La questione giustizia di Francesco Carrassi La Nazione, 24 febbraio 2019 La percezione che si ha dell’amministrazione della giustizia in Italia non è delle più rassicuranti. Basterebbe pensare solamente, come aspetto emblematico, la faticosa e incompiuta transizione dal sistema inquisitorio a quello accusatorio, per capire quanto sia complicato riformarla in linea con i Paesi più avanzati. E’ d’altronde il fattore culturale, a cominciare dalla stessa mentalità dei magistrati, che dovrebbe fornire il terreno fertile per una riforma adeguata. Non basterebbe neppure un rapporto sterilizzato tra politica e giustizia, figuriamoci se si parte dal presupposto dei rapporti di forza. La stessa netta separazione tra requirente e giudicante, potente terreno di scontro, resta una impresa impossibile. Non ci dobbiamo meravigliare se la delegittimazione istituzionale ha qui uno dei suoi punti nodali. I soli estenuanti tempi di denegata giustizia, che accumula anni, sono già di per sé sufficienti a dare spazio alle polemiche sulla così detta “giustizia a orologeria”, che si ritiene fin troppo puntuale con le scadenze della politica. Senza entrare nel merito dell’inchiesta condotta dalla procura di Firenze sui genitori di Matteo Renzi, proponiamo alcune riflessioni sul nostro sistema giudiziario. Ricominciamo allora dai tempi. La richiesta del sostituto procuratore è dell’ottobre 2018, l’esecuzione accordata dal giudice delle indagini preliminari di pochi giorni fa. Tutto normale? Gli addetti ai lavori parlano di tempi ‘tecnici’ compatibili. In base a questa replica non ci sarebbe stato quindi nessun provvedimento “a orologeria”, ma se il periodo tra la richiesta del pm e il via libera del gip fosse più contenuto renderebbe o no più efficace la sinergia operativa tra l’indagine e i provvedimenti conseguenti? Probabilmente sì. In caso contrario il solo scorrere del tempo è ovvio che presti il fianco alle “interpretazioni”. Altro punto dolente è la carcerazione. La questione Renzi padre e madre fa riflettere anche sull’aspetto della proporzione tra i capi di imputazione e la limitazione della libertà personale. Illuminante la posizione dell’avvocato Giulia Bongiorno, ora ministro: “In Italia sicuramente il tema della custodia cautelare va affrontato, perché spesso si va in carcere prima del processo e non dopo. Non ho letto le carte e dunque non so se in questo caso possa essere giustificata la custodia cautelare. Ma, ripeto, il tema di una giusta motivazione delle esigenze cautelari potrebbe essere importante da affrontare”. Date le premesse e il vissuto dei tentativi di riforma in un Paese nel quale perfino la certezza della pena è strutturalmente incerta, caro ministro, sulla strada dal dire al fare troviamo, quasi sempre, l’incognita dell’impotenza. Resta la questione del rapporto tra gli atti della giustizia e la pubblica opinione che, al di là del garantismo, fondamento stesso di civiltà giuridica ma utilizzato a corrente alternata, sarebbe il caso di rendere sempre più trasparenti alcuni passaggi. Soprattutto quando i riflettori non solo sono accesi ma sono ‘incandescenti’ su certe decisioni. I magistrati possono rendere più chiare, nei modi adeguati al segreto e alla riservatezza, le azioni presupposte ai provvedimenti per cancellare dubbi, interrogativi, parole sospese, equivoci veri o creati ad arte? Salvini e lo “sport” di liquidare le persone per i propri fini di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 febbraio 2019 C’è un nuovo sport di moda, e vince chi meglio liquida la persona non più come valore in sé, ma come strumento di obiettivi. Hanno esordito il premier Conte e i ministri Di Maio, Toninelli e Bonafede con i loro argomenti a sostegno del no al processo a Salvini sulle 174 persone trattenute sulla nave Diciotti per dar asserita più forza alla trattativa con l’Europa. Ha proseguito il magistrato del Csm Piercamillo Davigo, definendo le persone risarcite per ingiusta detenzione (23.000 dal 1992 per 650 milioni di euro) “in buona parte dei colpevoli che l’hanno fatta franca”. E ieri li ha surclassati il ministro dell’Interno, reintroducendo (non ancora nel codice ma già nelle prassi additate accettabili dal massimo responsabile della sicurezza) la fucilazione delle persone ladre, pur se disarmate e in fuga, allo scopo di dar loro una lezione. Sfruttando la prerogativa che ai parlamentari consente in ogni momento di entrare in un carcere (per verificare le condizioni dei detenuti, non per le proprie campagne politiche), Salvini a Piacenza premette che su Formigoni “non commento le sentenze”, poi però incontra in cella l’imprenditore condannato a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio: “Per me nemmeno doveva finire in galera, condannato perché dopo 100 furti si è difeso e ha ferito involontariamente uno dei ladri che ha avuto 10 mesi ed è a spasso: è urgente la legge sulla legittima difesa”. Racconto non proprio calzante alle sentenze sull’uomo che nel 2011, avvisato a distanza che tre ladri con un tubo stavano rubando gasolio da un suo escavatore vicino a un torrente, vi si precipita e dal ponte correttamente spara in aria due volte; poi però scende sul greto, dove un suo dipendente sta malmenando uno dei ladri non armati in fuga, e insieme lo prendono per il collo sbattendogli più volte la testa contro i sassi a terra; e infine, in piedi sovrastando il ladro supino a terra, a meno di 2 metri gli spara al torace con un fucile a pompa, per fortuna chiamando subito i soccorsi in un momento di recuperata lucidità Persona contro gasolio. Persone barattate con una trattativa politica. Persone declassate a statistica farlocca. Comunque mai più, parrebbe, persone prima di tutto. Sparò al ladro ma non fu legittima difesa, la visita di Salvini. Scontro con l’Anm di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 24 febbraio 2019 L’imprenditore condannato dalla Cassazione a 4 anni e mezzo: catturò e immobilizzò un intruso nel suo cantiere poi gli sparò. Attorno a lui la solidarietà di sindaci, forze politiche e dei social. Ma l’Anm: “Salvini delegittima la magistratura”. Dalla sua parte l’imprenditore di Piacenza Angelo Peveri ha visto schierarsi sindaci, sindacati delle forze dell’ordine, centinaia di persone sui social e ora anche il ministro degli interni Matteo Salvini; contro Peveri però c’è una sentenza della Cassazione che lo ha condannato a quattro anni e mezzo per avere sparato a un ladro entrato in un suo cantiere, sentenza che ha escluso sussistesse la legittima difesa. Salvini sabato pomeriggio si è recato nel carcere di Piacenza, dove da quattro giorni si trova Peveri, dopo che la condanna a suo carico è diventata definitiva. La visita e la solidarietà del vicepremier è destinata a suscitare polemiche proprio perché la vicenda che vede protagonista l’imprenditore piacentino è considerata molto “border line”. Spari da distanza ravvicinata - Il 5 ottobre del 2011 alcuni ladri entrarono in un cantiere sul fiume Tidone dove l’impresa di Peveri stava eseguendo alcuni lavori: scatta il dispositivo di allarme che fa accorrere sul posto il titolare della ditta e un suo operaio romeno, George Botezatu. Peveri è armato di un fucile a pompa, spara tre colpi (in aria, sosterrà lui durante l’indagine) ma ferisce uno dei ladri in fuga a un braccio. Poco dopo sempre uno di loro torna nell’area del cantiere per recuperare la sua auto ma viene bloccato dall’imprenditore e dall’operaio. Le indagini della procura di Piacenza hanno stabilito che l’intruso fu immobilizzato, costretto a inginocchiarsi ed ebbe la testa sbattuta contro i sassi. Peveri a quel punto avrebbe esploso un colpo di fucile da distanza ravvicinata, poco più di un metro. Il ferito patteggerà una pena a 10 mesi per tentato furto di gasolio. Peveri e il suo dipendente verranno invece condannati per tentato omicidio a 4 anni e mezzo. La procura: “Non fu legittima difesa” - Pochi giorni fa la Cassazione ha reso definitiva la pena, respingendo anche la tesi della procura generale, secondo la quale la sentenza andava annullata e il processo ripetuto. Dal momento in cui per Angelo Peveri è divenuta concreta la prospettiva di finire in carcere è partita nei suoi confronti una gara di solidarietà con in testa la Lega Nord di Piacenza e incanalata da pagine Facebook aperte a suo sostegno. Pochi giorni fa anche il procuratore capo di Piacenza, Salvatore Cappelleri è intervenuto per ribadire che la legitima difesa nel “caso Peveri” non c’entra nulla e che la ricostruzione avvalorata dalla sentenza dovrebbe essere accettata da chi ricopre incarichi istituzionali. La solidarietà del ministro - Parole che non hanno fermato Matteo Salvini che subito dopo la sentenza della Cassazione si era schierato dalla parte dell’imprenditore, telefonandogli personalmente. Ora ha voluto manifestare apertamente la sua solidarietà varcando poco prima delle 17 il cancello del carcere di Piacenza per incontrare Peveri e il suo dipendente che nel frattempo sono finiti agli arresti. “Cercheremo di fare di tutto perché stia in galera il meno possibile, dal mio punto di vista non doveva nemmeno entrarci” ha detto il ministro dell’Interno al termine della sua visita alla Casa Circondariale. Il vicepremier si è detto anche pronto a chiedere la grazia. L’Anm contro Salvini - Come era facile attendersi la mossa di salvini ha inescato anche proteste, prima fra tutte quella dell’Associazione nazionale magistrati: “Le decisioni in merito alle modalità e alla durata di una pena detentiva spettano non al Ministro dell’Interno, che oggi ha fatto visita a un detenuto condannato con sentenza passata in giudicato, ma solo alla magistratura, che emette le sentenze in modo rigoroso e applicando le leggi dello Stato” sottolinea l’Anm rilevando che ogni tentativo di stravolgere le regole “delegittima il sistema giudiziario”. “Ogni tentativo di stravolgere queste regole - prosegue il comunicato della Giunta dell’Anm - rende un cattivo servizio e veicola una messaggio sbagliato ai cittadini, viola le prerogative della magistratura, delegittima il sistema giudiziario ed è contrario allo Stato di diritto e ai principi costituzionali, al cui rispetto dovrebbero concorrere tutti, specialmente chi ricopre importanti incarichi di Governo”. Bongiorno: “niente licenza di uccidere, ma chi entra in casa d’altri ne accetta le conseguenze” di Francesco Grignetti La Stampa, 24 febbraio 2019 La ministra: “Davigo sbaglia, non c’è affatto la legittimazione a sparare alle spalle a un ladro che fugge” Bene ha fatto, Salvini, ad andare in quel carcere di Piacenza, a portare solidarietà al condannato Angelo Peveri. Benissimo, anzi. “Il gesto di Matteo Salvini è pienamente coerente con una nostra battaglia: dimostrare che stiamo dalla parte di chi è aggredito, non di chi aggredisce”. Il ministro Giulia Bongiorno, avvocato di lungo corso prestata alla Lega, sente vicina la riforma della legittima difesa. E vede rosa. Ministro, questa nuova legittima difesa, tanto contestata, presto sarà legge. Contenta? “Eccome. Sono estremamente soddisfatta. Finalmente avremo una legge che si schiera decisamente a favore di chi è aggredito. La considero di importanza strategica: è un elemento di certezza del diritto e in Italia abbiamo estremo bisogno di certezza del diritto, anche per l’economia. Numerosissimi imprenditori stranieri rinunciano ad investire da noi perché è troppo incerta l’interpretazione di molte norme”. Un magistrato non proprio di sinistra quale Piercamillo Davigo, ieri su questo giornale era sarcastico: “Lasciamo liberi i delinquenti per potergli sparare in casa”. Lei che ne pensa? “Sa, ho visto moltissime critiche a questa legge. Spesso critiche politiche, non giuridiche. Tanto per cominciare, la norma dice che si tutela chi “respinge” un aggressore in casa propria. Non è affatto una licenza ad uccidere. È abbastanza chiara la differenza tra i verbi “respingere” e “aggredire”? Perciò dissento radicalmente dal dottor Davigo: in questa legge, a volerla leggere, non c’è affatto la legittimazione a sparare alle spalle a un ladro che fugge. Ripeto, anche a beneficio di chi sostiene l’incostuzionalità della norma, come gli esponenti di Magistratura democratica, che la condotta di reagire e respingere chi entra con violenza o minaccia in casa è assolutamente proporzionata alla situazione di pericolo che si crea. Peraltro, valorizzando lo stato d’animo dell’aggredito, di turbamento o di paura, allineiamo la nostra legislazione a quanto prevedono già molti altri Paesi europei”. Il ministro dell’Interno va in carcere a portare solidarietà a un condannato. Le sembra normale? “Rispettiamo le sentenze, ma ritengo la presenza di Matteo Salvini accanto a una persona che è due volte vittima, prima di un’aggressione e poi di un sistema paradossale che offre sconti anche non sempre giustificati, sia perfettamente coerente con una nostra battaglia. Lo avevamo detto in campagna elettorale che avremmo spinto per leggi in favore delle vittime, e ora, in coerenza, stiamo cambiando la legge della legittima difesa”. Nel caso del signor Peveri, in verità la legittima difesa non c’entra. “So che è stata esclusa, ma le mie considerazioni si riferiscono in generale a coloro che sono aggrediti. Che l’aggressione avvenga nel domicilio o in una privata abitazione, il concetto non cambia. Io penso che chi si introduce in casa d’altri per rubare, violentare o uccidere, ne deve accettare le conseguenze. Ma questo è il mio pensiero personale”. I magistrati di sinistra sostengono che Salvini stia lanciando un implicito invito all’uso delle armi da parte dei privati cittadini. Non si rischia di passare alla giustizia fai-da-te? “No, guardi che la norma è assolutamente equilibrata. Come dicevo, io sarei stata anche più radicale. Invece si prevede un bilanciamento tra diversi beni, compresa la tutela dell’incolumità dell’aggressore. Ma va bene così”. Non si vede all’orizzonte la riforma della giustizia penale, ma tra 10 mesi finirà la prescrizione. Che fare, se la riforma tardasse? “Non tarderà. Sono assolutamente ottimista. Ho incontrato più volte il collega Bonafede, so a che punto sono i lavori. C’è molto da fare per sveltire i processi e abbattere i tempi morti, senza intaccare le garanzie. Per tornare a Davigo, non accetterei mai di eliminare il processo di appello. Da avvocato, ho visto tantissimi ribaltoni nel secondo grado”. La “bomba atomica”, quindi, è disinnescata? “Penso di sì. Il blocco della prescrizione, se il processo penale fosse rimasto nella sua patologia, sarebbe stato davvero una “bomba atomica”. Ma nel momento in cui Bonafede riuscirà a ridurre i tempi, le obiezioni cadono”. “Ci sono pochi italiani in galera”. Davigo profeta del grillismo manettaro di Paolo Bracalini Il Giornale, 24 febbraio 2019 Ira dei penalisti: “Perde il senso della misura, no allo Stato di polizia”. Secondo Piercamillo Davigo, membro togato del Csm, nume del M5s in tema di giustizia, non esistono innocenti ma colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Neppure chi è stato detenuto ingiustamente, tanto da ottenere un risarcimento dallo Stato, è in realtà una vittima, perché in buona parte si tratta di “colpevoli che l’hanno fatta franca” spiega il magistrato intervistato dalla Stampa. L’idea di giustizia di Davigo è nota, già da pm di Mani Pulite si era manifestata nella massima “non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove”. La conseguenza logica è che in Italia non ci sono abbastanza persone in carcere: “In galera ci vanno in pochi e ci stanno poco”, e poi si arresta troppo poco, specie dopo la riforma della custodia cautelare che ha ridotto i casi in cui si applica il carcere preventivo, un errore secondo il pm che - nella definizione di Bruno Vespa - “dorme con le manette sul comodino”. Una visione che coincide con quella del M5s, che in queste ore si intesta la vittoria della galera per l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni, grazie alla legge spazza-corrotti firmata dal ministro Bonafede che equipara i reati di corruzione a quelli di mafia (“È semplicemente ciò che avviene in un Paese normale” esulta il Blog delle Stelle). Ma ancora troppa gente è fuori dal carcere, secondo M5s e Davigo. Morale amara del magistrato: “Oggi conviene delinquere, non pagare i debiti, impugnare le condanne. Non si ha niente da perdere. Invece bisogna incentivare i comportamenti virtuosi”. La legittima difesa? “Spero non passi, saremmo condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Non solo, “aumenteranno i morti. Non tra i delinquenti, ma tra le vittime di furti e rapine. Sapere che il derubato può sparare indurrà il ladro ad armarsi e a sparare prima”. Anche stavolta, come più volte in passato, le esternazioni di Davigo (a cui aggiungiamo questa: “L’unica parte buona nel processo è il pubblico ministero, gli altri fanno i loro interessi”) fanno rivoltare i penalisti. Il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Giandomenico Caiazza attacca: “Da penalista penso che Davigo stia perdendo il senso della misura delle cose: le carceri sono sovraffollate oltre ogni limite di tollerabilità, l’abuso della custodia cautelare è un dato confermato statisticamente dal numero delle assoluzioni già in primo grado. Diciamo no a uno schema della giustizia penale inquisitorio, no a uno Stato di polizia in cui la verità è solo quella ricostruita dall’inquisitore mentre tutta la verifica dibattimentale sull’attendibilità delle prove raccolte allontana dalla verità”. Le reazioni politiche sono tutte da Forza Italia. “Davigo rivela la sua natura impregnata del più bieco giustizialismo: saperlo componente dell’organo di autogoverno dei magistrati è terrorizzante per chiunque - afferma il deputato azzurro Giorgio Mulè. I suoi stessi colleghi dovrebbero condannarlo (verbo assai caro a Davigo) chiedendogli di dimettersi per restituire una parvenza di indipendenza e dignità alla carica che ricopre. Non succederà”. “Davigo prefigura una giustizia amministrata in nome della forca. Non può sorprendere quindi che i suoi allievi capitati in politica suonino la fanfara della felicità quando qualcuno varca le soglie del carcere: è il frutto avvelenato della sua predicazione” commenta la capogruppo al Senato di Fi Anna Maria Bernini. “Carcere più facile per gli evasori”. Il progetto dei 5Stelle che divide di Luca Cifoni Il Gazzettino, 24 febbraio 2019 Prima il ministro della Giustizia Bonafede, poi il capo politico Di Maio: il Movimento Cinque Stelle punta ad abbassare le soglie di punibilità per l’evasione fiscale, innestando la retromarcia rispetto alla riforma voluta dal governo Renzi nel 2015. Nella loro visione, la minaccia del carcere dovrebbe scoraggiare i comportamenti scorretti dei contribuenti: il tema era emerso già nell’ultima campagna elettorale ma le dichiarazioni dei due importanti esponenti pentastellati fanno pensare ad una qualche accelerazione. Dal punto di vista della comunicazione governativa, la stretta sulle sanzioni penali fa in qualche modo da contrappeso alla volontà di alleviare quelli che non ce l’hanno fatta a pagare offrendo loro possibilità diverse come la rottamazione ter o il cosiddetto saldo e tralcio. “Noi vogliamo un sistema fiscale giusto, equo, ma chi evade sappia che pagherà per il danno che arreca a tutti quanti” ha detto l’altro giorno Luigi Di Maio. Nel dettaglio, il decreto legislativo 158 del 2015 era intervenuto su una serie di reati. Quello citato come esempio da Di Maio è la dichiarazione infedele, che nell’attuale assetto diventa punibile (con la reclusione da uno a tre anni) quando l’imposta evasa è superiore a centocinquantamila euro, contro i cinquantamila della precedente normativa. Contemporaneamente l’ammontare complessivo degli attivi sottratti all’imposizione deve superare il dieci per cento del totale, o comunque i tre milioni di euro: anche quest’ultima soglia è stata elevata rispetto ai due milioni precedenti. Le altre correzioni introdotte nel 2015 riguardano la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e l’omessa dichiarazione. Nel primo caso la punibilità scatta con ricavi dichiarati oltre 1,5 milioni (invece di 1), nel secondo si passa da 30 mila a 50 mila euro, ma con un inasprimento delle altre sanzioni. Va ricordato che nel nostro Paese l’idea di stringere le maglie del penale nella lotta all’evasione non è certo nuova: è del 1982 il provvedimento ribattezzato manette agli evasori che però negli anni successivi non portò a particolari successi dello Stato nello sforzo di contenimento del fenomeno e fu corretto con una nuova normativa nel 2000. Contro la mossa annunciata da Bonafede si sono già pronunciati gli avvocati penalisti. Il presidente dell’Unione delle camere penali, Giandomenico Caiazza, ha fatto osservare che l’abbassamento delle soglie di punibilità “ingolferebbe ancora di più il sistema con l’effetto di produrre risultati opposti a quelli che si intende raggiungere”. Il rischio di appesantire il lavoro delle Procure scaricando su di loro una serie di vicende che altrimenti verrebbero affrontate in via amministrativa dall’Agenzia delle Entrate è più che concreto, in un contesto in cui (fanno notare sempre i penalisti) si cerca al contrario di alleggerire il processo penale e accorciarne i tempi. Nella pratica poi la nuova stretta potrebbe persino risultare i contrasto con le stesse intenzioni del governo, che nel suo dichiarato sforzo di venire incontro ai contribuenti in difficoltà non si è limitato a varie forme di sanatoria ma ha approvato un vero e proprio condono per le imposte non dichiarate, poi ritirato in un secondo momento. Con le soglie più basse infatti potrebbero più facilmente ricadere nel reato i comportamenti non necessariamente fraudolenti di chi si è sottratto agli adempimenti magari per mancanza di liquidità. Mafia, chi è il capo di Cosa Nostra (e non è Messina Denaro) di Gianluca Di Feo La Repubblica, 24 febbraio 2019 Il superlatitante non è mai stato al vertice della mafia siciliana, ma controlla solo il Trapanese. E oggi gli investigatori credono che non ci sia un padrino supremo. Perché lo Stato impedisce alle famiglie palermitane di riorganizzarsi. È il grande latitante, ma non il grande capo. La lunga fuga di Matteo Messina Denaro, che da 26 anni si sottrae alle ricerche delle istituzioni, confonde spesso la percezione comune e porta a considerarlo l’uomo che comanda Cosa Nostra. Non è così. E non lo è mai stato. Certo, Messina Denaro ha controllato e continua a gestire patrimoni immensi, nonostante i sequestri nei confronti dei suoi luogotenenti. E ha dimostrato una capacità unica nell’ingannare tutti gli investigatori, nonostante da decenni sia in cima alla lista dei Most Wanted. La sua storia criminale però è stata sempre confinata nel Trapanese, considerata una provincia ricca ma non strategica negli equilibri di Cosa nostra. Di questo territorio assieme al padre ha arbitrato le dinamiche mafiose dagli anni Ottanta. Ma stando ai pentiti solo nel 1998 ha ereditato il ruolo di capomandamento di Castelvetrano, la sua città natale, rimpiazzando il genitore morto in latitanza. I Messina Denaro hanno fatto parte della cupola, il consiglio supremo dominato da Totò Riina, sostenendo nel 1992 la decisione di sfidare lo Stato con le stragi. Il giovane Matteo avrebbe impugnato le armi in prima persona, mettendosi a disposizione per i progetti di attentato contro l’allora ministro Claudio Martelli e contro Giovanni Falcone: agguati che si sarebbero dovuti compiere a Roma. E anche dopo la cattura del padrino corleonese, i Messina Denaro avrebbero portato avanti la linea della guerra totale, finché l’insediamento al vertice di Bernardo Provenzano non ha determinato la fine della stagione di fuoco. In quegli anni, l’autorità di Messina Denaro sembra essersi estesa pure a zone dell’Agrigentino e del Palermitano, più che altro per colmare i vuoti nei ranghi dello schieramento fedele ai corleonesi. Poi l’aumento di pressione da parte degli investigatori dopo il decesso del padre, lo ha spinto a ritirarsi nei suoi fedi, tra Castelvetrano e Marsala. Si sarebbe concentrato sugli affari e sulla gestione della fuga, diventata sempre più complicata per i continui blitz di polizia e carabinieri. Ma non è mai stato registrato dagli inquirenti un suo ruolo di comando nella condotta di Cosa Nostra. Resta quindi una domanda: chi è oggi il grande padrino della mafia siciliana? Su questo punto magistrati, investigatori e studiosi conducono da tempo un lungo dibattito. Ma c’è la forte convinzione che oggi non esista più un’organizzazione centrale stabile: persino la cosiddetta “Commissione provinciale” di Palermo che decideva i vertici e le strategie non sarebbe neppure in grado di riunirsi per deliberare. Niente assemblee della Commissione e quindi nessun “capo dei capi”. Lo sostengono, ad esempio, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino nel libro “Modelli criminali” appena pubblicato per Laterza. Il procuratore di Roma e il suo vice, che hanno lavorato per anni a Palermo, scrivono: “Se è ormai provato che la Commissione provinciale, almeno da un punto vista formale, non ha mai cessato di esistere, non vi è dubbio che dopo l’arresto di Salvatore Riina, il 15 gennaio 1993, essa non sia stata più riunita. Fino a tale data - e durante i dieci anni precedenti - alla Commissione, sempre presieduta dallo stesso Riina, prendevano parte tutti i capimandamento della provincia di Palermo, secondo un modello di formale corrispondenza tra vertice e territorio”. La reazione delle istituzioni dopo le stragi ha messo in crisi questo sistema: “Prima l’arresto di numerosi componenti di tale gruppo, poi quello dello stesso Provenzano hanno aperto una nuova fase. Come in altri momenti di crisi, divenuti impraticabili i moduli di governo dell’organizzazione - fondati, almeno nella sostanza, sull’azione dei capi più autorevoli -, la sopravvivenza della struttura organizzativa e la ricerca di nuovi equilibri con l’affermazione di una nuova dirigenza, in assenza di capi riconosciuti in stato di libertà, sono state affidate alla rivitalizzazione delle regole formali. Il tentativo, operato proprio nell’ultimo periodo, di una stabile ricostituzione della Commissione, mai formalmente cancellata, non ha tuttavia sortito alcun effetto per l’intervento, rivelatosi ancora una volta tempestivo, degli organi repressivi dello Stato con l’arresto, l’11 dicembre 2018, di numerose persone tra cui il boss Settimo Mineo, definito dalla stampa “il nuovo capo di Cosa nostra”, che però aveva appena ripreso la sua attività da pochi mesi, dopo essere stato detenuto per molti anni. La ricerca di nuovi equilibri e di una nuova leadership non sembra aver avuto ancora un approdo”. Attenzione però. La mafia palermitana ha subìto colpi durissimi ma non è stata debellata. E guarda al futuro partendo dalla sua tradizione, cercando di dare nuova linfa alle regole più antiche. Finora non è ancora riuscita a trovare un capo in grado di rilanciare l’azione criminale. Continua però a tentare la riscossa. E aspetta solo che l’attenzione delle istituzioni cominci a calare. Petizione Petrilli al parlamento Ue Il Centro, 24 febbraio 2019 Mancato risarcimento per ingiusta detenzione approderà in aula. La petizione di Giulio Petrilli è arrivata all’attenzione del parlamento europeo. Verrà presto esaminata. A comunicarlo è lo stesso Petrilli, che rivendica, dopo sei anni di ingiusta detenzione, un risarcimento dallo Stato. “A nome del segretario generale del parlamento europeo”, fa sapere “mi è arrivata la risposta alla mia petizione, a cui l’Europa risponderà con certezza. Si tratta della raccolta di firme avviata a dicembre scorso, sulla richiesta di modifica della norma dell’ordinamento italiano che limita il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione”, ricorda Petrilli, che aggiunge: “Sono fiducioso della risposta della Commissione petizioni del parlamento europeo che, nel caso fosse positiva, riaprirebbe la mia vicenda, come quella di tanti altri che non hanno avuto il risarcimento per ingiusta detenzione nonostante assolti. Una norma palesemente anticostituzionale che, spero e penso, venga evidenziata dal parlamento europeo, dove mi sono recato anche nell’ottobre scorso per denunciare quanto accaduto. Una battaglia che conduco da tanti anni, anche con l’appoggio e la solidarietà di tante persone, ma che si è sempre arenata nella non disponibilità, da parte del parlamento italiano, a modificare la normativa che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione per un giudizio morale sull’imputato”. La vicenda di Petrilli è nota: dal 1980 al 1986 scontò sei anni di reclusione, di cui parte trascorsi in isolamento, con l’accusa di partecipazione a banda armata e di far parte di Prima Linea. “Accusa da cui sono stato assolto, con sentenza definitiva della Cassazione, nel 1989”, afferma, “da allora non mi è stato riconosciuto alcun indennizzo”. Cassazione: è reato di diffamazione l’offesa su chat di gruppo di Whatsapp La Stampa, 24 febbraio 2019 Rischia una condanna penale, per il reato di diffamazione, chi offende una persona con messaggi trasmessi su una chat di gruppo su Whatsapp. Lo ha spiegato la Cassazione, con una sentenza della quinta sezione penale, inerente il caso di un adolescente - prosciolto dal gup di Bari perché “non imputabile” in quanto di età inferiore ai 14 anni al momento del fatto - e alcuni messaggi inviati nella chat della scuola. La difesa del ragazzo, invece, sosteneva che non vi fosse alcun rilievo penale, affermando che in casi simili si potesse semmai parlare di ingiuria (reato oggi depenalizzato e trasformato in illecito civile), poiché la destinataria dei messaggi offensivi partecipava alla stessa chat. I giudici del “Palazzaccio” hanno rigettato il ricorso, richiamando anche precedenti pronunce su posta elettronica e mailing list: “L’eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria, piuttosto che il delitto di diffamazione”, evidenzia la Corte, perché “sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato consenta in astratto anche al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa - si spiega nella sentenza - il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori, i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore e offeso. Di qui - conclude la Cassazione - l’offesa alla reputazione della persona ricompresa nella cerchia dei destinatari del messaggio”. Taranto: carcere, il M5S presenta una interrogazione al ministro della Giustizia tarantinitime.it, 24 febbraio 2019 “Nei giorni scorsi il suicidio in cella di un detenuto verificatosi nel carcere di Taranto ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica le gravi problematiche che riguardano il sistema carcerario italiano, legate principalmente al cronico sovraffollamento e alla inadeguatezza di risorse umane ed economico-finanziarie. Le problematiche segnalate anche nel corso di una recente visita da noi effettuata al carcere di Taranto, che riguardano principalmente il sovraffollamento delle celle, con 600 detenuti a fronte di una capienza di 305 posti e con uno spazio minimo per detenuto al di sotto dei 3 metri quadrati per cella collettiva - soglia stabilita dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo - che negli ultimi anni ha condannato più volte l’Italia per il “trattamento inumano e degradante” nelle sue carceri, e alla cui sorveglianza sono adibiti solo due agenti per tre sezioni detentive, ognuna lunga più di 50 metri, con ogni singolo agente impegnato in più servizi contemporaneamente per far fronte alle varie esigenze ed emergenze, tra cui quelle legate alla mancanza di uno spazio all’aperto a disposizione dei detenuti per momenti di socializzazione. Ad oggi, tra l’altro, non abbiamo nessun riscontro rispetto alle dichiarazioni rilasciate il 5 novembre 2018, in occasione di una manifestazione regionale di protesta del Sappe a davanti al carcere di Bari, dal capo del Dap Basentini, circa una serie di interventi per la regione Puglia, finalizzati a un miglioramento delle condizioni degli istituti penitenziari presenti sul territorio. In considerazione di questi elementi abbiamo presentato una interrogazione al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per richiedere un intervento urgente finalizzato al reperimento di risorse umane ed economico-finanziarie dirette a garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti della struttura penitenziaria del capoluogo ionico e a far sì che gli agenti penitenziaria possano svolgere il proprio lavoro in maniera adeguata, senza sottoporsi a turni massacranti per fronteggiare le varie urgenze che possono verificarsi in un ambiente in cui spesso può crearsi un clima di grande tensione, con ricadute negative sulla sicurezza dell’intero comparto”. Lo dichiarano le deputate del Movimento 5 Stelle, Alessandra Ermellino e Valentina Palmisano. Taormina (Ms): detenuti ai lavori sociali, intesa con il carcere di Gazzi blogtaormina.it, 24 febbraio 2019 Il Comune di Taormina ha stipulato un protocollo d’intesa con la Casa Circondariale Gazzi di Messina e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Messina. La casa municipale taorminese intende promuovere, nell’ambito del proprio territorio, l’esecuzione di lavori socialmente utili e di pubblica utilità e ha perciò dato la propria disponibilità ad offrire opportunità lavorative a soggetti ristretti. L’obiettivo è quello di promuovere la partecipazione di detenuti ed internati ad iniziative di pulizia, manutenzione e conservazione del verde pubblico e siti di interesse pubblico. Gazzi dopo l’Icatt. Per questo è stato sottoscritta un’apposita convenzione, con appositi impegni reciprocamente assunti dalle parti. Di recente sempre il Comune di Taormina aveva stipulato un’altra intesa, con la Casa Circondariale Icatt di Giarre, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Catania e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Messina, per dare la possibilità ad 8 detenuti dell’Icatt di effettuare nella Perla a Taormina socialmente utili. I termini dell’intesa. La Casa Circondariale Gazzi di Messina avrà modo di individuare tra la popolazione attualmente reclusa un numero di soggetti per i quali sussistano le condizioni per l’ammissione ai lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai permessi e alle licenze. Nell’ambito di questa iniziativa verranno segnalati al Comune di Taormina un massimo di 8 soggetti in esecuzione penale intramuraria o esterna o ammessi alla prova che intendono aderire alla proposta di svolgere attività a titolo volontario e gratuito a favore della collettività. Si procederà quindi a preparare e accompagnare, previa redazione del piano di trattamento, l’inserimento del soggetto nella struttura individuata. Verrano effettuate periodiche verifiche sull’andamento dell’inserimento, notiziando l’Autorità Giudiziaria competente. La denuncia di un ragazzo detenuto nel CPR di Corso Brunelleschi a Torino: “la situazione è molto peggio di quello che credete”. Rossano (Cs): Quintieri (Radicali) “finalmente riapre la falegnameria del carcere” cn24tv.it, 24 febbraio 2019 Finalmente, dopo tanti anni, verrà riaperta la falegnameria industriale della Casa di Reclusione di Rossano e verranno assunti, per il momento, due detenuti dell’Alta Sicurezza. Lo dice Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria, all’esito di una visita effettuata insieme all’esponente radicale Valentina Anna Moretti, al Carcere di Rossano, attualmente guidato, in missione, dal Dirigente Penitenziario Maria Luisa Mendicino, Direttore della Casa Circondariale di Cosenza. La falegnameria - fortemente voluta in quegli anni dal Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Paolo Quattrone - che ha una superficie di 900 mq, venne finanziata dalla Cassa delle Ammende nell’ambito del progetto di Inserimento Lavorativo Detenuti (Ilde) con 1,5 milioni di euro, fu inaugurata il 9 ottobre 2006 dal Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia del II Governo Prodi con delega all’Amministrazione Penitenziaria Luigi Manconi e dall’ex Presidente del Comitato Carceri della Camera dei Deputati, On. Enrico Buemi. All’epoca, tutta l’attività produttiva, fu coordinata e gestita dal Consorzio Magna Grecia sotto forma di cooperativa, e funzionò grazie alla Provincia di Cosenza, Assessorato all’Edilizia Scolastica guidato dall’Avvocato Oreste Morcavallo, che fece un protocollo con l’Amministrazione Penitenziaria per favorire l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, acquistando tutti gli arredi scolastici prodotti dalle lavorazioni penitenziarie. L’ex Provveditore Regionale delle Carceri calabresi Quattrone, suicidatosi il 22 luglio 2010, diceva che “la gestione partecipata della vita carceraria, nell’assoluto rispetto delle regole, può creare un clima migliore all’interno della vita nelle strutture” ed è vero continua il radicale Quintieri. Quattrone come Provveditore Regionale si spese molto per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti in tutti gli Istituti Penitenziari della Calabria. Grazie a lui vennero ristrutturate e rinnovate quasi tutte le strutture penitenziarie calabresi che erano in una situazione di degrado assoluto. Tra le tante che vennero ammodernate vi fu Rossano, ma anche Cosenza, Paola, Laureana di Borrello ed altre ancora. Purtroppo, una volta ultimate le commesse per conto della Provincia di Cosenza, quella falegnameria industriale, che è dotata di strumenti ed apparecchiature all’avanguardia sia per la produzione di mobili che per l’antinfortunistica, chiuse e non venne più utilizzata per assenza di commesse, nonostante le continue sollecitazioni provenienti anche da parte nostra. Attualmente, nell’Istituto di Rossano, è attivo anche un laboratorio per la lavorazione della ceramica, gestito dalla Ditta “Pirri Ceramiche Artistiche” di Francesco Pirri di Bisignano, che ha assunto alle sue dipendenze 4 detenuti dell’Alta Sicurezza. Quindi, adesso, con la falegnameria, i detenuti che saranno impiegati in attività lavorative, assunti e retribuiti da imprese esterne, da 4 passeranno a 6 e, prossimamente, potranno essere ancora di più se ci saranno ulteriori commesse. E’ non sono pochi visto che in Calabria, i “lavoranti” in Istituto alle dipendenze di datori di lavoro esterni sono soltanto 7 di cui 4 per conto di imprese (che sono quelli di Rossano, esclusi quelli della falegnameria) ed altri 3 (donne) per conto di cooperative. A questi si aggiungono 34 detenuti di cui 20 semiliberi (3 dei quali lavorano in proprio e 17 per conto di datori di lavoro esterno) ed altri 17 in lavori esterni ex Art. 21 O.P. Un dato molto basso rispetto a quello nazionale facendo il confronto con i “lavoranti” negli Istituti delle Regioni Veneto (314), Lombardia (274), Lazio (61), Emilia Romagna (42), Piemonte (38), Liguria (33), Trentino Alto Adige (22), Toscana (21), Puglia (20). Peggio della Calabria solo le Regioni Basilicata (0), Molise (1) ed Umbria (2). Inoltre, l’Amministrazione Penitenziaria, ha assunto 76 detenuti, per i lavori intramoenia (manutenzione ordinaria fabbricato, cuochi, portavitto, addetto alla lavanderia, a tempo determinato, nel rispetto delle graduatorie previste dalla Legge Penitenziaria. In Calabria, invece, i “lavoranti” assunti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, sono 834 (14 donne), di cui 5 impiegati in lavorazioni, 712 in servizi di istituto, 50 nella manutenzione ordinaria dei fabbricati e 67 in servizi extramurari ai sensi dell’Art. 21 O.P. Oggi, nel Carcere di Rossano, conclude Emilio Enzo Quintieri, a fronte di una capienza regolamentare di 263 posti, sono ristretti 293 detenuti, 56 dei quali stranieri; 89 appartengono al circuito della media sicurezza e 203 a quello dell’alta sicurezza (183 As3 criminalità organizzata e 20 As2 terrorismo internazionale di matrice islamica), aventi le seguenti posizioni giuridiche : 3 giudicabili, 7 appellanti, 10 ricorrenti, 273 definitivi di cui 31 ergastolani, 26 dei quali ostativi cioè che non usciranno mai dal carcere salvo collaborazione con la Giustizia o nei casi di collaborazione impossibile. A Rossano manca un Direttore titolare, speriamo che al più presto l’Amministrazione Penitenziaria ne nomini uno in pianta stabile perché un Istituto così importante e complesso non può essere affidato ad un Dirigente in missione per due volte a settimana. Torino: proteste delle persone detenute nel Cpr di corso Brunelleschi di Roberto Persia Il Manifesto, 24 febbraio 2019 Radio blackout ha raccolto e diffuso la denuncia di un “ospite” al dodicesimo giorno di sciopero della fame recluso nel Cpr. “In questo centro ci trattano malissimo, peggio degli animali: il cibo ci viene somministrato in scatole di plastica dopo diverse ore dalla sua preparazione, quindi freddo, e non abbiamo alcun modo di poterlo consumare se non sul pavimento”, ha raccontato il ragazzo. “Perdo ogni giorno un kg, non so se sopravvivrò, ma voglio lanciare questo messaggio: ho perso tutte le mie energie, siamo discriminati in Italia e a nessuno interessa nulla, non venite in Italia!”. Ha concluso chiedendo di essere mandato in qualsiasi altro posto, purché fuori da quella prigione il prima possibile. Non un caso isolato, diverse negli ultimi anni le proteste delle persone detenute nel Cpr di Torino. Il 6 agosto dello scorso anno il centro è stato danneggiato da un incendio doloso. Alcune delle persone recluse nel Cpr sono salite sui tetti, in segno di protesta per le condizioni nelle quali sono costrette a vivere. Due mesi dopo invece sono andati distrutti diversi moduli abitativi, dati alle fiamme da cittadini magrebini reclusi da oltre un mese e mezzo nel centro. “È una polveriera e la carenza di personale non aiuta” era stato il commento del segretario del Siap (sindacato italiano appartenenti polizia) Pietro di Lorenzo. I centri di permanenza per il rimpatrio, ex Cie (centri di identificazione ed espulsione), sono luoghi di reclusione dove vengono trattenuti i cittadini stranieri irregolari in attesa di essere identificati ed espulsi. Ufficialmente una detenzione amministrativa, raddoppiata in virtù del nuovo decreto su immigrazione e sicurezza, da 90 a 180 giorni. Rafforzare la rete dei Cpr previo accordo con le regioni e aumento dei rimpatri sono le altre due linee guida contenute nella legge. In Italia quelli attivi, secondo la relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nel 2018 sono 5: Roma, Bari, Brindisi, Torino e Potenza. 500.000 i migranti da espellere in 5 anni, secondo le parole del vice-premier Salvini, ma le cose non stanno andando in questa direzione. Stando ai dati contenuti in un dossier dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), “nonostante le promesse fatte durante l’ultima campagna elettorale riguardo a un rapido aumento dei rimpatri di stranieri irregolari verso i propri paesi d’origine, nei primi sei mesi del governo Conte i tassi di rimpatrio sono stati del 20% più bassi rispetto allo stesso periodo del 2017”. Oltre i costi esorbitanti legati al rimpatrio il governo può contare solo su quattro paesi con i quali ha siglato accordi bilaterali per la riammissione delle persone: Egitto, Tunisia, Nigeria e Marocco. Bologna: scuola e carcere, gli studenti del “Guercino” a lezione di legalità e solidarietà estense.com, 24 febbraio 2019 L’incontro in sala Zarri con la Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna. In Sala Zarri, per il quinto anno consecutivo, l’Istituto Comprensivo “Il Guercino” di Cento ha incontrato la casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna nella giornata della legalità e della solidarietà. Erano presenti il maggiore del Comando Compagnia Carabinieri di Cento, Antonino Lembo, il luogotenente Tenenza di Guardia di Finanza di Cento, Maurizio Verdini, l’assessore Associazionismo e volontariato Matteo Fortini, la dirigente dell’istituto Anna Tassinari. Il progetto è una riflessione sul valore della legalità e sull’importanza del rispetto delle regole, senza tralasciare la solidarietà, l’aiuto che si deve dare a chi ha sbagliato per potere recuperare e imparare dagli errori. Come ha detto la dirigente scolastica Anna Tassinari all’apertura della mattinata, la legalità comincia nella piccola comunità della scuola, dove esistono regolamenti, regole condivise, il cui rispetto garantiscono l’organizzazione e il benessere dei membri della comunità: i ragazzi, ma anche chi vi lavora, dagli insegnanti al personale. Il maggiore Lembo ha ricordato gli articoli della Costituzione e un discorso del Presidente della Repubblica che auspicava che tutti i cittadini siano “Sentinelle della legalità”. L’importanza di una cultura della legalità, di un senso di cittadinanza attiva e di rispetto gli uni verso gli altri sono valori fondanti dell’Istituzione Scuola e, come ha ricordato l’assessore Fortini, in questa mattinata, forze dell’ordine e istituzioni, scuola, Amministrazione comunale, sono insieme per trasmettere questo valore al nostro futuro: i nostri ragazzi. L’incontro è proseguito con l’intervento degli operatori del carcere: il direttore dell’area trattamentale Massimo Ziccone, l’ispettore Molinaro della polizia penitenziaria, il cappellano Marcello Matté, l’infermiera Simona Balboni e il responsabile del squadra del rugby, hanno spiegato ai ragazzi che il carcere, pur essendo un luogo di sofferenza e sconto di pena, offre comunque la possibilità di un reale recupero con le varie attività e progetti proposti. Il percorso continuerà con la visita del carcere da parte di un gruppo di alunni delle classe terze. Il progetto è stato proposto dalla professoressa Tarantini. Ma perché parlare di carcere a scuola? Da questa idea, accolta con entusiasmo dalla dirigente Tassinari, è stato successivamente aggiunto il percorso della solidarietà, del non giudizio, perché la scuola deve insegnare a non mettere etichette e a dare sempre una seconda possibilità, come avviene appunto nella piccola comunità di una istituzione scolastica. Napoli: sulla “spettacolarizzazione degli arresti” una tavola rotonda dei penalisti giustizianews24.it, 24 febbraio 2019 Quanto vale l’immagine di una persona privata della libertà veicolata dai giornali, e in modo particolare dai siti di informazione e dalle televisioni, e quale messaggio viene trasmesso all’utente? Il video sull’arresto di Cesare Battisti, nel quale viene ripercorso il momento della consegna dell’ex terroristica del Pac alla Polizia Penitenziaria e poi il suo arrivo in Italia, ha fornito lo spunto ai penalisti napoletani e a “Il Carcere possibile onlus” per organizzare un dibattito che affronti il delicato tema della spettacolarizzazione di un arresto e della lesione arrecata alla dignità della persona arrestata. “Affinché il mondo ti veda. L’immagine della persona privata della libertà all’epoca della comunicazione globale” è il titolo scelto per la tavola rotonda che si terrà lunedì mattina, alle 11.30, presso la sede della Camera penale di Napoli nel Palazzo di Giustizia. Il richiamo all’esposizione pubblica di un detenuto è sintetizzato, nel titolo, con un passaggio del racconto di Oscar Wilde sul periodo più buio della sua vita: nel novembre del 1985, per mezz’ora, fu messo in mostra, con gli abiti da carcerato e in manette, davanti alla stazione di Clapham Junction a Londra, perché il mondo potesse vederlo. Potesse vedere la sua condizione di detenuto. Ne discuteranno Massimo Bordin, giornalista di Radio Radicale; il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovanni Melillo; Daniele Chieffi, responsabile comunicazione digitale di Agi-Gruppo Eni; Manuela Galletta, direttore del quotidiano di informazione online Giustizia News24; l’avvocato Claudio Botti. Modererà il dibattito l’avvocato Alfonso Tatarano, consigliere de “Il Carcere Possibile onlus” e ispiratore, insieme all’avvocato Alessandra Cangiano, dell’iniziativa. Gli indirizzi di saluto saranno invece affidati all’avvocato Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale di Napoli, all’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente de “Il Carcere Possibile onlus” e all’avvocato Antonio Tafuri, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. L’Aquila: detenuti-attori in scena con “12 ore di ferie” del regista Donatelli Il Centro, 24 febbraio 2019 A Luco dei Marsi è andato in scena “12 ore di ferie, è morto Raffaele Barone”. L’evento, di grande spessore artistico e sociale, patrocinato dal Comune di Luco, si è tenuto nel salone delle suore trinitarie ed è nato dagli sforzi congiunti dell’associazione culturale Madonna del Passo di Avezzano, gruppo teatrale Je Concentraménte, con operatori e ospiti della casa circondariale a custodia attenuata San Nicola di Avezzano e dell’Unitalsi, sezione di Avezzano, presieduta dalla professoressa Ivana Lustri, e la cooperazione del sostituito commissario coordinatore di polizia penitenziaria, Giovanni Luccitti, con l’avvocato Loreta Massaro e don Giuseppe Ermili. “Il teatro in carcere è un forte strumento di cambiamento per gli attori-detenuti”, ha spiegato il regista Raffaele Donatelli, “ma è anche il segno di un mutamento globale del mondo carcerario nella direzione della legislazione più avanzata che persegue l’obiettivo del reinserimento in società di chi vive l’esperienza del carcere”. L’opera portata in scena, nata dall’estro dello scrittore Franco Villani, è ricca di situazioni comiche e fraintendimenti che catturano il pubblico e rendono lo svolgimento avvincente ed esilarante. “La nostra amministrazione ha da sempre tra i cardini e tra le linee guida della sua attività, tanto il sociale quanto la valorizzazione dell’arte, in tutte le sue forme”, ha rimarcato la sindaca Marivera De Rosa, ringraziando gli organizzatori. Presenti, con gli amministratori, don Giuseppe Ermili, il vice capo dipartimento amministrazione penitenziaria, Lina Di Domenico, Maria Celeste D’Orazio, direttrice della casa circondariale di Avezzano, il funzionario Michele Sidoti, la collaboratrice amministrativa Brunella Faonio. Alla ribalta, con gli ospiti del carcere e gli educatori, Serena Pisotta, Orlando Viscogliosi, Lillina Franchi, Gisella Venditti, Sergio Berardi, Ivan D’Alessandro, Mario D’Andrea. Tecnici Valerio Iacobucci, Gianni De Amicis, Enrico Graziani, Silvio Di Loreto, Maria Teresa Maceroni. Milano: “Sgiansa”, una jail opera pressenza.com, 24 febbraio 2019 Sgiansa è una jail opera che si inserisce in un progetto di sostenibilità ambientale e sociale con incontri tra detenuti e studenti, in un percorso comune attraverso l’arte e la musica. L’opera viene rappresentata dai detenuti del carcere di Bollate con l’aiuto della Associazione Sulle Regole di Gherardo Colombo e degli studenti di alcune scuole inferiori e superiori del territorio, tra cui l’Istituto Einaudi di Varese. Al centro dell’opera, concepita e composta da Sebastiano Cognolato, ci sono gli strumenti musicali costruiti dai detenuti con materiale di riciclo, e in particolare la Sgiansa, un enorme totem sonoro in grado di produrre suoni. Intorno alla Sgiansa ci sono gli altri strumenti musicali, fabbricati dai detenuti con l’aiuto di Ulisse Garnerone, un esperto musicista e costruttore di strumenti, le loro voci che cantano, bisbigliano e declamano e le voci degli studenti che partecipano a un progetto scuola-carcere. Gli strumenti idiofoni sono accompagnati da un quintetto di ottoni, pianoforte, percussioni e coro, e una delle songs che costituiscono l’opera è eseguita dal gruppo rock del carcere. Gli studenti leggono sottovoce testi legati alla giustizia e alla prigionia selezionati in classe. Lunedì 4 marzo 2019 dalle 10,30 alle 11,30. Auditorium di Milano Fondazione Cariplo. Largo Gustav Mahler, Milano. Il senso di pietà verso il condannato di Guido Trombetti* La Repubblica, 24 febbraio 2019 Ho letto voracemente un libro di Sergio Luzzatto: “Max Fox o le relazioni pericolose”. Un libro intorno alla vicenda di Massimo Marino De Caro. L’uomo dello scempio della Biblioteca dei Girolamini. L’autore ha ricostruito la storia attraverso numerosi colloqui. Tutti via Skype tranne uno. Avvenuto nella casa dove De Caro scontava, momentaneamente, la detenzione domiciliare. Ogni qualvolta si entra in contatto, con un uomo che sconta una condanna si prova un senso di pietà. E non importa quale sia la forma di contatto. La privazione della libertà individuale è atroce. E inevitabilmente ci si sforza di addentrarsi nel labirinto delle motivazioni. Economiche, culturali, psicologiche alla radice dei fatti. Queste considerazioni ovviamente non intendono sostenere tesi risibili. Una società non può fare a meno di prevedere per chi compie un reato una pena detentiva. L’unica cosa che conta è la verità giudiziaria. Che va sempre rispettata. Poi c’è la “Verità”. Con la “V” maiuscola. Ma questa risiede soltanto nel fondo dell’animo del reo. Qui si vuole soltanto mettere in risalto che per quanto sia grave il reato commesso. Per quanto esso sia esecrabile. Venire in contatto diretto con il colpevole induce inevitabilmente ad una sensazione di umana pietà. E fa correre la mente all’osservazione che il carcere dovrebbe avere oltre che una funzione punitiva una funzione rieducativa. La prima è oggettivamente molto facile da esercitare. La seconda difficilissima. Tanto da rischiare si riduca ad improduttivo enunciato di principio. Personalmente ho provato questo senso di pietà. Che può condurre addirittura a provare comprensione per il reo. Le mie esperienze sono quasi tutte legate a fatti seguiti sulla stampa tranne che in un caso. Quello di una ragazza condannata all’ergastolo per partecipazione a banda armata. Decise di mettersi a studiare. E si iscrisse a matematica. Ed io, allora preside di facoltà, andavo in carcere a farle gli esami. Nel carcere femminile di Pozzuoli. E non solo. Cercavo di seguirla negli studi. Le scrivevo inviandole esercizi da svolgere. E lei mi rispondeva con le soluzioni. Alcune di queste lettere sono andate a scavarle in fondo ad un cassetto. Scritte a mano. In un ottimo italiano. “Gentile prof. Trombetti... mi si è prospettata l’eventualità (meno di una possibilità, ma qualcosa) di usufruire di permessi, cioè di uscire libera dal carcere per alcuni giorni... un esame universitario rientra nel novero delle buone ragioni... venire io da voi e non viceversa. Chissà l’esito: quello che potrei provare va al di là della mia immaginazione...”(28/4/1997). “Gentile prof. Trombetti, dopo tanto silenzio rieccomi a lei. Un paio di giorni prima delle feste ho finalmente avuto risposta alla mia richiesta di permesso: me lo hanno rifiutato... La comunicazione mi permette, in compenso, di disporre del mio tempo per lo studio... Confidando che abbia trascorso serenamente le feste...” (29/12/1997). Un giorno, in occasione di un esame, mi recai come al solito nel carcere di Pozzuoli. La detenuta arrivava da un altro istituto di pena, fuori regione. Scese dal furgone carcerario in catene. La vista di quella ragazza esile, quasi eterea, ripiegata su se stessa come sotto il peso emblematico di quelle catene, fu struggente. Certamente quelle erano le regole. Un detenuto soggetto al 416 bis andava trasferito in manette per motivi di sicurezza. Tutto giusto. Ma come distinguere emotivamente in quel momento il carnefice dalla vittima? Il libro di Luzzatto è scritto davvero bene. Attraversa la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti. Si interroga sulla genesi delle sue malefatte. Sulla sincerità del suo pentimento. Non fa sconti sulla gravità dello scempio compiuto: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire pubblici granai, è come ammassare riserve contro un inverno dello spirito... distruggere una biblioteca equivale ad accrescere la fame nel mondo”. Eppure da quelle pagine emerge un forte contrasto nell’animo dello scrittore. Diviso tra il timore di apparire assolutorio verso un uomo che definisce un criminale e un senso di pietà, forse anche di affetto, che si è prodotto attraverso le loro lunghe conversazioni. E questa sensazione, come attraverso l’etere, magicamente sfiora il lettore. P.S. La ragazza quando ottenne la semilibertà fece a me, in dipartimento, la sua prima visita. *Professore ordinario di Analisi matematica alla Federico II, Guido Trombetti ha guidato l’ateneo come rettore. È scrittore e saggista. Informazione. Salvare Radio Radicale, una missione per tutti di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 febbraio 2019 Mauro Palma: “Senza costruttori culturali cresce solo la cultura populista”. “Quando nel 1976 Marco Pannella entrava alla Camera dove era stato appena eletto, si metteva subito a raccogliere tutti gli stenografici degli interventi integrali dei deputati - che a quel tempo non venivano conservati ma erano destinati al macero - e poi li fotocopiava e li distribuiva. Ecco: “conoscere per deliberare” è nel Dna radicale”. Nel secondo giorno dell’8° Congresso del Partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito (Prntt), Rita Bernardini, che siede al tavolo della presidenza insieme a Sergio D’Elia e Maurizio Turco, evoca l’amato leader scomparso quasi tre anni fa per ricordare alla cronista del manifesto che la decisione di Radio Radicale di concentrare tutte le forze per fornire un reale servizio pubblico al Paese, non è solo una scelta di campo ma è una vocazione. Che ha radici profonde, affondate in quel “diritto alla conoscenza” che Pannella considerava tra i principali dell’essere umano e che fu la sua ultima battaglia. Il congresso del Prntt non poteva dunque che essere incentrato, quest’anno, sulla lotta per la sopravvivenza che Radio Radicale è nuovamente costretta ad affrontare a causa dei tagli alla convenzione con il Mise (dagli 8 milioni al netto dell’Iva, ai 4 milioni previsti da quest’anno) e di quelli all’editoria, scientemente assestati dal governo giallobruno all’”organo della lista Marco Pannella” così come ai quotidiani editi da cooperative, tra i quali il manifesto. Colpi di mannaia sulla libertà di informazione volutamente calati, nel caso della radio, proprio “per evitare che i cittadini possano ascoltare tutto quello che viene detto in Parlamento”, come ha sottolineato il primo giorno Massimo Bordin, già direttore della radio e curatore della seguitissima rassegna stampa mattutina. D’altronde per raccontare la realtà senza censure o retorica (cosa molto difficile, a qualunque latitudine), come è suo solito, Radio Radicale fa molto di più che seguire i lavori delle Aule di Camera e Senato, alla maniera di Rai Gr Parlamento: fa entrare i microfoni nelle commissioni, registra le audizioni, i processi, le inaugurazioni dell’anno giudiziario, i congressi di partito, i convegni sindacali, le sedute del Consiglio superiore della magistratura. Motivo per il quale anche il vicepresidente del Csm, David Ermini, nel rivolgere un saluto agli iscritti riuniti nell’hotel Quirinale di via Nazionale, ha giudicato “atto ingiusto e grave” l’attentato alla storica emittente radiofonica. Il cui valore sta anche nel preziosissimo archivio che contiene quarant’anni di documenti audio. Un pezzo di storia italiana che neppure Giulio Andreotti avrebbe pensato di chiudere, almeno stando a quanto riportato da suo figlio Stefano che in un’intervista a Michele Lembo ha rivelato come suo padre avesse seguito il proprio processo giudiziario ascoltandolo da quella che era allora la radio più distante possibile dalle sue posizioni politiche. “I tagli all’editoria, la compressione generale impressa a tutte le attività culturali e il colpo al cuore di Radio Radicale dimostrano un’iniziativa governativa volta a far crescere l’ignoranza”, ha affermato nel suo intervento Vincenzo Vita. Ma la “scomodità” politica dell’emittente sta anche, come hanno fatto notare molti interventi, nella sua agenda politica, fatta di giustizia, di carcere, di diritti umani e civili, dal fine vita alle droghe, dagli abusi dello Stato democratico alla repressione delle dittature. E nel vizio all’”osservazione”, come ha sottolineato il Garante dei detenuti Mauro Palma: “Anche la fisica ci insegna che l’osservazione non è neutra, è un intervento attivo che modifica l’evento osservato”. E infatti la paura, di chi vuole cambiare tutto per non cambiare niente, è lo sguardo del cittadino. Prendiamo il carcere: “L’aumento dei detenuti è dovuto non ad un surplus di ingressi ma ad un calo drastico delle uscite - ha riferito Mauro Palma - 1800 persone in questo momento stanno scontando in carcere una pena inferiore ad un anno, ed è per evidente minorità sociale (non hanno buoni avvocati, per esempio). Il diritto alla conoscenza serve anche per combattere le condizioni di minorità sociale. Tanto più perché il modello penale si sta esportando anche fuori dal carcere, come dimostra il decreto sicurezza che ha istituito 3 nuovi modi di intrattenimento e 4 nuovi luoghi per detenere”. I tempi sono bui, ha concluso Palma: “Mai avrei pensato di dovermi difendere da minacce che vengono dai corpi di polizia”. E allora difendiamoci, esorta Palma, perché “senza costruttori culturali, cresce soltanto la cultura populista”. Terrorismo. Le donne dell’Isis, gli stereotipi e il rischio di nuove radicalizzazioni di Marta Serafini Corriere della Sera, 24 febbraio 2019 È importante è che l’intelligence (sia in Medio Oriente che in Europa) cambi approccio. Perché la questione di genere ha un peso. Anche se si parla di terrorismo. “Jihadi Brides”, spose della Jihad, le ha chiamate in questi anni la stampa. Giovani per lo più europee che si sono unite all’Isis in Siria e in Iraq. Ed è vero che molte ragazze e donne, al loro arrivo nei territori controllati dal gruppo terroristico, sono state date in sposa ai miliziani. Ma dietro lo stereotipo di genere e la semplificazione si nasconde un grande rischio. Se si osserva il caso di Shamima Begum che nel 2015 poco più 15enne passò i controlli di Gatwick per riemergere quattro anni dopo dalle macerie siriane incinta, si comprende come la faccenda sia molto più complicata di una definizione. All’epoca Shamima ha scelto l’Isis. E ora che chiede di tornare indietro è difficile capire se sia pentita realmente. Questo non vuol dire che chiuderle la porta in faccia come ha scelto di fare il governo britannico sia la soluzione più giusta, tanto più che Shamima ha subito il lavaggio del cervello e all’epoca del reclutamento era minorenne. E non solo. Quello che decidiamo di fare di lei oggi avrà delle conseguenze domani, come ci hanno insegnato Abu Ghraib e Guantánamo, diventate vere e proprie Harvard del terrorismo. D’altro canto se le donne sono state utilizzate dall’Isis in prima linea solo nelle ultime fasi dei combattimenti o ad uso e consumo della propaganda, è pur vero che alcune di loro hanno avuto un ruolo come spie, come carceriere o nella diffusione dei messaggi. E se non l’hanno fatto, hanno comunque visto e sentito. Farle rientrare senza avere il quadro completo è dunque un rischio, così come è un azzardo abbandonarle al loro destino rischiando che fuggano. Chi è stata poi vittima di violenza ha sicuramente subito traumi che vanno trattati con grande cautela anche per evitare crolli e danni ulteriori ai bambini nati sotto le bandiere nere del Califfato. Se le donne dell’Isis sono dunque soggetti da tenere d’occhio, altrettanto importante è che l’intelligence (sia in Medio Oriente che in Europa) cambi approccio. Perché la questione di genere ha un peso. Anche se si parla di terrorismo. Migranti. Perché li tengono prigionieri in Libia di Roberto Saviano L’Espresso, 24 febbraio 2019 Settecentomila migranti. Che non possono andare da nessuna parte, neppure a casa. Vittime dei clan e della nostra ipocrisia. Ogni mese su Radio Radicale andrà in onda una trasmissione che si chiama Voci dalla Libia. Andrea Billau si collegherà telefonicamente con migranti che in Libia sono chiusi nei centri di detenzione o che vivono solo apparentemente in una condizione di libertà, ma che si trovano in un Paese che per loro è una prigione a cielo aperto. Con Billau c’è Michelangelo Severgnini, film-maker che nel 2017 ha realizzato “Schiavi di riserva”, documentario in cui ha intervistato tre ragazzi africani sbarcati a Pozzallo che hanno raccontato cosa accade in Libia, realmente. Severgnini ha trovato il modo di entrare in contatto con i migranti che si collegano a Internet sul suolo libico e ha messo in piedi un progetto che consiglio di seguire, si chiama Exodus - Fuga dalla Libia, ed è disponibile on line. Proverò a spiegare perché è importante avere a che fare con queste storie e perché non ci possiamo permettere di ignorarle. Quello che in genere facciamo è parlare di migranti, parlarne bene o parlarne male, spiegando o strumentalizzando il fenomeno migratorio, ma mai a essere protagoniste sono le voci di chi nell’inferno libico è rinchiuso, senza avere via d’uscita. Da un lato la retorica dei porti chiusi, dall’altra la necessità di mostrarsi umani, ma prima di tutto questo c’è la Libia, un luogo in cui sono costrette oltre 700 mila persone che vorrebbero andar via, magari anche per tornare a casa, ma a cui viene impedito. Perché? Voci dalla Libia ed Exodus spiegano proprio questo: perché dalla Libia, chi arriva, non può più uscire. Billau e Severgnini chiamano al telefono un ragazzo di cui non conosciamo l’identità. Sappiamo che è partito dal Sud Sudan nel 2013, quando è scoppiata la guerra civile, ed è rimasto per cinque anni in Egitto dove ha lavorato e messo da parte del denaro. Cinquemila dollari che gli sono serviti per oltrepassare il confine tra Egitto e Libia. È entrato in Libia a giugno del 2018 ed è stato 5 mesi in carcere. Il 6 novembre si è imbarcato per venire in Italia. I migranti avevano un telefono satellitare con cui hanno chiamato la Guardia costiera italiana che aveva assicurato che sarebbe giunta in soccorso entro due ore. Ad arrivare, invece, è stata la Guardia costiera libica che ha portato tutte le persone presenti sull’imbarcazione in un centro di detenzione dove, avevano detto, sarebbero state prese in carico dall’Unhcr. Ma non è andata così: sono stati legati in uno spazio stretto, hanno avuto da mangiare un po’ di pasta nei primi giorni, poi niente cibo nei successivi sei. Per essere liberati dovevano pagare un riscatto di 11 mila dollari. Lui, il ragazzo del Sud Sudan, ha potuto pagare quella somma chiedendola alla famiglia (questi soldi vengono raccolti chiedendo prestiti che le famiglie ripagheranno per generazioni), ma molti suoi compagni di viaggio e di prigionia no. Ha una mano rotta per i maltrattamenti subiti, ma non può sperare di essere curato perché se si dovesse recare in un ospedale pubblico lo rinchiuderebbero di nuovo in un campo di prigionia. Ma perché 700 mila persone sono prigioniere in Libia? Perché sono un bancomat, perché i migranti che entrano in Libia per raggiungere l’Italia sono un affare dal momento esatto in cui mettono piede sul suolo libico. Da loro e dalle loro famiglie si estorce denaro quando gli si promette un viaggio facile e veloce nei Paesi di origine, si estorce denaro quando diventano prigionieri sul suolo libico, quando si mettono in mare e anche quando vengono riportati in Libia per ricominciare tutto daccapo. Le partenze dalla Libia e gli sbarchi in Italia, ci dicono queste testimonianze, non sono diminuiti per il lavoro disumano dei nostri incapaci governanti, ma perché per la Libia i migranti sono una risorsa e fanno bene attenzione a non dissiparla. Ma la voce di ciò che la Libia è diventata si è sparsa e ha raggiunto anche i Paesi di partenza, allora si parte meno e quindi ci sono meno arrivi. Meno arrivi significa meno soldi e questo spiega come mai la Guardia costiera libica sta lavorando bene come mai è accaduto prima. Oggi il problema è la Libia che è un luogo di tortura dove si è ridotti in schiavitù e da dove i 700 mila migranti che si trovano attualmente in stato di prigionia vogliono fuggire. Fuggire anche per tornare da dove sono partiti. Fuggire anche abbandonando il sogno di venire in Europa. Venezuela. Maduro fa incendiare i camion con gli aiuti. Scontri e morti di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 24 febbraio 2019 Alla frontiera con la Colombia 240 tonnellate di medicine e cibo. Guaidó annuncia l’incontro, lunedì a Bogotà, con il vicepresidente Usa Pence. Un carico umanitario entrato dal Brasile costretto a fare dietrofront. Quattro vittime negli scontri. Tutto è pronto per la sfida al regime di Nicolás Maduro, con il tentativo di far entrare in Venezuela camion e navi con gli aiuti umanitari che il governo di Caracas continua a rifiutare. Il leader dell’opposizione venezuelana Juan Guaidó ha annunciato che chiederà alla comunità internazionale di mantenere “tutte le opzioni aperte” nella lotta per cacciare il presidente venezuelano. Ma il dittatore di Caracas non è intenzionato a cedere: il primo camion di aiuti umanitari che era riuscito a passare oggi dalla Colombia al versante venezuelano del ponte Francisco de Paula Santander, è stato incendiato dalle forze di sicurezza di Maduro. Dopo una giornata di scontri al confine, secondo fonti colombiane, i feriti sono 285. Il ministro degli esteri colombiano denuncia “l’uso di lacrimogeni e armi non convenzionali” da parte dei militari venezuelani. Lo rendono noto manifestanti presenti sul posto, che hanno pubblicato foto e video su Twitter. Quasi contemporaneamente il Venezuela ha annunciato di aver interrotto le relazioni diplomatiche con il confinante stato della Colombia. “Continuiamo a ricevere sostegno dalla comunità internazionale, che ha potuto vedere con i suoi stessi occhi come il regime usurpatore violi il protocollo di Ginevra, dove si dice chiaramente che distruggere gli aiuti umanitari è un crimine contro l’umanità”, ha scritto sempre su Twitter Juan Guaidó, presidente “incaricato” ad interim del Paese che lunedì incontrerà il vicepresidente Usa Pence a Bogotà. Juan Guaidó, dopo un lungo viaggio segreto in auto per sfuggire ai controlli, è apparso a Cucuta, in territorio colombiano, per ricevere simbolicamente gli aiuti. Al suo fianco ci sono i leader di Colombia, Cile e Paraguay, i tre Paesi del continente che più stanno appoggiando la causa dell’opposizione. A Cucuta sono in attesa 14 camion con 240 tonnellate di medicine e cibo. Guaidó rischia però di non poter più tornare in territorio venezuelano, avendo disatteso un ordine della giustizia che gli proibisce l’espatrio. In tutte le frontiere di terra la situazione è tesa, con manifestazioni a favore degli aiuti e la repressione della Guardia Nacional di Maduro. Due camion di aiuti sono entrati dalla frontiera brasiliana, secondo quanto annunciato dallo stesso Guaidó su Twitter. Ma secondo quanto riferiscono fonti locali i convogli sono rientrati in territorio brasiliano a causa delle violenze al confine durante le quali, secondo i militari brasiliani, venezuelano ha sconfinato attaccando i manifestanti. Proprio al confine sud con il Brasile, il bilancio delle vittime è salito a quattro morti, di cui due indios, e otto feriti gravi quando la polizia ha aperto il fuoco, nelle città di frontiera di Ureña e Santo Antonio le forze fedeli al regime hanno usato lacrimogeni per disperdere la folla e evitare che venissero rimossi gli ostacoli che ancora sbarrano i due ponti che collegano Venezuela e Colombia. In mattinata quattro soldati della Guardia Nacional hanno disertato, rifiutandosi di continuare con la repressione e hanno attraversato il ponte Simon Bolivar per rifugiarsi in Colombia. Sono continui gli appelli dell’opposizione affinché le forze armate smettano di obbedire agli ordini e lascino passare gli aiuti umanitari.