello spazio sono esposte fedeli riproduzioni di preziosi reperti archeologici del Museo, il più antico al mondo dedicato interamente alla cultura egizia, realizzate dai detenuti del penitenziario. Questi ultimi, sotto l’attenta guida dei docenti del liceo artistico “Primo”, dell’Istituto professionale “Plana”, degli insegnati delle sezioni carcerarie e con la supervisione degli esperti del sito museale, hanno riprodotto con precisione papiri della XXI dinastia, anfore, stele e oggetti del corredo funerario dell’architetto Kha e di sua moglie Merit. Una prova tangibile della voglia di rinascita e di reinserimento che ha spinto i detenuti-studenti a replicare i reperti e a dar vita a questo spazio di cultura inclusiva. Ne parliamo con Alessia Fassone e Federica Facchetti, curatrici del Museo Egizio. La mostra “Liberi di imparare”, ospitata dal Museo Egizio per un mese dal 21 dicembre dello scorso anno, approda nel Palazzo di Giustizia di Torino con la supervisione delle attività affidata agli esperti del Museo. Si tratta di un tema, quello della cultura egizia che affascina. Come hanno risposto i detenuti che sono stati coinvolti nei laboratori? “Alcuni curatori e restauratori del museo hanno proposto, in accordo con gli insegnanti del “Primo Liceo Artistico” e dell’Istituto “Plana” di approfondire lo studio dell’arte egizia con la riproduzione di manufatti, con tecniche e procedimenti tipici dell’artigianato dell’antico Egitto. Gli studenti hanno accolto l’idea con partecipazione ed entusiasmo, sempre sostenuti dal supporto degli insegnanti, che hanno sperimentato con loro anche nuove tecniche artistiche. Alcuni studenti si sono talmente appassionati al progetto, da chiedere di poter realizzare dei lavori anche durante il periodo estivo, quando le lezioni sono sospese”. Che tipo di lavoro è stato realizzare repliche di reperti di tale importanza? “La scelta di quali reperti replicare, sulla base delle conoscenze degli studenti, è stata effettuata dagli insegnanti in concerto con i curatori del Museo; questi ultimi hanno fornito fotografie, informazioni tecniche e altri dati utili alla riproduzione dei manufatti, oltre ad alcuni materiali di difficile reperibilità come i fogli di papiro. Alcuni insegnanti hanno poi svolto uno studio degli oggetti in museo. Visti i primi ottimi risultati, abbiamo ampliato il repertorio di oggetti ad altri oggetti dal corredo della tomba di Kha e Merit”. Quanto tempo è stato necessario per arrivare a un risultato che fa entrare l’arte e la bellezza in carcere e restituisce alla cittadinanza un lavoro utile per il reinserimento sociale del detenuto? “Il primo incontro con gli studenti è avvenuto all’inizio del 2018 e il lavoro sulle riproduzioni si è avviato nel mese di marzo. Alla fine dell’anno scolastico, a giugno, erano già stati terminati il Libro dei Morti di Kha, due cofanetti, un’anfora in argilla, alcuni vasetti in terracotta dipinta, la maschera di Merit, mentre la grande stele in gesso era in fase di realizzazione. Nel corso dell’estate, altre sei stele in compensato e una suola di mummia sono state terminate. Altri oggetti, poi, sono stati selezionati per l’anno scolastico 2018/19, tra cui papiri, pitture, sculture e molto altro che però non vogliamo anticipare”. Il vostro è un programma che ‘escè dalle sale del museo e incontra chi si trova nell’impossibilità di usufruire del patrimonio artistico del Paese… “Il progetto scientifico stesso del Museo prevede numerose attività di inclusione sociale e di diffusione del patrimonio egizio fuori dal museo, in carceri, ospedali, periferie… In questo caso, le repliche vanno anche a supportare un altro progetto, in collaborazione con l’Ospedale Infantile ‘Regina Margherita’, e a offrire momenti di svago ai piccoli degenti. Per tutti noi che abbiamo partecipato attivamente ai lavori è stato un arricchimento umano molto significativo e, dal punto di vista tecnico, ha permesso di stimare - seppur in modo grossolano - quali fossero tempi e metodologie di lavoro nel mondo antico”. Un detenuto ha dichiarato alla stampa di essere in grado di “leggere i geroglifici”. È proprio così? “Possiamo dire che alcuni studenti particolarmente appassionati al tema, hanno iniziato uno studio molto attento della civiltà egizia. Una speciale lezione dedicata ai geroglifici è appena stata tenuta in carcere da alcuni esperti. Vero è che, a forza di tracciare i segni, pian piano alcuni riescono a riconoscere parole e segni pur senza comprenderne il significato. E il nostro lavoro futuro è rivolto proprio nella direzione di una maggiore conoscenza e consapevolezza degli studenti”. Vercelli: un solo infermiere per 370 detenuti, allarme nel carcere La Repubblica, 27 febbraio 2019 La denuncia del sindacato Nursing Up: “Situazione disastrosa, per l’80% i reclusi sono stranieri dipendenti da sostanze e un terzo ha problemi psichiatrici e infettivologici”. “Nel carcere di Vercelli c’è un solo infermiere su 370 detenuti: la situazione è ormai intollerabile”. La denuncia arriva dal Nursing Up di Vercelli, il sindacato degli infermieri italiani, secondo cui all’interno della casa circondariale del Billiemme c’è “una situazione disastrosa: mancano almeno due infermieri e nessuno muove un dito. Come risaputo, la capienza massima ufficiale del carcere vercellese è di 230 detenuti, mentre sono mediamente presenti ben 370 persone. È assurdo pensare che un solo infermiere in servizio, e quasi sempre è così, debba sopperire alle necessità di cura di tutte queste persone”. Il Nursing Up sottolinea che la tipologia di detenuti presso il carcere di Vercelli incrementa notevolmente la complessità assistenziale: l’80% circa sono extracomunitari tossicodipendenti o dipendenti da sostanze diverse. Circa un terzo ha problemi psichiatrici ed infettivologici. “Si può solo immaginare - proseguono - la difficoltà di operare in tale contesto. A quasi quattro mesi dall’ultimo appello pubblico, nessuna delle istituzioni coinvolte, Comune, Asl di Vercelli o Regione si è degnata di concretizzare le seppur minima risposta”. Catania: Fico, Bonafede e Bussetti incontrano i detenuti minorenni cataniatoday.it, 27 febbraio 2019 “Questa giornata a Catania io ritengo sia una pietra miliare della mia presidenza della Camera. Perché essere qui in un istituto minorile con i ragazzi e le classi che insieme possono fare un percorso di cittadinanza, di legalità, e di costituzione è fondamentale perché si intravedono tutte le risorse del nostro futuro”. Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico, ieri a Catania poco prima di entrare nel supercarcere di Bicocca per il protocollo con i detenuti minorenni. “Questo è un protocollo che ho firmato -ha concluso - assieme al ministro dell’istruzione e della giustizia e spero che andrà avanti anche dopo di noi. E così che analizzeremo questi risultati e se ci sarà necessità provvederemo a migliorare il protocollo”. Rispondendo poi alle domande dei giornalisti che gli chiedevano di commentare il risultato delle elezioni in Sardegna: “Dico solo viva la democrazia... Si dà il mandato per cinque anni a chi vince le elezioni. E poi si rivedrà”. Fico ha poi aggiunto: “Qui la mia preoccupazione è quella di trovare un risultato per questi ragazzi (detenuti del carcere minorile)”. A chi gli ha chiesto in merito alle fibrillazioni interne al M5s il presidente della Camera ha aggiunto: “Sono felicissimo, ribadisco di essere a Catania per un progetto stupendo, quello dei detenuti...”. All’incontro presenti anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. “Questo è un evento importantissimo in cui le istituzioni dimostrano di essere compatte per garantire che le nuove generazioni abbiano una chance, una possibilità. Anche le nuove generazioni più sfortunate”, ha dichiarato Bonafede. “Sono veramente orgoglioso che ci siano, oltre a me, il presidente del Camera dei deputati ed il ministro dell’Istruzione perché, davvero, dà il senso di un governo e di uno Stato compatto nel cercare di andare incontro a chi fino ad ora non ha avuto una chance, a cui dobbiamo garantire la possibilità di averla”, ha concluso il ministro. Riforma dell’esame di Stato, migranti e sbarchi e limiti e le preoccupazioni della democrazia diretta. Questi alcuni argomenti di domande che gli studenti di due istituti tecnici di Catania e gli stessi giovani detenuti hanno posto durante l’incontro. A preparare per i coetanei delle scuole un pranzo e uno spettacolo teatrale sono stati i giovani ospiti del carcere. Fuori dal carcere, però uno striscione: “Via Bussetti da Catania#impegnati di più”. È stato lo slogan di un gruppetto di giovani studenti che, tenuti a distanza dalla Polizia, hanno manifestato davanti all’entrata del carcere minorile di Catania. Caltagirone (Ct): il M5S presenta interrogazione sulla Casa circondariale primastampa.eu, 27 febbraio 2019 “Lo scorso ottobre abbiamo compiuto un sopralluogo presso la Casa circondariale di Caltagirone, per constatare le criticità che affliggono l’istituto penitenziario; mediocri condizioni strutturali, infiltrazioni di umidità e soprattutto la carenza di agenti di Polizia penitenziaria” - così dichiarano in una nota i portavoce del Movimento Cinque Stelle alla Camera Eugenio Saitta, Gianluca Rizzo, Paolo Ficara, Filippo Scerra e Maria Marzana. “Abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare per evidenziare e sollecitare una risoluzione delle problematiche, riscontrate nel corso delle visita e pervenute dal personale penitenziario che ha più volte sottolineato la carenza di organico presso l’Istituto e l’età media elevata dei poliziotti penitenziari, che supera i 40 anni - proseguono gli esponenti del Movimento - a causa del recente ampliamento del comprensorio circondariale, che ha visto crescere la sua popolazione carceraria, si acuisce ulteriormente il problema della carenza di organico, palesemente insufficiente rispetto alle esigenze operative”. “Il personale di Polizia Penitenziaria e del Nucleo Locale risulta nettamente inferiore rispetto alla copertura dei livelli di sicurezza, sempre più esausto per gli esagerati carichi di lavoro, analogamente a quanto accade al personale civile preposto al trattamento; il risultato è stato un’escalation di tensione a causa di problemi e disagi dei detenuti che hanno adottato atteggiamenti poco collaborativi nei confronti di quest’ultimo che a sua volta, oltre a vedere disattese le proprie prerogative soggettive (congedi arretrati non fruiti, istanze e diritti soggettivi a vario titolo non riconosciuti), è in attesa di interventi che possano assicurare idonee condizioni di sicurezza e serenità lavorativa; il generalizzato e diffuso stato di sofferenza di molti penitenziari siciliani non può essere più ignorato”. “L’interrogazione che abbiamo depositato, è un primo passo per focalizzare l’attenzione e risolvere alla radice gli annosi problemi che da sempre caratterizzano il sistema penitenziario italiano, sarà fondamentale tutelare i lavoratori e aumentare la dotazione organica degli istituti penitenziari” - così concludono i portavoce pentastellati. Cagliari: Sdr denuncia “internet a singhiozzo, a rischio il salvavita per i detenuti” sardanews.it, 27 febbraio 2019 “Nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta la rete internet non funziona continuativamente così troppo spesso, senza referti in tempo reale, anche le terapie salvavita per i detenuti sono a rischio”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, facendosi interprete del “disappunto dei Sanitari, Medici e Infermieri, il cui impegno lavorativo e ruolo risultano compromessi dalla mancata comunicazione con i centri che effettuano le analisi”. “La situazione si protrae da tempo nonostante le ripetute segnalazioni all’Azienda Sanitaria al punto che spesso, in caso di un detenuto con sospetto infarto, l’assenza di un immediato riscontro sulle analisi del sangue, produce - sottolinea Caligaris - una condizione di emergenza difficile da gestire correttamente per poter scongiurare con certezza esiti nefasti. Attraverso la rete internet viaggiano infatti tutti gli esami di laboratorio e i referti radiologici questi ultimi particolarmente importanti qualora si riscontrino deficit respiratori (polmoniti, tbc ecc.) oppure il detenuto abbia ingerito oggetti pericolosi (batterie, cucchiaini ecc.) per cui è fondamentale intervenire con urgenza”. “La posta elettronica inoltre viene utilizzata per le relazioni mediche richieste dai Magistrati o le domande per accedere alla pensione di invalidità o ancora per le problematiche relative agli infortuni sul lavoro che non riguardano solo le persone ristrette ma anche tutti gli operatori della Polizia Penitenziaria. È incredibile che a quasi 5 anni dall’apertura della Casa Circondariale “Ettore Scalas” - osserva la presidente di Sdr - non siano stati risolti i problemi dei collegamenti via internet. Ancora più assurdo è che la linea sia garantita solo al settore della sicurezza come se la condizione sanitaria di circa 600 detenuti non debba riguardare la Asl”. “Dobbiamo purtroppo ricordare ancora una volta che i ristretti hanno diritto alla salute ma anche sottolineare che gli operatori sanitari della Casa Circondariale di Cagliari non sono di serie B. Ecco perché diventa urgente risolvere il problema garantendo una linea diretta per i referti. È impensabile che nel 2019 una persona a rischio vita non possa avere l’esito delle sue analisi attraverso una mail. Le strumentazioni ci sono spetta alla Azienda Sanitaria - conclude Caligaris - renderle fruibile restituendo serenità agli operatori, ai detenuti e ai loro familiari”. Arezzo: una favola per aiutare i bambini con un genitore in carcere Redattore Sociale, 27 febbraio 2019 Un libro fiaba illustrato per aiutare i bambini con un genitore detenuto a superare il trauma del distacco. A realizzarlo Carthusia Edizioni in collaborazione con Associazione Girotondo Intorno al Sogno e la Casa Circondariale di Arezzo e il sostegno di Fondazione CR Firenze. Un libro fiaba per aiutare i bambini con un genitore detenuto a superare il trauma del distacco. Si intitola ‘Il Sogno di Cora’ ed è stato realizzato da Carthusia Edizioni in collaborazione con Associazione Girotondo Intorno al Sogno e la Casa Circondariale di Arezzo e il sostegno di Fondazione CR Firenze, Sanimpresa e Fondazione Monnalisa. Un’edizione speciale di 1000 copie, accompagnate da un pieghevole illustrativo, sarà distribuita gratuitamente ai detenuti e alle loro famiglie, e alle figure professionali che operano intorno a queste realtà attraverso il progetto ‘Come a casa’. A breve il volume già in alcune libreria e negli store online, sarà distribuito su tutto il territorio nazionale al prezzo di copertina di 16,90 euro. È un albo illustrato di 40 pagine consigliato per i bambini dai tre anni in su. Protagonista è la piccola canina Cora, una piccola artista circense che insieme al padre si esibisce in magnifici spettacoli di giocoleria nei teatri più importanti. Quando suo papà scompare improvvisamente, Cora si trova gettata in un mondo di confusione, mascheramenti e paure che non le consentono di capire. Solo quando la madre avrà il coraggio di togliere la maschera Cora potrà affrontare la verità che le è necessaria per potere andare avanti. Il papà non è libero ma lei può sempre andare a trovarlo, sapendo che un giorno torneranno a fare i loro numeri insieme. ‘ “Quando un genitore viene recluso - racconta Edy Marruchi dell’associazione Girotondo intorno al sogno - la famiglia si confronta con un profondo e repentino strappo. Il figlio, che ha un genitore in carcere, ne resta orfano nella quotidianità e per i bambini è difficile comprendere questa forma particolare di assenza. Questa condizione mette in crisi la relazione affettiva genitore-figlio, gettando i bambini in una profonda solitudine”. Il libro nasce proprio con l’intenzione di aiutare i bambini ad elaborare questo vuoto. Catanzaro: presentazione del libro “L’ape furibonda” nel carcere di Siano di Romano Pitaro corrieredellacalabria.it, 27 febbraio 2019 È entrata nel carcere di Siano “L’ape furibonda”, il saggio pubblicato da Rubbettino scritto insieme a Claudio Cavaliere e Bruno Gemelli dedicato a undici donne dirompenti, che si sono distinte per audacia e caparbietà nella parte più complessa del Mezzogiorno italiano: la Calabria otto-novecentesca. Ne abbiamo discusso in un confronto aperto con i detenuti del corso di scrittura e lettura tenuto dal pedagogista Nicola Siciliani de Cumis. Un’ora e mezza di dialogo serrato con domande e interventi incalzanti che spaziano dall’irrisolta questione meridionale al ruolo del dissenso nella società contemporanea; dalla domanda se figure come Giuditta Levato siano replicabili nell’attualità al valore della vita in chi ha dovuto imbracciare le armi per recuperare la libertà. Non è agevole scrivere di carceri e detenuti, è tutto assai complicato, a incominciare dal fatto che nelle foto loro non possono apparire. Ci sono, ma te li devi immaginare. È pur vero che il carcere sta alla società come il tralcio con la vite, ma non ci piace ricordarlo. Quando è in discussione il carcere viene in mente il peccato senza cui il cristianesimo non esisterebbe, ma anche l’incarnazione di Gesù che ha condizionato la società occidentale, e che, se non è un paradosso, non riguarda solo i giusti, i misericordiosi e i buoni, ma tutti gli uomini. San Paolo (Lettera ai Romani) include nell’azione di liberazione dalla schiavitù della corruzione persino gli alberi, i monti, le pianure, il mare… Ancora: la Retrotopia di Bauman - quella maledetta fifa del futuro che fa il paio con la grottesca mitizzazione del passato e il ritorno alle tribù - che mina le nostre vite libere, nelle carceri è un gigantesco “rimosso” obbligato. Di questo si è discusso in una grande sala del carcere Ugo Caridi di Catanzaro (700 detenuti) con un centinaio di detenuti di media e alta sicurezza per i quali la Retrotopia non è una scelta, perché il futuro per loro semplicemente non è. Abbiamo discusso, con i contributi, pienamente in sintonia con l’articolo 27 della Costituzione, della direttrice della casa circondariale Angela Paravati, che si è detta “felice di poter conoscere e far conoscere donne di grande forza, rabbia e cuore, narrate con una passione tale che sembra di averle qui con noi”, e del magistrato di sorveglianza Angela Cerra, secondo cui “queste iniziative sono l’esempio di come la rieducazione passi principalmente attraverso la riqualificazione culturale, il carcere è e deve essere luogo di cambiamento attraverso il lavoro, lo studio e l’istruzione”. E se è vero, come ha affermato un detenuto nel suo intervento che “la letteratura annulla lo spazio e il tempo”, due elementi fondamentali per chi vive la detenzione, e anche perché si vive dietro le sbarre da decenni e per altri decenni ancora, rimuginando sul passato, sperando di ricomporre l’infranto e lavorando senza sosta su di sé, scavando nelle tenebre di vite ai margini che all’improvviso sono deflagrate. Il passato che li ha portati fino all’Ugo Caridi è il loro assillo. E quando si dà loro l’opportunità di contestualizzare le vicende individuali riflettendo su un libro aperto a ogni incursione com’è l’Ape furibonda, possenti nell’immobilità delle celle non molestate dall’ossessione dei telefonini, ecco che asceticamente i detenuti coinvolti nel laboratorio di lettura e scrittura sono pronti a dirti ogni dettaglio, emozione, respiro, palpito delle undici donne furibonde, lanciando connessioni con le più svariate tematiche socio-politiche”. Se non sappiamo chi delle undici api furibonde è regina o bottinatrice, visto che ancora l’entomologo tarda a pronunciarsi, un detenuto che ha preso la parola ha tessuto le lodi dell’alveare, sottolineando che di sicuro nessuna di loro è un fuco. E questo è un fatto! Grande risata, che mi è servita per liberarmi di una frase segretamente annotata di Elza Soares: “Se Dio non fosse femmina il mondo sarebbe già finito da un pezzo”. Infine, il professor Nicola Siciliani de Cumis, animatore del corso in carcere, ha sottolineato “il valore formativo del libro nel suo insieme e nelle sue scelte monografiche specifiche. Per più ragioni: per le dimensioni educative e auto-educative delle undici personalità femminili materia di narrazione, per i metodi di ricerca adottati nelle singole ricostruzioni storiche e per l’originalità delle fonti storiografiche adoperate”. Intanto, è finita la lunga chiacchierata e noi andiamo e loro restano. E dal passo morbido e quasi trascinato sotto lo sguardo vigile dei poliziotti penitenziari, si capisce che se il mondo glocal in questo tornante della storia non gira come vorremmo, per loro, che pure non vivono nel buco nero della disumanità come capitava al “Vagabondo delle stelle” di Jack London, “il giogo non è dolce e il peso non è leggero”. “Co2 Crisis Opportunity Onlus”. Il palcoscenico della legalità di Giulia Minoli La Repubblica, 27 febbraio 2019 Co2 Crisis Opportunity Onlus è un’associazione che da oltre dieci anni opera in contesti di emarginazione, occupandosi di comunicazione sociale, costruzione di reti e progetti di promozione dell’impegno civile rivolti a studenti e a ragazzi. Il nome dell’associazione vuole sottolineare le opportunità che nascono dalle crisi, l’intento è quello di dar voce al mondo non profit meno visibile e con minor impatto comunicativo. Ha base a Roma, presso la Casa internazionale delle donne, ma ha attivato progetti in Italia in Campania, in Abruzzo, nel Lazio, in Lombardia e in Sicilia, dove promuove attività di cooperazione sociale e laboratori di formazione multimediale. All’estero Co2 ha lavorato in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri in Libano e Bielorussia e con la Cooperazione Decentrata in Brasile. Dal 2012 Co2 si occupa principalmente de “Il palcoscenico della legalità”, un progetto innovativo e virtuosa tra teatri, istituti penitenziari minorili, scuole, università e società civile. “Il palcoscenico della legalità” è infatti promosso da Co2-Crisis Opportunity Onlus, Università degli studi di Milano- CROSS- Osservatorio sulla Criminalità Organizzata, Fondazione Pol.i.s., Fondazione Falcone, Centro Studi Paolo Borsellino, Fondazione Silvia Ruotolo, Italiachecambia.org, Associazione Da Sud. In collaborazione con Università degli studi di Torino- Larco (Laboratorio di Analisi e Ricerca sulla Criminalità Organizzata) e Università di Bologna - Master Gestione e Riutilizzo di Beni e Aziende confiscati alle mafie, Università di Pisa - Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione. Il progetto nasce, nella sua prima forma di spettacolo, dall’incontro con decine di familiari di vittime innocenti di mafia, camorra, criminalità e con i responsabili di cooperative ed associazioni che sulle terre confiscate alla mafia hanno costruito speranze, lavoro, accoglienza, idee. Si propone di riflettere su come la collusione e la corruzione abbiano intossicato il nostro assetto civile e di quali strumenti abbiamo per contrastare questo degrado: il potere di voto, il potere di acquisto, il potere di scegliere chi frequentare, il potere di educare, formare ed informare. Lo spettacolo “Dieci storie proprio così, terzo atto”, parte integrante del progetto “Il palcoscenico della legalità”, è stato scritto da Giulia Minoli ed Emanuela Giordano, e rappresenta una ragionata provocazione contro quella rete mafiosa, trasversale e onnipresente, che vorrebbe sconfitta la coscienza collettiva, la capacità di capire e reagire. La drammaturgia dello spettacolo è in continuo divenire, grazie alla ricerca e lo studio di nuove storie di vittime innocenti e storie di riscatto da raccontare in tutt’Italia. Allo spettacolo segue un dibattito con i protagonisti delle storie, esperti e voci autorevoli in materia, con l’obiettivo di far riflettere “a caldo” gli spettatori sulle tematiche trattate. Il progetto prevede un percorso nelle scuole, rivolto a studenti tra i 14 e 18 anni e docenti, in cui il teatro è utilizzato come strumento di educazione alla legalità. La formazione nelle scuole accompagna lo spettacolo in tutte le città in cui va in scena. I laboratori sono tenuti da un gruppo di attori-formatori che affronta con gli studenti il concetto di etica e di bene comune attraverso strumenti e pratiche pedagogiche e di gioco collettivo. Vengono analizzate in aula cause ed effetti, ipotesi e obiettivi per riabilitare la collettività minacciata e contaminata da sempre più forti poteri criminali. Il percorso formativo prevede inoltre la visione del documentario “Dieci storie proprio così” prodotto da Rai Cinema e Jmovie e vincitore del Nastro d’argento 2018. Dal 2012 ad oggi sono stati attivati laboratori in Sicilia, Campania, Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia coinvolgendo oltre 50mila studenti. Parte del “il palcoscenico della legalità” è anche il lavoro svolto nelle carceri minorili degli Istituti Penitenziari Minorili di Airola a Benevento e Malaspina di Palermo, in cui vengono svolti laboratori sui mestieri del teatro, corsi di drammaturgia, illuminotecnica, scenografia e fonica, al fine di formare professionalmente i giovani detenuti per facilitare un’alternativa lavorativa una volta usciti dall’Istituto, insegnare il lavoro di gruppo, la collaborazione in un progetto comune, ma anche e soprattutto portare il ragionamento sulla responsabilità individuale e collettiva riguardo le logiche e culture mafiose. Dall’esperienza nell’IPM di Airola è nato lo spettacolo teatrale “Aspettando il tempo che passa”, con la regia di Emanuela Giordano, scritto con i ragazzi detenuti e realizzato in collaborazione con il Nest-Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, che ha aperto il Napoli Teatro Festival 2016. Dall’esperienza nell’Ipm di Malaspina è nato lo spettacolo “Fiesta” scritto e allestito con i detenuti, con la regia di Salvo Massa, e messo in scena a giugno 2017. La presenza di CO2 Crisis Opportunity Onlus nel carcere minorile di Airola (Bn) nasce già nel 2013, anno in cui, grazie alla collaborazione con il rapper Luca Caiazzo, in arte Lucariello, si è svolto un primo laboratorio trimestrale sulla scrittura di canzoni rap intitolato Suon(n) e realtà. Dal 2017 ad oggi è in corso “Le ali dei leali” un percorso laboratoriale di sceneggiatura, scrittura di testi musicali e audio video, sotto la direzione artistica di Lucariello. Il progetto ha portato alla creazione di una canzone “Portame la fore”, interpretata da Lucariello e Raiz. Le canzoni sono state registrate presso la Siae e i ragazzi detenuti ne posseggono i diritti in quanto autori. La volontà per il 2019 è quella di mantenere nell’Ipm un presidio culturale permanente, per continuare a sperimentare e dare input ai ragazzi. “Ancora un giro di chiave”, di Emma D’Aquino recensione di Stefano Zurlo Il Giornale, 27 febbraio 2019 La rovina della prigione: “Io, che divenni criminale quando entrai in carcere”. Detenuto per un reato lieve, ha commesso delitti dietro le sbarre e accumulato pene per 49 anni. È il 23 ottobre 1971. L’appuntato Vasta accompagna il detenuto fino al portone del carcere di Agrigento: “Mi stringe la mano, mi dice di non farmi più vedere e nient’altro”. Nino, Nino Marano, è fuori, con quel senso di vertigine che dà sempre la libertà ritrovata. L’uomo, classe 1944, si è fatto cinque anni di fila in cella, ma ha ancora la vita davanti e una seconda chance, oggi la chiameremmo cosi, per allontanarsi una volta per tutte da furti e piccola delinquenza e rimettere la propria vita in carreggiata. Sono pagine cariche di suggestioni e ansia quelle che Emma D’Aquino, popolare volto del Tg1, ha scritto per raccontare questa storia sfortunata e drammatica, racchiusa in un libro che si legge come un film, “Ancora un giro di chiave”, in uscita domani per Baldini Castoldi. Si ha l’impressione che Marano possa farcela, rompendo la solitudine e scacciando anche i cattivi propositi grazie all’amore, tenace come tutti i veri amori, della sua Sarina. “Passai otto mesi bellissimi con la mia Sarina. Finalmente mi sembrava di respirare. Avevo ripreso in mano la mia vita, avevo cercato e trovato un lavoro”. Sembra fatta e invece il passato è pronto a afferrarlo per un lembo e poi a tirarlo giù, implacabile. Marano diventerà il carcerato più longevo d’Italia per reati commessi in galera. Quarantanove anni di detenzione. Un record quasi imbattibile, una vita intera, sia detto senza retorica, bruciata. Omicidi. Tentati omicidi. Accoltellamenti. Pance sventrate. Regolamenti di conti. Sangue e ancora sangue a macchiare i buoni propositi espressi in quel congedo, davanti al portone del carcere, nell’autunno del 1971. Eppure gli ingranaggi si muovono bene per quegli otto mesi. Poi un pezzo di carta si mette di traverso e ferma la catena di montaggio della routine, dell’ordinarietà, la sola che avrebbe potuto fermare quella discesa, appena percepibile all’inizio e poi a precipizio. Giù. Sempre più giù. Marano torna dentro: la marcia verso la redenzione si ferma, ci sono da scontare sedici mesi per ricettazione e tentato furto. Foca cosa, come il primo arresto, nel 1965 a Catania, la sua città, per aver portato via melanzane e peperoni, la ruota di un’Ape e una bicicletta. Nino è di nuovo in circolazione l’anno dopo, 1973, ma qualcosa dentro di lui si è incrinato. O, forse, il demone non se n’è mai andato. Nino è coinvolto in una rissa, allunga un paio di fendenti a un avversario: vengono a riprenderlo. Non basta. Arrivano altre comunicazioni giudiziarie: un’alta marea che viene da lontano e sale, sale coprendo tutto. Si scopre che la madre, una povera donna semianalfabeta che veniva regolarmente picchiata dal padre, appena vedeva quell’odiata intestazione, tribunale, strappava tutto. ““Se non ti trovavano era meglio, no?”, rispose quando le chiesi perché non mi avesse detto nulla”. Quasi impossibile seguire a questo punto l’incredibile successione di episodi criminali, processi, condanne, trasferimenti da un penitenziario all’altro, come una trottola senza requie. Noto. La famigerata isola di Pianosa. Agrigento. Potenza. Porto Azzurro. Sassari. Novara. Milano. Voghera. Marano ferisce e uccide con tutto quello che ha a disposizione: coltelli sfuggiti alle infinite perquisizioni, cocci sagomati in qualche modo, le mani usate come badili. E poi ci sono i seghetti, strumento essenziale per tagliare le sbarre e tentare di andarsene. Qualche fuga riesce, alcune falliscono, tutte sono sul conto, lungo come una lenzuolata, presentato dallo Stato. L’aritmetica giudiziaria, naturalmente, non coincide sempre con la realtà dei fatti e va dato atto a Emma D’Aquino di aver scavato con ostinazione per sapere quel che le sentenze, non tutte per carità, avevano ricostruito in modo confuso e pasticciato. Quarantanove anni. L’incontro con i brigatisti, l’immancabile 41 bis. Due ergastoli. La pena che non rieduca, ma diventa la molla inesauribile per nuovi scempi, ambientati quasi sempre, e pare impossibile, fra alte mura, chiavistelli, guardie e agenti. Sullo sfondo, la storia d’Italia, indovinata da dietro le sbarre. Poi, il 22 maggio 2014, sulla linea dei settant’anni anagrafici, la scarcerazione. Quella, si spera, definitiva. Ma comincia un’altra prigionia: “È - conclude l’autrice - l’inferno dei ricordi. Il prezzo che sta pagando per quello che ha fatto”. “Max Fox”, di Sergio Luzzatto. Il bibliofilo che divenne ladro di libri recensione di Marco Ciriello Il Mattino, 27 febbraio 2019 Lo storico Sergio Luzzatto ricostruisce la storia di Massimo De Caro, ex direttore della biblioteca dei Girolamini e le sue truffe stile film di Hollywood. Sottraeva volumi preziosi (e li rivendeva): “Per amore, per salvarli”, diceva lui. Cerca la storia del presente Sergio Luzzatto, e la trova attraverso le imprese di Massimo De Caro, un bugiardo, imbroglione, falsario, ladro. Almeno stando al primo livello, poi c’è il resto, c’è la vita e ci sono le relazioni, c’è la biografia e il contesto, e così, questa si trasforma in una storia esemplare, il tentativo di diventare l’opposto di quello che si dovrebbe essere, una metamorfosi, e, poi, di lato, ci sono anche i tormenti dello storico che rischia di seguirlo, scivolando verso le ragioni di una mente perversa. Ecco “Max Fox” (Einaudi), un libro che solo apparentemente è un saggio, in realtà è l’evoluzione narrativa di una storia che poi sarà film, ovvero come Massimo De Caro partendo da una onesta famiglia della borghesia di sinistra arrivi ad essere una sorta di personaggio della serie “Ocean’s” di Steven Soderbergh o la versione maschile della falsaria interpretata da Melissa McCarthy in “Can you ever forgive me?” (“Copia originale”). Lo storico Sergio Luzzatto, anche se con troppe premesse e paure, partendo dall’articolo denuncia di Tomaso Montanari - “Libri, uomini e topi” che svelava gli abusi dell’ex direttore della biblioteca dei Girolamini di Napoli - ne ricostruisce le imprese e scava dentro la psiche che le ha generate, parlando a lungo con De Caro (nelle loro conversazioni via Skype ha il nickname Max Fox da un personaggio di “Wall Street” di Oliver Stone: Bud Fox). Dietro al fatto che un ragazzo, solo “profesor honorario”, possa arrivare a dirigere una delle più belle e importanti biblioteche d’Italia - la preferita di Giambattista Vico - c’è la storia degli ultimi vent’anni italiani, e anche un po’ di quella mondiale. Sì, perché De Caro gioca un ruolo importante all’interno della politica internazionale, saltando da Buenos Aires a New York e arrivando a Mosca via Bari, tutta la trama che lo porta a entrare in stanze importanti e a giocarci, anche se a lui piace pensarsi come un Guglielmo de Libri, oscilla tra il mondo di Alberto Sordi scritto da Sonego e le pagine dì Dan Brown, partendo e finendo nell’amore smodato-che si fa ossessione e delitto-nei libri del passato. De Caro studia moltissimo - ma non riesce a prendere la laurea, lo farà in carcere per rimorso - il mondo galileiano, e prima i libri antichi; come restaurarli, e poi come riprodurli. Ma più che un topo da biblioteca è un ladro di biblioteche, per amore, come ripete molte volte a Luzzatto, non sopporta di veder maltrattati i libri e quindi li salva, poi li rivende se serve, arrivando ad essere un reuccio del mercato, e conoscendo un mucchio di gente che poi gli torna utile: dal magnate russo Victor Feliksovic Vekselberg a diversi cardinali fino al senatore Marcello Dell’Utri. Seguiamo i traffici con i libri antichi di De Caro, tra le sottrazioni alle biblioteche italiane e le vendite in Argentina, e lo vediamo annodarsi all’inseguimento di una collezione galileiana, fino al grande progetto: ingannare l’intera comunità internazionale, sbeffeggiarla, con un falso libro di Galilei e riuscirci, replicando la beffa delle teste di Modigliani. Riproduce il Sidereus Nunàus, e anche Horst Bredekamp, grande storico dell’arte, ci casca, stra-convinto dell’autenticità, mentre De Caro tra una consulenza e l’altra è anche approdato al governo come consigliere con Galan, prima ministro all’Agricoltura e poi ai Beni culturali, e infine mandato a dirigere la biblioteca dei Girolamini, in una vertigine che unisce ogni forma di superficialità e danno. Ma prima della caduta e delle tristi scoperte, con le confessioni di De Caro, la storia più bella riguarda un vecchio professore di Harvard: Owen Gingerich - sembra il Guglielmo da Baskerville di “Il nome della rosa” di Umberto Eco - che si mette a indagare sul falso Nuntius, senza computer e analisi della carta e dei caratteri, no, ma ricostruendo il pensiero di Galileo e la sua evoluzione, passando in rassegna le tappe delle sue scoperte, e quindi trovando la falla, perché il diabolico De Caro per fortuna o purtroppo commetteva anche degli errori, nei dettagli, ma c’erano. Luzzatto, ovviamente, cita come modelli “L’avversario” di Carrère, e “L’impostore” di Cercas, trovandosi a lavorare con la bugia, al cospetto di un abile manovratore, un sovvertitore di realtà che, però - grazie alla puntigliosità dello storico - appare con la difesa abbassata, ormai vinto dagli eventi, e molto soddisfatto per la beffa riuscita, anche se ha perso tutto, se è finito in carcere, c’è il compiacimento dello sperpero, e la tranquillità di chi ha giocato e perduto divertendosi molto, che viene passata al lettore. Il pluralismo dell’informazione e il ruolo (fondamentale) di Radio Radicale di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 27 febbraio 2019 Colpisce il silenzio assordante con cui gli organi di stampa hanno dato conto del congresso del Partito Radicale e della denuncia per la chiusura della loro emittente. Il silenzio è stato pressoché assoluto. Il Partito radicale si è riunito in un congresso straordinario per discutere del rischio concreto di chiusura di Radio Radicale. Eppure, gli organi di informazione hanno evitato accuratamente di parlarne e, comunque, di dare risalto alla notizia. Alla ricchezza degli interventi, svolti durante il congresso, ed alla pluralità delle prospettive politiche, che li hanno animati, ha corrisposto la uniforme assenza di attenzione all’evento da parte degli organi di informazione. Ciò, nonostante che il tema fosse centrale per la qualità della democrazia italiana. Come è noto, l’ultima legge finanziaria, approvata a tempo quasi scaduto dalla maggioranza gialloverde, ha dimezzato il contributo a radio radicale, ridotto tutti i contributi all’editoria e previsto il loro azzeramento entro il 2022. Il Presidente del Consiglio, commentando il taglio subito da radio radicale, ha affermato che il futuro della stessa va cercato sul mercato. Le questioni che la vicenda pone sono due: se sia corretto affidare al mercato la materia dell’informazione e quale sia la ragione del diffuso silenzio su questa storia da parte del mondo dell’informazione. La reale portata della prima questione non può essere compresa appieno se non si tiene presente quello che è il funzionamento del mercato. È assolutamente vero che un mercato efficiente elimina gli sprechi. L’allocazione delle risorse avviene nel rispetto di un criterio di massimizzazione dei risultati, che si traduce in una maggiore produzione di ricchezza, a vantaggio, in linea di principio, anche di tutta la collettività. Un corollario di questa dinamica è la regola per la quale il mercato, lasciato a sé stesso, produce dei monopoli o, nella migliore delle ipotesi, degli oligopoli. È compatibile con i principi di una società democratica che questo avvenga per le imprese che fanno informazione? Evidentemente no, ove si ricordi che uno dei capisaldi della democrazia è il pluralismo, con il conseguente diritto del cittadino ad essere informato potendo accedere ai vari punti di vista. Di qui la necessità di introdurre nel particolare mercato dell’informazione quegli incentivi che consentano alle imprese editoriali di operare anche quando non rispettino i criteri di efficienza dimensionale che sarebbero imposti dal mercato. È questa, del resto, la ragione per la quale il Consiglio di Europa ha previsto che gli stati membri eroghino i contributi all’editoria. È questa, ancora, la ragione per la quale in tutte le democrazie più avanzate esiste una legislazione per il sostegno dell’editoria. Con riguardo, poi, a radio radicale va messo in luce un ulteriore aspetto. Si tratta dell’unica emittente che svolge con continuità un servizio pubblico. I suoi microfoni nelle aule parlamentari e nelle aule dei tribunali sono una costante. Essi consentono, a tutti, di poter avere una informazione senza filtri in ordine a ciò che avviene nei palazzi del potere. Nulla a che vedere con la stessa Rai, ampiamente foraggiata anche con il canone imposto ai cittadini, la quale sul piano del “servizio pubblico” ha una presenza molto più modesta. Su questo punto vale la pena notare che il governo gialloverde, che come tutti quelli che lo hanno preceduto ha subito provveduto ad occupare militarmente l’emittente pubblica, ha dato un preciso segnale attraverso il taglio dei finanziamenti a radio radicale: evidentemente non gradisce che i cittadini possano “guardare” ciò che avviene nei palazzi del potere. Infine, perché il silenzio degli organi di informazione? Perché il loro ruolo è divenuto sempre più quello di strumenti di lotta per il potere. Ha scritto Carlo Verdelli, nuovo direttore di Repubblica, nel suo primo editoriale “stavamo seduti sopra un vulcanio di rabbia e rancore, e non ce ne eravamo accorti”. Ma come poteva, la grande stampa, accorgersene, tutta presa, come era, a nascondere le notizie sgradite agli amici ed a sbattere in prima pagina quelle adatte a colpire i nemici, senza occuparsi di quello che accadeva sotto casa? Organi di informazione guidati da questa logica che solidarietà possono avere verso una emittente che si è sempre sottratta alla tentazione di mettersi al servizio di qualcuno e diventare strumento della lotta per il potere? In questo momento in cui, per usare le parole di Gramsci, “il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire”, sarebbe essenziale, affinché il paese non conosca nuovi mostri, volgere la massima attenzione alla tutela di quella informazione libera e plurale, di cui radio radicale è espressione. Corviale e Scampia, le periferie d’Italia si risollevano (da sole) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 27 febbraio 2019 In campo enti locali e associazioni: un segnale per il governo. Potremmo chiamarli risvegli. Con una buona dose di fai-da-te e sfruttando al meglio la fetta del vecchio Bando periferie non caduta sotto la tagliola della maggioranza gialloverde (una prima tranche di 500 milioni già assegnati a 24 città, contro il congelamento di fatto di un’altra successiva tranche da un miliardo e 600 milioni) pare avviarsi il riscatto dei due più simbolici ghetti d’Italia: Corviale a Roma e le Vele di Scampia a Napoli. Nei prossimi mesi i due falansteri proveranno a mutare un destino tracciato per loro quasi quaranta anni fa da un’architettura madre di isole metropolitane criminogene (per citare un urbanista cinico e tagliente come Rem Koolhaas, l’architetto è del resto colui che “fa in modo che il mondo accetti visioni che non vuole, costruendole”). La quasi simultaneità degli interventi è un segnale molto forte mandato dagli enti locali e dai territori a una politica nazionale che ha di nuovo rimosso sin dal dopo elezioni il tema (oltre al balletto sui fondi per le periferie colpisce la mancata ricostituzione in questa legislatura di una Commissione parlamentare il cui disegno istitutivo langue - nemmeno calendarizzato - in Parlamento). Le aree più a disagio del Paese si riorganizzano con le proprie forze o sfruttando al meglio le risorse (scarse) a disposizione. I profili del governatore laziale Nicola Zingaretti, candidato forte per la segreteria del Pd, e del sindaco napoletano Luigi de Magistris, forse prossimo a provarsi su un più largo palcoscenico, marcano il segno politico delle due operazioni. Corviale, ispirata alla unité d’habitation marsigliese di Le Corbusier, è diventata l’icona dei mali di Roma. Di fronte a un degrado quasi programmato (il “Serpentone” fu occupato ancor prima di essere finito), gli architetti si divisero. Massimiliano Fuksas ne propose l’abbattimento. Franco Purini ne difese l’autore (l’opera è di Mario Fiorentino, morto mentre venivano ultimati i lavori) con parole spiegabili solo con l’ideologismo del tempo: “Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico. Voleva che il suo edificio fosse soprattutto una dimostrazione teorica che non concedesse nulla alla privatezza o all’agio”. A giudicare, diremmo, dai tormenti di seimila poveri eroi confinati lì dentro c’è da riconoscere che l’obiettivo fu... raggiunto sin da subito. Ora i lavori del famoso chilometro verde del quarto piano (noto al grande pubblico grazie al film “Scusate se esisto”) si faranno: diretti da Guendalina Salimei (interpretata nella pellicola da Paola Cortellesi) ed eseguiti da una ditta di Ivrea con bando Ater e 21 milioni in gran parte della Regione, fermi dal 2006/7. Il quarto piano doveva essere la spina di coesione del Serpentone, il “boulevard” di negozi e servizi, venne subito espugnato e frazionato da centinaia di occupanti abusivi: verrà demolito e ricostruito con alloggi regolari e spazi verdi. Siccome per i lavori bisogna fare tabula rasa delle occupazioni del piano, quelli di “Corviale Domani”, il coordinamento di 50 associazioni locali, hanno avviato i “trasferimenti” (così li chiamano, non sgomberi) e senza “la cavalleria”, cioè le forze dell’ordine (parole del loro leader Pino Galeota). Dicono di essere “un modello anti Salvini”, nel senso che lavorano sulla trattativa e non sulla ruspa. Punti di vista. Ma in effetti hanno già ricollocato 15 famiglie sgomberate dal quarto piano e, lavorando accanto all’Ater, contano di procedere a colpi di 15 alla volta per i prossimi cinque anni, tempo di durata dei lavori (c’è un secondo progetto da 11 milioni per la rigenerazione dell’area circostante). I 15, totalmente in nero, adesso hanno stipulato contratti per acqua e luce. È un bel segno di discontinuità. Anche a Scampia l’associazionismo è linfa sotto le Vele (tra le 200 piccole associazioni di quartiere va segnalata “Scugnizzeria”, prima libreria aperta qui, dal cugino di una vittima innocente della camorra). Continua il lavoro straordinario di Gianni Maddaloni che, dalla sua palestra di judo, contende i ragazzi di strada alle baby gang: pur abbandonato anche da de Magistris che gli ha chiesto quegli arretrati dell’affitto (la struttura è comunale) che mai gli altri sindaci avevano preteso. De Magistris da anni promette l’abbattimento delle Vele, ma stavolta potrebbe farcela davvero, entro giugno. I soldi ci sono: Napoli era tra le 24 città fortunate rientrate nel primo bando con il progetto abbattimento, 18 milioni, più 9 milioni europei del Pon metro; la città metropolitana è rimasta fuori per una seconda tranche sull’accessibilità del quartiere ma potrà avere accesso all’avanzo di bilancio prima vincolato. Il progetto è approvato, 184 alloggi regolari sono già stati consegnati ad ex occupanti, restano altri sgomberi in ballo, “ma siamo a un ottimo punto”, sostiene l’assessore Carmine Piscopo. Tre delle ultime quattro Vele (erano sette in origine, cominciarono a smantellarle, poi nel 2003 si bloccò tutto) dovrebbero cadere nei prossimi mesi, la quarta diventerebbe sede della città metropolitana (“così portiamo Scampia in centro”, dice il sindaco). La demolizione di questa mala Napoli darebbe concretezza a un’amministrazione spesso sedotta da progetti fantasiosi come la criptovaluta. A Scampia, peraltro, il terreno è fertile: ancora aspettano il ritorno di Di Maio. “Venne a giugno promettendo legalità, speriamo non si scordi”, dice Maddaloni. Sulla turbolenta giostra del populismo meridionale, un Gigino sogna di soppiantare l’altro. Migranti. Strage nella stiva, i presunti scafisti assolti dopo 4 anni di carcere di Errico Novi Il Dubbio, 27 febbraio 2019 Una vicenda terribile: 56 migranti trovati morti asfissiati nella stiva, dov’erano stati costretti con la violenza a restare ammassati. La loro imbarcazione intercettata nel Canale di Sicilia dalla “Poseidon”, nave della Guardia costiera svedese arrivata a Palermo il 27 agosto 2015. La ricostruzione agghiacciante e il conseguente arresto dei presunti “scafisti”. Ma la tragedia del barcone con quasi 500 migranti a bordo - se ne salvarono 438 - si chiude con un esito inatteso: i 7 stranieri, per 5 dei quali la Procura di Palermo aveva chiesto l’ergastolo, sono stati assolti dalla Corte d’assise “per non avere commesso il fatto”. Ha prevalso la tesi dei difensori, secondo cui “non vi è certezza dell’identificazione degli scafisti da parte delle persone a bordo”. I migranti che avevano additato i 7 quali “aguzzini” sarebbero andati a casaccio pur di “accreditarsi” e “ottenere con più facilità il permesso di soggiorno”. Una vicenda che suscita perplessità soprattutto perché gli imputati hanno ingiustamente scontato qualcosa come 3 anni 7 mesi di custodia cautelare, con accuse di omicidio plurimo, oltre che naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione. Furono arrestati subito dopo lo sbarco nell’agosto del 2015. Ieri la Corte d’assise ne ha anche ordinato l’immediata scarcerazione: se il giudizio di non colpevolezza fosse confermato negli eventuali successivi gradi di giudizio, si profilerebbe il diritto a significativi risarcimenti per ingiusta detenzione. Gli assolti sono Hassan Chibab, Mohamed Alif, Badr Kachouch e Alradi Isam (marocchini), Sami Nasser e Iissa Okrema Ahmad (siriani) e Buchalla Zied (libico). Allarme in Europa per la nuova droga killer: “L’eroina in confronto è quasi acqua fresca” Corriere della Sera, 27 febbraio 2019 La sostanza ha una struttura simile al Fentanyl, 20 grammi bastano per fabbricare 20 mila dosi: “La chiamano eroina sintetica ma con 25 milligrammi si muore”. Il primo sequestro in Italia è avvenuto in provincia di Rieti. Ma è allarme in tutta Europa per una nuova droga killer, più economica e letale dell’eroina. “L’eroina in confronto è quasi acqua fresca” - Si tratta di una sostanza che presenta una struttura simile al Fentanyl (oppioide sintetico fino a 100 volte più potente della morfina), ma con effetti sull’organismo ancora più devastanti. A intercettarla per la prima volta in Italia i carabinieri del Nas: i 20 grammi contenuti nel plico postale erano sufficienti a fabbricare ben 20 mila dosi. Per dare un’idea del grado di tossicità basta dire che il semplice contatto con la pelle può provocare intossicazione. “In confronto l’eroina è quasi acqua fresca - fanno sapere gli investigatori - anzi, proprio per la sua economicità, in alcuni casi viene venduta dai pusher a giovani conviti di comprare eroina”. “Con 25 milligrammi si muore” - “La chiamano impropriamente eroina sintetica - spiega il comandante dei Nas Adelmo Lusi - per il tipo di effetto psicotropo simile, ma dal punto di vista della tossicità è molto peggio: con 25 milligrammi di eroina ci si sballa, con 25mg di simil-fentanyl, come quello appena sequestrato, si muore”. Le indagini dei carabinieri erano partite da una serie di ricoveri in ospedale di persone con sintomi da overdose ma che non rispondevano al trattamento disintossicante per l’eroina. Negli Stati Uniti, gli oppioidi sintetici hanno provocato oltre 29 mila morti solo nel 2017. L’India attacca il Pakistan, la paura nucleare fa tremare di nuovo l’Asia di Raimondo Bultrini La Repubblica, 27 febbraio 2019 Un attacco dell’aviazione indiana durato pochi minuti a Balakot, nella zona del Khyber-Pakhtunkhwa, ha riportato in vita il fantasma di una guerra nucleare, qualunque sia la verità dietro alla prima violazione di fatto dello spazio aereo pachistano da quasi 50 anni a questa parte. Annunciata da tempo, l’operazione doveva vendicare la strage del giorno di San Valentino contro un convoglio di 46 soldati indiani a Pulwama, nel cuore della regione a maggioranza islamica del Jammu e Kashmir da 72 anni contesa tra i due Paesi. L’attacco di un commando suicida venne rivendicato dal gruppo terrorista Jaish-e-Mohammad con basi in Pakistan, e per questo sospettato di connivenze con Islamabad. Non è ancora certo che le bombe sganciate in volo nella notte tra lunedì e martedì da una formazione dí 12 jet militari abbiano davvero ucciso 350 terroristi sorpresi nel sonno nel campo di Balakot dove si erano trasferiti proprio per evitare la rappresaglia. Secondo Vijay Gokhale, segretario degli Esteri di Delhi, “un numero molto alto di jihadisti sono stati eliminati come azione preventiva”. Parole però smentite da un portavoce di Islamabad con un tweet che mostra le foto di tratti disabitati di boscaglia bruciati. “Dove sono i corpi, i loro funerali, il loro sangue?”, ha chiesto con tono di sfida il generale Asif Ghafoor. Nemmeno il premier pachistano Imran Khan ha però potuto ne= gare che l’incursione di Delhi sia stata una sfida senza precedenti nella lunga guerra militare e di nervi per il controllo della più delicata regione di confine divisa in due lungo la Linea di Controllo (Loc) dal giorno della Partizione del 1947 all’indomani dell’indipendenza dei due Paesi dal Regno Unito. Khan ha chiesto alle forze armate e alla popolazione di “prepararsi a tutte le eventualità” e ha convocato una riunione d’emergenza del Comitato di sicurezza nazionale, che supervisiona anche gli armamenti nucleari, oltre ad annunciare per oggi una seduta straordinaria del Parlamento. È stata “un’azione condotta per finalità di politica interna che mette a rischio la pace della regione”, ha detto riferendosi alle prossime elezioni indiane di maggio, “alla quale il Pakistan risponderà quando e dove riterrà opportuno”. Parole inquietanti, appena stemperate dalla consapevolezza reciproca che un’eccessiva escalation potrebbe incontrare la reazione durissima del principale alleato comune, gli Stati Uniti, già ai ferri corti con il Paese islamico. Islamabad nega di manovrare segretamente i gruppi armati che da decenni compiono incursioni nel Jammu e Kashmir, reclamato da Delhi nonostante la richiesta d’indipendenza delle popolazioni locali già prima della Partizione, quando larga parte di questo territorio montuoso venne ceduto all’India dal MaharAja Hari Singh, mentre il Pakistan amministra da allora la fascia nord del Gilgit Baltistan e dell’Azad Kashmir. È qui che i due Paesi hanno già combattuto tre guerre nel 1947, nel 1965 e nel 1999, senza contare il conflitto del 1971 che portò all’indipendenza del Bangladesh. Madagascar. L’appello di Amnesty sulle condizioni delle carceri di Sara Ficocelli La Repubblica, 27 febbraio 2019 “Sovraffollate, sporche, prive di acqua corrente”. Donne e bambini costretti in situazioni disumane. L’organizzazione chiede alle autorità malgasce di rispettare almeno i diritti umani dei detenuti in attesa di processo. Solo nel 2017 - stando agli ultimi dati pubblici messi a disposizione delle autorità - nelle prigioni del Madagascar sono morte 129 persone, 52 delle quali in attesa di processo. Sistema giudiziario inefficiente. Celle sovraffollate, sporche, prive di fonti esterne di aria e di luce: questa la drammatica situazione in cui è costretto a vivere chi ha la sfortuna di finire in una delle prigioni del Paese, inferni in cui spesso si muore di tubercolosi. Non di rado le celle hanno latrine a cielo aperto, cosa che espone a un altissimo rischio di malattie. Molte persone, anche indagate per piccoli reati, a causa di un sistema giudiziario inefficiente restano in attesa di un processo per anni; rilasciati dopo mesi di detenzione preventiva, faticano poi a “reinserirsi” nella società e sopravvivono senza lavoro, in povertà e in condizioni fisiche e mentali precarie. Condizioni disumane. Le donne in gravidanza detenute nel Paese non ricevono cure mediche adeguate, i bambini non hanno spazio per giocare né seguono programmi educativi; le razioni di cibo sono talmente scarse da poter essere contenute “nel palmo di una mano”. A ottobre 2017, il Paese deteneva 785 bambini, 622 dei quali (80%) in una situazione di detenzione preventiva. “Un giorno sono andato a casa di mia zia, la sua porta è accanto alla nostra. Ho chiamato il suo nome ma nessuno ha risposto. Sono entrato al piano terra, quando un uomo è entrato in casa e mi ha chiesto “dov’è tua zia?”. Ho detto che non lo sapevo e sono tornato a casa. Pochi minuti dopo, è venuto a casa nostra e stava piangendo. Ha detto: “Tua zia è morta”. Ha chiamato la polizia e quando è arrivata la polizia mi ha interrogato. Ho iniziato a piangere. Mi hanno portato alla stazione di polizia e dopo quattro giorni mi hanno portato in prigione”, racconta Sedera,17 anni, tenuto prigioniero 14 mesi in attesa di un processo. Il numero di minori detenuti in attesa di giudizio è più che raddoppiato negli ultimi 10 anni. Come gli adulti, anche loro sono costretti in celle sovraffollate, buie e spesso molto sporche e prive di acqua corrente. La maggior parte dei penitenziari del Madagascar non viene adeguatamente ristrutturato da almeno 60 anni: le infrastrutture sono talmente fatiscenti che, nel luglio 2018, ben quattro detenuti sono rimasti uccisi sotto le macerie provocate dal crollo di un muro nel carcere di Antsohihy, nel nord del Paese. Il dramma del sovraffollamento. Nel penitenziario di Antanimora, nella capitale Antananarivo, la più grande struttura di detenzione della nazione, nel 2017 Amnesty International ha contato circa 2.850 detenuti, pari al triplo della capacità massima per la quale il carcere è stato costruito. Il sovraffollamento è dovuto alla grande quantità di persone in attesa di giudizio, alle carenze del sistema giudiziario e alla lentezza dei processi. Alcuni detenuti attendono di essere processati anche da cinque anni. In totale violazione degli standard internazionali, i prigionieri passati in giudicato e quelli in attesa di giudizio vengono tenuti tutti insieme nelle stelle celle. “Nelle nostre missioni di ricerca - dicono gli operatori di Amnesty - abbiamo visitato nove prigioni, riscontrando in tutte problemi di sovraffollamento, sporcizia e assenza di fonti esterne di aria e di luce. In queste carceri le malattie dilagano: la tubercolosi è tra le prime cause di morte. Abbiamo potuto verificare che il 55% della popolazione carceraria (oltre 11.000 persone) era detenuta in attesa di processo; le percentuali aumentano se si considerano le donne (70%) e i minori (80%)”.