Detenuti, sgravi non per tutti. Con risorse insufficienti conta l’ordine di assunzione di Daniele Cirioli Italia Oggi, 25 febbraio 2019 Arriva con cinque anni di ritardo il via libera dell’Inps alla fruizione degli sgravi contributivi sulle assunzioni di detenuti e internati, ma l’accesso non è garantito per tutti i datori di lavoro. L’Inps, infatti, effettuerà un controllo cumulativo di tutti gli aventi diritto negli anni dal 2013 al 2018 e verificherà che le risorse siano sufficienti; in caso contrario riconoscerà lo sgravio in base all’ordine cronologico delle assunzioni. A precisarlo è lo stesso ente di previdenza nella circolare n. 27/2019. Per recuperare lo sgravio arretrato, che riguarda gli anni dal 2013 al 2018, i datori di lavoro interessati devono presentare la domanda all’Inps con il modulo “Detiarr”, nei trenta giorni successivi al 15 febbraio (data della circolare). La domanda deve essere presentata anche dai datori di lavoro che, in questo periodo, risultano autorizzati allo sgravio o ne abbiano già fruito sulle denunce contributive mensili. Allo scadere del termine dei 30 giorni, l’Inps effettuerà la verifica cumulativa. Una domanda, inoltre, va presentata ogni anno anche successivamente all’anno 2018, a cominciare dal corrente 2019. Assunzioni agevolate. La circolare illustra le modalità di accesso e di fruizione degli incentivi previsti dalla legge n. 193/2000, al fine di promuovere l’attività lavorativa da parte dei detenuti. Gli incentivi sono di natura contributiva e rivolti a favore dei datori di lavoro che assumono persone detenute o internate, anche ammesse al lavoro esterno, nonché ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari. In particolare, la citata legge ha modificato la legge n. 381/1991 (recante disciplina delle cooperative sociali), al fine di includere, tra le persone svantaggiate che possono essere assunte dalle coop sociali, anche gli ex degenti d’istituti psichiatrici giudiziari, i detenuti e internati in istituti penitenziari, nonché i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno; ha previsto che l’assunzione di tali soggetti comporta una riduzione dell’aliquota contributiva dovuta nella misura stabilita ogni due anni con apposito decreto; ha stabilito che l’incentivo si applica anche durante i sei mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo; ha, infine, esteso l’agevolazione alle aziende pubbliche e private che organizzino attività produttive e di servizi all’interno degli istituti penitenziari impiegando persone detenute e internate. Successivamente, il dl n. 78/2013 (convertito dalla legge n. 94/2013) ha ampliato la durata del beneficio a 18 e 24 mesi seguenti alla cessazione dello stato detentivo, in luogo del precedente limite dei sei mesi. Per dare attuazione all’incentivo, il dm 9 novembre 2001 ha fissato la riduzione contributiva nella misura dell’80% dei contributi totali. Successivamente è stato adottato il regolamento con dm n. 148/2014, il quale ha anche innalzato al 95% la misura dello sgravio contributivo. Datori di lavoro interessati. I datori di lavoro interessati all’incentivo sono: cooperative sociali, che assumono persone detenute e internate negli istituti penitenziari o persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno, nonché ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari; aziende pubbliche e private che, organizzando attività di produzione o servizio all’interno degli istituti penitenziari, impiegano persone detenute e internate. Pertanto, solo le cooperative sociali possono fruire del beneficio per i lavoratori occupati per attività svolta al di fuori dell’istituto penitenziario. Inoltre, sia i datori di lavoro che le cooperative sociali possono accedere all’incentivo previa la stipula di un’apposita convenzione con l’amministrazione penitenziaria, centrale e periferica, la quale deve disciplinare l’oggetto e le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento retributivo. Lavoratori interessati. Lo sgravio, come accennato, è ammesso nell’ipotesi di assunzione di: 1. detenuti e internati negli istituti penitenziari; 2. ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, oggi Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza); 3. condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno. Rapporti di lavoro agevolati. Lo sgravio spetta sulle assunzioni con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e determinato (cioè a termine), anche a part-time, inclusi i rapporti di apprendistato, nonché con rapporti di lavoro intermittente e sulle assunzioni effettuate a scopo di somministrazione. Non spetta, invece, sui rapporti di lavoro domestico. L’incentivo. Il citato dm n. 148/2014 ha modificato la misura dell’agevolazione portando lo sgravio al 95% dell’aliquota contributiva complessivamente dovuta, cioè sia della quota a carico del datore di lavoro sia quella del lavoratore, a partire dal 1° gennaio 2013 (e finché non verrà adottato un nuovo decreto, la cui cadenza dovrebbe essere biennale). Lo sgravio spetta per tutta la durata del rapporto di lavoro fintantoché i lavoratori si trovano nella condizione di detenuti e/o di internati, nonché per altri sei mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione elevati a 18-24 mesi dal 20 agosto 2013, con il dl n. 78/2013 (convertito dalla legge n. 94/2013). In particolare, lo sgravio spetta per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo, a condizione che l’assunzione del detenuto e/o internato sia avvenuta mentre lo stesso era ammesso al regime di semilibertà o al lavoro esterno; in caso contrario (detenuti e/o internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno), lo sgravio spetta per 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo. Tale prolungamento del beneficio, ha precisato l’Inps, trova applicazione soltanto in riferimento ai rapporti le cessazioni dello stato detentivo siano intervenute dal 20 agosto 2013. In tali casi lo sgravio spetterà all’80% fino al 5 novembre 2014 e al 95% a partire dal giorno successivo (6 novembre 2014, data d’entrata in vigore del dm n. 148/2014). Le risorse disponibili. Come accennato più volte, lo sgravio è riconosciuto nei limiti delle risorse stanziate per ogni anno. Il dm n. 148/2014 aveva previsto uno stanziamento di 8.045.284 euro per l’anno 2013 e di 4.045.284 euro per gli anni a decorrere dal 2014, fino all’adozione di un nuovo decreto. In seguito a successivi atti adottati dal ministero della giustizia, gli importi disponibili per l’anno 2015 sono stati ridotti a 3.906.500,00 euro, per l’anno 2016 a 3.717.390,21 euro, per l’anno 2017 a 3.717.390,21 euro, per il 2018 a 5.211.872,03 euro e per il 2019 a 5.989.867,21 euro. Giustizialismo, malattia infantile del populismo di Alessandro Barbano Il Foglio, 25 febbraio 2019 La gogna e le botte, l’arroganza dell’azione penale e l’abuso dell’autorità poliziesca. Ovvero il diritto ucciso in nome di un fine. Di Maio e Salvini sono figli del tempo più buio della storia repubblicana. Il programma del governo del cambiamento è un mix di cattiveria di stato e giustizia del sospetto: c’è l’inasprimento delle pene, anche per i minori, la dilatazione dei reati, la riduzione dei riti alternativi, l’aumento delle confische e dei sequestri, l’impiego dell’agente infiltrato. Questo clima risarcitorio e vendicativo è il frutto delle tossine inoculate nella società italiana lungo trent’anni di propaganda giustizialista. Non si può sfidare il populismo senza riscrivere i cedimenti, gli errori e le convenienze che la democrazia dei partiti tradizionali ha avuto nei confronti di una parte della magistratura. Un punto più di tutti accomuna i due leader populisti, a dispetto di quanto non indichino alcune prese di posizione in apparenza dissonanti: il giustizialismo. Di Maio e Salvini sono giustizialisti in maniera radicale, ancorché diversamente declinata. Vale per entrambi un paradigma sostanzialista di matrice totalitaria, per cui il mezzo è sempre giustificato dal fine. Il mezzo è il diritto penale. Il fine è politico o morale. Con il diritto penale Salvini affronta il dramma dell’immigrazione, Di Maio combatte la corruzione e punta a redimere la società. Questa impostazione è agli antipodi di uno spirito liberale che al diritto penale assegna il compito minimale, ma non meno importante, di perseguire i reati tassativamente indicati dalla legge. Quando il diritto penale inquina i mezzi in nome dei fini, fa strame delle garanzie, calpesta i diritti dei singoli, insegue verità fittizie o nasconde le prove, la democrazia stessa è in pericolo. Di Maio e Salvini sono anzitutto figli di questa fragilità civile, tutta italiana, che viene molto prima di loro e tiene insieme la gogna mediatica contro i corrotti, o i supposti tali, e le botte a un povero tossicodipendente di nome Stefano Cucchi, l’arroganza moralistica dell’azione penale e l’abuso spregiudicato dell’autorità poliziesca, la prescrizione senza termine contro i presunti colpevoli, ma innocenti fino a prova contraria, e una lunga inestricabile catena di occultamento di indizi, depistaggi, reticenze sul decesso di un ragazzo picchiato a sangue da un gruppo di carabinieri. Gli uni e gli altri, la gogna come le botte, il processo persecutorio come i depistaggi investigativi, tutti si legittimano in nome di fini apparentemente nobili, comunque superiori: stroncare il malaffare nel primo caso, difendere il buon nome dell’Arma nel secondo. Il giustizialismo e la logica securitaria vanno a braccetto, perché in realtà ciascuno è l’ombra riflessa dell’altro. Perciò Di Maio e Salvini, che di questi principi sono il simbolo, si assomigliano come due gemelli, pur pensando di essere diversi. Sono figli del tempo più buio della storia repubblicana. E di questo tempo interpretano lo spirito, in consonanza con un senso comune forcaiolo, che si è impadronito dell’opinione pubblica. Viviamo in un paese i cui cittadini, in maggioranza, sono convinti che sia giusto disporre e diffondere intercettazioni penalmente irrilevanti, ma utili a conoscere i segreti e il malcostume dei politici; o che la prescrizione sia “un’amnistia selettiva per colpevoli ricchi e potenti, che salvò dalla galera quasi tutti i ladroni di Tangentopoli”, come scrive Marco Travaglio, o “uno scandalo”, come pure hanno detto in questi anni magistrati mediaticamente autorevoli. Pochi ricordano non solo le vittime di Mani Pulite, che non furono poche, ma neanche i nomi di Ilaria Capua, Federica Guidi, Silvio Scaglia e i tanti altri innocenti triturati nella gogna delle intercettazioni. Pochi sanno o ricordano che la prescrizione è l’essenza stessa dello Stato di diritto, in quanto garanzia per il cittadino di non essere sottoposto senza limite alla potestà punitiva del pubblico ministero. Ma questo brodo di insipienza e spregiudicatezza morale è il punto di maggiore continuità tra il populismo e le culture politiche che lo hanno preceduto. Perché l’idea di fermare senza limite la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, tradotta in provvedimento approvato dalla maggioranza gialloverde e in vigore dal 2020, non nasce nella fantasia del guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede. A proporla è stato nella scorsa legislatura il senatore del Pd Felice Casson, uno dei tanti magistrati militanti che in venticinque anni la sinistra riformista italiana ha corteggiato, imbarcato e armato, salvo poi finire impallinata dal fuoco amico. La prescrizione è stata, prima ancora che la bandiera della crociata pentastellata, la frontiera di tutte le bugie e le ipocrisie della sinistra di governo. È stato il guardasigilli del Pd Andrea Orlando a dilatarla e ancorarla a un aumento dei massimi di pena, facendo sì che un indagato per corruzione possa restare per un ventennio sotto la scure dell’azione penale, salvo poi essere giudicato innocente. Orlando ha preteso e ottenuto due voti di fiducia sul suo disegno di legge, votato in Parlamento a fine legislatura, per superare i dubbi e le contrarietà di parte della maggioranza che sosteneva il governo Gentiloni. Eppure, l’ex ministro sapeva bene che il ricorso alla prescrizione è quasi del tutto assente nella maggior parte degli uffici giudiziari, perché è concentrato solo in poche sedi e non ha nessuna correlazione né con il numero di reati né con la dotazione di magistrati e cancellieri. Ci sono infatti Corti d’appello sotto organico che riescono a espletare tutti i processi in tempo, evitando la prescrizione, e altre a pieno organico che invece denunciano ritardi inaccettabili. Sapeva, Orlando, che la prescrizione è solo la cartina al tornasole della virtù organizzativa degli uffici giudiziari. Invece di adoperarsi per riorganizzarli e sanzionare le negligenze, ha preferito far pagare l’inefficienza del sistema agli indagati, aumentando i tempi di durata dei processi, per compiacere la magistratura militante e il suo populismo giudiziario. Ma come sempre accade quando i partiti tradizionali inseguono il populismo, quest’ultimo accelera, doppiandoli. Perché i Cinquestelle hanno prima mandato a casa il ministro, travolgendo un rissoso Pd nelle urne, e poi hanno preteso un’ulteriore dilatazione del tempo di prescrizione. Con i Cinquestelle al governo il giustizialismo non è più una strategia occulta da perseguire dissimulandola, ma una volontà esplicita, la prevalenza manifesta di una parte processuale e di una sola ragione su tutte le altre. Ma è anche la riduzione della complessità della democrazia, che è fatta di un delicato equilibrio tra saperi e poteri, all’unica dimensione della volontà popolare, nella convinzione che su di essa sia riposto il primato della politica. Senonché questa volontà popolare finisce per coincidere con la volontà di minoranze organizzate con i cui interessi la politica transige al ribasso. Così, nella valutazione tecnica delle modifiche alla prescrizione, le Commissioni giustizia e affari costituzionali della Camera ascoltano in audizione prima di ogni altro i familiari delle 32 vittime della strage ferroviaria di Viareggio del 29 giugno 2009. L’effetto di questa scelta è quello di trasferire l’intero dibattito sulle politiche pubbliche in un registro sentimentale, cosicché la risposta all’esigenza di garantire un giusto equilibrio tra l’efficacia processuale e le garanzie degli indagati finisce per coincidere con il risarcimento morale delle vittime. È come se, dovendo valutare la validità di una molecola chemioterapica nel distruggere le cellule tumorali, i ricercatori medici ascoltassero per primi i pazienti. Il tasso di giustizialismo presente nel contratto di governo e la declinazione tranchant nelle parole del ministro Bonafede sgomentano oggi molti garantisti dell’ultima ora, di sinistra e anche di destra. Non hanno torto nel merito. Il programma del governo del cambiamento è un mix di cattiveria di Stato e giustizia del sospetto: c’è l’inasprimento delle pene, anche per i minori, la dilatazione dei reati, la riduzione dei riti alternativi, l’aumento delle confische e dei sequestri, l’impiego dell’agente infiltrato, la riduzione dei premi in sede di esecuzione della pena. Non meno giustizialista è l’idea di riformare la legittima difesa, anche se in apparenza il provvedimento preteso dalla Lega è diretto a proteggere le vittime dei reati, sottoposte spesso a processi lunghi e dolorosi per aver difeso sé e i propri familiari da un’aggressione. Ma snaturare la proporzione tra difesa e offesa significa appaltare la sicurezza pubblica alla giustizia privata. Il diritto alla difesa e il diritto alla vita non si mescolano come le uova di una frittata. Il populismo giudiziario, però, non ha altra misura se non quella di legittimare qualunque mezzo a protezione di un fine eletto come prioritario. Questo clima risarcitorio e vendicativo è il frutto delle tossine inoculate nella società italiana lungo trent’anni di propaganda giustizialista. Non si può sfidare il populismo senza riscrivere i cedimenti, gli errori e le convenienze che la democrazia dei cosiddetti partiti tradizionali ha avuto nei confronti di una parte della magistratura, credendo di poter piegare a proprio vantaggio la crescente ingerenza di quest’ultima nella vita politica italiana. Non si può, ancora, dimostrare l’inconsistenza civile, prima ancora che politica, del populismo, rinunciando a riscrivere un pezzo della storia che ha visto un capo di governo e leader di partito morire all’estero, dopo essere stato selettivamente assunto a target di un’inchiesta giudiziaria che diresse mezzi di inaudita spregiudicatezza al fine di una rivoluzione politica e civile. La vicenda politica e personale di Bettino Craxi è una ferita rimasta aperta, perché svela la più grande ipocrisia della storia repubblicana. Un’ipocrisia da lui dismessa e smascherata in alcune frasi indimenticabili: Ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Sono le parole pronunciate da Craxi alla Camera dei deputati il 3 luglio 1992, durante il discorso di fiducia al nascente governo Amato, concluso con una sfida al sistema dei partiti che per più di un quarto di secolo nessuno ha raccolto: Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. Per i non pochi che giurarono in senso contrario, troppi tacquero e si girarono da un’altra parte. Non a caso, a distanza di tanti anni, il finanziamento occulto resta la fonte di finanziamento della politica e la morale giustizialista il suo velo ipocrita. Si sottovaluta il peso di quella mancata assunzione di responsabilità sulla sorte del paese. In realtà la coraggiosa, ancorché tardiva, denuncia di Craxi fu l’ultimo tentativo di riagganciare la verità politica alla verità effettuale, dopo una separazione che aveva avuto, quattordici anni prima, il suo traumatico strappo con il sequestro e la morte di Aldo Moro. La strategia della fermezza, cioè l’idea che lo Stato non debba mai trattare con il nemico e che il sacrificio dello statista democristiano fosse la condizione necessaria per isolare e sconfiggere le Brigate rosse, era stata una grande menzogna confezionata dai partiti per difendersi senza cambiare, un tentativo maldestro di fronteggiare la prima crisi di rappresentatività del sistema mettendo la testa sotto la sabbia. Il voltarsi dall’altra parte degli stessi partiti di fronte alla denuncia del leader socialista in Parlamento segnò il divorzio definitivo della verità politica dalla verità effettuale. Il tragico epilogo della vicenda personale di Bettino Craxi, il suo esilio volontario e poi la sua morte hanno scavato un fossato tra il discorso pubblico e la coscienza rimossa del paese. Da quel momento l’ipocrisia smette di essere una possibilità della politica per diventare la grammatica della politica in Italia. L’intero corso della cosiddetta Seconda Repubblica maschera, nel rumore di fondo di una contrapposizione permanente, nei conflitti di interesse palesi e occulti, e nelle accuse reciproche che mostrano una complice rinuncia ad affrontarli, la mancata risposta alla domanda che Craxi pose in Parlamento: come si riporta nella legalità il finanziamento della politica? E cioè, come si regola il rapporto tra poteri pubblici e interessi privati o, piuttosto, come si giustifica un finanziamento pubblico esaustivo dei costi del sistema, di fronte alla crescente crisi di legittimazione dei partiti? Le riforme istituzionali, nell’ultimo ventennio abbozzate, coltivate e poi tutte fallite a un passo dal traguardo, segnano un tentativo di rilegittimare la rappresentatività con uno scatto di ingegneria costituzionale. Ma forse falliscono tutte proprio perché cercano una scorciatoia per evitare di riannodare la verità politica alla verità effettuale, e finiscono per perdere la strada maestra. Nel frattempo, nel solco che la Seconda Repubblica ha aperto tra propaganda e responsabilità, germoglia la verità surrogata del populismo. Ignorare questa linea di continuità significa rinunciare a sfidarlo. Riconoscerla significa anzitutto fare i conti con il proprio passato. La sinistra dovrebbe essere la prima forza interessata a promuovere una revisione di questo drammatico passaggio della storia nazionale, avendo grandemente concorso a produrlo. Dovrebbe avere il coraggio di alzare il velo della retorica populista sulla menzogna di Stato che avvolge la fine di Bettino Craxi, riabilitando in maniera sostanziale la sua figura di statista, non solo per il contributo riformatore da lui fornito alla democrazia italiana o per il prestigio internazionale della sua politica estera, ma proprio per quella coraggiosa ancorché inimitata assunzione di responsabilità sulla questione morale che stringeva d’assedio tutti i partiti e i leader della Prima Repubblica, nessuno escluso. Dovrebbe ancora, una sinistra riformista, riconoscere di aver flirtato per decenni con una parte della magistratura per contrastare l’egemonia di un rivale scomodo come Silvio Berlusconi. Ne avrebbe in questo momento un motivo di chiaro vantaggio politico. Perché segnerebbe una discontinuità politicamente netta con un racconto giustizialista del paese che per anni ha adoperato, credendo di giovarsene, ma che ormai le è stato definitivamente espropriato dal populismo. Riconoscendo, anche se a posteriori, le sue responsabilità e la dignità degli avversari, tornerebbe a rilegittimare la maestà della funzione rappresentativa che il populismo vuole disarticolare. Come cambiano i magistrati di Gianluca Di Feo La Repubblica, 25 febbraio 2019 Non è solo lo strappo di una sigla contraria a chi criticava Salvini Nella magistratura è in corso una metamorfosi. C’è una metamorfosi in corso nella magistratura italiana. Non riguarda solo lo strappo di una delle sigle associative, analizzato da Liana Milella, che per la seconda volta in pochi mesi si è opposta ai colleghi che criticavano Matteo Salvini. Il fenomeno è più ampio e profondo. Di fatto siamo davanti alla lenta chiusura di una stagione che era cominciata prima di Mani Pulite, con lo sciopero contro il presidente Francesco Cossiga, e che da allora aveva visto le toghe compatte in ogni confronto con i governi di destra e sinistra. Adesso invece sta cambiando tutto. Nei discorsi si sente sempre più una “voglia di normalità”, che sembra riproporre la figura del giudice alieno dal dibattito politico istituzionale in voga fino agli anni Settanta. Un modello “conservatore” a cui si era contrapposto prima quello dei giovani pretori d’assalto e poi quello dei pm anticorruzione e antimafia. Le inchieste di Tangentopoli e la reazione alle stragi corleonesi avevano consacrato il ruolo dei pubblici ministeri. Una sorta di grande supplenza, permessa dalla crisi di credibilità delle altre istituzioni. E la tesi ripetuta spesso da Piercamillo Davigo: in quegli anni i magistrati non hanno fatto la rivoluzione ma l’hanno impedita, permettendo ai cittadini di credere ancora nello Stato. Quella supplenza però è stata esercitata pure su altri fronti, con le decisioni dei tribunali su questioni etiche e sociali su cui il Parlamento non riusciva a legiferare, come il fine vita o le unioni civili. Adesso invece i sondaggi mostrano un calo costante della fiducia nelle toghe. E una generazione di magistrati diventati famosi per le loro indagini sta arrivando alla pensione, senza lasciare eredi. Armando Spataro lo ha già fatto, tra pochi mesi toccherà a Giuseppe Pignatone. Poi rimarranno solo Francesco Greco, alla guida della procura di Milano dove fece già parte del pool Mani Pulite, e Nicola Gratteri, che si è conquistato una più recente notorietà nella lotta alla ‘ndrangheta. Dopo di loro, non ci saranno più “superprocuratori”, quelli immediatamente riconoscibili. E già oggi la maggioranza della categoria non vede l’ora di farla finita con il protagonismo, apertamente criticato nelle relazioni dei vertici della Cassazione. Siamo insomma davanti alla chiusura di una fase storica che ha segnato la vita italiana per quasi trent’anni. Ma resta da capire quali ne saranno gli effetti. Pietà l’è morta. E pure la giustizia non sta tanto bene di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 25 febbraio 2019 L’ingresso in carcere di Roberto Formigoni è stato salutato da una ola giustizialista paragonabile alla riffa cui venivano sottoposti i gladiatori nell’antica Roma. Un sottosegretario di Stato, rigorosamente grillino, rivendicando il merito della carcerazione alla legge spazza-corrotti, ha scritto che “da oggi in Italia c’è un governo che usa il pugno duro, durissimo, contro i corrotti che infettano questo paese e vanno estirpati”. Ora, esultare quando un uomo, sia un comune cittadino oppure un colletto bianco, viene privato della libertà è solo un’inutile barbarie che rappresenta, purtroppo, anche la cifra dell’epoca buia che stiamo vivendo. Un corrotto deve pagare, ma strumentalizzare in modo così osceno una vicenda giudiziaria è un eccesso a cui un rappresentante delle istituzioni dovrebbe saper sottrarsi. Il decreto anticorruzione, peraltro, contiene la mostruosità giuridica che prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, e avrà effetti deterrenti risibili. Ma non è solo questo il punto. Il principio di irretroattività della legge assume, nella materia penale, spessore costituzionale, in forza dell’articolo 25, comma 2, secondo cui “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Anche l’articolo 2 del codice penale sancisce il principio di irretroattività, il cosiddetto favor rei, che opera appunto in funzione di garanzia del reo. E secondo l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nessuno può essere condannato per un’azione o omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto nazionale o internazionale. Argomento, questo, usato dalla difesa di Berlusconi per contestare l’applicazione retroattiva della legge Severino quando il leader di Forza Italia fu estromesso dal Senato. Sarà basato proprio su questo assunto il ricorso degli avvocati di Formigoni, secondo i quali, avendo superato i settant’anni, l’ex governatore della Lombardia avrebbe diritto ai domiciliari. Posizione che si scontra però con la giurisprudenza della Cassazione che ha chiarito come le norme sull’applicazione della pena siano applicabili a un processo in corso anche quando viene approvata una legge sfavorevole, com’è accaduto nel caso di Formigoni. La Procura ha già fatto sapere che si opporrà, e quasi certamente la vicenda finirà alla Corte Costituzionale. Ma la deriva giustizialista in cui è precipitata l’Italia va nella direzione opposta a un altro precetto costituzionale, quello per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. C’è un ministro della Giustizia che ripudia il garantismo, e quindi la Costituzione; in Parlamento il gesto delle manette contro gli avversari va sempre più di moda, così come il grido “onestà, onestà” rivolto a giorni alterni da un gruppo politico all’altro. E c’è Davigo, ideologo dei Cinque stelle, che ha alzato l’asticella aggiungendo un’altra perla al suo vocabolario giacobino: non solo non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti, ma anche “i risarcimenti per ingiusta detenzione in buona parte vanno a colpevoli che l’hanno fatta franca”. Cioè, sarebbe falso che mille italiani all’anno finiscono in carcere da innocenti, cosa che però ci ha provocato condanne e sanzioni dall’Europa. E dunque se la giustizia non funziona non è perché commette troppi errori e qualcuno ne fa uno spregiudicato uso politico. E solo perché sono pochi gli italiani in galera. Auguri a tutti. Ritorna un grande classico: separare le carriere di giudici e pm publicpolicy.it, 25 febbraio 2019 Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, prevedendo due distinti ordini giudiziari. E stabilendo, anche, che l’esercizio dell’azione penale avvenga secondo “casi e modi previsti dalla legge”. È questo, in sintesi, l’obiettivo di una proposta di legge popolare incardinata la settimana scorsa in commissione Giustizia alla Camera. Secondo il relatore del provvedimento, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), l’intervento di riforma è indifferibile, in quanto “il principio della separazione tra magistratura giudicante e requirente è già insito nella Carta costituzionale, alla luce dei principi del giusto processo sanciti dall’articolo 111 che riconosce infatti la parità delle parti del processo davanti ad un giudice terzo e imparziale”. Necessario, quindi, “riconoscere formalmente una differenza di posizione tra giudice e pm già esistente, nella consapevolezza che la separazione delle carriere non debba essere un fine quanto uno strumento rivolto a conseguire un dibattimento giusto ed equo”. In sostanza per il relatore si tratta di scongiurare “le eventuali conseguenze negative che potrebbero derivare da una innaturale vicinanza professionale”. I pm, in ogni caso, continueranno ad essere magistrati e a godere delle garanzie di autonomia e indipendenza proprie dei giudici, pur appartenendo a un ordine giudiziario distinto. Magistratura requirente e giudicante - La proposta popolare, al fine di separare le carriere di giudici e pm, riforma molte norme del titolo IV della Costituzione. Anzitutto si prevede la separazione formale dell’ordine giudiziario in due distinte categorie: la magistratura giudicante e quella requirente. Conseguentemente nascono due distinti organi di autogoverno, uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante. Entrambi, chiaramente, sono autonomi e indipendenti e il presidente della Repubblica è chiamato a presiedere entrambi. Prevista anche la modifica della composizione dei membri elettivi dei due istituendi Consigli superiori, rispetto a quello unitario esistente, passando dall’attuale prevalenza numerica della componente togata, corrispondente ai due terzi, alla sua parificazione rispetto a quella laica, di nomina politica (ovvero la metà dei membri sarà scelta dal Parlamento in seduta comune, tra i professori ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con 15 anni di esercizio della professione). I Csm, giudicante e requirente, operano comunque come organismi corporativi e autocratici. Sarà la legge ordinaria, invece, a prevedere i criteri di scelta dei magistrati costituenti la componente togata dei due organi di autogoverno. Muta, nel rispetto dello spirito della riforma, anche la disciplina dell’accesso alle rispettive carriere, essendo previsti concorsi separati. Sancita, anche, la possibilità di nominare, a tutti i livelli della magistratura giudicante e non più solo per Cassazione come oggi, avvocati e professori ordinari universitari di materie giuridiche al di fuori della selezione concorsuale, secondo disposizioni legislative. Sul punto, per il relatore, si dovrebbe “specificare nella disposizione costituzionale a chi spetti la nomina di avvocati e di professori ordinari di materie giuridiche”. Esercizio azione penale disciplinato da legge - Tra le altro novità rilevanti previste nella pdl c’è l’articolo 10, che interviene sull’obbligatorietà dell’azione penale, limitandola ai casi e ai modi previsti dalla legge. Sisto ha ricordato, sul punto, come un esercizio “non indiscriminato dell’azione penale, mirato al perseguimento delle fattispecie di reato più rilevanti, possa contribuire a scongiurare l’ingolfamento dei processi, rendendo più efficace lo svolgimento dell’attività giudiziaria”. Sebastiano Ardita: “Vogliono dei pm governativi che non disturbino la Casta” di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2019 Il procuratore aggiunto di Catania, membro della corrente di Davigo, e l’ossessione della politica per il lavoro dei magistrati: “Il fine ultimo è far cadere un limite costituzionale all’esercizio del potere, ponendo forme di controllo sul pm”. Dottor Sebastiano Ardita, ha notato? Bastano un paio di iniziative giudiziarie “eccellenti” in pochi giorni (dalla condanna di Formigoni all’arresto dei genitori di Renzi), e subito i partiti tornano a parlare di separazione della carriere. Dal suo osservatorio del Csm, che idea s’è fatto? Quello di separare le carriere di pm e giudici è diventato uno slogan per reagire alle iniziative giudiziarie. Ma, secondo me, non ci crede più nemmeno chi se ne fa portatore. Oppure non ne capisce nemmeno il significato. Il giudice fonda tutto sui dati processuali e sulla sua coscienza: che il pm abbia una carriera formalmente analoga alla sua è del tutto irrilevante. Che conseguenze avrebbe separare le carriere? La separazione delle carriere di fatto l’ha già previ sta la legge di ordinamento giudiziario del 2007, firmata dall’allora ministro del centrosinistra Mastella con qualche modifica alla precedente legge delega del suo collega di centrodestra Castelli: se vuoi passare da pm a giudice devi cambiare regione e, se vuoi tornare pm, puoi dimenticarti di fare carriera, perché perdi anni di specificità e dunque titoli. Ormai, togliendo quelli di prima nomina o inviati nelle sedi disagiate, cambia funzioni meno di un magistrato su dieci. E dunque perché la vogliono quasi tutti? La separazione giuridica ha un senso solo se si vuol mettere le mani sulla indipendenza del pm, assoggettandolo al potere esecutivo, cioè al governo. Altrimenti l’unico effetto sarebbe quello di accentuare la vocazione poliziesca del pm, sganciandolo dalla cultura della giurisdizione, fondata sulla ricerca della verità. Insomma se il timore, come si sente dire, sarebbero le iniziative giudiziarie “avventate” - e francamente ne vedo sempre meno - con un pm ancora più indipendente e autoreferenziale l’unico effetto sarebbe quello di moltiplicarle. A meno che il pm non sia controllato dalla politica... La separazione della carriere è il minimo comun denominatore che unisce tutto il peggio della storia repubblicana: da Gelli a Craxi, da Berlusconi alla Bicamerale di D’Alema. Perché? Il fine ultimo è quello di far cadere un limite costituzionale all’esercizio del potere pubblico, ponendo forme di controllo sul pm. Se è per questo, tempo fa è stato anche proposto di togliere al pm ogni iniziativa investigativa (affidata alle forze dell’ordine, dipendenti dal governo), e pure l’esercizio della azione penale, relegando la sua funzione a quella di semplice rappresentate dell’accusa in udienza. Un metodo più sbrigativo, per cui non è necessario neppure separare le carriere. In passato il controllo politico del pm fu un caposaldo del “Piano di rinascita” della P2: già sotto il fascismo i pm erano funzionari sottoposti al Guardasigilli... È una riforma che piace a tutti coloro che non gradiscono che qualcuno disturbi il manovratore. Non c’è il rischio che, in una magistratura sempre più “genuflessa” - come dice il suo amico e collega Davigo - questa controriforma possa raccogliere consensi? Consenso culturale non ce ne può essere. Ma è pur vero che chi vuole una magistratura meno libera potrebbe far leva sugli effetti distorti del nuovo ordinamento giudiziario del 2007 che - moltiplicando gli obblighi formali e disciplinari - ha reso ingestibile la vita di chi ha migliaia di procedimenti sul “ruolo”. Dunque anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Spetta al Csm non opprimere i magistrati valorosi e anzi garantire loro serenità e indipendenza. Invece va mantenuta la massima severità verso chi offende il decoro della funzione. Insomma occorre impedire che i magistrati siano posti dinanzi all’alternativa tra il rigore cieco del loro autogoverno e la dipendenza da un potere esterno, magari accondiscendente e generoso con una categoria che si “comporta bene” e non disturba il manovratore. Diversamente dai tempi di Gelli, Craxi e B., la separazione delle carriere raccoglie consensi politici trasversali: dalle Camere penai i a Forza Italia, da Salvini alla mozione Martina del Pd. Cos’è cambiato? Molte cose. Un tempo, col sistema proporzionale, l’indipendenza della magistratura era difesa dalle opposizioni politiche, ma è anche vero che la maggioranza fu per oltre 40 anni quasi sempre dello stesso colore. Evidentemente, con il maggioritario e l’alternanza, le cose sono cambiate e pressoché tutti avvertono la stessa esigenza di porre un freno alla attività dei magistrati. Eppure nei miei nove anni di direzione dell’Ufficio detenuti del ministero della Giustizia, ho visto ben pochi colletti bianchi e “vip” che varcassero le soglie del carcere: si possono contare sulle dita di una mano. Legittima difesa vicina, anche i Cinquestelle verso il sì di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 25 febbraio 2019 Matteo Salvini l’ha già rimessa al centro della scena mediatica. Il giorno dopo la visita delle polemiche in carcere ad Angelo Peveri, imprenditore condannato per aver immobilizzato e sparato a un ladro rumeno, la sua parola d’ordine è ancora: legittima difesa. “È un diritto sacrosanto per chi viene aggredito, non è il Far West: il Far West è oggi. I rapinatori che vengono dall’estero, e anche quelli italiani, devono sapere che quello del rapinatore è un mestiere pericoloso. Se c’è l’infortunio sul lavoro, sono affari tuoi”. Il leader della Lega prepara anche così la strada al ritorno del provvedimento simbolo nell’aula di Montecitorio. L’obiettivo dichiarato è il via libera definitivo entro fine marzo. In realtà, nei desiderata di Matteo Salvini, la riforma che rende la difesa in casa o nel luogo di lavoro “sempre proporzionata” avrebbe dovuto già essere legge. Ma l’importante è avere il vessillo pronto per essere sbandierato, insieme a Quota 100, alle prossime elezioni Europee. Qualche inciampo di troppo, ne ha infatti rallentato l’approvazione: l’aula di Montecitorio, come ha già fatto la commissione, dovrà infatti correggere un errore sulla copertura finanziaria riscontrato a un passo dall’approvazione definitiva. La maggioranza sarà dunque costretta a un terzo passaggio in Senato. Per questa settimana si voterà soltanto sulle pregiudiziali, entro la fine della prossima è atteso il disco verde dei deputati. In casa Lega si ostenta sicurezza sull’approvazione, sebbene il provvedimento non sia mai stato amato dalla componente grillina della maggioranza. Al Senato il pentastellato Francesco Urraro aveva provato a presentare alcuni emendamenti che ammorbidivano le norme, ma alla fine un accordo siglato al ministero della Giustizia, presente anche Alfonso Bonafede, ha blindato il testo. Lo stesso incidente sulle coperture all’inizio era parso ai più sospettosi come un sabotaggio degli alleati di governo per impedire che il Carroccio incassasse un altro atout elettorale. Ma per il sottosegretario alla Giustizia, Iacopo Morrone, non c’è dubbio che l’accordo di maggioranza “reggerà”. Il fatto è che i leghisti sono convinti che il momento di debolezza elettorale del M5s - che sarà con ogni probabilità confermato dallo scrutinio in Sardegna - invece di alimentare i dissidi di maggioranza, li stia limitando. “Non credo proprio - ragiona un deputato - che vogliano rischiare di fare cadere il governo e andare a casa boicottando un provvedimento su cui c’è già un accordo”. Certo, non mancherà qualche distinguo. Ma ci si aspetta al più qualche assenza strategica al momento dell’approvazione, magari tra i cosiddetti ortodossi che fanno riferimento al presidente della Camera, Roberto Fico. La riforma leghista, modificando l’articolo 52 del codice penale, stabilisce che la legittima difesa sia sempre proporzionata in casa o nel luogo di lavoro quando si “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità”. Inoltre, si esclude la punibilità anche se chi ha commesso il fatto ha agito in stato di “grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Legittima difesa, i 5 Stelle prendono tempo di Dino Martirano Corriere della Sera, 25 febbraio 2019 Il ministro dell’Interno: il Far West è ora, con la legge finirà. Di Maio: Matteo può vedere un detenuto. Domani pomeriggio riprende in Aula alla Camera l’esame della legge sulla legittima difesa ma il M5S - che fino ad ora non si è messo di traverso - non ha assolutamente fretta di chiudere. E infatti, senza tempi contingentati, il testo manifesto della Lega ora rischia di esser votato solo a metà marzo per poi dover tornare al Senato ad aprile. Molto a ridosso della campagna elettorale per le Europee. Con questo calendario lungo (la prima lettura è del 24 ottobre), Forza Italia sta pure tentando Matteo Salvini per rafforzare il testo a favore di chi si difende in casa propria con le armi. Però la Lega sa che, almeno per ora, l’unica maggioranza possibile è quella gialloverde: anche per approvare il provvedimento sulla legittima difesa già sufficientemente annacquato al Senato dal M55. Per questo Luigi Di Maio continua a usare toni concilianti su un tema che è nel Dna dei leghisti e non dei grillini. C’è infatti un grande equivoco che la Lega alimenta e che il M55 fa finta di non vedere: anche con la nuova legge, l’imprenditore piacentino Angelo Peveri - divenuto l’icona di Matteo Salvini pur avendo egli sparato a un ladro che aveva fatto inginocchiare nel suo cantiere - sarebbe lo stesso finito in carcere con una condanna per tentato omicidio. Con il nuovo testo, sarà sempre e comunque un giudice a stabilire se chi esercita l’autodifesa domiciliare lo fa perché “il reo non ha desistito dall’azione illecita” e perché “sussisteva il pericolo di aggressione”. Le cose stanno così, il resto è propaganda. La nuova legge considera “sempre sussistente” il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa (articolo i) se c’è pericolo e se il ladro non desiste; introduce la non punibilità per il grave turbamento di chi, trovandosi in stato di minorata difesa, reagisce a un’aggressione in casa (articolo 2); inasprisce le pene per il furto in casa e la rapina. Eppure la Lega continua ad alimentare l’equivoco, con effetto grancassa. Salvini, che due giorni fa è andato nel carcere di Piacenza a rendere omaggio all’imprenditore Angelo Peveri condannato a 4 anni e 8 mesi per tentato omicidio, ha alzato il tono di un’altra ottava. E Di Maio, che deve tenere a bada l’ala sinistra dei grillini molto critica sulla materia securitaria, ha ben chiaro tutto questo ma lascia correre perché rompere con l’alleato non può: “La responsabilità di quell’imprenditore la decidono i giudici, ciò non significa che un ministro non possa andare a trovare una persona in detenzione”. In altre parole, Di Maio lascia campo libero a Salvini che infatti insiste: “La legge sulla legittima difesa è un diritto sacrosanto per chi viene aggredito, non è il Far West. Il Far West è oggi. In Italia i rapinatori che vengono dall’estero, e anche quelli italiani, devono sapere che il loro è un “mestiere” pericoloso. Se c’è l’infortunio sul lavoro sono affari tuoi... Non è possibile che ci siano rapinatori e delinquenti liberi che chiedono risarcimento danni e persone per bene che si difendono o in tribunale o vanno in galera”. Così sull’indennità riconosciuta (anche nel nuovo testo) per il rapinatore che rimane ferito o ucciso e sull’inversione dell’onere della prova (spetterebbe al pm dimostrare l’assenza di legittima difesa), Pierantonio Zanettin di Forza Italia sfida la Lega: “Vedremo se voteranno i nostri emendamenti. Potrebbero farlo, perché la legge deve ritornare al Senato a causa del problema tecnico sollevato dall’ufficio di bilancio”. Legittima difesa, toghe divise: “Il ministro non ci sconfessa” di Liana Milella La Repubblica, 25 febbraio 2019 Magistratura indipendente si dissocia dalle critiche dell’Anm su Piacenza e la nuova legge. Alla vigilia del voto sulla legittima difesa alla Camera un quarto dei giudici italiani serve un assist a Salvini. E mette in crisi l’Anm dopo mesi di dialogo stretto, in politichese si direbbe di inciucio, con la Lega al Csm. Nomine, pareri sulle leggi del governo gialloverde, difesa dei colleghi oggetto di attacchi, tutto interpretato con una lente governativa. Magistratura indipendente - la corrente di destra delle toghe, poco meno di 2mila voti su 8mila votanti alle ultime elezioni del Csm nel luglio 2018 - spacca l’Anm. E manda due segnali in netta controtendenza rispetto all’Anm. Il primo: le parole di Salvini, all’uscita del carcere di Piacenza dove ha incontrato l’imprenditore Angelo Peveri, “in nessuna parte sono lesive dell’operato dei magistrati”. Il secondo: “Se la politica vuole legiferare sulla legittima difesa i magistrati possono formulare considerazioni tecniche, ma devono astenersi dall’emettere comunicati che l’opinione pubblica rischia di interpretare in chiave politica”. Frasi che, per tutto il giorno, rimbalzano sulle mailing list dei giudici. Interpretate come uno schiaffo al presidente dell’Anm, il pm romano Francesco Minisci della corrente centrista Unicost, che da mesi boccia la legge di Salvini dichiarando che “rischia di produrre più omicidi”. Un altolà alle toghe rosse di Magistratura democratica che parlano di ddl “incostituzionale”. Il preannuncio di una nuova stagione, già in nuce al Csm, in cui una parte della magistratura asseconda le scelte del governo, soprattutto quelle della Lega. Come si legge nelle mail, con l’uscita di Mi si chiude la stagione dei giudici uniti contro la politica. Che accade adesso? Il 6 aprile l’Anm cambia presidente, la poltrona di Piercamillo Davigo, Eugenio Albamonte (Area) e Minisci, adesso spetta a Mi. Che è tentata di ribaltare il tavolo, chiedere un nuovo voto, mettere a frutto il successo delle ultime elezioni del Csm quando balzò da 3 a 5 consiglieri. Da quel momento Mi - che ha come mentore Cosimo Maria Ferri (oggi deputato renziano) e ha piazzato Claudio Galoppi come consigliere della presidente del Senato Casellati - ha stabilito un solido asse con i due laici della Lega e i due di Fi. Trascina con sé Unicost, in crisi di consensi, come per l’elezione del vice presidente Ermini. Mette in minoranza Area e Davigo su nomine, pareri, pratiche a tutela. Salvini lancia il sospetto che i giudici del Tribunale dei ministri di Catania sono “rossi”? Magistratura indipendente blocco, niente tutela. Salvini consiglia Spataro di andare in pensione? Niente tutela. Salvini e Di Maio attaccano i giudici di Avellino per il pullman finito nella scarpata? Niente tutela. I pareri sulle leggi? Su rito abbreviato, decreto sicurezza e spazza-corrotti Mi battaglia per votare gli emendamenti di Fi. Idem con le nomine, dove l’asse forte Mi-Lega-Fi-Unicost impone a Trani come procuratore Antonino Di Maio contro il pm anti Fitto Renato Nitti, alla procura nazionale antimafia boccia un esperto di terrorismo come Maurizio Romanelli, e si appresta a dare il via libera per l’Antitrust a Roberto Rustichelli, nonostante abbia superato i 10 anni consentiti di fuori ruolo. La prossima sfida è vincere le elezioni dell’Anm e inaugurare la stagione dei giudici che non contestano la politica. Blitz di Salvini in carcere, l’Anm si spacca di Benedetto Antonelli Il Tempo, 25 febbraio 2019 Toghe divise sulla visita all’imprenditore che sparò al ladro. Magistratura indipendente: “Non c’è delegittimazione”. Il procuratore di Piacenza: “Invito a farsi giustizia”. I magistrati si dividono sulla visita di Salvini in carcere ad Angelo Peveri, l’imprenditore condannato per aver sparato a un ladro. Il ministro dell’Interno ha voluto mostrare pubblicamente il suo sostegno a chi si difende, anche con la forza, da furti e rapine. “Per me non doveva nemmeno finirci in galera”, ha detto sabato scorso, dopo aver incontrato Peveri nella casa circondariale di Piacenza. La giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati ne ha subito preso le distanze, definendo la visita del ministro “un tentativo di delegittimare il sistema giudiziario”. Adesso, ad intervenire è Magistratura indipendente, corrente moderata dell’Anm. E lo fa appoggiando l’iniziativa di Salvini: “Le dichiarazioni del ministro dell’Interno in nessuna parte ci sono apparse lesive dell’operato dei magistrati, che hanno agito sulla base delle leggi attualmente vigenti”. I componenti di Magistratura indipendente del comitato direttivo dell’Anm, tra i quali il vicepresidente Giancarlo Dominijanni, si vedono costretti “a segnalare che il documento della giunta esecutiva centrale è stato deliberato a stretta maggioranza, ovvero con un solo voto di scarto, quello del presidente dell’associazione”. Il voto di Francesco Minisci, quindi, è stato decisivo. Magistratura indipendente aggiunge anche “se la politica vuole legiferare in materia di legittima difesa, i magistrati possono formulare considerazioni tecniche ma devono astenersi dall’emettere comunicati che l’opinione pubblica rischia di interpretare in chiave politica. Risulta che il ministro, peraltro autore in passato di inaccettabili dichiarazioni contro la magistratura, abbia dichiarato l’intenzione di sollecitare un provvedimento di grazia. Circostanza che, al netto dei tecnicismi sui soggetti legittimati, vieppiù esclude ingerenze sull’operato della magistratura”. Le polemiche non finiscono qui. Contro Salvini si scaglia anche il procuratore di Piacenza, Salvatore Cappelleri, secondo il quale la visita in carcere a Peveri, condannato a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio, “potrebbe essere una spinta a farsi giustizia da sé”. “Questo non è un caso di legittima difesa”, afferma il procuratore in un’intervista a Repubblica, “il pericolo è che passi il messaggio che comunque è legittimo reagire”. “I parlamentari possono fare visite in cella, è indiscutibile, né io li giudico. Ma se si sta usando il caso Peveri per giustificare una nuova legge sulla legittima difesa, l’esempio non è pertinente - rileva il procuratore - Chi ha certe responsabilità dovrebbe essere più attento a ricostruzioni che non corrispondono ai fatti processualmente accertati”. Cappelleri entra anche nel merito della normativa vigente: “Riesco difficilmente a immaginare una legge alternativa rispetto a quella attuale. Perché la rilevanza costituzionale del bene della vita è di gran lunga superiore al diritto di proprietà”. Comunque, nel caso Peveri “non si è posto un problema di aggressione, e quindi di difesa. Non c’è stata l’intrusione in un domicilio perché il fatto è accaduto in aperta campagna. Quindi questa vicenda sarebbe del tutto estranea alla futura ed eventuale normativa”. In cella chi pubblica video hot privati di Veronica Passeri Il Giorno, 25 febbraio 2019 Proposta di legge dei grillini: carcere fino a 5 anni e multe da 927 a duemila euro. Selfie, video, immagini che diventano virali sul web e che mostrano, senza il consenso dei diretti interessati, persone impegnate in attività sessuali. Spesso a diffonderle sono ex fidanzati o compagni mossi dal desiderio di vendetta - il fenomeno è infatti conosciuto come “revenge porn” - e che commettono, oltre a un gesto ignobile, anche un reato grave. Reato che, se passerà la proposta di legge, depositata al Senato dal M5S e sottoposta anche alla piattaforma Rousseau, sarà punibile con la “reclusione da uno a cinque anni e la multa da 927 a 2mila euro”. In questo incapperà chi “pubblica attraverso strumenti informatici o telematici immagini o video privati aventi un esplicito contenuto sessuale senza il consenso delle persone che ivi sono ritratte”. La legge, che introduce l’articolo 612-ter del Codice penale per dire basta a episodi come quelli accaduti a Tiziana Cantone, la ragazza napoletana che si tolse la vita il 13 settembre 2016, dopo essersi rivolta inutilmente alla magistratura affinché rimuovesse un video hard girato dall’allora fidanzato e divenuto virale in Rete. “Un fenomeno lesivo della dignità, che può condizionare la vita delle vittime”, scrivono i 5 Stelle. Fenomeno che può colpire chiunque: Diletta Leotta, volto noto di Sky Sport, è stata vittima di un hacker - sulla vicenda è aperta un’inchiesta - che ha violato il suo telefonino rubandole scatti privati che hanno poi fatto il giro del web. Ma al momento in Italia non esiste alcuna legge specifica sul revenge porn, riconosciuto come reato in Germania, Israele e Regno Unito, e in 34 Stati degli Usa. “L’unica possibilità riconosciuta alle vittime - si ricorda nella proposta di legge - è fare riferimento alla normativa sui reati di diffamazione, estorsione, violazione della privacy e trattamento scorretto dei dati personali, che non recepisce, però, la gravità e la peculiarità del fenomeno”. Con la nuova legge verranno colpite non solo le persone che pubblicano immagini o video privati, ma anche quelle che li diffondono: per costoro la pena della reclusione e della multa è ridotta della metà rispetto a quella comminata ai responsabili di una violenza che, si sottolinea, “per molti è paragonabile ad una vera e propria violenza sessuale”. Inoltre sono previste delle ipotesi aggravate in ragione del “rapporto esistente tra autore e vittima”: la reclusione sarà da due a sette anni e la multa da 1.500 a 3mila euro “nell’ipotesi in cui il fatto venga commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da chi ha contratto un’unione civile, o da chi è legato alla persona offesa da una relazione affettiva, o lo è stato nel passato”. Se la pubblicazione di “Immagini o video privati sessualmente espliciti provoca la morte della persona offesa” la reclusione per gli autori va da sei a dodici anni e la multa da 10mila a 80mila euro. C’è poi la concreta possibilità di chiedere al titolare del sito internet o del social media di “oscurare, rimuovere o bloccare le immagini o i video privati sessualmente espliciti” e se la richiesta non viene accolta “entro le ventiquattro ore dal ricevimento dell’istanza si potrà proporre reclamo al Garante della privacy o invocare la tutela giurisdizionale presentando ricorso dinanzi all’Autorità giudiziaria”. Quasi flagranza sorprendere l’indiziato con cose o tracce del reato commesso prima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2019 Cassazione - Sezione IV penale -Sentenza 18 gennaio 2019 n. 2338. In tema di arresto in flagranza, l’integrazione dell’ipotesi di “quasi flagranza” costituita dalla “sorpresa” dell’indiziato “con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima” non richiede - a differenza del caso dell’inseguimento - che la polizia giudiziaria abbia diretta percezione della commissione del reato, essendo sufficiente l’immediata percezione delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l’indiziato. Per la Cassazione, sentenza 2338/2019, basta, in altri termini, l’esistenza di una stretta contiguità fra la commissione del fatto e la successiva sorpresa del presunto autore di esso con le “cose” o le “tracce” del reato, e dunque il susseguirsi, senza soluzione di continuità, della condotta del reo e dell’intervento degli operanti a seguito della percezione delle cose o delle tracce. Fattispecie in cui la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica, ha ritenuto che fosse stato eseguito correttamente l’arresto, nella quasi flagranza, in quanto le forze dell’ordine, intervenute tempestivamente una volta allertate, avevano rinvenuto il soggetto autore del reato ancora sul luogo, rappresentando questa stessa presenza una “traccia” del reato, rimasto peraltro nell’ipotesi di un tentativo, commesso immediatamente prima. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del pubblico ministero, avverso il provvedimento con cui il giudice non aveva convalidato l’arresto assumendo erroneamente l’assenza della flagranza, ha colto l’occasione per precisare la nozione della “quasi flagranza” allorquando questa si sia sostanziata nel rinvenimento di cose o tracce del reato commesso immediatamente prima. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che fosse stato eseguito correttamente l’arresto, nella quasi flagranza, in quanto risultava che le forze dell’ordine, intervenute tempestivamente una volta allertate, avevano rinvenuto il soggetto autore del reato ancora sul luogo, rappresentando questa stessa presenza una “traccia” del reato, rimasto peraltro nell’ipotesi di un tentativo, commesso immediatamente prima. La giurisprudenza è assolutamente consolidata, nel senso che, anche alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite (sentenza 24 novembre 2015, Ventrice), la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che consenta di ricondurre al primo la commissione dell’illecito, anche allorquando questi non sia colto nell’atto di commetterlo. Tale condizione si può configurare - alla luce dell’indicazione normativa dell’articolo 382 del codice di procedura penale- nel caso in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, ovvero nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima (cfr. sezione IV, 26 ottobre 2017, Pm in proc. Kukiqi e altro). Lo stato di “quasi flagranza”, per l’effetto, non può invece ravvisarsi, per difetto del particolare “nesso” con il reato di cui si è detto, nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. La nozione di “inseguimento”, caratterizzata dal requisito cronologico dell’“immediatezza” (“subito dopo il reato”), postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli operanti della polizia giudiziaria procedenti all’arresto. In tale situazione, piuttosto, lo stato di “quasi flagranza” potrebbe comunque ravvisarsi se e in quanto il soggetto sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e/o presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato (“immediatamente prima”) da parte del medesimo (cfr., di recente, sezione IV, 30 novembre 2017, Proc. Rep. Trib. Vicenza in proc. Henage). Furto in appartamenti uso ufficio: è privata dimora se non sono aperti al pubblico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2019 Cassazione - Sezione IV penale -Sentenza 11 febbraio 2019 n. 6387. Nel caso di commissione di un furto all’interno di appartamenti adibiti “ad uffici, amministrativi o commerciali, di una società”, per poter contestare il reato di cui all’articolo 624-bis del codice penale (anziché l’articolo 624 del codice penale aggravato), occorre la prova che si tratti di appartamenti rientranti nella nozione di “privata dimora”, nei quali si svolgano, non occasionalmente, atti della vita privata (verificando cioè, ad esempio, se all’interno vi siano spazi adibiti a spogliatoi, a stanze da letto, ecc., e quale uso concreto se ne faccia). Lo ha detto la Cassazione penale con la sentenza 6387/2019. Sulla questione cfr. la sentenza delle sezioni Unite, 23 marzo 2017, D’Amico, che, affrontando la questione se rientra nella nozione di privata dimora, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 624-bis del codice penale, il luogo dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale (nella specie, trattavasi di un ristorante), hanno fornito risposta negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Al riguardo, precisandosi che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. In altri termini, al fine di individuare il discrimine tra la più grave fattispecie incriminatrice prevista dall’articolo 624-bis del codice penale e quella di cui all’articolo 624 del codice penale occorre accertare se il luogo in cui è stato perpetrato il furto avesse, per sua struttura o per l’uso che se ne faccia in concreto, una destinazione legata e riservata all’esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari (la nozione di “privata dimora”, infatti, è più ampia e comprensiva di quella di “abitazione”) ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica. Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per talune di dette finalità, con esclusione quindi dei luoghi di pubblico accesso. Daspo sportivo: giudizio convalida dell’obbligo di comparizione presso l’ufficio di polizia Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2019 Sicurezza e ordine pubblico - Misure di prevenzione - Manifestazioni sportive - Obbligo plurimo di comparizione alla p.s. - Giudizio di convalida - Congruità e necessità della misura - Incidenza sul bene della libertà personale - Valutazione. In tema di misure volte a prevenire fenomeni o condotte violente in occasione di manifestazioni sportive, il giudice della convalida del provvedimento emesso dal questore ai sensi dell’art. 6, l. n. 401/1989, che impone al soggetto di comparire più volte nell’ufficio o comando di polizia nel corso della giornata in cui si svolge la manifestazione, è tenuto a motivare sia sulla congruità della misura adottata sia sulla necessità, proporzionalità e adeguatezza di un plurimo obbligo di comparizione imposto al destinatario. In ogni caso, nella valutazione dell’obbligo, il giudice deve considerare la necessità di evitare imposizioni inutilmente vessatorie. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 febbraio 2019 n. 7176. Misure di prevenzione di fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive - Obbligo di presentazione a un ufficio o comando di polizia in concomitanza con una manifestazione - Durata e modalità dell’obbligo di presentazione - Onere motivazionale - Valutazione della proporzionalità ed adeguatezza - Necessità - Fattispecie. In tema di misure volte a prevenire fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive, il G.i.p. della convalida del provvedimento questorile impositivo dell’obbligo di comparizione per più volte presso un ufficio o comando di polizia, è tenuto a motivare sia sulla congruità della misura che sulla necessità, proporzionalità e adeguatezza di un plurimo obbligo di comparizione imposto al destinatario della misura, potendo modificare le suddette prescrizioni, in considerazione della loro diretta incidenza sulla libertà personale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la motivazione del provvedimento di convalida con il quale il G.i.p. aveva reputato necessario applicare le prescrizioni per la durata massima e con modalità particolarmente severe). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 maggio 2016 n. 19511. Misure di prevenzione - Turbative in manifestazioni sportive - Provvedimento del questore di presentazione alla p.s. - Convalida - Rapporti con il giudicato cautelare - Autonomia - Conseguenze in punto di motivazione. In tema di turbative nello svolgimento di manifestazioni sportive, il dovere di motivazione dell’ordinanza di convalida del provvedimento questorile dell’obbligo di presentazione all’autorità di P.S. non può ritenersi assolto col mero riferimento al “giudicato cautelare” nel frattempo intervenuto in relazione ai medesimi fatti, essendo il controllo di legalità sul punto del tutto autonomo rispetto alle valutazioni intervenute nel parallelo procedimento penale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 13 dicembre 2011 n. 46204. Sport - Provvedimenti contro la violenza occasionata da manifestazioni sportive - Obbligo di presentazione a un ufficio o comando di polizia in occasione di tali manifestazioni - Richiesta di convalida del pubblico ministero - Obbligo di trasmissione al giudice della convalida della documentazione sulla quale si fonda il provvedimento questorile - Necessità. Il pubblico ministero che ritenga di chiedere la convalida del provvedimento del questore reso, ai sensi dell’art. 6, comma secondo, della legge 13 dicembre 1989 n. 401 e succ. modd., in caso di turbative occorse in occasione di manifestazioni sportive, deve trasmettere al giudice la documentazione sulla quale si fonda il provvedimento medesimo, al fine di consentirne l’esame da parte della persona interessata, in vista dell’eventuale presentazione di memorie e (contro)deduzioni, e il controllo pieno di legalità da parte del giudice della convalida. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 12 novembre 2004 n. 44273. Campania: protesta sindacati di Polizia penitenziaria, da marzo sciopero della fame irpinianews.it, 25 febbraio 2019 La nota dei sindacati della Polizia Penitenziaria Osapp, Uil Pa, Pp Sinappe, Fns Cisl, Uspp, Cnpp E Cgil Fp. Da diversi giorni il personale di Polizia Penitenziaria in servizio presso gli istituti della regione sta manifestando, attraverso l’astensione della mensa ordinaria di servizio, contro il perdurante immobilismo dell’Amministrazione Penitenziaria, per far emergere il disagio che pervade l’intero Corpo di Polizia Penitenziaria che quotidianamente presta servizio in condizioni proibitive all’interno dei vari Istituti Penitenziari, per motivi connessi al forte sovraffollamento detentivo e alla grave carenza di risorse umane. La forma di protesta, già iniziata presso gli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Napoli Poggioreale e Secondigliano, si sta estendendo gradualmente anche negli altri Istituti Penitenziari della Regione, con i Poliziotti Penitenziari che rivendicano il ripristino delle condizioni di sicurezza necessarie per poter espletare con dignità e serenità il proprio lavoro. Sempre più spesso nelle carceri campane contiamo gravissimi eventi critici che vedono spesso soccombere i Poliziotti Penitenziari, sempre più soli e privi di adeguati strumenti di difesa. Tutto ciò accade nella pressoché totale indifferenza dell’Amministrazione Penitenziaria, dalla quale ci si aspetterebbe una presa di posizione forte e determinata a sostegno degli uomini e delle donne in divisa. Riteniamo che sia giunto il momento di indignarsi con determinazione per quanto sta accadendo quotidianamente negli Istituti Penitenziari, per mostrare alla politica assente e ad una Amministrazione Penitenziaria silente, le pessime condizioni lavorative ed organizzative degli Istituti Penitenziari, dotati di organici sottodimensionati rispetto alle reali necessità, gravati da carichi di lavoro che il personale di Polizia Penitenziaria è costretto da tempo a sopportare e che, nonostante tutto, affronta quotidianamente con la consueta dedizione. In questo clima, già esasperante, il confronto con le istituzioni latita, le relazioni sindacali sono sempre più rarefatte e non è possibile garantire l’applicazione corretta dei protocolli di intesa locali vista la carenza sempre più massiccia di uomini e mezzi, aggravata dall’ultimo D.M. del 02/10/2017 recante le nuove dotazioni organiche che ha ridotto di circa 750 unità la forza presente in Campania e di circa 4000 unità a livello nazionale. Nei più grandi istituti penitenziari della Campania non si riescono a garantire gli adeguati giorni di ferie necessari per il recupero psicofisico del personale, ormai stremato dagli eccessivi carichi di lavoro. La nuova ripartizione delle dotazioni organiche a livello nazionale, ha fortemente penalizzato in particolar modo la regione Campania, unica realtà del panorama nazionale in cui operano esclusivamente Nuclei Provinciali ed Interprovinciali che assorbono centinaia di unità di Polizia Penitenziaria impegnate quotidianamente nei servizi di traduzione e piantonamento di detenuti per lo più appartenenti al circuito Alta Sicurezza. Ne consegue un notevole aggravio dei carichi di lavoro dei poliziotti attualmente operanti che fa leva esclusivamente sullo spirito di sacrificio degli stessi che per adempiere al proprio dovere espletano sistematicamente cospicue ore di lavoro straordinario, viaggiando con scorte sottodimensionate con grave pregiudizio per la sicurezza. Inoltre, il regime detentivo aperto sta mostrando ogni giorno di più le sue lacune visto il notevole aumento di eventi critici dall’inizio dell’anno. Non è, infatti, ipotizzabile dare attuazione un programma di ammodernamento del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale secondo i nuovi canoni senza un investimento in termini di potenziamento numerico delle piante organiche presenti in Regione ed un adeguamento tecnologico e strutturale degli Istituti Penitenziari. Persistendo questo degradante e mortificante quadro del sistema penitenziario campano, il Personale di Polizia Penitenziaria è costretto quotidianamente a svolgere turni di servizio non inferiori alle otto ore giornaliere, con notevole consumo di lavoro straordinario (di incerta remunerazione a causa dell’ulteriore e preannunciato taglio sui fondi anche di questo capitolo di spesa). Tutto ciò testimonia, senza possibilità di essere smentiti, l’inadeguatezza delle dotazioni organiche stabilite con il D.M. del 2 ottobre 2017 che, pertanto, necessità di una imminente rivisitazione. Oramai in quasi tutte le realtà detentive della regione il Personale opera già ai livelli minimi di sicurezza durante le ore antimeridiane, e si riduce ai minimi termini nei turni pomeridiani e notturni, con un’inferiorità numerica rispetto alla popolazione detentiva che espone il Personale di sezione al concreto pericolo di restare vittima di quegli stessi eventi critici che deve impedire e fronteggiare. Viste le condizioni attuali, è legittimo preoccuparsi per la sicurezza interna ed esterna al carcere, ed è doveroso investire di tale difficile situazione anche le Autorità competenti a garantire l’ordine e la sicurezza sul territorio. Le OO.SS. non solo sono perplesse ed amareggiate dall’atteggiamento evasivo dell’Amministrazione Penitenziaria testimoniato dalla mancanza di riscontri alle nostre rivendicazioni e ai nostri continui solleciti, ma sono seriamente preoccupate perché, a breve, ci si troverà nell’impossibilità di gestire adeguatamente le carceri, sempre più congestionate, con grave nocumento per la sicurezza della collettività. La cronaca quotidiana ci racconta di aggressioni, rivolte, oltraggi che si susseguono ormai con una frequenza allarmante. Le risorse umane scarseggiano, le integrazioni di personale sono di gran lunga inferiori ai pensionamenti, in considerazione del mancato turn over dovuto al taglio delle dotazioni organiche. Gli organici sempre più ridotti costringono i nostri colleghi a ricoprire con una preoccupante sistematicità più posti di servizi con carichi di lavoro sempre più insostenibili. In considerazione di quanto sopra delineato, appare, quindi, superfluo evidenziare che la suddetta situazione si ripercuote gravemente sulle attività istituzionali e sulla pianificazione dei servizi quotidiani i quali vengono portati a termine solo grazie agli sforzi quotidiani e ai sovraccarichi di lavoro che il personale di Polizia Penitenziaria quotidianamente pone in essere mettendo a rischio la propria salute ed esponendo a continui pericoli la propria incolumità. Da tutto ciò ne deriva un quadro preoccupante che necessita indifferibilmente di un immediato intervento risolutore da parte degli organi competenti. Per questi motivi le Segreterie Regionali delle scriventi OO.SS. hanno costituito una larga intesa per porre in essere ulteriori azioni di lotta sindacale, necessarie per consentire alla Polizia Penitenziaria di svolgere i compiti affidati dall’ordinamento giuridico con efficienza ed efficacia. Nello specifico, queste compagini sindacali, congiuntamente, proseguiranno lo stato di agitazione con relativa interruzione delle già inesistenti relazioni sindacali annunciando sin d’ora che, a partire dai primi giorni di marzo, porranno in essere un presidio H/24 in prossimità di sedi istituzionali con attuazione della protesta dello sciopero della fame dei componenti delle Segreterie Regionali sindacali. Questa rappresenterà inoltre l’occasione per chiedere all’Opinione Pubblica, a tutti i Cittadini e ai mass-media di aiutarci e di sostenere questa nostra protesta, in quanto una Società è degna di essere denominata “civile” solo se anche le sue Carceri siano in grado di garantire dignità di vita a chi è recluso, e condizioni di lavoro accettabili alla Polizia Penitenziaria, che in tali luoghi svolge la sua difficile ed importante attività. Roma: due anni dalla morte di Valerio Guerrieri, Antigone ribadisce richiesta di giustizia di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2019 Il 24 febbraio 2017, nel carcere romano di Regina Coeli, si tolse la vita impiccandosi Valerio Guerrieri, giovane ragazzo di 21 anni. A due anni da quel fatto sono in piedi due diversi filoni processuali. Da una parte quello che vede coinvolti alcuni agenti di polizia penitenziaria e personale medico del carcere, accusati di omicidio colposo; dall’altro quello relativo al trattenimento senza titolo del giovane all’interno dell’istituto penitenziario. “Pochi giorni dopo la morte del ragazzo la madre si rivolse alla nostra associazione, inviandoci anche una lettera che il figlio le scrisse poco prima di suicidarsi. In quella lettera, che ci invitò a rendere pubblica, cosa che facemmo, era evidente il precario stato psicologico di Valerio” ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “La madre ci raccontò la vicenda del figlio, chiedendo un nostro impegno affinché se ne potessero chiarire tutti gli aspetti e avere giustizia. Una richiesta che abbiamo fatto nostra”. Come spesso accade in questi casi, furono proprio le denunce presentate dalla madre di Valerio Guerrieri per quanto riguarda l’ipotesi di omicidio colposo, e di Antigone sulla questione del trattenimento senza titolo, che diedero avvio alle indagini. “Mentre per il primo filone di inchiesta, quello sull’omicidio colposo, si è già arrivato al rinvio a giudizio degli indagati, sulla questione del trattenimento senza titolo nei mesi scorsi fu chiesta l’archiviazione del caso. Richiesta a cui ci siamo opposti” come spiega Simona Filippi, avvocato della madre del ragazzo e di Antigone. “Il giudice - prosegue l’avvocato Filippi - ha accolto la nostra opposizione ordinando al PM di iscrivere i presunti responsabili nel registro degli indagati”. Al momento di suicidarsi Valerio Guerrieri non si sarebbe dovuto trovare a Regina Coeli. Il Giudice, dieci giorni prima, aveva infatti revocato la custodia in carcere e il giovane doveva essere portato in una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). “Il caso di Valerio Guerrieri non è l’unico caso di trattenimento illegittimo in carcere di cui abbiamo avuto notizia. Purtroppo, a differenza di altri, è stato però un caso che ha avuto un epilogo tragico” dichiara ancora Patrizio Gonnella. “Per questo siamo impegnati nella ricerca della giustizia. Per Valerio, ma anche per affermare un principio fondamentale, che persone come lui non si possono curare dietro le sbarre, ma le si dovrebbe curare affidandole al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi del territorio”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Salerno: nel carcere una pizzeria sociale per aiutare i detenuti salernonotizie.it, 25 febbraio 2019 Nella conferenza stampa di novembre si era auspicato, per la realizzazione del progetto “La pizza buona dentro e fuori” (che ha come obiettivo una pizzeria all’interno della Casa Circondariale “A. Caputo” di Salerno), il coinvolgimento di tutta la Comunità Salernitana. Ristoranti e Pizzerie di Salerno hanno risposto all’appello di solidarietà per questa importante iniziativa. Martedì 26 febbraio alle ore 11,00, prezzo la Pizzeria Trianon in P.zza Flavio Gioia n.22 Salerno, in conferenza stampa saranno presentati i 10 locali di Salerno che hanno aderito alla campagna di raccolta fondi per la realizzazione della pizzeria all’interno della Casa Circondariale e saranno comunicate le cifre delle raccolte fondi già effettuate. Interverranno Carmen Guarino (Presidente della Fondazione Casamica), Antonia Autuori (Presidente della Fondazione Comunità Salernitana), Paola De Roberto (Consigliere Comune di Salerno), oltre ai rappresentanti dei Ristoranti e Pizzerie. Roma: “Dalle sbarre alle stelle”, debutta a Rebibbia il tour teatrale dei detenuti L’Opinionista, 25 febbraio 2019 Debutta il 1° marzo alle ore 16, nel carcere romano di Rebibbia, in un evento aperto alle autorità, alla stampa accreditata, agli studenti delle classi superiori e ai detenuti, la tournée dello spettacolo “Dalle sbarre alle stelle”, promosso dal Teatro Stabile d’Abruzzo, con la regia di Ariele Vincenti, tratto dal libro di Attilio Frasca e Fabio Masi (Itaca Edizioni) “Cento lettere: dalle sbarre alle stelle”. In scena la storia vera di Attilio Frasca (sul palco nel ruolo di se stesso) narrata attraverso le lettere che ha scritto dal carcere ai suoi migliori amici. A recitare dieci detenuti che lo scorso dicembre hanno dato vita all’anteprima organizzata nel teatro del carcere San Donato di Pescara. Lo spettacolo vede la partecipazione di Flavio Insinna, voce narrante che, attraverso un’interpretazione toccante delle lettere, ne diviene l’anima e la coscienza, il pensiero e la speranza. La tournée, rendono noto gli organizzatori, proseguirà al di fuori del carcere, nei teatri di Pescara, L’Aquila, Napoli e Roma. Le democrazie apparenti: un inganno nutrito di indifferenza di Marzio Breda Corriere della Sera, 25 febbraio 2019 Paolo De Luca in “Il vento dell’Est” (Laruffa Editore) analizza l’autoritarismo delle nuove forme di potere che minacciano la sopravvivenza del liberalismo. La democrazia liberale non è più iscritta in quello che, dal secondo dopoguerra, abbiamo creduto l’ordine naturale e immutabile dell’Occidente. A insidiarla, ci avverte nel suo nuovo saggio Paolo De Luca, giornalista Rai di lungo corso ed esperto di politica estera, c’è ora un “vento dell’Est” - definizione di Viktor Orbán - che scuote il mondo di mezzo, ossia l’Europa centrale schiacciata dai fragili equilibri di un’economia globalizzata il cui baricentro si sposta sempre più a Oriente. È il vento del dispotismo, delle democrazie imperfette, delle autocrazie illiberali che stanno sfidando l’ordine liberaldemocratico. In questa missione contano sul sostegno di partiti populisti e sovranisti che - lo dimostra il laboratorio italiano - godono di consensi in crescita. Un fenomeno seguito con compiaciuto interesse da Trump e Putin, per i rischi che si adombrano sulla tenuta della Ue e della moneta unica. Siamo entrati in quell’”inverno della democrazia” di cui parlò lo storico francese Guy Hermet? O attraversiamo una delle fisiologiche transizioni dell’ordine democratico che - come osservava Norberto Bobbio - si distingue dalla staticità della dittatura proprio per il suo incessante trasformarsi? Difficile dirlo. Di sicuro c’è che le cose stanno cambiando. In fretta e confusamente. E se all’orizzonte non c’è ancora il rischio di un ritorno alla stagione delle dittature che caratterizzò il Novecento, ci si avvia comunque verso forme ibride di potere. Magari un soft power con una personalizzazione estrema. Un modello di “capitalismo autoritario o di democrazia senza libertà”. Un nuovo, moderno regime dispotico può nascere, sostiene De Luca nel Vento dell’Est (Laruffa Editore), senza manifestazioni plateali e in una torpida indifferenza. “Un potere impersonale ma pervasivo” come quello che Alexis de Tocqueville definì nel 1835 in La democrazia in America: “Assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite... ama che i cittadini si divertano purché non pensino che a divertirsi”. La domanda chiave è se queste inedite forme di dispotismo possano convivere con la democrazia. La risposta non può che essere solo parzialmente positiva, a condizione di considerare la democrazia come semplice processo elettorale, l’atto con il quale i cittadini depositano la scheda nell’urna. Questo tipo di democrazia non è mai stato così diffuso: il 60 per cento dei Paesi sono “democratici”, fra essi la Bielorussia, il Kazakistan, la Russia, la Turchia e persino la Siria di Assad. Ma possono dirsi democratici regimi che calpestano i diritti umani, civili e politici, che non riconoscono lo Stato di diritto e non hanno magistrature indipendenti e zittiscono la stampa? Ha senso teorizzare “democrazie illiberali” - come ha fatto Orbán, sempre lui - dal momento che una democrazia senza libertà è una scatola vuota? Nella densa analisi di De Luca la sfida che l’Occidente affronta è difficile, ma non del tutto nuova. Nasce come estrema conseguenza della scissione, che ebbe origine nella Francia del XVIII secolo, e sfocia oggi in un’entità plebiscitaria. Una democrazia d’acclamazione, che torna a materializzarsi in forme diverse - a volte parodistiche, e in un contesto sociale, economico e tecnologico nuovo - nelle linee guida di tanti movimenti populisti. E proprio di qui nasce il loro integralismo, il loro considerarsi depositari della verità e della volontà del popolo. E, ponendosi come panacea di ogni male, il loro sostanziale rifiuto del pluralismo e addirittura del diritto di dissentire. Urgono antidoti, in primo luogo culturali, per evitare che tutto ciò si radichi. “La politica senza politica” di Marco Revelli. Che cosa succede alle nostre democrazie di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 febbraio 2019 Per cercare di decifrare la mappa esatta del terremoto politico e psicologico che sta sconvolgendo le democrazie occidentali è consigliabile un libro appena uscito di Marco Revelli. Sarebbe consigliabile la lettura delle pagine di “La politica senza politica” di Marco Revelli appena uscito per Einaudi per cercare di decifrare la mappa esatta del terremoto politico e psicologico che sta sconvolgendo le democrazie occidentali. Negli Stati Uniti, si legge in questa radiografia impietosa, per Hillary Clinton hanno votato plebiscitariamente con percentuali tra il 70 e l’80 per cento “Manhattan e il District of Columbia, i quartieri alti di San Francisco e Los Angeles”, il centro di Detroit e Chicago, “i giganteschi hub della globalizzazione”, i “motori potentissimi dell’economia finanziaria”. “Hanno votato Trump gli altri”: “i farmers della Grandi Pianure in semiabbandono”, “i ceti medi marginalizzati nei suburbi delle grandi e piccole città”, “un migliaio di contee dove Trump ha prevalso con margini di 50-60 punti percentuali”, “i minatori declassati della coal towns del Kentucky, i metallurgici delle acciaierie dell’Ohio”, la cosiddetta “cintura della ruggine” e Harlan County, un tempo trincea delle lotte operaie che oggi ha dato l’80% a Trump. E nel referendum sulla Brexit? Strepitoso successo del remain nella “inner Londra”, raccolta attorno “alla city e ai quartier generali del business globale” e delle “attività creative connesse”, nei grandi centri urbani. Plebiscitato invece il leave nelle “Midlands, tra gli abitanti delle aree rurali ma anche del nucleo originario dell’industria inglese”, nei “quartieri periferici londinesi”, nelle “aree con maggior sofferenza sociale”, tra “i piani bassi della società in travolgente trasformazione”, nella “working class bianca” della periferia industriale urbana, dove il “leave schizza al 70 per cento”. Stessa musica in Francia dove Macron ha avuto le grandi città e “Parigi in primis”, ma la Le Pen “si è presa la maggior parte dei comuni rurali”, delle piccole città, delle “fasce con reddito basso”, tra gli “strati sociali che subiscono un processo di declassamento”. Quasi stessa musica in Germania dove l’estrema destra dell’Afd vola nelle “roccaforti socialdemocratiche” a più basso reddito. E in Italia musica molto simile. Sono dati che dovrebbero far riflettere sulle dimensioni di un rivolgimento epocale, ma il nostro establishment, il più sciocco e fatuo del mondo, perde tempo ad allarmarsi per il complotto degli hacker russi. “American Prison”, di Shane Bauer recensione di Daniela Gross doppiozero.com, 25 febbraio 2019 Nel 2014 Shane Bauer si fa assumere come guardia nella prigione di Winn, in Louisiana. Passano quattro mesi prima che qualcuno si accorga che è un giornalista. Quando la copertura salta, pianta tutto e porta in salvo il suo prezioso bottino: video, foto e appunti che per la prima volta documentano in presa diretta la vita del carcere. Raccontata su “Mother Jones” nel reportage più letto nella storia del magazine, quell’esperienza è diventata un libro duro e appassionante, American Prison - A Reporter’s Undercover Journey Into the Business of Punishment (Penguin Press, 351 pp.). Segnalato dal “New York Times” e da Obama fra i libri migliori dello scorso anno, American Prison è un viaggio difficile da dimenticare nel lato oscuro del sistema penitenziario statunitense. Shane Bauer ha dalla sua la pratica giornalistica (è stato corrispondente dal Medio Oriente e dall’Africa), l’occhio allenato ai dettagli, la capacità di andare oltre le prime impressioni. E, soprattutto, ha vissuto sulla sua pelle ciò che racconta. Il suo nome aveva fatto il giro del mondo nel 2009 quando, per aver sconfinato durante un’escursione, si era fatto due anni di carcere in Iran con l’accusa di spionaggio. Ricostruita in un memoir - A Sliver of Light, scritto con la futura moglie Sarah Shourd e Josh Fattal, suoi compagni di prigionia - quella dolorosa vicenda torna nel resoconto dalla prigione di Winn in un surreale rovesciamento di ruoli. Smessi i panni del detenuto per quelli del carceriere, Shane Bauer racconta le sue giornate annodando i fili della cronaca in una prospettiva storica che dalla schiavitù corre fino ai giorni nostri. Si schiude così uno scenario inquietante, dove il profitto è re e la prevaricazione può diventare abitudine anche per chi, come l’autore, è consapevole del pericolo. Se non fosse per i numeri, l’argomento potrebbe restare confinato nel limbo degli specialisti o delle buone intenzioni. Le cifre però sono esplosive. Gli Stati Uniti sono il paese che ha il più alto tasso di carcerazione al mondo. Nel 2017 erano dietro le sbarre oltre due milioni di persone e il trend è in costante aumento come le recidive. “È un disastro nazionale”, scrive senza mezze misure Bauer. Basta guardarsi intorno e si capisce alla svelta che, per una fetta di società, finire dentro è una sorta di stralunata normalità. Qui in Louisiana giornali e siti web pubblicano con regolarità le foto segnaletiche dei detenuti appena entrati in carcere. Divise arancio, facce stravolte, pelle quasi sempre scura. È un bollettino della disgrazia che non conosce tregua né rispetto. In quest’alluvione, a dare man forte al sistema federale e statale è il settore privato ed è qui che entra l’analisi di American Prison. Il mercato è dominato da due gruppi, Geo Corrections e Cca-Corrections Corporation of America, quella per cui finisce a lavorare Bauer. Nel 2014 si spartiscono una torta di quasi tre miliardi e mezzo l’anno. Otto detenuti su cento si trovano nelle loro strutture, concentrate nel sud del paese. È un settore fiorente di cui si sa poco. I reporter accedono alle prigioni solo in tour opportunamente guidati, i dati restano dietro le porte dei consigli d’amministrazione e le pubbliche relazioni spengono sul nascere ogni focolaio d’incendio. Entrare in una realtà del genere sotto copertura ha dei rischi. Shane Bauer lo sa, come sa che è una scelta delicata dal punto di vista etico, in base al principio per cui il giornalista deve sempre farsi riconoscere come tale nell’esercizio del suo mestiere. La ricerca della verità e il servizio al cittadino gli sembrano però ragioni sufficienti. “Se non lavorassi a Winn e scrivessi della prigione usando i mezzi tradizionali, non saprei mai quant’è violenta”, argomenta elencando poi i precedenti più celebri, da Nelly Blye che nel 1887 si fece rinchiudere in manicomio per documentare la vita delle malate a John Howard Griffin che, fingendosi afroamericano, negli anni Sessanta raccontò la segregazione razziale nel Deep South. L’aspetto più stupefacente è però che a Bauer non servono coperture per scoprire la prima verità, quella sul personale. “La gente dice che assumiamo chiunque”, dice il capo della formazione del carcere. “Non è proprio così, ma se vieni qui, respiri, hai una patente valida e voglia di lavorare lo faremo”. Ed è così che Shane Bauer, uno che perfino un bambino saprebbe tracciare on line, è assunto: con il suo vero nome e cognome. Se il background check è un colabrodo, l’addestramento sembra una comica. Dopo qualche giorno di lezioni e video educativi, l’agente Bauer è scaraventato in prima linea. Neanche due mesi dopo è lui, l’ultimo arrivato, ad addestrare le reclute. Ai controlli nessuno nota che ogni giorno, per quattro mesi, porta al lavoro un notes e che la penna nasconde una videocamera accesa tutto il giorno. Tanto meno ci si immagina che ogni sera riversi la sua giornata su un computer, in racconti che oscillano fra cronistoria e autocoscienza. Il risultato di quest’immersione è un racconto che poco ha da invidiare a Dickens. La prigione di Winn si rivela un microcosmo zuppo di violenza, dove per un agente ci sono 176 detenuti (nelle prigioni federali lo standard è uno per 4.4), le coltellate sono all’ordine del giorno, le cure mediche ridotte al minimo e i programmi di riabilitazione inesistenti. Per tenere a bada il numero esorbitante di prigionieri, alla minima provocazione le guardie li annaffiano di spray al peperoncino. A lavorare in un posto del genere si rischiano la vita e la salute mentale. Eppure i candidati non mancano. Lo stipendio è nove dollari l’ora, una paga con cui non si arriva a fine mese. Ma a Winnfield - una cittadina di 4 mila 600 anime nel nordest rurale della Louisiana, dove il reddito medio è appena sopra la linea di povertà - non ci sono molte alternative. Si lavora alla fabbrica legnami, nell’unico Walmart o, appunto, in prigione. In queste condizioni farsi troppe domande è un lusso. Bauer è lì per quello, ma anche per lui arriva il giorno in cui “per la prima volta, solo per un momento, dimentico di essere un giornalista”. Risucchiato da quella che sta diventando una routine, l’ex carcerato si vede diventare carceriere. Non simpatizza più con i detenuti né si immedesima nella loro situazione. È passato dall’altra parte. È la triste conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del celebre esperimento di Stanford (1971) sulla percezione del potere. Lì un gruppo di studenti, suddiviso in guardie e detenuti, arrivava in pochi giorni a tali vette di sopraffazione da indurre i ricercatori a sospendere il progetto. Qui, un giovane reporter ex recluso si scopre con disgusto capace di crudeltà mai immaginate possibili. “I soldati di Abu Ghraib o perfino le guardie di Auschwitz o i rapitori di Isis sono così interiormente diversi da te e me? “, chiede. “Traiamo conforto dall’idea di un invalicabile abisso fra il bene e il male, ma forse dovremmo capire [...] che il male è qualcosa di cui tutti siamo capaci nelle giuste condizioni”. Svolgere la matassa della Storia non fa che rendere più brucianti questi interrogativi. Thomas Beasley, uno dei fondatori di Cca, sostiene che la carcerazione è un business e “si vende come se si vendessero macchine, case o hamburger”. È disturbante ma, scrive Bauer, “Non c’è mai stata un’epoca nella storia americana in cui le compagnie o il governo non abbiamo cercato di far soldi dalla prigionia altrui”. Tocca infatti ai penitenziari contenere gli effetti dell’abolizione della schiavitù. I detenuti presto rimpiazzano gli schiavi e lo scambio si rivela assai più vantaggioso del previsto. A differenza dello schiavo, il carcerato non richiede investimenti. Per uno che muore, ce n’è subito un altro pronto a prendere il suo posto. Usa e getta, a costo zero. In un’alleanza che negli anni diventa sempre più stretta, gli stati e i privati sfruttano questo giacimento di lavoro non pagato in modo bestiale. Intere prigioni sono affittate a privati e diventano immense piantagioni, fattorie, fabbriche. I detenuti lavorano a strade, ferrovie, argini, miniere. Migliaia di persone, in larga maggioranza afroamericani, sono torturate e massacrate. I profitti sono immensi, il debito d’umanità incolmabile. Dagli anni Ottanta il business si concentra sugli stessi detenuti. Le carceri sono gestite come catene di alberghi. Fruttano un tot al giorno per persona e in molti contratti l’occupazione è garantita. Per chi si sobbarca la spesa, la convenienza è indiscutibile. In una struttura statale un detenuto costa fra 50 e 80 dollari al giorno, nella prigione di Winn fino a poco fa ne bastavano 34. La maggior parte delle strutture private sono al Sud, dove la vita è più economica. La differenza non è però tale da giustificare questo scarto. A rendere i contratti redditizi, sostiene invece Bauer, sono i tagli drastici ai programmi di riabilitazione, al personale, alle cure, al cibo, alla manutenzione delle strutture. In altre parole, condizioni di vita intollerabili. Il finale è amaro e visti i precedenti non c’è da stupirsi. Appena pubblicato l’articolo su “Mother Jones”, Shane Bauer è chiamato a Washington per discutere di carceri private con rappresentanti federali. Subito dopo l’amministrazione Obama annuncia che il Dipartimento di giustizia rescinderà ogni contratto con Cca e analoghi. La decisione ha però vita breve. Dopo l’insediamento di Trump, l’impegno è annullato e la stretta sull’immigrazione, che moltiplica i centri di detenzione, schiude al settore nuovi consistenti guadagni. Quanto alla prigione di Winn - riferisce il New York Times - dopo un breve interregno pubblico ha una nuova gestione. La Louisiana l’ha affidata alla compagnia privata LaSalle Corrections, s’immagina con soddisfazione. Cca riceveva 34 dollari al giorno: La Salle si è accontentata di 24. Quell’Italia che si è arresa alla paura di Ilvo Diamanti La Repubblica, 25 febbraio 2019 L’insicurezza si riduce ma non è una inversione di trend: cresce l’assuefazione anche se i social alimentano il disagio. Da oltre 10 anni Demos e la Fondazione Unipolis conducono un’indagine sulle paure e l’insicurezza che pervadono le persone e la società. In Italia e in Europa. Per cogliere i cambiamenti che orientano le nostre percezioni. Perché le paure e l’incertezza sono divenute importanti nelle relazioni con gli altri. Ma anche nei rapporti con le istituzioni. Con la politica. Con i media. Ebbene, in questa occasione qualcosa sembra essere cambiato. Perché “l’insicurezza” è “sicuramente” profonda, diffusa presso la popolazione di tutti i Paesi. Ma ha raggiunto, ormai, caratteri e misure stabili. Perfino in (lieve) decrescita. Almeno in Italia. Anzitutto: l’inquietudine “globale”. In Italia, coinvolge 3 persone su 4. Seguita dall’insicurezza “economica”, riguardo al futuro personale e sociale: oltre 6 persone su 10. Quindi, dalla paura generata dalla “criminalità” - soprattutto “organizzata”. Che preoccupa quasi 4 persone su 10. Questi sentimenti, presso un quarto della popolazione: si sommano. Generano insicurezza “assoluta”. Eppure, nessuna di queste paure, considerata singolarmente, appare in aumento, negli ultimi anni. Dopo i picchi osservati fra il 2012 e il 2014, si assiste, piuttosto, a un assestamento degli indici di insicurezza. È difficile pensare che si tratti di un’inversione di tendenza. Preludio a un’epoca di rassicurazione. Perché l’insicurezza mantiene indici elevati. E grande diffusione. Questo trend suggerisce, invece, una spiegazione diversa. Forse, più “inquietante”. Una crescente assuefazione alla paura, meglio, “alle” paure. Ormai interiorizzate e, quasi, “date per scontate”. Nella società e fra i cittadini. Seppure in misura diversa, tra le diverse zone. In Italia e in Europa. Così resistono, ma generano meno emozione. Nonostante vengano amplificate dai media. Nei programmi di informazione, ma anche nei reality. Perché fanno - e diventano - spettacolo. L’insicurezza, dunque, genera meno paura, nonostante continui a pervadere la società, perché viene “normalizzata”. Per citare un riferimento autorevole, Hannah Arendt, è “la banalità della paura”. “Dell’insicurezza”. Diffusa dovunque. E utilizzata di continuo, magari strumentalmente, dai media, nel discorso politico. Perché influenza le scelte elettorali e il clima d’opinione. E, al tempo stesso, favorisce gli ascolti. Così, “lo spettacolo della paura” si ripete di continuo. E fa (un po’) meno paura. Tuttavia, si tratta sempre di un risentimento diffuso. Seppure in modo diverso. Sotto il profilo sociale e territoriale. In Italia e in Europa, infatti, emerge una divisione comune e coerente. Un distacco fra Nord e Sud. In Europa: i Paesi mediterranei, Italia e Francia, insieme all’Ungheria, manifestano indici di insicurezza maggiori rispetto agli altri. In termini di soddisfazione “economica”. La stessa frattura emerge, in modo (forse più) evidente, in Italia. Dove la misura delle paure, nel Mezzogiorno, risulta molto elevata. Sul piano sociale e demografico, peraltro, l’insicurezza scava, in modo più profondo, nei settori “periferici”. I disoccupati, le donne, gli anziani. Coloro, cioè, che guardano con maggiore difficoltà al futuro. È, quindi, significativo che il “futuro dei giovani” si presenti come un problema inquietante, in Europa. Dovunque. Ma in Francia e in Italia più che altrove. Soprattutto fra i più anziani. Che il futuro ce l’hanno alle spalle. E, per questo, faticano a guardare avanti. Nell’indagine di Demos-Fondazione Unipolis echeggiano molti temi esplorati dalla riflessione sull’uomo globale. Che soffre per la perdita di confini spazio-temporali. Si pensi, fra gli altri, ai contributi di Zygmunt Bauman e di Anthony Giddens. Anche per questo l’immigrazione suscita inquietudine. Perché evidenzia la nostra vulnerabilità di “fronte al mondo”. Non è un caso che l’insicurezza pervada maggiormente coloro che comunicano attraverso la rete. Mediante i social. Perché, nello spazio digitale: tutti sono (siamo) in contatto con (gli) altri. Sempre in “comunicazione”. Ma non in “comunità”. E, dunque: sempre “da soli”. L’insicurezza, invece, si riduce quando si allargano le relazioni “personali”. I legami di vicinato. Dove cresce la partecipazione. Insomma, quando si va oltre i social e si entra nel sociale. Infine, la normalità dell’insicurezza contribuisce a spiegare il cambiamento che accompagna il campo della politica. Dove avanzano, dovunque, nuovi attori. Definiti con un termine, in parte, poco definito: “populisti”. I partiti “populisti”, infatti, stanno occupando uno spazio importante nei sistemi politici europei. Oltre le distinzioni storiche e tradizionali. Fra Destra e Sinistra. Liberali, Popolari e Socialisti. Questi partiti - più o meno nuovi - individuano nell’Europa un bersaglio. In quanto governata da élite politiche, burocratiche e finanziarie. Al tempo stesso, offrono risposta alla domanda di sicurezza che sale dalle “periferie” del potere. Riassunte in un “popolo” indefinito. Che non riflette più le tradizionali differenze di classe e di posizione sociale. D’altra parte, metà del campione definisce il proprio lavoro: flessibile, temporaneo oppure precario. Mentre metà della popolazione si colloca ancora nel “ceto medio”. Cioè: nel mezzo di una stratificazione di classe indistinta. La “normalità dell’insicurezza”, dunque, non costituisce un sintomo “rassicurante”. Al contrario. Perché accettare la “banalità della paura” significa perdere la speranza. L’orizzonte. Ma, così, noi stessi rischiamo di perderci. Egitto. Conte: “Regeni per l’Italia è una ferita aperta finché il caso non si risolverà” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 25 febbraio 2019 Il premier sull’uccisione del ricercatore all’inizio del 2016. Probabile incontro con il presidente egiziano Al Sisi a margine del summit Ue-Lega araba in corso a Sharm el Sheikh: “Troveremo il modo di confrontarci, trasmetterò le premure del governo”. Libia, caso Regeni, pace in Medio Oriente, e poi una collaborazione che spera “strategica fra Paesi arabi ed europei”. Al primo vertice fra Lega araba ed Unione europea, l’intervento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte spazia su questi temi, con un accento particolare sulle crescenti tensioni in Libia, la cui situazione “è strategica per l’Italia” e per questo servono degli “sforzi volti a prevenire una escalation di violenza o un conflitto civile, che sono sempre dietro l’angolo”. A margine del summit, che si tiene in Egitto, a Sharm el Sheikh, il capo del governo insiste sulla road map che ha la spinta delle Nazioni Unite: “Tutti devono rinunciare a qualcosa, abbiamo una road map e auspico che la conferenza internazionale promossa dall’Onu si possa realizzare”, spiega dopo aver visto il premier libico Fayez al Sarraj. “Presto - aggiunge - avrò un aggiornamento anche con il generale Haftar”, il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). “Ci sono movimenti significativi del generale che stiamo seguendo”, ha sottolineato Conte, riferendosi anche alla recente operazione dell’uomo forte della Cirenaica nel Fezzan. “Tengo molto alla situazione della Libia e una costante attenzione è volta anche a prevenire un’escalation di violenza o un conflitto civile, riteniamo che la soluzione non possa che passare dal dialogo, bisogna trovare un compromesso, una Conferenza internazionale sotto l’egida dell’Onu sarebbe un momento di sintesi in cui tutti gli interlocutori libici potranno esprimere le loro posizioni verso una soluzione più immediata possibile”. Oggi Conte potrebbe vedere il presidente egiziano Al Sisi in un bilaterale, e a questo proposito il caso di Giulio Regeni “è sempre una ferita aperta e lo resterà finché non si risolverà, cercheremo di trovare il modo di confrontarci e trasmetterò le premure del governo italiano e dell’opinione pubblica, che sapete quali sono”, ha detto ancora il premier. Conte ha parlato anche di terrorismo e di Isis: “Oggi la minaccia di Daesh è più liquida, ma non per questo meno pericolosa e ci sono rischi crescenti connessi ai molti foreign fighters”. E sul conflitto israelo-palestinese, “va rilanciata con vigore la prospettiva di una pace giusta e duratura, sostenendo con convinzione la prospettiva dei due Stati” mentre sulla collaborazione fra paesi arabi ed Ue vede come centrale “lo sviluppo di progetti congiunti di efficienza energetica, senza dimenticare le infrastrutture marittime”. Egitto. La Ue incorona Al Sisi nuovo custode delle rotte dei migranti di Vincenzo Nigro La Repubblica, 25 febbraio 2019 I Paesi europei pronti a dare all’ex generale un ruolo simile a quello che Erdogan ricopre ad Est. Al Sisi accoglie trionfalmente il re dell’Arabia Saudita Salman che, fatto eccezionale, arriva di persona in Egitto per il vertice della Lega Araba con la Ue. Ma il trionfo è tutto suo, del generale restauratore di un regime militare che, con la fine dell’ex presidente Hosni Mubarak, travolto dalla rivolta popolare del 2011, era andato in pezzi. Le primavere arabe sono un ricordo lontano. Il presidente egiziano accoglie il sovrano alla scala mobile che gli egiziani avvicinano all’aereo per aiutare la discesa dell’anziano re. I gesti, gli sguardi e i riguardi verso il sovrano suggeriscono la vittoria di Al Sisi. Un diplomatico dice che è come se Al Sisi lanciasse questo messaggio: “Salman è il re dei sauditi, io sono il braccio armato del mondo arabo, sono l’Egitto”. Messaggio a cui tutti i 28 Paesi della Ue, assieme a quelli della Lega Araba (salvo il Qatar boicottato e la Siria) aderiscono ormai senza esitazione o imbarazzo. Nella dichiarazione finale non ci sono altro che buone parole. Negoziate fino allo sfinimento: l’Ungheria sino all’ultimo ha preteso che un certo tipo di riferimento all’immigrazione venisse cancellato. Ma quello che oggi verrà reso noto è un testo che non spiega il grande regalo che l’Europa è costretta a fare all’Egitto di Al Sisi: riconoscere il generale come signore assoluto del Paese e prepararsi a trasformarlo più o meno in quello che Erdogan è diventato per la Ue contro l’immigrazione illegale dall’Est. Una sorta di gendarme per il Sud, un gendarme da retribuire come Erdogan è stato pagato per fermare i migranti. Con una grande differenza: se l’Egitto verrà compensato per fermare l’immigrazione dal Sud il primo “prezzo” dovrà essere una maggiore libertà d’azione per Al Sisi in Libia, da dove i migranti provengono. Quindi possibile alleanza più forte con Haftar, o con chi lo sostituirà, ed esportazione in Libia di un sistema militar-poliziesco simile a quello egiziano. Nonostante le fibrillazioni della politica interna, il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha scelto di non mancare all’appuntamento, importante per l’Italia nel Mediterraneo. Oltre al caso Regeni, la Libia è l’emergenza di cui il premier parla in pubblico. Per dire che ha visto il presidente libico Fayez Serraj, che presto sentirà anche Haftar e che “l’Italia continua a seguire la road map dell’Onu, sperando che al più presto si possa tenere la Conferenza Nazionale per avvicinare le posizioni delle diverse parti”. A Sharm l’Italia forse sarà l’unico Paese europeo che porrà a Sisi un argomento che riguarda il rispetto dei diritti umani, parlando appunto del caso Regeni. Ma sarà un caso singolo. Per il resto la pena capitale, gli arresti., le violenze in Egitto continuano assai pesanti nel silenzio della Ue. Nel Mediterraneo l’Egitto di Al Sisi è ritornato un Paese decisivo e rispettato.