Ingiusta detenzione, petizione alla Ue per il pieno diritto al risarcimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2019 Presentata da Giulio Petrilli, dichiarato innocente dopo 6 anni di carcerazione preventiva. Il Parlamento europeo esaminerà la petizione italiana sul mancato risarcimento per ingiusta detenzione. Parliamo della petizione di Giulio Petrilli che rivendica, dopo sei anni di ingiusta detenzione, un risarcimento dallo Stato. “A nome del segretario generale del Parlamento europeo”, fa sapere Petrilli “mi è arrivata la risposta alla mia petizione, a cui l’Europa risponderà con certezza”. Ricorda che “si tratta della raccolta di firme avviata a dicembre scorso, sulla richiesta di modifica della norma dell’ordinamento italiano che limita il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione”. Aggiunge: “Sono fiducioso della risposta della Commissione petizioni del Parlamento europeo che, nel caso fosse positiva, riaprirebbe la mia vicenda, come quella di tanti altri che non hanno avuto il risarcimento per ingiusta detenzione nonostante assolti. Una norma palesemente anticostituzionale che, spero e penso, venga evidenziata dal Parlamento europeo, dove mi sono recato anche nell’ottobre scorso per denunciare quanto accaduto. Una battaglia che conduco da tanti anni, anche con l’appoggio e la solidarietà di tante persone, ma che si è sempre arenata nella non disponibilità, da parte del Parlamento italiano, a modificare la normativa che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione per un giudizio morale sull’imputato”. La vicenda di Giulio Petrilli è emblematica. A 58 anni Giulio Petrilli abbandona l’Italia per andare a lavorare in Serbia, a Belgrado. Giulio viene arrestato il 23 dicembre 1980 con l’accusa di partecipazione a banda armata per un suo presunto coinvolgimento nell’organizzazione Prima Linea. Dopo quasi sei anni di carcerazione preventiva, viene però dichiarato innocente. La sua non è soltanto una delle tante, troppe storie di malagiustizia, ma va anche inquadrata in quel cupo periodo emergenziale, in cui in nome della lotta al terrorismo si sacrificavano molto spesso le garanzie costituzionali. Era facile che finisse in prigione chiunque appartenesse a qualche formazione extraparlamentare. All’interno delle carceri - come poi emerse dopo anni - si praticavano anche delle torture per poter estorcere informazioni. Ma già da allora, grazie ad un “Comitato contro la tortura” promosso dal Partito Radicale, un dossier del 1982 aveva documentato una sessantina di episodi di torture e pestaggi avvenuti contro militanti della lotta armata. All’epoca furono in pochi tra i politici a denunciarne gli abusi. I due grandi partiti di massa, la Democrazia cristiana e il partito Comunista, rimasero silenti. In parlamento solo Leonardo Sciascia, eletto tra le fila del Partito Radicale, prese la parola e denunciò la situazione con parole tremendamente attuali: “In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!”. È questo il contesto, sociale e politico, che fece da sfondo all’arresto di Giulio Petrilli. L’accusa è pesantissima: partecipazione a banda armata con funzioni organizzative. L’allora procuratore Armando Spataro, che emise il mandato di cattura, sosteneva che Petrilli fosse coinvolto nell’organizzazione terroristica Prima Linea e chiese una condanna a undici anni. A quei tempi Giulio era uno studente universitario di ventuno anni, iscritto alla facoltà di Lettere a L’Aquila. Un ragazzo pieno di ideali e voglia di cambiare il mondo: sogni che si infrangono contro la condanna in primo grado a otto anni di reclusione. Condanna che inizia a scontare, passando da un carcere all’altro in un regime detentivo peggiore dell’attuale 41- bis: quello regolato allora dall’articolo 90, che prevedeva l’isolamento totale. In appello Giulio fu assolto e nel maggio dell’ 86 tornò definitivamente libero con la sentenza di assoluzione confermata dalla Cassazione. Nonostante l’ingiusta detenzione, Petrilli non è mai stato risarcito. Anzi, la domanda di risarcimento è stata respinta per ben due volte. La prima volta perché la sentenza di assoluzione è arrivata prima della riforma del codice di procedura penale, che nel 1989 ha introdotto la riparazione per ingiusta detenzione, senza però prevedere la retroattività. La seconda bocciatura ha dell’incredibile: i magistrati, oltre a negargli il risarcimento, lo condannarono anche a pagare le spese processuali. Motivazione? Gli dissero che con le sue frequentazioni aveva tratto in inganno gli inquirenti. Un ministro non può visitare un detenuto per portare solidarietà. Per legge di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2019 Matteo Salvini si è recato in carcere a Piacenza, così come lui stesso ha raccontato, a portare la propria solidarietà all’imprenditore condannato per aver sparato a un uomo che si era introdotto nel suo cantiere a scopo di furto. In spregio a una sentenza passata in giudicato, in spregio alla divisione dei poteri che è alla base della democrazia moderna, in spregio alla legge. Salvini ha usufruito del potere di visita alle carceri che l’ordinamento penitenziario gli fornisce in quanto ministro. Ma tale potere è, da legge, volto a controllare le condizioni di detenzione nelle quali vivono i reclusi. Una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, datata 8.11.2013, fondandosi su quanto disposto dallo stesso ordinamento penitenziario e dal suo regolamento di esecuzione afferma che le autorità in visita “possono rivolgere la parola ai detenuti e agli internati al fine di rendersi conto in maniera più completa delle condizioni di vita degli stessi (…). In particolare (…) il contenuto dell’eventuale interlocuzione che il visitatore qualificato intenda effettuare con il detenuto non potrà mai fare riferimento alle vicende processuali del medesimo, vicende che trovano istituzionalmente altre sedi, altre autorità, altre garanzie dove e attraverso le quali essere affrontate”. Quelle autorità e quelle garanzie che Salvini disprezza pubblicamente con il suo agire. Un agire che risponde, è evidente, a un piano preciso, a una strategia. Quella di giocare una partita a scacchi dando un sonoro calcio alla scacchiera. Salvini portava al detenuto la propria solidarietà. Stando alle sue dichiarazioni non era lì per controllare le condizioni di vita interne ma per parlare pubblicamente, criticandolo, del processo. La medesima circolare - fonte normativa di secondo livello, ma pur sempre norma dello Stato prescrittiva a tutti gli effetti - dispone che qualora il visitatore travalichi i propri compiti di controllore della situazione detentiva le autorità penitenziarie, “dopo un primo richiamo finalizzato a rammentare detti limiti normativi”, si adoperino “per interrompere immediatamente il colloquio stesso”, salvo restando “il dovere di segnalazione all’Autorità giudiziaria, ove si ravvisino estremi di reato, oltre alle consuete segnalazioni al Dipartimento”. Per quanto ancora un ministro della Repubblica continuerà a violare spavaldamente e arrogantemente le norme dello Stato, comprese quelle che impongono il silenzio elettorale il giorno del voto? E, soprattutto, cosa sarà accaduto quando avrà smesso di farlo? Che non ci sarà più nulla da violare perché tali regole non esisteranno più (e con loro la democrazia) oppure che il popolo italiano si sarà ripreso quella sovranità che gli appartiene, non secondo la farsa populista cui stiamo tragicamente assistendo, quella farsa che vorrebbe incoronare l’eletto, ma invece nel senso vero e pieno del primo articolo della Costituzione, quello per cui essa è di tutti e quindi di nessuno in particolare, quello per cui la sovranità è custodita nello stato di diritto, nel fatto che anche l’autorità pubblica, il potere costituito è soggetto al rispetto delle leggi? C’è da chiederselo con angoscia. Entrambi gli scenari sono possibili. Un’ipotesi e la sua opposta. Starà a noi, a tutti noi, decidere da che parte portare il nostro Paese. A cominciare dalle prossime elezioni europee. *Coordinatrice associazione Antigone Riccardo De Vito: “Salvini ferisce lo stato di diritto” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 febbraio 2019 Il presidente di Magistratura democratica Riccardo De Vito alla vigilia del congresso della corrente di sinistra delle toghe parla della visita in carcere del ministro dell’interno a un imprenditore condannato per tentato omicidio e delle politiche securitarie usate come propaganda. Non solo da questo esecutivo. “Salvini ha violato alcune precise norme dell’ordinamento penitenziario e del regolamento di esecuzione per le quali un ministro, come un parlamentare, può benissimo fare visita in carcere a un detenuto, ma esclusivamente per verificare le condizioni di detenzione della persona e non per parlare di vicende processuali”. Riccardo De Vito, presidente di magistratura democratica, è un giudice di sorveglianza. Con lui torniamo sulla visita di Salvini ad Angelo Peveri, l’imprenditore di Piacenza condannato definitivamente per tentato omicidio per aver sparato a chi voleva rubargli il gasolio, ma quando era in terra, disarmato e chiedeva perdono. De Vito, cosa c’entra la legge sulla legittima difesa? Niente, se non strumentalmente visto che la difesa di Peveri non l’ha nemmeno invocata durante i processi. Oltretutto la stessa legge che è in discussione alla camera è ingannevole. Promette di sottrarre persino alle indagini chi si difende sparando, ma non è possibile visto che l’intervento di un magistrato per verificare la reale situazione di pericolo è comunque inevitabile. Dopo la visita a Peveri, Salvini ha detto che secondo lui non avrebbe dovuto essere condannato. Opinione lecita? Così facendo ha messo in discussione un principio cardine dello stato di diritto, la separazione dei poteri. Per di più è il ministro dell’interno, il vertice delle forze di polizia. Se dice che la pena non è stata irrogata correttamente perché ci voleva l’assoluzione fa scattare, quanto meno a livello simbolico, una confusione gravissima tra potere esecutivo e potere giudiziario. È stata un’ingerenza grave e una delegittimazione della magistratura contro la quale è bene che l’Anm reagisca in maniera unanime. Così non è stato perché la corrente di destra, Magistratura indipendente, ha preso le distanze. E non è la prima volta, di recente è successo sul caso Diciotti e sullo scontro tra Salvini e Spataro. L’unità dell’Anm a questo punto è una finzione? Mai come in questo momento l’unità associativa è importante. Ci sono delle divisioni ma è bene che ogni gruppo, non solo Magistratura indipendente, faccia capire qual è la sua posizione all’interno dell’associazione per verificare se ci sono ancora e quali sono le condizioni per l’unità. Per me va preservata, visto che a essere messe in discussione non sono azioni di singoli magistrati È il principio stesso della separazione dei poteri che vacilla. Questo governo e questa maggioranza ci tengono a offrire un volto sostanzialista. Chiamano le leggi “spazza-corrotti”, dicono che i colpevoli devono “marcire in galera”, fanno il gesto delle manette agli avversari politici. Però litigano con la magistratura, come mai? Non c’è una polemica diretta della magistratura nella sua interezza con il governo, c’è un dibattito perché alcuni di noi ritengono sbagliate certe scelte di politica criminale. Sbagliate e controproducenti in relazione agli obiettivi di sicurezza che lo stesso esecutivo si è dato, visto che “più carcere” non è mai la risposta idonea a creare sicurezza. Aggiungo che la tendenza a cercare una risposta simbolica del tipo “legge e ordine”, più che un risultato reale, non è esclusiva di questo governo. Tutti gli ultimi governi hanno approvato il loro “pacchetto sicurezza” e la storia dell’omicidio stradale è un caso perfetto di leva penale esagerata che non produce effetti: negli ultimi anni i morti sulle strade sono persino aumentati. Questo governo sulla giustizia è uguale ai precedenti? Con almeno due elementi peculiari. Il primo è che ha messo sotto attacco la discrezionalità dell’autorità giudiziaria, ad esempio impedendole di valutare se una persona è matura per uscire dal carcere. Evidentemente conta più la promessa elettorale di far “marcire in galera” le persone. Il secondo è di avere come nemica l’informazione che sulla giustizia e sulla detenzione analizza i dati per quelli che sono e diffonde un’idea diversa dal carcere come rimedio unico, penso all’attacco a Radio Radicale e al manifesto. Ne parleremo da venerdì al congresso di Md che ha ad oggetto il cuore del lavoro del giudice: la difesa dei diritti in un periodo di attacchi gravissimi. Md può essere determinante all’interno di quel grande investimento irrinunciabile che è Area democratica. Sarebbe irresponsabile tornare indietro. Salvini ha ragione ma anche torto di Bruno Tinti Italia Oggi, 26 febbraio 2019 Nel portare la sua solidarietà in carcere a un imprenditore che aveva sparato a un ladro. Questa storia di Matteo Salvini che va a trovare in carcere Angelo Peveri è giunta proprio a proposito perché fa chiarezza su tutto. Breve riassunto dei fatti. Jucan Dorel è un ladro. Tenta di rubare gasolio in un cantiere di Peveri. Suona l’antifurto e scappa. Poi però torna per recuperare l’auto con cui era giunto sul posto. Qui trova Peveri che lo acchiappa, lo picchia, gli sbatte la testa sui sassi e spara a bruciapelo (lui in piedi sovrastante il corpo del ladro supino in terra) un colpo di fucile che lo ferisce ai polmoni. Il ladro viene condannato a 10 mesi di galera per tentato furto e l’Imprenditore a 4 anni e mezzo per tentato omicidio. Divenuta definitiva la sentenza dopo il ricorso in Cassazione, Peveri entra in carcere. E Salvini ivi si reca a manifestargli solidarietà. 1) La solidarietà a Peveri è giusta. Lo derubano in continuazione, quello tentato da Dorel è circa il ventesimo di una serie. Che ne abbia le palle piene è comprensibile; che i ladri da cui è bersagliato siano delinquenti, pure. 2) Gli avesse sparato in un contesto di legittima difesa (ladro sorpreso in flagranza, atteggiamento minaccioso, vero o falso che sia), andrebbe tutto bene. Anche senza la legge che Salvini sta cercando di far approvare, con quella in vigore adesso sarebbe stato assolto. Ma così non è stato, Il ladro era tornato sul luogo del delitto per riprendersi l’auto, è stato immobilizzato da Peveri e da un suo operaio e riempito di botte (per carità, un po’ di sberle ci stanno). Di legittima difesa non se ne parla e, infatti, nessuno ne ha parlato, nemmeno la difesa di Peveri. Quindi un tentato omicidio da manuale, sicuramente (non conosco gli atti) meritevole dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 codice penale, aver agito in stato d’ira per ingiusto fatto altrui. 3) Dunque la solidarietà di Salvini in questo caso, ha un obbiettivo significato di condivisione di una condotta illegale. In soldoni, secondo Salvini, sparare ai ladri è sempre cosa buona e giusta, in qualsiasi contesto ciò avvenga. Secondo lui, se Peveri avesse incontrato Jucan Doren alla fi era del paese e l’avesse riconosciuto (è solo un’ipotesi per spiegare il concetto), avrebbe fatto bene a sparargli. 4) La solidarietà manifestata nei confronti di Peveri e Salvini da sindaci, social e numerosi organi di informazione è prova indiscutibile del fatto che questo tipo di condotta è approvata da un grande numero di cittadini. Non intendo qui discutere se pensarla in questo modo sia giusto o sbagliato: nei miei dieci anni di giornalismo (pochi ma non pochissimi) ho imparato che quasi sempre ognuno resta della sua opinione. Si finisce con lo scrivere per quelli che sono già d’accordo con te: si chiama bias di conferma. Triste ma vero. Quindi affronto il problema da un altro punto di vista. Informazione e logica. Come scrivo da tanto tempo (ma, appunto, magari quelli che non la pensano come me non mi leggono) in carcere non ci va praticamente nessuno. Il codice di procedura penale e soprattutto l’ordinamento penitenziario, sono congegnati in modo che le sentenze pronunciate dai giudici restano sulla carta. Per quanto riguarda i furti in particolare, pene fino a 4 anni di reclusione sono finte, in galera non ci si va. Per esempio, il nostro Jucan, condannato a 10 mesi, in prigione non ci andrà mai. E sappiate che io ho fatto il giudice e il pm per 41 anni e che di ladri condannanti a più di 4 anni di reclusione ne ho visti al massimo mezza dozzina. Ma non basta. Perché, se un ladro venisse condannato a 5 anni di galera, in realtà ne farebbe 9 mesi, poi uscirebbe per affidamento in prova agli assistenti sociali o, se gli va male, agli arresti domiciliari. Da dove se ne va quando gli pare perché, tanto, i controlli dei carabinieri che hanno - ovviamente - molto altro da fare, sono necessariamente ridotti. Infine, nell’ipotesi fantascientifica di una condanna a 7 anni, il nostro ne farebbe poco più di 2. Allora, che logica c’è nell’esortare la gente ad armarsi per ammazzare i ladri e poi lasciarli impuniti (Camilleri direbbe frischi come un quarto di pollo) quando li prendi? Non sarebbe meglio per Salvini e i suoi elettori (e per tutti quelli che, giustamente, sono arrabbiatissimi con questi delinquenti) modificare in fretta codici e leggi in modo da seppellire in galera gente come Jucas Loren? E lasciare le armi ai custodi dell’ordine? Certo, se poi uno ti arriva in casa, ti minaccia, è perfino armato, allora va benissimo sparargli. Sperando di riuscirci prima che lo faccia lui. Tutto ciò secondo logica. E però. Se la solidarietà di Salvini con gli sparatori, in questo come in altri numerosi casi, dipendesse solo da un calcolo elettorale (gente disinformata e violenta lo vota proprio per atteggiamenti di questo tipo), allora è ovvio che questa pagina gli servirà solo, per dirla con Indro Montanelli, a incartare il pesce comprato al mercato domani. Le grandi svolte politiche? Le decidono i giudici... di Francesco Damato Il Dubbio, 26 febbraio 2019 Da Tangentopoli al governo gialloverde, passando per Berlusconi, Mastella e Matteo Renzi. Come le iniziative della magistratura hanno scritto la storia recente e le leggi del nostro paese. Capisco il fastidio, ed anche qualcosa di più, di un magistrato di punta com’è stato per tanti anni Armando Spataro, e che ne ha scritto su Repubblica del 22 febbraio dopo averne discusso nella Piazza pulita televisiva di Corrado Formigli, a sentir parlare di “giustizia ad orologeria” ogni qualvolta si incrociano le cronache giudiziarie e quelle politiche. Cioè, ogni qualvolta una iniziativa giudiziaria, dall’apertura di un’indagine a un avviso di garanzia, da un arresto cautelare a un rinvio a giudizio, da una richiesta di autorizzazione a procedere a una sentenza, di qualsiasi grado essa sia, coincide con un passaggio politico. E finisce in qualche modo per condizionarne gli sviluppi, volente o nolente il magistrato di turno, o il giornalista che ne tratta. In un paese come l’Italia, dove si è praticamente sempre in campagna elettorale e l’instabilità è cronica anche in assenza di una crisi di governo, ma solo aspettandola o prevedendola, magari senza che nessuno manovri davvero per arrivarvi perché spesso i partiti non riescono a fare neppure questo, lasciandosi sorprendere e precedere dai fatti; in un paese, dicevo, come questo è comprensibile anche che il buon ex procuratore capo della Repubblica di Torino si chieda e chieda all’interlocutore di turno come, quando e chi possa garantire un’azione giudiziaria davvero neutra rispetto al calendario della politica. È come pretendere da un autista di non investire nessuno delle centinaia di gratti che gli attraversano la strada, o dai gatti di farla tutti franca. Capisco Spataro anche quando oppone dialetticamente, elenco alla mano dei provvedimenti approvati dalle Camere su iniziativa del governo di turno o di singoli parlamentari, all’immagine della “giustizia ad orologeria” quella delle “leggi ad orologeria”. Che partono o arrivano, o partono e arrivano, in tempo per cambiare regole giudiziarie scomode a chi guida la baracca del governo, o piegarle comunque agli interessi della maggioranza del momento. E finiscono magari, queste “leggi ad orologeria”, per essere bocciate dalla Corte Costituzionale, che giustamente non è vincolata - ci mancherebbe altro- ai pareri di legittimità espressi in sede parlamentare durante l’esame delle proposte o dei disegni di legge, e neppure alla firma poi apposta, per la pubblicazione e promulgazione, dal presidente della Repubblica. Che qualche volta, sollecitato al rifiuto dalle opposizioni, ha sentito anche il bisogno di motivare la firma con dichiarazioni o comunicati. Convengo con Spataro e col suo elenco a condizione però che l’uno e l’altro ricordino o contengano, rispettivamente, anche le leggi “ad orologeria” inversa, maturate e arrivate a destinazione, o dirottate, per assecondare la magistratura, o il suo lavoro di giornata o di stagione. Penso, per esempio, in ordine rigorosamente di tempo, alla cosiddetta legge Vassalli, dal nome dell’allora ministro della Giustizia. Che nel 1988, pochi mesi dopo un referendum stravinto dai sostenitori della cosiddetta responsabilità civile dei magistrati, ne limitò duramente gli effetti disciplinando la materia in modo tale che le cose tornassero praticamente allo stato di prima, o quasi. Di quella nuova legge, se non ricordo male, fu possibile l’applicazione non più di una decina di volte in una ventina d’anni, tanto bene era stata congegnata per rendere dura la vita a chi avesse voluto usarla. Penso al decreto legge della primavera del 1993 per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, faticosamente varato dal primo governo di Giuliano Amato in una lunghissima seduta del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni telefoniche e d’altro tipo con gli uffici del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, se non con Scalfaro in persona. Che la respinse al mittente solo dopo una clamorosa protesta dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale motivò il suo dissenso, oltre che a difesa del lavoro dei suoi uffici, per smentire che i magistrati impegnati nella famosa inchiesta “Mani pulite” su Tangentopoli avessero in qualche modo contribuito, fra partecipazioni a convegni e conversazioni private, a studiare come uscirne appunto politicamente. Penso alle modifiche apportate in quello stesso anno all’articolo 68 della Costituzione, con tutte le complesse modalità del caso, per ridurre le immunità parlamentari e rendere più spedito il lavoro della magistratura. Che da allora fu costretta al vecchio istituto della richiesta di autorizzazione a procedere solo per l’arresto, le perquisizioni e le intercettazioni dei deputati o senatori indagati, destinati peraltro a finire lo stesso sotto controllo indiretto, perché chiamati o incontrati da intercettati. Si intervenne anche sui regolamenti parlamentari, o sulle prassi, per togliere l’incomodo delle votazioni a scrutinio segreto dopo le sorprese da esse riservate per alcune delle vecchie autorizzazioni a procedere chieste a carico di Bettino Craxi e bocciate a Montecitorio nella primavera del 1993, col seguito immondo delle monetine lanciate contro il leader socialista all’uscita dall’albergo romano in cui abitava. Poi sul processo per mafia a Giulio Andreotti si votò, per esempio, nell’aula del Senato alzando la mano. E l’alzò persino Andreotti, dal suo scranno di senatore a vita rimasto segnato dalla storica gobba ricordato di recedente dalla presidente dell’assemblea nel centenario della nascita dell’ex presidente del Consiglio. Egli volle così allontanare da sé il sospetto già di per sé infamante che non fidasse abbastanza della giustizia, e dei suoi gestori, o gestanti. Penso al decreto legge varato nel 1994 dal primo governo di Silvio Berlusconi per limitare il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Esso fu quella volta regolarmente firmato da Scalfaro, sempre al Quirinale, ma bastò un proclama congiunto dell’allora sostituto Antonio Di Pietro e dei suoi colleghi della Procura di Milano per fare rinsavire, diciamo così, nella maggioranza ministri e parlamentari della Lega di Umberto Bossi, che lo lasciarono decadere minacciando la crisi. Ma essa sopraggiunge lo stesso, dopo qualche mese, peraltro in coincidenza con un avviso a comparire notificato all’ancora presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo stampa, mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla lotta alla criminalità promossa a Napoli dalle Nazioni Unite. Potrei continuare, e anche a lungo, ma credo che possa bastare e avanzare per chiudere questa parte del discorso o delle riflessioni sortemi spontanee di fronte a quelle di Spataro, e passare agli effetti politici comunque prodotti con regolarità, direi, dalle iniziative giudiziarie casualmente o appositamente incrociatesi - orologio al polso o no- con l’azione del governo di turno o con lo sviluppo dei rapporti fra e nei partiti. E qui mi permetto di cominciare dalla coda, anziché dalla testa, di salire cioè dai fatti più recenti ai più lontani. Si può ormai considerare respinta la richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di processare per sequestro aggravato di persona, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora il vice presidente leghista e ministro dell’Interno Matteo Salvini, in riferimento alla gestione degli oltre 170 immigrati soccorsi in alto mare nella scorsa estate dal pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera italiana e trattenuti per alcuni giorni a bordo nel porto di Catania, prima di essere sbarcati e distribuiti fra più paesi. Manca solo il bollo finale della votazione nell’aula del Senato, dove ben difficilmente potrebbero cambiare gli schieramenti prevalsi col no nella competente giunta presieduta da Maurizio Gasparri. Ma la richiesta è bastata e avanzata prima a portare il governo sull’orlo della crisi, evitata solo quando gli esponenti grillini, a cominciare dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, si sono assunti la corresponsabilità degli addebiti mossi giudiziariamente a Salvini. E ciò anche a costo di aprire a loro volta, direttamente o indirettamente, una crisi all’interno del movimento delle cinque stelle, non so se più fortunosamente o più fortunatamente risolta dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio col ricorso al referendum digitale: quello in cui il no al processo è prevalso col 59 per cento dei voti contro il 41. Al di là, e persino contro il vantaggio d’immagine anche elettorale attribuito a Salvini per questa vicenda, probabilmente destinato alla certificazione anche nei risultati delle votazioni di fine maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, è tuttavia derivata nella maggioranza di governo una riduzione del potere contrattuale del suo partito. Che ha dovuto compensativamente accettare, sia pure tra smentite, precisazioni e quant’altro, il rallentamento, quanto meno, delle decisioni sulla Tav, o sulla versione maschile preferita dai grillini leggendo il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, e sulle cosiddette autonomie differenziate. Che sono poi le autonomie rafforzate delle regioni del Nord, rivendicate dai leghisti e temute da quelle del Sud più rappresentate, nella maggioranza, dai grillini. Compensativo, ma di segno opposto, è risultato il rafforzamento della dura gestione salviniana dell’immigrazione, con la chiusura accelerata dei centri di raccolta e la sostanziale dispersione di quanti vi erano contenuti. Non parliamo poi delle complicazioni sociali derivanti dall’applicazione della nuova legge sulla sicurezza: tanto contestata da essere stata impugnata da un bel po’ di regioni davanti alla Corte Costituzionale. E non parliamo neppure delle proteste dei sindaci sostanzialmente capeggiati da quello di Palermo, Leoluca Orlando, che ha autorizzato l’iscrizione all’anagrafe del suo Comune anche dei titolari dei permessi umanitari scaduti. Il cosiddetto tribunale catanese dei ministri, cioè il collegio dei tre giudici sorteggiati al posto del giudice delle indagini preliminari a carico dei cittadini comuni, non era certamente tenuto a valutare questi ed altri effetti politici della sua iniziativa, presa peraltro in difformità dall’archiviazione proposta dalla Procura della Repubblica. Ma non sarebbe stata preferibile una maggiore riflessione? Me lo chiedo ricordando anche le raccomandazioni fatte dall’attuale capo dello Stato e dal suo predecessore negli incontri usuali con le matricole, diciamo così, della magistratura ad esercitare le loro delicatissime funzioni non estraniandosi mai dal “contesto” dell’azione giudiziaria. Inquirenti, divulgatori e quant’altro del cosiddetto affare Consip, affacciatosi sulle prime pagine dei giornali verso la fine del 2016 ma esploso agli inizi del 2017, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale targata Matteo Renzi, le dimissioni di quest’ultimo da presidente del Consiglio e la sua conferma a segretario del Pd, possono considerarsi estranei o indifferenti alle sue ricadute politiche? Che si tradussero quanto meno nell’indebolimento ulteriore del pur confermato segretario del Pd, oggi alle prese con gli arresti domiciliari dei suoi anziani genitori per altre vicende ancora, ma già allora non più così forte da fare prevalere, nelle riflessioni e valutazioni spettanti al presidente della Repubblica, la sua linea del ricorso anticipato alle urne. Che Renzi reclamava per cercare di investire su quel rilevante 40 per cento finito in minoranza nel referendum costituzionale. Anziché le elezioni anticipate, Renzi ottenne, diciamo così, il logoramento fisiologicamente derivante dall’ultimo anno della legislatura, aggravato nel suo caso dalla scissione del partito promossa da Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani ed altri. A cose fatte, cioè ad elezioni avvenute alla scadenza ordinaria, il 4 marzo dell’anno scorso, col Pd ridotto a meno del 19 per cento dei voti, i grillini saliti a più del 32 e i leghisti disposti a dare loro una mano al governo col permesso di un alleato come Silvio Berlusconi, stressato politicamente dal sorpasso di Salvini e non certo invogliato da un ricorso anticipato alle urne, Renzi non riuscì a trattenere per sé la voglia di spalmare sulla sua ferita almeno l’unguento di una recriminazione contro Mattarella. E ancor più contro il suo successore a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, dal quale l’ancora segretario del Pd si era aspettato inutilmente una mano per accelerare la fine della diciassettesima legislatura. Effetto collaterale, a dir poco, di una iniziativa giudiziaria - quella dell’arresto della moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella - fu nel 2008 la caduta del secondo ed ultimo governo di centrosinistra di Romano Prodi. La cui crisi si trascinò appresso le Camere elette solo due anni prima e consentì il ritorno di Berlusconi col suo centrodestra a Palazzo Chigi, nonostante il 30 per cento e più riscosso nelle urne dal Pd fondato l’anno prima con vocazione cosiddetta maggioritaria da Walter Veltroni. Ma anche Berlusconi incrociò, anzi tornò ad incrociare sulla sua strada un bel po’ di guai giudiziari che ne aggravarono quanto meno le difficoltà politiche, sino al collasso dell’autunno 2011 e all’arrivo del governo tecnico di Mario Monti. Saranno stati tutti casi, tutte coincidenze, tutte fatalità. Ma è curioso che la strada della politica italiana sia così affollata di uffici giudiziari e di botteghe di orologiai. Legittima difesa, la maggioranza deve frenare di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 febbraio 2019 La legge che allarga le maglie della legittima difesa, uno dei provvedimenti bandiera della Lega al quale Salvini ha voluto tirare la volata con la sua visita in carcere a Piacenza all’imprenditore condannato per tentato omicidio di chi voleva rubargli il gasolio, non sarà approvata dalla camera entro il mese di febbraio. Salvini, che l’aveva promessa ai suoi elettori per la fine dell’anno scorso, poi per la fine di questo mese, dovrà attendere. E non perché i 5 Stelle, che pure non sono entusiasti del provvedimento, stiano alzando chissà quali barricate. La principale causa del ritardo è l’eccesso di zelo del relatore leghista in prima lettura, al senato, che volle introdurre una copertura di spesa - la legge prevede infatti il gratuito patrocinio per i pistoleri domestici - anche per l’anno 2018. Bisognerà correggerla con un altro passaggio al senato. Intanto però alla camera i tempi di discussione non sono contingentati, dal momento che questo è il primo mese nel quale il disegno di legge è in calendario. Sarebbe in ogni caso approvata a marzo e dunque per la maggioranza cambia poco se oggi, prima o dopo la bocciatura certa delle pregiudiziali di costituzionalità presentate dalle opposizioni, sarà scavalcata da un altro argomento, come l’istituzione di una (nuova) commissione sul sistema bancario. Intanto sulla visita di Salvini alla casa circondariale di Piacenza si moltiplicano i commenti, l’unico a restare freddo è l’avvocato difensore di Angelo Peveri, Paolo Fiori. Nel corso dei processi di merito (rito abbreviato in primo grado e poi appello) il legale si era ben guardato dal sollevare la legittima difesa, visto che la ricostruzione della procura racconta di due colpi partiti dal fucile a pompa dell’imprenditore verso la persona che aveva cercato di rubare del gasolio alcune ore dopo i fatti, sul greto di un torrente, esplosi dall’alto in basso verso una persona disarmata, ferita e stesa in terra. Nessuna fretta del difensore nemmeno sulla richiesta di grazia, anticipata da Salvini, dal momento che “per valutare abbiamo bisogno di conoscere tutti gli atti e la sentenza della Cassazione non è stata ancora depositata”. In effetti è di pochi giorni fa. Inoltre l’avvocato difensore sa benissimo che qualsiasi richiesta di grazia si basa su un periodo di espiazione della pena. Peveri è in carcere, condannato a quattro anni e sei mesi, da una settimana. Si discute ancora all’interno della magistratura, dopo che l’Associazione nazionale ha criticato le dichiarazioni di Salvini sul caso Peveri e la corrente di destra delle toghe Magistratura indipendente, ha preso le distanze dalla nota. Area democratica per la giustizia, la corrente delle toghe progressiste, ha scritto ieri che “Quando sono messe costantemente in discussione le prerogative della magistratura, l’Anm non può restare timida o inerte. Ritenere che la rinuncia a fornire il nostro contributo, anche critico, sui provvedimenti normativi, valga a salvaguardare la nostra autonomia e indipendenza riflette una visione di retroguardia” Davigo attacca continuamente la Costituzione e per l’Anm va tutto bene di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 febbraio 2019 Piercamillo Davigo è tornato a dissertare di diritto. E come al solito il Dottor Grossolano, quando si tratta di esaminare e dissezionare i problemi della giustizia, al bisturi preferisce l’accetta. Il problema è che sul ceppo su cui abbatte la scure delle proprie sentenze poggia la Costituzione. La scorsa settimana era toccato all’art. 111, quello che dice che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. L’esecuzione, in senso capitale, dell’art. 111 è avvenuta durante il talk-show di Floris: “Le parti nel processo non possono essere uguali, perché se il pm va in udienza sapendo che l’imputato è innocente e ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia. Se il difensore dice al giudice che il suo cliente è Jack lo squartatore commette reato di infedele patrocinio. Che uguaglianza può esserci tra una parte che è punita se mente e un’altra che è punita se dice la verità?”. Niente parità: il pm dice la verità e gli avvocati dicono le bugie. Il concetto è stato ribadito alla Stampa: “L’unica parte buona del processo è il pm, per definizione legislativa. Le parti private fanno i propri interessi”. Nella stessa intervista ha amputato la Costituzione anche dell’art. 27, quello secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Tanti sono i risarcimenti per ingiusta detenzione, ma per Davigo “in buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. Il Dottor Grossolano, che evidentemente si ispira alla dottrina di Mario Michele Giarrusso più che a quella di Cesare Beccaria, riconosce i colpevoli senza il bisogno di una sentenza al termine di un giusto processo. Il problema è che, a differenza del manettaro grillino Giarrusso, Davigo è un giudice di Cassazione e membro del Csm. E forse l’Anm, oltre alle risposte alle sparate di Salvini, dovrebbe trovare il tempo per dire qualcosa sugli attacchi eversivi, perché contrari ai princìpi costituzionali, del dottor Davigo. Per farlo, però, dovrebbe prima aprire una riflessione per spiegare come sia stato possibile che chi fa affermazioni così grossolane sia stato eletto presidente dell’Anm e consigliere più votato dai magistrati del Csm. Omicidio colposo per chi prescrive farmaci pericolosi senza fare analisi di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 25 febbraio 2019 n. 8086. Omicidio colposo per il medico che prescrive una sostanza altamente tossica a una propria paziente che invece di farla dimagrire ne provoca il decesso. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 8086/18. La vicenda. I Supremi giudici si sono trovati alle prese con una vicenda in cui una donna affetta da obesità si era recata da un dietologo che le aveva prescritto il farmaco fendimetrazina insieme ad altri farmaci. La paziente aveva seguito la cura, era dimagrita di 40 chili ma a caro prezzo. Era intervenuta una complicazione arteriosa e un peggioramento delle condizioni cardiache che l’avevano portata alla morte. Contro la decisione di colpa dei giudici di merito il medico ha esposto un unico e articolato motivo di ricorso secondo cui avrebbe adoperato la dovuta diligenza prescrivendo alla donna una dieta ed esercizio fisico al fine di far perdere peso. Aveva altresì fatto presente alla donna come l’obesità potesse causare malattie molto gravi quali cardiopatie ischemiche, tumori e ipertensioni. La difesa precisa, inoltre, che era la stessa perizia ad affermare che la donna non fosse affatto un soggetto in buona salute e che la prospettiva della morte non era per nulla estranea al suo orizzonte temporale nel medio periodo. Veniva evidenziato, inoltre, come per la fendimetrazina non ci fosse un divieto assoluto di somministrazione. Come se non bastasse la difesa aveva eccepito come nel paziente non era stato possibile accertare la presenza di altre patologie occulte che avessero decretato la morte. Di ben altro avviso i Supremi giudici. Hanno rilevato innanzitutto come per il farmaco in questione fosse vietata la somministrazione per più di tre mesi (condizione non rispettata nel caso de quo). Il precedente grado di giudizio. Già la Corte d’Appello aveva concluso nel senso che la condotta dell’imputato consentiva di affermare che il decesso fosse imputabile al dietologo, essendo l’evento non solo evitabile ma addirittura prevedibile. Prevedibile perché il professionista aveva omesso di eseguire le analisi più comuni come l’esame del sangue e la misurazione della pressione. Misure queste che rappresentano l’abc per chi esercita la professione medica. La Cassazione non si è soffermata nemmeno sulla censura che il principio attivo non fosse vietato in altri Paesi. Nel caso - conclude la decisione - si è trattato di una serie di comportamenti omissivi così gravi da dover decretare la piena responsabilità penale del medico. Bolzano: il servizio Odòs per i detenuti compie vent’anni interris.it, 26 febbraio 2019 Un convegno promosso dalla Caritas di Bolzano-Bressanone, per ricordarlo. “Liberare la pena”. Questo il titolo del convegno che la Caritas di Bolzano-Bressanone organizza venerdì 1° marzo, dalle 9.30 alle 16.30 nella sala di rappresentanza del Comune di Bolzano, per celebrare i vent’anni del servizio Odòs. Era, infatti, il 1° marzo del 1999 quando partì in via sperimentale, in un appartamento di viale Druso a Bolzano, il progetto pilota Odòs, indirizzato a detenuti, ex-detenuti, persone in attesa di giudizio e persone private della libertà. “È un importante traguardo - racconta Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio. Noi però vogliamo guardare ai prossimi 20 anni e interrogarci insieme, grazie ai relatori invitati, sugli aspetti pedagogici e giuridici da seguire in futuro, per un nuovo modello di giustizia, più umano, perché più carcere non vuol dire più sicurezza”. In questi vent’anni oltre 400 persone sono state ospitate dalla struttura della Caritas, che si trova ora in viale Venezia, casa d’accoglienza e punto di consulenza per detenuti, ex-detenuti, persone in attesa di giudizio e familiari. Nella discussione e nel confronto che caratterizzeranno il convegno di venerdì, oltre agli operatori locali del settore interverranno anche pedagogisti di caratura nazionale come Duccio Demetrio, professore dell’Università Bicocca e fondatore della Lua, e Ivo Lizzola, professore ordinario presso l’Università di Bergamo. Spazio sarà dato anche alle testimonianze, come quella di Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di piazza della Loggia, che parlerà dell’importanza di incontrare i responsabili del male per non restare chiusi nella logica del rancore e della rivalsa, e quella di alcun ospiti che sono stati accolti negli ultimi anni nella struttura della Caritas e che hanno concluso positivamente il loro percorso di reinserimento nella società. Treviso: prevenire il suicidio in carcere, l’Ulss 2 organizza un convegno qdpnews.it, 26 febbraio 2019 In situazioni particolari, come quella della detenzione, il rischio di suicidio è diciannove volte maggiore che nella popolazione generale. E se in questi anni la percentuale di suicidi nei cittadini “liberi” è stabile, quella nelle carceri è in costante aumento. “la prevenzione del suicidio in carcere”, è il titolo dell’interessante convegno in programma mercoledì 27 febbraio dalle ore 09.00 nella Sala Convegni Biblioteca Ospedale Ca Foncello. Aprirà i lavori il dottor Gerardo Favaretto, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale, con un ampio excursus storico sul rapporto tra carcere e manicomio, un argomento che sembrava legato ai secoli scorsi, ma che è purtroppo attuale anche oggi. Sarà poi la volta del medico legale Elvio Bellini sulle responsabilità degli operatori in caso di suicidio di un assistito. Particolarmente importante il contributo del Comandante del Reparto della Casa Circondariale Andrea Zema, sulla difficile gestione degli ospiti in un struttura chiusa. Infine, lo psichiatra Stefano Sanzovo del Centro di Salute Mentale di Treviso, illustrerà i protocolli di prevenzione, da quelli nazionali a quelli regionali, fino alle esperienze locali. L’iscrizione è aperta a tutti. Roma: suicida in carcere due anni fa, la madre “non doveva essere lì, voglio giustizia” di Simona Berterame roma.fanpage.it, 26 febbraio 2019 Valerio Guerrieri non aveva ancora compiuto 22 anni quando si è tolto la vita impiccandosi in una cella del carcere romano di Regina Coeli. Era il 24 febbraio 2017, il giovane viene trovato nel bagno della sua cella con un lenzuolo legato al collo. A due anni da quel fatto sono in piedi due diversi filoni processuali. Da una parte quello che vede coinvolti alcuni agenti di polizia penitenziaria e personale medico del carcere, accusati di omicidio colposo; dall’altro quello relativo al trattenimento senza titolo del giovane all’interno dell’istituto penitenziario. Valerio Guerrieri non aveva ancora compiuto 22 anni quando si è tolto la vita impiccandosi in una cella del carcere romano di Regina Coeli. Era il 24 febbraio 2017, il giovane viene trovato nel bagno della sua cella con un lenzuolo legato al collo. Dieci giorni prima il giudice, alla termine del processo che si era concluso con una condanna a 4 mesi per resistenza a pubblico ufficiale, aveva revocato la custodia in carcere e deciso per il trasferimento del ragazzo in una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). A Valerio vengono riconosciuti dei problemi psichiatrici e l’incompatibilità con il carcere, oltre ad essere messo nero su bianco il rischio che tentasse di togliersi la vita. Invece rimarrà in cella nell’attesa di un posto libero. “Regina Coeli è un caos. Non ce la faccio. Mi sveglio e soffro. Soffro mentalmente. Mandatemi a casa. Mi curo” queste sono state le ultime preghiere inascoltate di Valerio. I due processi sulla morte di Valerio Guerrieri - A due anni da quel fatto sono in piedi due diversi filoni processuali. Da una parte quello che vede coinvolti alcuni agenti di polizia penitenziaria e personale medico del carcere, accusati di omicidio colposo; dall’altro quello relativo al trattenimento senza titolo del giovane all’interno dell’istituto penitenziario. “Mentre per il primo filone di inchiesta, quello sull’omicidio colposo, si è già arrivato al rinvio a giudizio degli indagati, sulla questione del trattenimento senza titolo nei mesi scorsi fu chiesta l’archiviazione del caso. Richiesta a cui ci siamo opposti”, spiega Simona Filippi, avvocato della madre del ragazzo e dell’Associazione Antigone. “Il giudice - prosegue il legale - ha accolto la nostra opposizione ordinando al PM di iscrivere i presunti responsabili nel registro degli indagati”. La battaglia di Ester, la mamma di Valerio - Ester Morassi, la mamma di Valerio che da due anni lotta per avere giustizia su una morte assurda, ha annunciato la volontà. “La posizione di Regina Coeli non può essere archiviata, sono i primi responsabili - afferma con forza la mamma Ester a Fanpage.it - è il luogo dove mio figlio è stato portato a togliersi la vita. Credono forse che Valerio si sia impiccato in mezzo alla strada?”. Ester getta ombre inquietanti sulle ultime ore di vita del figlio: “Prima ha chiesto la terapia del sonno e poi quella del dolore. Perché? Cosa gli è successo in carcere?”. Tante domande che finora non trovano risposta: “Perché non c’è una lettera di addio? Non ci credo che mio figlio non ha scritto due righe per la mamma, per la sua famiglia”. Le ultime parole ricevute da Valerio risalgono al giorno prima del suicidio, dove in una breve lettera il ragazzo le scrive: “Sto male, sto facendo le fiale per la schiena e non posso comprarmi neanche un pacco di biscotti ma vabbè basta che non sento dolore. Mà ti voglio bene, ti aspetto qui”. “La speranza è l’ultima a morire ma non ho più fiducia nella giustizia ormai”, conclude Ester. Antigone: “Persone come Valerio non possono trovarsi in carcere” - Pochi giorni dopo la morte del figlio, Ester si è rivolta all’associazione Antigone, inviandogli la lettera scritta dal figlio qualche giorno prima di suicidarsi. “Il caso di Valerio Guerrieri non è l’unico caso di trattenimento illegittimo in carcere di cui abbiamo avuto notizia. Purtroppo, a differenza di altri, è stato però un caso che ha avuto un epilogo tragico” dichiara ancora Patrizio Gonnella. “Per questo siamo impegnati nella ricerca della giustizia. Per Valerio, ma anche per affermare un principio fondamentale, che persone come lui non si possono curare dietro le sbarre, ma le si dovrebbe curare affidandole al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi del territorio”. Potenza: la Corte costituzionale nelle carceri, arriva il giudice Franco Modugno agenparl.eu, 26 febbraio 2019 Nella “Sala Di Lorenzo” dell’Istituto, dopo una lezione che prenderà spunto dal frammento di Costituzione “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali”, il giudice risponderà alle domande che detenute e detenuti vorranno rivolgergli. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri tra i giudici e i detenuti in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. Sono seguiti, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano e Potenza, seguiranno le carceri di Padova, Napoli, Bologna. I giornalisti e i cineoperatori interessati a seguire di persona l’incontro dovranno accreditarsi entro martedì 26 febbraio, ore 17,00, inviando una e-mail con nome e testata a tutti e due questi indirizzi: l’ingresso al carcere di Potenza sarà consentito tra le 13.15 e le 13.45 di mercoledì 27 febbraio. Trieste: mostra di quadri dei detenuti di Tolmezzo ilfriuli.it, 26 febbraio 2019 Inaugurazione di “Ultimi e invisibili - Progetto Comunic-arte”, giovedì 28 febbraio, nella sede del Consiglio regionale, a Trieste. Esposizione visitabile sino a venerdì 22 marzo. Quadri realizzati dai detenuti della casa circondariale di Tolmezzo: si inaugura alle 13.30 di giovedì 28 febbraio presso la sede del Consiglio regionale (piazza Oberdan 6, Trieste) e sarà visitabile sino a venerdì 22 marzo prossimo “Ultimi e invisibili - Progetto Comunic-arte”, rassegna espositiva organizzata dal Garante regionale dei diritti della persona in collaborazione con l’Assemblea legislativa e con il supporto del Lions club Pordenone Naonis. L’iniziativa registra, inoltre, il benestare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Il sentimento che anima la mostra si basa sul desiderio di far conoscere ai più le realtà che vivono nel disagio, come quella carceraria. Il mezzo di tale conoscenza, le parole non scritte ma rappresentate visivamente dagli stessi detenuti attraverso i loro dipinti. Ecco allora che potremo comprendere meglio cosa sia il tempo, la calma dopo la grande tempesta, un bacio, un urlo, la luna nella notte piuttosto che il dramma di Amatrice per chi il proprio tempo lo trascorre dietro le sbarre. Gli orari di apertura al pubblico saranno da lunedì a giovedì dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 17.30, il venerdì dalle 9.30 alle 13.00. Napoli: carcere e diritti dei detenuti sul palco di Forcella Il Roma, 26 febbraio 2019 Nella “Biblioteca Annalisa Durante” debutta “Il Capocella”. Il mondo carcerario arriva a Forcella e lo fa attraverso il palcoscenico. L’appuntamento è per sabato 23 febbraio, a partire dalle ore 10.30, a Piazza Forcella, in via Vicaria Vecchia 23. Nella struttura dove ha sede la Biblioteca “Annalisa Durante” si svolgerà lo spettacolo “Il Capocella”, tratto dal romanzo di Vincenzo Russo, autore della drammaturgia del testo, la cui regia è affidata a Costantino Punzo. L’arte dunque come spunto di riflessione sul carcere. Intorno al tema dei detenuti e dei loro diritti discuteranno, prima della messinscena, rappresentanti delle istituzioni e dell’associazionismo: il deputato Paolo Siani; il consigliere regionale Gianluca Daniele; l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli Gaetano Daniele; il sindaco di San Giorgio a Cremano Giorgio Zinno; il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Riccardo Polidoro; la direttrice del carcere di Poggioreale Maria Luisa Palma; Il direttore del carcere minorile di Nitida Gianluca Guida; il direttore della Pastorale carceraria don Franco Esposito; il presidente dell’associazione “Annalisa Durante” Giuseppe Perna; il presidente dell’associazione “Gioco di squadra” Onlus Carmela Esposito; l’attivista per i diritti dei detenuti Pietro Ioia. Interpreti dello spettacolo: Peppe Carosella, Flavio D’Alma, Emanuele Iovino (che è anche assistente alla regia), Carlo Paoletti, Melania Pellino, Francesco Rivieccio. Scenografia di Ilaria Lieto con il supporto di Ciro Punzo, ricerche musicali di Gaetano Riccio, tecnico luci e audio Simone Somma. “È un onore per me che tanti seri e bravi professionisti si siano interessati al romanzo. Il nostro principale obiettivo è di emozionare e invitare al dialogo su un tema così importante”, dichiara Russo. La storia racconta le sfortunate vicende criminali di Claudio, costretto a delinquere in seguito a un’adolescenza difficile e a un impossibile inserimento nel mondo del lavoro, fino al momento in cui la sua vita s’interseca a quella di Teodoro, un Capocella, termine con il quale si è soliti definire, in gergo carcerario, il detenuto con più anzianità detentiva in quella cella. Claudio e Teodoro però sono anche accomunati dalla consapevolezza di essere due persone in realtà estranee al malaffare, finite nel carcere di Poggioreale solo a causa di particolari circostanze fortuite. Anche per questo, tra i due nel tempo nasce un sincero rapporto di amicizia e affetto, per cui il Capocella sarà in grado di cambiare in meglio la vita di Claudio. Razzismo e nuovo antisemitismo. L’eterno cuore dell’odio globale di Milena Santerini* Avvenire, 26 febbraio 2019 Un “nuovo antisemitismo” si aggira per l’Europa. Nei momenti di crisi, quando cresce la paura e si alzano i muri, non vengono colpiti solo gli immigrati, ma torna anche il “nemico innocente” di sempre, l’ebreo. Troppo simili e insieme considerati diversi, gli ebrei inquietano cuori e menti chiusi nei propri timori. Nel dopoguerra, dopo la Shoah, è stata eretta una sorta di barriera per impedire il discorso razzista e antisemita; ma oggi, appena finite le iniziative per gli ottanta anni delle leggi razziali italiane, si assiste a una sorta di “liberazione” della violenza verbale e della denigrazione, dell’insulto del pregiudizio, insomma dell’ostilità verso il bersaglio di sempre. Cimiteri profanati, scritte ingiuriose, cori allo stadio. Il web diffonde messaggi e meme che confermano l’avversione. Cresce in Italia e in Europa questo odio sottile, banalizzato e diffuso che può portare in ogni momento a gesti o atti criminosi. Le ingiurie a Alain Finkielkraut (peraltro spesso polemico verso la società aperta e l’immigrazione) da parte dei gilets jaunes a Parigi ha provocato una reazione morale e una forte preoccupazione: dietro quegli attacchi “antisionisti” si nasconde un vero antisemitismo? La questione è molto complessa. Chi si occupa del tema sa bene che gli atti ostili contro gli ebrei seguono in parallelo gli eventi in Medio Oriente e che una delle tante forme del “nuovo antisemitismo” ha origine nelle accuse a Israele per la questione palestinese. Già nel 1974, in una ricerca sull’antisemitismo a Roma, si osservava la nascita di un corto circuito per cui gli ebrei venivano assimilati allo Stato di Israele e, negli ultimi anni, la questione dell’antisemitismo è divenuta inseparabile dalla guerra Israele-Palestina. Il termine Sionismo (da Sion, antico nome di Gerusalemme) è stato coniato alla fine del XIX secolo per indicare il movimento nazionalista e l’ideologia politica che intendeva restituire una terra e una patria agli ebrei in diaspora. Ha suscitato un’opposizione di marca liberale, socialista o ebraico-ortodossa. Tale opposizione non è la stessa cosa dell’odio antisemita che vuole distruggere gli ebrei come “entità”. Si può essere antisionisti senza per questo essere antisemiti. Tuttavia, oggi, sempre più spesso, non siamo di fronte alla legittima critica alla politica di Israele, ma a uno scivolamento verso i cliché antisemiti del passato. Già nel 1988 un Documento del Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace su “La Chiesa e il razzismo” osservava che il rapporto tra antisemitismo e antisionismo non era di identificazione, ma “l’antisionismo - che non è dello stesso ordine, poiché riguarda lo Stato d’Israele e la sua politica - serve talvolta come uno schermo per l’antisemitismo, alimentandolo e portando a esso”. Insomma, esiste un pericoloso amalgama tra i due atteggiamenti; l’antisemitismo può riemergere e si può nascondere dietro la critica a Israele. Accanto all’antisemitismo di “destra” razzista si diffonde sempre di più quello terzomondista e anti-imperialista, forse perché, come osserva Gadi Luzzatto Voghera, sembra più presentabile di quello “classico” che ha portato alla Shoah; mentre la memoria impallidisce, scrive il rabbino Jonathan Sacks, si accusa di razzismo Israele. La sua diffusione tra gli immigrati musulmani e le giovani generazioni islamiste radicali fa il resto. Molti rivendicano il diritto di criticare Israele. Ma si passa il confine quando si difende la causa dei diritti umani solo dei Palestinesi, quando dagli “ebrei” si passa all’ebreo, quando si tende a sottolineare e esagerare l’influenza di Israele, quando le illustrazioni alludono al deicidio da parte dei soldati israeliani, sovrappongono l’idea del capitale ebraico alla politica israeliana e così via. Per contrastare l’odio del XXI secolo bisogna decifrare l’amalgama tenendo conto del potere dell’immaginario collettivo nel rievocare miti e menzogne. Si devono individuare le zone d’ombra che fanno dell’antisemitismo un nodo cruciale, una sorta di luogo simbolico in cui si gioca la possibilità di apertura all’altro e alle differenze, oppure la chiusura nel pregiudizio e nell’intolleranza. L’altro viene destoricizzato, ridotto a simbolo, categorizzato anziché considerato nella sua specificità e nei suoi tratti di comune umanità. L’odio globale - fosse verso ebrei, musulmani, rom, immigrati, donne o altri - va contrastato in tutte le sue forme. *Ordinario di Pedagogia, Università Cattolica del Sacro Cuore e vicepresidente del Memoriale della Shoah di Milano Gli indigenti di serie B creati dal reddito di cittadinanza di Rita Querzè Corriere della Sera, 26 febbraio 2019 Per non vedersi sfilare l’assegno, invece, il disoccupato con la Naspi dovrà accettare stipendi più bassi. Per lui, infatti, la perdita all’indennità scatta quando il lavoro rifiutato vale più dell’80% della Naspi. Una nuova categoria di poveri si aggira per il Paese. Sono i poveri di serie B. Quelli non abbastanza sul lastrico per aver diritto al reddito di cittadinanza. Ma che proprio per questo dal primo aprile si troveranno in cima alla classifica del disagio. Prendiamo chi perde il posto di lavoro, resta disoccupato e per questo intasca la Naspi, la vecchia disoccupazione. I percettori di reddito di cittadinanza perderanno il sussidio solo se rifiuteranno un lavoro da 858 euro al mese e oltre. Per non vedersi sfilare l’assegno, invece, il disoccupato con la Naspi dovrà accettare stipendi più bassi. Per lui, infatti, la perdita all’indennità scatta quando il lavoro rifiutato vale più dell’80% della Naspi. Che a sua volta vale il 75% della retribuzione prima del licenziamento. Morale: chi guadagnava mille euro al mese dovrà accontentarsi di buste paga da 600 euro in su. Non è finita qui. Al povero “naspizzato” - appellativo che è già di per sé una vessazione - è appena stato scippato l’assegno di ricollocazione. Si tratta di una dote che va da 200 a 5.000 euro da spendere per riqualificarsi in modo da ritrovare più facilmente un nuovo posto. Il decretone su reddito di cittadinanza e quota 100 lo ha sfilato ai disoccupati per passarlo ai poveri del reddito di cittadinanza. A pagare l’assegno ai poveri è chi ha perso il lavoro. A questo punto il rischio è che ai disoccupati non resti che sperare il peggio: diventare poveri anch’essi e ottenere l’assegno di ricollocazione. Un paradosso. Ma fino a un certo punto. Dagli anni ‘90 in poi avevamo a fatica cambiato mentalità. E ci eravamo convinti che avesse più senso aiutare chi ha perso il lavoro a trovarne uno nuovo invece di mettergli in tasca un po’ di soldi, i cosiddetti ammortizzatori sociali. Ora la marcia indietro. Ma siamo sicuri che sia la strada migliore? Conto alla rovescia per Radio Radicale. “Il governo la salvi” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 febbraio 2019 La chiusura di Radio Radicale non deriva da una mancanza di soldi ma da una chiara volontà politica di silenziare quello che succede nelle Istituzioni: è quanto emerso da una conferenza convocata ieri presso l’Associazione Stampa Estera per salvare la radio fondata oltre 42 anni fa da Marco Pannella. “Dopo 3 giorni di Congresso italiano del Partito Radicale dedicato proprio alla salvezza di Radio Radicale - ha dichiarato Maurizio Turco, editore dell’emittente - e avendo constatato la censura dell’evento da parte della maggior parte della stampa italiana, siamo qui per far conoscere quello che sta succedendo”. Ossia che il 21 maggio potrebbero spegnersi i microfoni della radio che, come ha ribadito il direttore Alessio Falconio, “porta le istituzioni a casa delle persone, senza alcuna intermediazione”. Per l’amministratore Paolo Chiarelli, al momento “il futuro è incerto. In teoria ci potrebbe essere un ripensamento da parte del Governo, la vendita dell’emittente ad un soggetto commerciale, oppure fare un contratto con la Rai che ci paghi per far continuare il servizio che stiamo portando avanti adesso: non solo le dirette parlamentari, ma anche i processi, gli eventi del Csm, i congressi dei partiti, etc.”. Con la Radiotelevisione italiana si sono aperti dei fronti di dialogo, quella che manca invece è una interlocuzione col Governo; dopo l’incontro del 4 agosto con il sottosegretario con delega all’Editoria, Vito Crimi, e il successivo di natura tecnica al Mise i rapporti con i vertici del Movimento 5 Stelle e della Lega si sono interrotti. “Abbiamo tentato più volte di parlare con loro - dice al Dubbio Falconio - ma non abbiamo mai ricevuto riscontro. Noi siamo qui con un atteggiamento propositivo”. Gli fa eco Turco: “un ripensamento del Governo non rappresenterebbe un atto di debolezza, al contrario sarebbe un atto di forza di chi in questi mesi ha approfondito la questione e ha capito che il servizio che forniamo è di vitale importanza. Se così non fosse da domani il Parlamento non potrebbe più parlare ai cittadini”. La conferma che non si tratta di una questione finanziaria, ma politica, Chiarelli la deduce dal fatto che “nella stessa legge di bilancio in cui hanno tagliato a noi i fondi, il Governo ha però dato 80 milioni in più alla Rai. Perché? Se ci pensiamo bene un anno di costi di Radio Radicale è pari ad un giorno di costi della Rai”. Se le porte Palazzo Chigi restano al momento chiuse, quelle delle opposizioni tutte sono aperte a Radio Radicale: l’emendamento del forzista Renato Brunetta che chiedeva il rinnovo della convenzione è stato sottoscritto da tutte le opposizioni. E il direttore Falconio ha tenuto a ringraziare tutte le massime cariche dello Stato che si sono espresse pubblicamente a sostegno della radio: dalla Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati al vice Presidente del CSM David Ermini, a Giorgio Lattanzi, Presidente della Corte Costituzionale. E ieri ha lanciato un appello anche al “Presidente della Repubblica e a tutto il Parlamento, per aiutarci ad aiutarli a dare loro voce”. E non sono stati pochi gli esponenti politici intervenuti al Congresso del Partito Radicale nel week end appena concluso: dall’onorevole Giuseppe Basini della Lega a l’onorevole Renata Polverini di Forza Italiana, da Roberto Rampi, senatore del Partito Democratico, a Gregorio De Falco, senatore del Gruppo Misto. Solidarietà a Radio radicale è giunta in questi giorni anche da Giuseppe Giulietti, Presidente della Fnsi e da Marco di Fonzo, presidente della Stampa parlamentare. I giornalisti della Stampa estera presenti alla conferenza stampa di ieri si sono detti “molto preoccupati per la possibile chiusura della Radio e per l’ottusità da parte del Governo”. Ieri pomeriggio è giunto anche il sostegno del Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, che, intervenendo a Palermo a un convegno sul gratuito patrocinio ha dichiarato: “Vorrei ringraziare Radio Radicale per il compito che svolge, che per la democrazia italiana si è rivelato molto prezioso. Una radio indipendente e trasparente. Lunga vita a Radio radicale”. A lui ha fatto seguito anche il Presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin: “Mi associo all’appello del Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio a sostegno di Radio Radicale”. Austria. Allo studio il carcere preventivo per i “richiedenti asilo pericolosi” di Letizia Tortello La Stampa, 26 febbraio 2019 La proposta del ministro dell’Interno Kickl: leggi speciali per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico. Insorgono opposizione e associazioni. Il governo austriaco vuole introdurre la detenzione preventiva per i richiedenti asilo pericolosi. Le porte del carcere dovrebbero aprirsi per i migranti anche senza un’ordinanza del tribunale, che interverrebbe solo in seconda battuta, ma dopo una semplice valutazione dei funzionari del ministero sui singoli casi “ritenuti pericolosi”. Un fermo senza aver commesso nessun reato. Il cancelliere dell’Övp, Sebastian Kurz, ha annunciato che il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia lavoreranno insieme su un disegno di legge. Tuttavia, non è chiaro in concreto quali dovrebbero essere i criteri che potrebbero condurre alla carcerazione preventiva. Allo stesso ministero dell’Interno guidato da Herbert Kickl, che è lo strenuo proponente della stretta sul diritto di asilo, ammettono che non c’è una casistica predefinita per valutare i casi di “migranti pericolosi”. I presupposti saranno l’individuazione di “sospetti concreti nel richiedente asilo di un’inclinazione a commettere un delitti” (ad esempio, un indizio per finire dietro le sbarre potrebbero essere i precedenti penali) e la “valutazione di un giudice”, ma questo avverrà in un secondo momento. Per introdurre il carcere preventivo per i richiedenti asilo andrebbe cambiata anche la Costituzione, con il favore dei due terzi del Parlamento. Tutto nasce da un accoltellato alla gola - Secondo Kickl, la riforma non è contraria alle direttive europee. Ed è necessaria “in alcuni casi per garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico”. A suggerire la legge è stato il caso di un 34enne con passaporto turco, che ha pugnalato a morte a inizio febbraio il direttore dell’ufficio dei servizi sociali di Dornbrin, nel Voralberg. Era un richiedente asilo con reati penali a suo carico, dal 2009 aveva il divieto di soggiorno, ma a inizio 2019 era tornato illegalmente in Austria e aveva presentato domanda per essere accettato come rifugiato. Le polemiche e le altre “leggi speciali”. La proposta ha subito acceso le polemiche a Vienna e la strenua resistenza dell’opposizione socialdemocratica e delle associazioni. Alexia Stuefer, vicepresidente dell’Associazione degli avvocati della difesa, descrive i piani del ministero dell’Interno come “uno sconfinamento senza precedenti”, Kickl ha messo in discussione “la cultura dei diritti umani del dopoguerra”. C’è chi non ha mancato di far riferimento alle leggi speciali del Terzo Reich, che prevedevano di imprigionare su ordine della polizia gli oppositori del regime che si erano attirati l’attenzione negativa. Dal 1933 sostanzialmente ebrei, comunisti e rappresentanti del sindacato vennero catturati e poi imprigionati nei campo di concentramento. Come funziona nel resto d’Europa - Il carcere preventivo esiste in verità anche in Germania, per prevenire i crimini. A Berlino, una persona può essere fermata al massimo per quattro giorni, in Bassa Sassonia per dieci. L’Austria si pone anche sul solco della stretta nei confronti dei migranti dei Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca), che da anni non accettano le quote della redistribuzione dei migranti richieste dall’Europa. In Ungheria, in particolare, è dello scorso giugno l’approvazione di un pacchetto di riforme chiamate le “leggi stop-Soros”, che prevedono sanzioni nei confronti di ong o privati che aiutano i migranti a tutti i livelli: dal panino offerto per sfamarli al sostegno per fare domanda di asilo. Il governo Orban ha previsto anche un incremento del 25% di tasse per le Ong sui finanziamenti stranieri. Germania. Detenuti stranieri, numeri da record di Soeren Kern* L’Opinione, 26 febbraio 2019 Il numero dei detenuti stranieri nelle carceri tedesche ha ora raggiunto livelli record, come rilevato da una recente inchiesta condotta sul sistema penitenziario dei 16 Stati federati tedeschi (Länder). A Berlino e Amburgo, ad esempio, oltre il 50 per cento dei reclusi è di origine straniera, secondo il reportage, che ha anche rivelato un aumento del numero degli islamisti nel sistema carcerario tedesco. I dati, raccolti dal quotidiano Rheinische Post, mostrano che il forte aumento di detenuti stranieri è iniziato nel 2015, quando la cancelliera Angela Merkel permise a più di un milione di migranti per lo più incontrollati e provenienti dall’Africa, Asia e dal Medio Oriente di entrare nel paese. Secondo il giornale, tutti i Länder tedeschi hanno registrato negli ultimi tre-cinque anni un “fortissimo aumento” di detenuti stranieri e apolidi, sebbene sia difficile da calcolare il loro numero complessivo a livello nazionale a causa delle differenze nel modo in cui gli Stati federati elaborano le statistiche. Dal 2016, ad esempio, negli Stati federati occidentali la percentuale dei detenuti stranieri è passata ad Amburgo dal 55 per cento al 61 per cento; a Berlino, dal 43 al 51 per cento; nel Baden-Württemberg, dal 44 al 48 per cento; a Brema, dal 35 al 41 per cento; nel Nord Reno-Westfalia, dal 33 al 36 per cento; nello Schleswig-Holstein, dal 28 al 34 per cento; nella Bassa Sassonia, dal 29 al 33 per cento; in Renania-Palatinato, dal 26 al 30 per cento; nel Saarland, dal 24 al 27 per cento. In Assia, la percentuale è cresciuta leggermente dal 44,1 per cento di tre anni fa al 44,6 per cento di oggi. In Baviera, la percentuale è aumentata attestandosi al 45 per cento, rispetto al 31 per cento nel 2012. Lo stesso fenomeno si riscontra negli Stati federati orientali. In Sassonia, il numero dei detenuti di origine straniera è più che raddoppiato dal 2016. La maggior parte di tali reclusi arriva dalla Polonia, dalla Tunisia, dalla Libia, dalla Repubblica ceca e dalla Georgia. Il Meclemburgo-Pomerania Anteriore conta ora 160 detenuti stranieri provenienti da 66 paesi diversi. Le autorità tedesche segnalano inoltre un aumento del numero di musulmani presenti nelle carceri tedesche. La percentuale dei musulmani reclusi è ora nettamente superiore alla loro quota di popolazione totale. Con il recente afflusso massiccio di migranti, la popolazione musulmana della Germania ora conta circa sei milioni di persone, il 7 per cento della popolazione tedesca totale di 82 milioni di abitanti. Al contrario, secondo i dati raccolti dai ministeri della Giustizia dei Länder, circa il 20 per cento dei 65mila detenuti nelle prigioni tedesche è musulmano. I musulmani costituiscono il 29 per cento dei detenuti a Brema; il 28 per cento, ad Amburgo; il 27 per cento, in Assia (anche se in alcune carceri di questo Land il 40 per cento di tutti i detenuti partecipa alle preghiere del Venerdì); il 26 per cento in Baden-Württemberg; il 21 per cento del Nord Reno-Westfalia; il 20 per cento a Berlino; e il 18 per cento in Baviera. Secondo i dati forniti dai ministeri della Giustizia dei Länder, almeno 300 islamisti irriducibili stanno scontando la loro pena in un penitenziario tedesco. Altri 350 islamisti hanno dei mandati di cattura pendenti. La maggior parte dei detenuti islamisti si trovano in Assia, in Baviera, nel Nord Reno-Westfalia e a Berlino. Molti sono rinchiusi in strutture detentive separate, ma ci sono preoccupazioni che coloro che non lo sono possano radicalizzare altri detenuti. In Assia, ad esempio, il numero degli islamisti è più che triplicato dal 2013, mentre nel Baden-Württemberg il numero dei detenuti islamisti è più che raddoppiato dal 2016. “Il numero dei carcerati i cui sentimenti islamisti spiccano è aumentato drasticamente negli ultimi due anni”, ha dichiarato Guido Wolf, ministro della Giustizia del Baden-Württemberg. “Questo presenta nuove sfide per i nostri agenti penitenziari, che sono già duramente provati. Stiamo facendo tutto il possibile per rilevare i segni della radicalizzazione islamista in una fase iniziale e per contrastarli con fermezza”. Il 10-15 per cento dei detenuti musulmani nelle carceri tedesche è a rischio di radicalizzazione, afferma Husamuddin Meyer, un tedesco convertito all’Islam sufita che ora lavora come chierico nel sistema penitenziario del Nord Reno-Westfalia (NRW). Secondo Meyer, il sistema carcerario tedesco ha bisogno di più imam, per contrastare la radicalizzazione. Un tempo, negli istituti penitenziari del Nord Reno-Westfalia c’erano 114 imam accreditati, ora però se ne contano soltanto 25. Questa riduzione drastica è la conseguenza dei controlli di sicurezza grazie ai quali le autorità tedesche hanno scoperto che 97 imam erano pagati dal governo di Ankara, essendo dipendenti pubblici turchi. La Turchia ha rifiutato di consentire agli imam di rispondere alle domande dei funzionari tedeschi. “L’obbligo per questi dipendenti di sottoporsi a un nuovo controllo di sicurezza è inappropriato e sbagliato”, ha dichiarato il consolato turco. Il ministro della Giustizia del Nrw Peter Biesenbach ha replicato: “L’obiettivo a medio termine deve essere quello di organizzare l’assistenza religiosa e la cura pastorale indipendentemente dallo Stato turco”. In Assia, nel frattempo, il ministero della Giustizia ha sospeso un imam autorizzato a entrare in carcere a causa dei suoi legami con i Fratelli Musulmani. Il forte aumento di detenuti stranieri ha portato al problema del sovraffollamento delle carceri e della carenza di personale. Le prigioni del Baden-Württemberg e del Nord Reno-Westfalia operano attualmente al massimo delle loro capacità. Nel tentativo di mitigare il problema nel Nrw, più di 500 detenuti sono stati di recente rilasciati per una “amnistia di Natale”. I penitenziari della Baviera, di Berlino e della Renania-Palatinato sono pieni al 90 per cento. A causa di ciò, nel 2018, il personale degli istituti di pena in Nrw ha fatto più di 500mila ore di straordinario, secondo un rapporto giudiziario interno trapelato e finito sulle pagine del Rheinische Post. Il sistema penitenziario del Nrw è sotto organico di almeno 500 unità. Nonostante una buona retribuzione e i benefit, ci sono pochi candidati a causa delle tensioni fisiche ed emotive legate a questa attività lavorativa. Oltre alla carenza di personale, molte carceri sono fatiscenti. Più di 500 detenuti di una prigione di Münster, ad esempio, sono stati evacuati e trasferiti altrove poiché l’edificio rischiava di crollare. A Colonia, sono stati chiusi 100 centri di detenzione a causa dell’esposizione all’amianto. Solo nel Nord Reno-Westfalia, sono necessari almeno tre miliardi di euro per ristrutturare i vecchi penitenziari. Un articolo del Berliner Morgenpost titolato “Il tedesco diventa una lingua straniera in molte carceri” spiega che il crescente numero di conflitti tra gli agenti penitenziari tedeschi e i detenuti stranieri è dovuto alle barriere linguistiche. “L’esigenza di corsi di lingua e servizi di interpretariato è in aumento e la capacità di confrontarsi con altre culture è necessaria”, ha dichiarato Dieter Lauinger, ministro della Giustizia della Turingia. Il sindacato dei detenuti GG/BO (Gefangenen-Gewerkschaft/Bundesweite Organisation) ha chiesto alle autorità carcerarie di assumere interpreti che possano impartire ordini e istruzioni nella lingua madre dei detenuti stranieri. Sebbene alcuni Länder si avvalgano di interpreti, i costi sono spesso proibitivi. Le autorità tedesche segnalano inoltre aggressioni al personale penitenziario da parte dei detenuti. Il sindacato della polizia penitenziaria (Bund der Strafvollzugsbediensteten Deutschlands, Bsbd) ha registrato 550 “episodi speciali”, nel 2017. Nel Nord Reno-Westfalia, ad esempio, dal 2016 il numero di tali aggressioni è più che raddoppiato. “I numeri sono un riflesso della nostra società”, afferma Peter Brock, presidente del Bsbd. “Insulti, minacce e attacchi fanno parte della vita quotidiana”. *Gatestone Institute (traduzione a cura di Angelita La Spada) Medio Oriente. Come l’indifferenza del mondo alimenta le atrocità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 febbraio 2019 Amnesty International pubblica oggi un rapporto sulle violazioni dei diritti umani avvenute nel 2018 in 19 stati del Medio Oriente e Nord Africa. Il rapporto illustra come le autorità di tutta la regione abbiano spudoratamente portato avanti brutali campagne repressive per stroncare il dissenso e colpire manifestanti, società civile e oppositori politici, spesso col tacito sostegno di alleati potenti. Il 2018 è stato l’anno dell’efferato omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto all’interno del consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul, in Turchia. Questo episodio senza molti precedenti ha provocato un oltraggio senza precedenti a livello globale, costringendo l’Arabia Saudita a indagare e addirittura spingendo alcuni stati a prendere decisioni raramente viste in passato, come la sospensione della fornitura di armi. Ma nel suo complesso la comunità internazionale non ha dato seguito alle richieste delle organizzazioni per i diritti umani per un’indagine indipendente delle Nazioni Unite, in grado di fornire giustizia. Il tema dell’indifferenza, se non della compiacenza e complicità, dei principali attori globali si ritrova in tutti i capitoli del rapporto. Proprio questo atteggiamento della comunità internazionale, che continua a chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani preferendo concludere lucrosi accordi economici e militari, alimenta il ciclo di violazioni incoraggiando i governi a commettere agghiaccianti violazioni dei diritti umani e dando loro la sensazione che non verranno mai chiamati a risponderne alla giustizia. Stati come la Francia e gli Stati Uniti hanno continuato a fornire armi anche all’Egitto, che le ha impiegate a scopo di repressione interna nell’ambito di un massiccio giro di vite sui diritti umani. Mai come oggi nella sua storia recente, l’Egitto è diventato un luogo pericoloso in cui esprimere critiche. Le autorità egiziane hanno inasprito la repressione ai danni dei dissidenti alla vigilia delle elezioni presidenziali. Nel corso dell’anno hanno arrestato almeno 113 persone per l’espressione pacifica di opinioni critiche e adottato nuove norme per ridurre ulteriormente al silenzio gli organi d’informazione indipendenti. Gli Stati Uniti si sono impegnato a fornire a Israele aiuti militari nei prossimi 10 anni per un valore di 38 miliardi di dollari, nonostante l’impunità di cui beneficiano le forze israeliane e il gran numero di violazioni dei diritti umani che esse continuano a commettere nei Territori occupati palestinesi. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, l’anno scorso nella Striscia di Gaza le forze israeliane hanno ucciso almeno 180 manifestanti, tra cui 35 minorenni, nel corso delle proteste per il diritto al ritorno dei rifugiati. Il Consiglio Onu dei diritti umani ha istituito una commissione d’inchiesta ma Israele ha rifiutato di cooperare e le pressioni perché collaborasse sono state scarse se non nulle. Amnesty International ha definito il 2018 in Iran come “l’anno della vergogna”. Sono stati eseguiti oltre 7000 arresti di manifestanti, studenti, giornalisti, ambientalisti, attivisti, lavoratori e difensori dei diritti umani. Tra coloro che hanno pagato un prezzo elevato per il loro attivismo, sono state le donne che hanno protestato contro la prassi abusiva e discriminatoria dell’obbligo d’indossare il velo. In Arabia Saudita le autorità hanno arrestato e incriminato persone che avevano espresso critiche, accademici e difensori dei diritti umani. Nel mese di maggio almeno sono state arrestate, senza essere formalmente accusate, otto difensore dei diritti delle donne che avevano svolto campagne per l’abolizione del divieto di guida per le donne e del sistema del tutore maschile. Praticamente tutte le persone che difendono i diritti umani in Arabia Saudita sono ora dietro le sbarre o in esilio. In Iraq le forze di sicurezza hanno ucciso e arrestato manifestanti. In Marocco decine di persone sono state condannate a lunghe pene detentive per aver preso parte a manifestazioni. Negli Emirati Arabi Uniti e in Bahrein i noti attivisti Ahmed Mansour e Nabil Rajab sono stati condannati rispettivamente a 10 e cinque anni per aver espresso opinioni sui social media. In Algeria, attivisti e blogger sono stati presi di mira per aver criticato su Facebook le politiche governative. Le autorità di Giordania, Libano e Palestina hanno a loro volta arrestato arbitrariamente attivisti e altre persone che avevano espresso critiche nei confronti delle autorità o per aver preso parte a manifestazioni pacifiche. Le continue forniture di armi ai governi della regione da parte della comunità internazionale e la mancata sollecitazione, da parte di quest’ultima, di procedimenti giudiziari nei confronti dei responsabili di crimini contro l’umanità e ulteriori violazioni dei diritti umani hanno avuto un impatto devastante e duraturo nel tempo. In Libia, Siria, Iraq e Yemen)nella foto) anche nel 2018 sono stati commessi crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani. Centinaia di civili sono stati uccisi e migliaia feriti dalla coalizione guidata dagli Usa nel corso dell’offensiva per cacciare il gruppo armato Stato islamico da Raqqa, anche a seguito di attacchi che hanno violato il diritto internazionale umanitario. Per fortuna non è mancata qualche buona notizia. Nel Maghreb sono entrate in vigore leggi per contrastare la violenza sulle donne e la Palestina seguendo il cammino di altri stati ha abolito la norma che consentiva alle persone sospettate di stupro di evitare la condanna sposando le loro vittime. In Arabia Saudita è stato finalmente annullato il divieto di guida per le donne, anche se - come ricordato sopra - coloro che avevano svolto campagne proprio per questo obiettivo sono state arrestate. Sebbene le relazioni omosessuali restino un reato nella regione, vanno segnalate due piccole vittorie per i diritti delle persone Lgbti negli stati in cui la mobilitazione della società civile è stata particolarmente forte: in Tunisia è stata presentata una proposta di legge per decriminalizzare le relazioni tra persone dello stesso sesso e in Libano un tribunale ha stabilito che il sesso tra persone omosessuali consenzienti non è un reato. Infine, in un contesto regionale contrassegnato dall’impunità, quegli stessi due stati hanno fatto passi avanti per accertare le responsabilità per le violazioni dei diritti umani del passato: in Libano, dopo anni di campagne della società civile, il parlamento ha approvato una legge che istituisce una commissione d’inchiesta sulle migliaia di sparizioni avvenute durante la guerra civile, mentre in Tunisia la Commissione per la verità e la dignità è riuscita a superare i ripetuti tentativi delle autorità di ostacolarne il lavoro. Egitto. Lo strappo di Al Sisi sui diritti umani: “non accettiamo lezioni dall’Europa” di Francesca Sforza La Stampa, 26 febbraio 2019 “La pena di morte fa parte della nostra cultura”. Si è concluso ieri a Sharm el Sheikh il primo vertice tra l’Unione europea e la Lega araba: ne è uscita una dichiarazione finale in 17 punti in cui si sono tracciate le linee guida per “una nuova era di cooperazione”. Molti i temi affrontati, dalla lotta al terrorismo all’immigrazione clandestina, dai cambiamenti climatici al traffico di esseri umani. L’ultima parola, però, se la sono presa i diritti umani, quando durante la conferenza stampa finale, un giornalista ha sollevato la questione dei diversi standard esistenti in Europa e nel mondo arabo per quanto riguarda il loro rispetto. Inorgoglito dall’ampio sostegno ricevuto nella due giorni di Sharm, il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi non ha esitato a difendere l’applicazione della pena di morte in Egitto sostenendo che è radicata nella cultura del Paese come la sua abolizione è cara agli europei: “l’Egitto non accetta lezioni sui diritti umani dall’Europa”. Gli europei - ha aggiunto - “hanno i loro valori e la loro etica: noi la rispettiamo, voi dovreste fare altrettanto”. Questioni di priorità, ha osservato ancora: “In Europa l’importante è raggiungere e mantenere il benessere, nei nostri Paesi invece l’importante è la stabilità, è preservarci da caos e collassi, tutti aspetti da tenere in considerazione quando si parla di diritti umani”. Il battibecco è continuato tra Juncker e il segretario della Lega araba, e quando i giornalisti arabi hanno applaudito all’invito di Abul Gheit a non discutere “il senso di umanità degli altri”, Tusk ha osservato con una battuta che in Europa “non accade mai di essere applauditi dalla stampa”. L’impegno su Regeni - Nel bilaterale con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Al Sisi ha comunque manifestato un rinnovato impegno perché il caso Regeni giunga a soluzione. “Confido che il dialogo costante possa portare a una verità giudiziaria”, ha detto Conte, non senza ribadire la centralità del dossier per il suo governo. Tra i due leader si è parlato anche di economia, in particolare di gas e diversificazione energetica: “Una cooperazione - ha spiegato il premier - che va oltre il campo economico, e che rappresenta un ulteriore fattore di stabilità sul piano politico e per la sicurezza sociale”. Soddisfatto, il presidente Conte, per l’inserimento, nella dichiarazione finale, dell’invito ai libici - coerente con la linea italiana - “a impegnarsi nel finalizzare l’obiettivo, sostenuto dall’Onu, verso una transizione democratica e ad evitare qualsiasi azione che possa portare ad un’escalation delle tensioni, ad ulteriori rischi per la sicurezza e a un indebolimento del processo di stabilizzazione”. Il nodo libico - L’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso invece delle riserve sul documento finale, cercando di aggiungere una postilla - ha detto il segretario generale della Lega araba Abul-Gheit - per fermare l’intervento di alcuni Paesi negli affari interni di altri Stati (ma la cosa alla fine è saltata). Inoltre il Libano ha chiesto l’aggiunta di un passaggio in cui si chiedeva maggiore sostegno per poter affrontare le difficoltà del momento. Il sostegno ad Abu Mazen - Unanime invece l’appoggio dato dai Paesi arabi al presidente Abu Mazen, che ha ribadito la necessità di dar vita a uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme Est capitale. Al di là dei diversi accenti comunque, il summit di Sharm el Sheik ha avuto il merito di mettere a confronto agende fino ad oggi molto distanti. E anche se in più di un caso le distanze rimangono, il percorso per un avvicinamento dei codici, dei linguaggi e dei metodi è cominciato. L’appuntamento per il prossimo incontro è già stato fissato: Bruxelles 2022. Stati Uniti. In carcere innocente per 40 anni, risarcito con 18,5 milioni di euro La Repubblica, 26 febbraio 2019 Era stato condannato per l’omicidio della ex fidanzata e del figlioletto di 4 anni. Il duplice delitto avvenne l’11 novembre del 1978 a Sim Valley. È rimasto in prigione per quasi 40 anni, condannato per aver ucciso la sua fidanzata e il figlio di 4 anni di lei. E invece è stato riconosciuto innocente e scarcerato e per i suoi lunghi anni dietro le sbarre, il 71enne Craig Coley verrà risarcito dalle autorità californiane con 21 milioni di dollari (18,5 milioni di euro). Due anni dopo aver riconquistato la libertà grazie all’esame del Dna e ad indagini aggiuntive, l’ormai anziano ex detenuto ha raggiunto un accordo con il comune di Simi Valley. “Sebbene nessuna cifra possa risarcire quanto successo a Coley, sistemare questo caso è la cosa giusta da fare per Coley e la nostra comunità”, ha commentato Eric Levitt, sindaco della città californiana. Simi Valley pagherà 4,9 milioni di dollari mentre il resto sarà offerto da altri enti, tra cui l’agenzia assicurativa. Il delitto avvenne l’11 novembre del 1978. Una donna di 24 anni, Rhonda Wicht, e il figlio di 4, Donald Wicht, furono trovati morti in un appartamento di Simi Valley: il piccolo soffocato, la madre violentata, picchiata e poi strangolata. Le indagini si indirizzarono subito nei confronti di Coley in quanto era l’ex fidanzato della donna dalla quale si era da poco lasciato. Luomo, ex marine e reduce del Vietnam, lavorava nel campo della ristorazione, si era sempre dichiarato innocente e per tutta la loro vita i suoi genitori hanno tentato di dimostrarla. Ma era stato poi l’intervento di un investigatore privato, e soprattutto l’avvento nel campo delle indagini giudiziarie del test del Dna, dopo nuove indagini, a dimostrare che non erano sue le tracce genetiche ritrovate su alcuni reperti ritrovati nella scena del delitto. Se il test del Dna ha portato alla liberazione di Coley, le indagini con i metodi moderni non sono riuscite a individuare il vero colpevole. Turchia. Libera dopo due anni la pittrice curda Zehra Dogan, in carcere per un dipinto di Francesca Peracchio ultimavoce.it, 26 febbraio 2019 Anche dalla prigione la pittrice curda continuava a disegnare: senza pennarelli e ogni altri strumento, usava il cibo e il suo sangue mestruale per raccontare le torture subite dal popolo curdo. Dopo oltre due anni e nove mesi in una prigione turca, la pittrice curda Zehra Dogan è libera. A rendere nota la sua storia un murales di Banksy apparso sui muri di New York. Dogan - giovane pittrice curda - è libera. La condanna a 2 anni 9 mesi e 22 giorni era arrivata nel 2017. La sua colpa? Aver pubblicato un suo dipinto sui social media. L’accusa contro la pittrice curda era quella di “propaganda terroristica” per il suo quadro dove le rosse bandiere turche sventolavano sulle macerie della città di Nusaybin - nel sud-est curdo del Paese - dopo le operazioni militari di Ankara contro il Pkk, il Partito dei lavoratori curdi. La giovane Dogan è oltre che pittrice, giornalista e attivista per i diritti delle donne curde. Aveva infatti fondato Jinha, un agenzia di stampa curda femminista con una redazione tutta al femminile. La condanna - Nel giugno del 2017, la Corte d’Appello aveva condannato Dogan a quasi tre anni di detenzione nella prigione di Diyarbakir, dopo che l’artista aveva già passato sei mesi in carcerazione preventiva. Solo qualche mese prima era stata assolta dall’accusa di appartenenza all’ organizzazione illegale Pkk. Ma per il magistrato Dogan resta una sostenitrice del partito, anche se non un suo membro, come sentenziato dal giudice di primo grado. L’artista arrestata la prima volta nel 2016, si trovava in un locale da thè nella periferia di Nusaybin. I poliziotti erano arrivati qualche settimana dopo che Dogan aveva diffuso sui social network la riproduzione. Tra le mure affollate della prigione turca, a Dogan non era permesso introdurre né libri né pennarelli. Ma la giovane pittrice non si è mai arresa ed ha continuato a raccontare i soprusi subiti dal popolo curdo anche dal carcere: i suoi colori sono stati il cibo ed il proprio sangue mestruale e i suoi pennelli i lunghi capelli e le proprie dita. Queste opere dal carcere sono state rese visibili grazie alle foto che il compagno dell’artista, Onur Erdem, ha realizzato durante le visite trimestrali. Un murales di 20 metri - La storia di Dogan, sconosciuta ai più, è stata resa nota dal celebre artista Banksy che gli ha dedicato, lo scorso anno, un murales di 20 metri lungo i muri di New York, rappresentandola dietro le sbarre. Lo stesso Banksy ha reso noto solo qualche mese dopo, di aver ricevuto una lettera dall’artista stessa. Nella lettera - pubblicata sul profilo instagram di Banksy - la donna descrive le terribili condizione della prigione di Diyarbakir, sua città natale: “Ti sto scrivendo questa lettera illegale da una prigione che ha una storia di sanguinose torture. “ E la lettera prosegue “questa lettera è illegale perché ho un divieto di comunicazione che mi vieta di inviare lettere e fare telefonate, quindi sto scrivendo e consegnando questa lettera in modi clandestini”. Venezuela. Almeno 25 morti alla frontiera con il Brasile La Repubblica, 26 febbraio 2019 Le forze di sicurezza di Caracas hanno fatto fuoco sui manifestanti che cercano di far entrare gli aiuti umanitari. Almeno 25 persone sono state uccise in due giorni a Santa Elena de Uairen, al confine con il Brasile, nella repressione violenta dei manifestanti che cercano di far entrare in Venezuela gli aiuti umanitari destinati alla popolazione. Lo ha denunciato il rappresentante della comunità indigena del municipio di Gran Sabana, Romel Guzamana, secondo il quale gran parte delle vittime è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco delle forze di sicurezza fedeli al presidente Nicolas Maduro e degli irregolari chavisti. Emilio Gonzalez, il sindaco di Gran Sabana che si è rifugiato in Brasile, ha reso noto che oltre ai 25 morti ci sono stati anche più di 80 feriti. Guzamana ha denunciato inoltre che detenuti del carcere di El Dorado con uniformi della Guardia nazionale sono stati impiegati nella repressione degli abitanti. Gonzalez, che è un indigeno Pemon, ha detto ai media brasiliani che è dovuto fuggire dal suo Paese a causa della repressione, giacché sa che il governo di Nicolas Maduro lo considera un avversario, e ha raccontato che circa tremila militari sono arrivati a Santa Elena de Uarein due giorni fa, per impedire l’ingresso degli aiuti umanitari depositati a Pacaraima, dall’altra parte del confine.