Papà in carcere e figli lontani: “Una sofferenza invisibile agli occhi” di Andrea Ponzano today.it, 23 febbraio 2019 Il distacco dai propri cari è un dolore non previsto direttamente dalla legge ma di fatto incluso nella pena. La genitorialità in carcere è un tema serio e urgente. Storie e spunti di riflessione dal dibattito “I bambini... prima” tenutosi a Rebibbia”. Luca è un detenuto di Rebibbia, si commuove quando parla della figlia. Simone sconta la pena, suo figlio è disabile e incontrarsi è complicato. Gaetano vive la sua settimana nell’attesa di quella telefonata di 10 minuti con la sua bambina che vive a Pescara con la mamma. Sono storie di padri orfani di figli perché il carcere mette alla prova l’amore più importante, quello dei propri figli. “I bambini… prima”, il dibattito a porte chiuse che si è tenuto ieri a Rebibbia nel teatro della Casa Circondariale del Nuovo Complesso dell’istituto penitenziario romano, è stato incentrato sul tema delicato della paternità in carcere. Accanto al percorso che il detenuto deve compiere per scontare la pena, un percorso complicato, faticoso e finalizzato al reinserimento sociale, c’è anche una sofferenza che lo accompagna, un dolore non previsto direttamente dalla legge ma di fatto incluso nella pena. È il distacco dai propri cari. E se sei un papà detenuto la sofferenza più grave è la separazione dal proprio figlio, soprattutto se minore d’età. Un dolore che si moltiplica nel bambino che non riesce a elaborare affettivamente la lontananza. La genitorialità in carcere è un tema serio e urgente. Un rapporto che va tutelato, difeso, può essere potenziato solo con un sostegno multidisciplinare. Dalle istituzioni agli istituti non governativi, dagli assistenti sociali agli operatori, dagli educatori fino ai volontari. Gli ostacoli da superare: il sovraffollamento delle carceri italiane, la mancanza di personale, soprattutto la burocrazia. Ma serve anche cuore e sensibilità: “È una sofferenza nascosta, invisibile agli occhi e di cui fuori non si parla”, dice Luca, detenuto e padre di una bambina che in sei anni di reclusione ha visto solo 15 volte. Franca Leosini madrina dell’incontro a Rebibbia - Grazie alla presenza di relatori tra i più importanti del settore si è affrontato il tema da diversi punti di vista: giuridico legale, scientifico, antropologico e umano. Il diritto all’affettività non può fermarsi davanti ai muri e alle sbarre del carcere. Franca Leosini, madrina dell’incontro, quelle mura le ha superate circa 120 volte in 24 anni con le sue telecamere per la trasmissione Storie maledette: “Un crimine non va mai giustificato, ma va interpretato”, ha detto la giornalista e conduttrice Rai. “L’errore compiuto dal padre per quanto grave possa essere può tradursi in un insegnamento al positivo da dare ai figli”. Dalla nostra Costituzione alla Convenzione Onu sui diritti del fanciullo firmata a New York nel 1989 fino a quella europea sui diritti dell’uomo, negli ultimi 70 anni sono state emanate carte, leggi, raccomandazioni. Nazionali, europee e internazionali. Il professor Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli studi di Roma Tre ha ricordato le novità giuridiche come la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a tutela dei figli delle persone detenute: “Le esigenze affettive dei detenuti devono essere considerate al pari di quelle del figlio”. L’avvocato Simone Filippi di Antigone, l’associazione che dalla fine degli anni ‘80 si batte per la tutela e le garanzie nel sistema penale, ha sottolineato gli aspetti relativi alla genitorialità dei detenuti nella recente riforma sugli istituti di pena e sul nuovo ordinamento penitenziario. Ma c’è ancora una distanza tra quello che dice la legge e la realtà delle carceri. In mezzo c’è il pantano della burocrazia che diventa un abisso. La Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti - I bambini vengono prima, con la loro necessità di avere una frequentazione continuativa con entrambi i genitori, l’esperienza emotiva del bambino che entra in carcere per incontrare il papà, i controlli, le perquisizioni e l’ambiente del colloquio. Sono gli aspetti forse tra i più delicati che sono stati affrontati: “Favorire il mantenimento dei rapporti tra genitori detenuti e figli, salvaguardando sempre l’interesse superiore dei minorenni”, dice Lia Sacerdote. È il punto cardine del protocollo d’intesa, Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmato lo scorso novembre dal Ministero della giustizia, dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza e da Bambini senza sbarre. Il trattato prevede l’istituzione di un tavolo permanente composto dai principali attori coinvolti (istituzioni, garanti, associazioni). L’obiettivo: monitorare periodicamente l’attuazione del protocollo e misurare i risultati raggiunti. La percentuale dei padri di Rebibbia ammonta al 50% dei detenuti. Maurizio Quilici, giornalista e Presidente dell’Istituto di studi sulla paternità, ha raccontato l’evoluzione della figura del padre: “Il ruolo del padre non deve essere secondario o subordinato a quello della madre, ma gioca allo stesso livello della mamma nella crescita del bambino”. Presenti anche il Professor Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e il professor Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà per la regione Lazio. Entrambi hanno sottolineato come il tema della genitorialità sia delicato. C’è bisogno di fare un passo avanti. Potrebbero aiutare le tecnologie, prima fra tutte skype, la possibilità di mettere in comunicazione i padri con i figli attraverso la rete: “Il padre potrebbe seguire il proprio figlio a fare i compiti nel pomeriggio”, sottolinea il Professor Anastasia. Affettività e carcere è un connubio delicato. In gioco c’è prima di tutto l’interesse del bambino. Il suo diritto all’effettività è tutelato dalle più importanti Carte nazionali e internazionali. Ma la strada è ancora lunga e non sono i bambini a doverla percorrere. In carcere a 12 anni? Intervista a Susanna Marietti (Antigone) di Marco Magnano riforma.it, 23 febbraio 2019 Una proposta di legge presentata dalla Lega in Commissione giustizia alla Camera propone di abbassare l’età minima per l’imputabilità dei minori. Lo scorso 7 febbraio è stato presentato alla Camera il disegno di legge numero 1580, con cui si propone una modifica della legge 448/88, che norma il processo penale per i minori, introducendo l’abbassamento dell’età imputabile da 14 a 12 anni, così come l’eccezione alla regola della diminuzione di pena nel caso del reato di associazione mafiosa commesso dai minorenni. Il disegno di legge si inserisce, secondo i proponenti, nel quadro di un più duro contrasto alla criminalità organizzata e alla necessità di rispondere a quella che viene ritenuta una situazione di insicurezza portata dal fenomeno delle cosiddette “baby gang”. Tuttavia, le statistiche sui reati minorili non sembrano confermare questa percezione. L’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia ha subito criticato questa proposta, affermando che “i presupposti su cui poggiano le considerazioni dei proponenti la modifica legislativa non trovano riscontro nei dati a disposizione del Ministero della Giustizia” e allo stesso tempo sottolineando che, di fronte a un esame dei dati di altri Paesi, “emerge una situazione della giustizia penale minorile italiana stabile quanto ai numeri, se non in calo, e in ogni caso di gran lunga meno allarmante di quella relativa a sistemi giudiziari che hanno da tempo fissato un’età per la punibilità penale molto precoce come il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, l’Olanda”. Ampliando lo sguardo, è abbastanza chiaro come la proposta si inserisca in modo coerente nella logica di questa legislatura e dell’attuale ministro della Giustizia, sostenitore delle misure detentive come principale strumento dell’azione penale e in questo supportato anche dagli esponenti della Lega. Eppure, l’idea di condurre in carcere, seppur minorile, dei ragazzini di dodici anni, suscita più di una perplessità. “Io credo - afferma Susanna Marietti, coordinatrice dell’Associazione Antigone, che si occupa di diritto e diritti nel sistema penale italiano - che dei ragazzini di 12 anni possano vivere situazioni problematiche alle quali possono rispondere anche con condotte non appropriate, ma gli adulti siamo noi: noi dobbiamo fare in modo, con un progetto educativo complessivo e serio, di riportarli su un’altra strada e di spiegargli che non si fa, come facciamo con i nostri figli, non di pensare di metterli in carcere”. Il sistema della giustizia minorile in Italia è spesso citato come esempio positivo a livello europeo. Potrebbe funzionare anche in forma più estesa? “La giustizia minorile lavora su personalità in evoluzione di ragazzi che comunque sono considerati capaci di intendere e di volere. Tra l’altro il magistrato nella giustizia minorile deve fare obbligatoriamente una valutazione caso per caso della capacità di intendere e di volere fra i 14 e 18 anni prima di procedere con il procedimento penale. Abbiamo invece valutato che prima dei 14 anni il ragazzo non sia capace di rispondere delle proprie azioni, perché questa personalità in evoluzione non è arrivata neanche al punto di non essere totalmente influenzata dal contesto familiare, sociale, che ha intorno. Quel sistema ha funzionato per la categoria per il quale è stato costruito, mentre non potrebbe funzionare al di fuori da quella”. Questo disegno di legge può davvero diventare norma? “Diciamo che il Movimento 5 Stelle sembra realisticamente che lo voglia appoggiare, era qualcosa che era già stato ventilato in precedenza, quindi le possibilità formali ci sono. In realtà poi quello che è successo nella storia è che dal 1988 ad oggi, cioè dall’anno in cui è stato approvato il codice di procedura penale minorile che ha dato vita a quel modello di giustizia minorile in Italia che noi conosciamo, più volte si è parlato di una riforma in senso restrittivo, e una delle componenti era proprio quella di abbassare l’età imputabile. Si è detto anche che i ragazzini delinquenti ormai sono adulti già a 12 anni, non si capisce su quale base, ma poi c’è sempre stata una forte messa di traverso da parte di chi quel sistema lo agisce, da parte dei giudici minorili, da parte di tutti gli operatori delle comunità penitenziali, che ha fatto da argine culturale per cui poi di fatto non si è mai osato. Spero che anche questa volta le cose vadano così, cioè che si sia fatta la voce grossa per avere un po’ di pubblicità ma che poi non ci si voglia mettere davvero contro quel mondo e quindi poi si lasci andare il disegno di legge su un binario morto”. Per chi lavora intorno al carcere che stagione politica si sta vivendo? A che livello si trova in questo momento il dialogo istituzionale? “Abbiamo visto quello che è successo con la riforma penitenziaria: nel passaggio dal vecchio al nuovo governo è stato cancellato dalla riforma tutto ciò che riguardava l’ampliamento di una pena differente da quella carceraria, dell’area di tutte le misure alternative alla detenzione, perché per questo governo il carcere è l’unica pena possibile. Secondo questa logica bisogna usare le politiche penali il più possibile e all’interno delle politiche penali bisogna usare il la pena carceraria, mentre è come se non ne esistessero altre. Il dialogo, quindi, è fermo a questo e non si riesce ad andare avanti”. Non è vero che in carcere finiscono solo i poveracci di Mauro Leonardi agi.it, 23 febbraio 2019 Vanno dietro le sbarre politici, imprenditori e banchieri che mai avevano pensato di condurre una vita contro la legge. E la prigione può essere anche lo sbocco di una carriera rivolta al bene. Diversamente dalla vulgata per cui “in carcere in Italia non ci va nessuno tranne i poveracci” finire in carcere in Italia è, oggi come oggi, relativamente facile. Lo insegna la vicenda di Roberto Formigoni come quella di tanti altri. La prima impressione che mi regalò il carcere di Rebibbia quando cominciai a frequentarlo da cappellano, fu quella di comprendere una frase di Papa Francesco che mi aveva sempre sorpreso. Fin dagli inizi del suo pontificato, all’entrare in un carcere il vescovo di Roma diceva “ogni volta che entro in un carcere mi domando perché loro e non io”. Fino al mio arrivo a Rebibbia, questa espressione mi sembrava una frase retorica, una forzatura: “come perché loro sì e io no? esclamavo silenzioso dentro di me: è evidente! Loro hanno commesso dei delitti e io no”. Ma frequentare il più grande carcere d’Italia mi ha aperto gli occhi. Un po’ colpevoli e un po’ innocenti - In prigione ci sono tanti colpevoli che scontano giustamente la loro pena e ci sono anche degli innocenti ma, soprattutto, ci sono tantissimi che sono un po’ colpevoli e un po’ innocenti. Persone che hanno compiuto dei delitti perché coinvolti in ambienti, in “giri”, in modi di fare, che rendono estremamente difficile non infrangere la legge. Senza arrivare al caso estremo dei figli dei mafiosi, è sufficiente pensare a un pizzaiolo che vive in un quartiere malavitoso e che, assistendo a una rissa con omicidio vicino al suo locale, per legge di strada e per paura, non vuole rivelare i nomi dei protagonisti. Un ragionamento simile vale anche per i nomi eccellenti, per persone che hanno fatto tanto nel campo della politica, dell’edilizia, della finanza, delle banche. Sono pensieri che mi vengono alla mente leggendo della condanna a 5 anni e 10 mesi a Roberto Formigoni, che entra nel carcere di Bollate a 72 anni, a piedi e vestito con un cappotto scuro. Ci sono state delle veglie di preghiera perché il giudizio in Cassazione cambiasse, ci sono le dichiarazioni degli amici convinti della sua innocenza, ci sono politici importanti quali Sala e Berlusconi pronti a dargli tutta la loro solidarietà umana; e ci sono però anche resoconti giornalistici difficili da leggere che parlano del “delinquente” Formigoni come se al carcere di Bollate entrassero Totò Riina o Cesare Battisti. Una realtà nuova - L’assoluta novità alla quale sto alludendo è quella che per cui oggi, in Italia, finiscono in carcere anche persone che mai e poi mai avevano pensato di condurre una vita contro la legge. Chi iscrive la propria vita “al lavoro” del mafioso, del trafficante d’armi, dello spacciatore, del rapinatore è doveroso che immagini la possibilità di trascorrere parte della vita, o tutta la vita, in carcere. Ma oggi in Italia siamo di fronte a una realtà nuova. Oggi, in Italia, il carcere è un concreto esito esistenziale anche per il politico, per l’imprenditore, per il finanziere, per il banchiere, per il professionista. E aggiungo: per il giornalista, per l’insegnante, per il professore, per il medico, per il prete. Sto pensando a carriere professionali che certamente vengono intraprese non al fine di delinquere ma al fine di lavorare per il bene, per migliorare la società, oltre che, certamente, anche il proprio tenore di vita. Mi colpisce il caso di Concita De Gregorio che in carcere non c’è finita, è vero, ma per colpa delle cause che hanno colpito L’Unità quando lei era il direttore, ora si trova con casa pignorata e cinque milioni da pagare per risarcimento danni. Non sto mettendo in dubbio la sentenza che condanna Formigoni, sto cercando di dire che in questo momento nel nostro paese c’è qualcosa che non funziona. Oggi come oggi, l’unico modo che hai in Italia per essere certo di non correre mai il rischio di finire in carcere non è solo il proposito di non delinquere mai ma anche quello di svolgere molte professioni a livello mediocre. Perché se vuoi impegnarti, rischiare, se vuoi cambiare in meglio le cose, devi mettere in conto che sarai chiamato ad essere un eroe. Quando, se fossimo in una società normale, per avere gli stessi risultati dovremmo semplicemente essere delle persone coscienziose. Davigo: “In Italia pochi in galera. L’Autorità anticorruzione è solo fumo negli occhi” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 23 febbraio 2019 E i risarcimenti per ingiusta detenzione? “In buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. “Arrivo alle 7,15 per studiare le pratiche. Dopo 40 anni di processi, una nuova vita: un magistrato non ha la mentalità del grand commis”. Otto del mattino nell’ufficio di Piercamillo Davigo, da “dottor sottile” di Mani Pulite a giudice più votato al Csm. Le piace il nuovo lavoro? “Il plenum è spesso una noia mortale: su 100 pratiche, 97 sono banalità”. Lei è nella commissione sugli incarichi. La più ambita. “La più sgradevole. Chi vince non ti è grato perché convinto di meritarlo, gli altri ti ritengono responsabile della loro mancata nomina”. Il sistema funziona? “Si valutano titoli che talvolta coincidono con quelle che io chiamo, in modo volutamente sprezzante, medagliette. Progetti organizzativi, incarichi di coordinamento, organismi di studio. Cose che gonfiano i curricula senza avere niente a che vedere col lavoro giudiziario”. Qual è la conseguenza? “L’organizzazione è diventata la grande e deleteria passione della categoria. Insegniamo ai giovani magistrati a tenere le carte a posto. La mentalità aziendalistica della produttività per i magistrati è una sciocchezza”. I magistrati, come tutti, non devono produrre di più? “Lavoriamo già il doppio dei francesi e il quadruplo dei tedeschi. Pensare di risolvere la crisi della giustizia aumentando la produzione è folle”. Qual è il problema, allora? “La domanda patologica di giustizia. In Francia si appella il 40% delle sentenze di condanna a pena da eseguire, in Italia il 100%. Quindi anche i patteggiamenti: negli Usa sarebbe oltraggio alla Corte”. Che cosa si può fare? “L’unica parte buona del processo è il pubblico ministero, per definizione legislativa. Le parti private fanno i propri interessi. Oggi conviene delinquere, non pagare i debiti, impugnare le condanne. Non si ha niente da perdere. Invece bisogna incentivare i comportamenti virtuosi”. Come mai tanti risarcimenti per ingiusta detenzione? “In buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca. Di norma le prove raccolte nelle indagini non valgono in dibattimento. Ciò allontana il giudice dalla verità. Per non dire dell’appello, dove buona parte delle assoluzioni dipende dalla difficoltà di conoscere a fondo il processo”. Non si arresta troppo? “Tutt’altro: in Italia in galera ci vanno in pochi e ci stanno poco. Crescono solo gli arrestati in flagranza e quelli per terrorismo e mafia”. I Renzi, anziani incensurati, per bancarotta e fatture false. “Non posso parlare di vicende in corso”. Questo governo promette più carcere e più carceri. “Gli stessi che vogliono la legittima difesa assoluta hanno approvato leggi che sostanzialmente impediscono la custodia cautelare anche con gravi indizi e pericolo di reiterazione, se non attuale. Lasciamo liberi i delinquenti per potergli sparare in casa. Non è meglio incarcerarli?”. Cosa pensa delle politiche securitarie del Viminale? “Da un lato si alimenta, grazie alle tv, un allarme sicurezza inesistente; dall’altro si fanno operazioni che poco c’entrano con la sicurezza”. Per esempio? “Strade sicure. Io sono tutt’altro che anti-militarista: ho fatto persino il richiamo alle armi. Ma mettere i soldati per le strade è cosa dissennata”. Il controllo del territorio non è importante? “Le politiche di sicurezza servono all’ordine pubblico, quelle di rassicurazione a illudere i cittadini. Se istituisci una nuova caserma, i carabinieri sono sempre gli stessi, distribuiti diversamente. Meno auto in strada, più piantoni a rispondere al citofono”. E la legittima difesa? “Spero non passi: saremmo condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Benzinai, tabaccai e negozianti sarebbero più sicuri? “Aumenteranno i morti. Non tra i delinquenti, ma tra le vittime di furti e rapine. Avere le armi e saperle usare è diverso da essere pronti a uccidere, come insegnano i western. Sapere che il derubato può sparare, indurrà il ladro ad armarsi e a sparare prima”. Corruzione: l’Italia migliora nelle classifiche internazionali. Si ruba di meno? “Il costo delle opere pubbliche continua a essere molto più alto che nel resto d’Europa. È un pessimo segnale”. Lei andrà all’Autorità anticorruzione dopo Cantone? “Non ci penso nemmeno. È difficile scoprire la corruzione con gli strumenti, pur penetranti, riservati all’autorità giudiziaria. Un’autorità amministrativa non ha possibilità di scoprire alcunché. Far credere che l’Anac sia il rimedio è fumo negli occhi”. L’Anac è inutile? “La definirei un’arma di distrazione di massa”. Va abolita? “Radicalmente cambiata: un centro di ricerca culturale, in raccordo con le Università”. E l’attività di prevenzione? “Non serve a niente. I piani anti-corruzione sono per lo più copiati, talvolta non cambiano nemmeno il nome sul frontespizio. Una vergogna”. Il Codice degli appalti? “Fantascienza, un film di Star Trek. Nel mondo reale più le gare sono truccate e corrono le tangenti, più le pratiche sono ineccepibili”. Qual è l’alternativa? “Mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura a partecipare alla gara. Quando gli propongono un accordo tira fuori le manette e li arresta”. Nemmeno i magistrati vogliono l’agente provocatore… “Si fa per droga, terrorismo e pedopornografia. Ci si pone dilemmi etici solo per i ladroni, non per il fatto che la polizia postale mette in rete, come esca, foto di bimbi nudi”. Lei non è mai intervenuto sul ruolo della Procura di Milano nelle inchieste Expo… “Il mio ruolo me lo impedisce. In generale, è inaccettabile la subordinazione dell’azione penale a valutazioni sulle conseguenze economiche. Apprezzare la ragion di stato non è compito nostro”. Anche per il caso Diciotti? “La valutazione spetta al Senato nei limiti previsti dalla legge costituzionale”. Premier e due ministri hanno detto: era una linea condivisa da tutto il governo… “Di per sé, una chiamata di correo. Dal punto di vista giuridico non attenua la responsabilità penale, ammesso che il reato ci sia”. Da quando lei è arrivato al Csm sono aumentate le assoluzioni disciplinari… “Lo rivendico: assolviamo per le sciocchezze e pugno di ferro sulle cose gravi. Prima era il contrario: forti coi deboli, deboli coi forti”. E ora? “Forti con i forti, misericordiosi con i deboli”. Chi deposita sentenze in ritardo merita misericordia? “Se è sommerso di fascicoli e lavora più della media sì. Non puoi rimproverare di avere le scarpe slacciate a uno scampato allo tsunami”. Tra i colleghi lei è più stimato che amato. “Lo so. Perché sono intransigente. Calamandrei scrive che per i magistrati la peggior sciagura è ammalarsi del terribile morbo che affligge i burocrati: il conformismo”. Il morbo si sta diffondendo? “Purtroppo sì”. Il ministro più pericoloso d’Italia di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 febbraio 2019 I guai del nostro paese non dipendono solo dalle pazzie economiche del governo ma anche da un’altra scelta deliberata: violentare lo stato di diritto avvicinando la Giustizia al modello iraniano. Il ministro più pericoloso d’Italia non è quello che osserva con sguardo vuoto i binari della Tav, non è quello che gioca con i migranti come se fossero lattine in un saloon, non è quello che ha trasformato il ministero del Lavoro nel ministero della disoccupazione, non è quello che ha trasformato il ministero dello Sviluppo nel ministero del sottosviluppo (è lo stesso di prima), non è quello che considera i soldati all’estero come se fossero marionette comandate dalla Casaleggio Associati ma è quello che da nove mesi compie ogni giorno un passo per violentare lo stato di diritto e avvicinare la giustizia italiana al modello della teocrazia iraniana. Il ministro in questione si chiama Alfonso Bonafede e dalla primavera dello scorso anno non c’è un solo atto della sua traiettoria politica che non sia stato orientato a mettere in campo un particolarissimo whatever it takes: fare di tutto per dare all’articolo 101 della Costituzione una connotazione diversa rispetto a quella immaginata dai Padri costituenti, trasformando “la giustizia amministrata in nome del popolo” in una “giustizia amministrata in nome della gogna”. Ci occupiamo oggi di quello che forse Gaetano Salvemini - inventore della famosa definizione affibbiata nel 1910 a Giovanni Giolitti, “il ministro della malavita - oggi non faticherebbe a chiamare il ministro della Malafede per una frase raccapricciante e rivelatrice ripetuta da Bonafede due volte negli ultimi giorni. La prima volta è stata martedì scorso, quando il ministro, dopo il no del Movimento cinque stelle all’autorizzazione a procedere contro Salvini, ha tenuto a precisare che “nel M5S non c’è nessuna svolta garantista”. La seconda volta è stata ieri, quando rispondendo a una domanda del Fatto - “Avete scoperto improvvisamente il garantismo per salvare Salvini e il governo?” - il ministro ha detto che “è falso”: il garantismo è una fake news. E’ possibile che il Guardasigilli conosca meglio la Costituzione davighiana (“Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”) rispetto a quella italiana. Ma un ministro della Repubblica che ha giurato promettendo di “essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione” e che considera il garantismo un insulto e non semplicemente un articolo della nostra Costituzione (articolo 27: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”) conferma l’appartenenza a un partito che di natura è incostituzionale ed eversivo. E una giustizia amministrata in nome della gogna non è solo una giustizia che autorizza i ministri a trasformare l’arresto di un criminale nella scena di uno sciacallaggio elettorale (Davigo forse non glielo ha spiegato bene ma il ministro della Giustizia è anche il ministro deputato a garantire i diritti dei detenuti), che trasforma il principio della certezza della pena nella certezza del carcere (secondo Bonafede, “le misure alternative sono solo interventi deflattivi”) e che arriva al punto di promettere leggi che diano la possibilità a tutti i cittadini “di ascoltare le parole dei politici indagati o dei politici quando sono al telefono con persone indagate”. Ma è un’idea di giustizia che fa molto di più, che arriva a molto di più, e che diventa inevitabilmente un macigno sulle possibilità di sviluppo nel nostro paese. In un momento storico in cui l’Italia. come ha messo in rilievo ieri l’agenzia di rating Fitch, avrebbe un bisogno disperato di lanciare segnali rassicuranti sulla sua affidabilità, il ministro della Malafede sembra invece avere deciso di ignorare che una delle ragioni al centro della bassa crescita dell’Italia è legata anche alla sua inaffidabilità sui temi della giustizia. L’Italia, come ricordato un anno fa dall’ex ambasciatore americano John Phillips, è solo l’ottavo paese nella graduatoria europea sugli investimenti diretti dagli Stati Uniti, in percentuale rispetto al suo prodotto interno lordo si colloca solo davanti alla Grecia nell’Ue per la quantità di investimenti esteri diretti nel paese, e la ragione è che la giustizia lenta in Italia tiene in ostaggio le imprese - nel settore civile, ci vogliono in media 991 giorni per arrivare a una sentenza, oltre il doppio di Spagna (510), Germania (429) e Francia (395), e secondo quanto calcolato da un recente studio condotto da Cer-Eures la lentezza delle indagini costa al paese ogni anno qualcosa come circa 40 miliardi di curo, 2,5 punti di pil, più o meno una manovra. Nonostante tutto questo, allo stato attuale l’Italia, infischiandosene del fatto che il 70 per cento dei procedimenti penali finisce in prescrizione al termine delle indagini preliminari, ha scelto di approvare una riforma sulla corruzione che punta a rendere eterni i processi prevedendo, a partire dal prossimo anno, la sospensione sine die della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Lo ha fatto, il governo, sapendo perfettamente cosa prevede l’articolo 111 della Costituzione (la legge assicura “la ragionevole durata del processo”) e promettendo proprio per questo di lavorare entro l’anno a una riforma della giustizia finalizzata a ridurre i tempi del processo, che però a dieci mesi dalla sua teorica approvazione ha fatto la stessa fine della crescita: sparita, scomparsa, abolita. Il declassamento futuro dell’Italia non passa dunque solo dal destino del suo debito pubblico. Passa anche dalla trasformazione di un paese che, scegliendo di sputare sul garantismo e scommettere sul processo senza fine, ha deciso di trasformare la gogna nell’evoluzione iraniana dello stato di diritto. E’ la malafede, bellezza. “Europa svuotata di diritti, a noi giudici spetta vigilare”. La sfida culturale di Md di Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2019 La prossima settimana il congresso di Magistratura Democratica: “schierati con gli ultimi”. Riccardo De Vito e Mariarosaria Guglielmi insistono su un punto: “Il giudice deve conoscere la realtà, non solo le norme”. Presidente e segretaria generale di Magistratura democratica ne fanno il presupposto del congresso che il gruppo associativo celebra la prossima settimana a Roma, e che è intitolato “Il giudice nell’Europa dei populismi”. Ci sarà un prologo nell’agro pontino giovedì 28 e poi tre giorni di assise tematiche da venerdì a domenica, al centro “Roma eventi - Fontana di Trevi”. Si parte da un allarme: “In questa Europa i diritti e le garanzie non vengono più presi sul serio”, come dice De Vito, “in particolare quando si tratta dei diritti degli ultimi: tale sgretolamento avviene secondo procedure formalmente democratiche, in cui però la democrazia stessa è svuotata di contenuto”. Si tratta di una denuncia forte, politica e culturale. La storica corrente progressista delle toghe proporrà quest’analisi a partire dalla relazione di Guglielmi, prevista per venerdì mattina, e attraverso il confronto con diversi interlocutori, a cominciare dall’Unione Camere penali, nelle diverse sessioni. Non si tratta solo di ribadire le critiche alle decisioni del governo italiano sui migranti, perché la questione non è solo italiana ma, ricorda la segretaria generale di Md, “vede Paesi come Polonia e Ungheria segnati da uno svuotamento della democrazia nel più insidioso dei modi: con la compressione del potere giudiziario da parte dell’esecutivo”. La sfida culturale di Md ha anche un suo intenso connotato sentimentale: basti pensare alla scelta di introdurre le sessioni della tre giorni con i video di tre canzoni di De Andrè, evocative “sia di una concezione solo repressiva del lavoro del giudice sia dell’attenzione agli ultimi: “Smisurata preghiera”, “Khorakhané” e “Il pescatore”. A spiegarlo è Rocco Maruotti, altro componente dell’esecutivo di Md presente alla conferenza stampa di ieri. Ma l’iniziativa della magistratura progressista ha un valore politico generale evidente. Che non è banalmente quello di schierare le toghe contro l’attuale governo o in particolare contro il vicepremier Salvini - seppure De Vito, interpellato sul voto della giunta di Palazzo Madama sulla Diciotti, si dica preoccupato per “la possibilità di un atto politico svincolato da controlli”. Magistratura democratica non può essere qualificata come il tentativo di tradurre l’associazionismo giudiziario in opposizione politica impropria, piuttosto come la risposta un vuoto politico- intellettuale. All’assenza cioè di una sinistra dei diritti visibile, al diradarsi delle élite progressiste dall’impegno pubblico. Un orientamento che si chiarisce per esempio con l’iniziativa a Borgo Hermada, preambolo del congresso fissato per giovedì pomeriggio, quando “una delegazione di magistrati incontrerà la comunità Sikh che nella località pontina è sottoposta a forme di autentico schiavismo, secondo i metodi tipici del caporalato”, spiega Marco Omizzolo, giornalista e sociologo che affianca le toghe in conferenza stampa. Una forma di vicinanza agli ultimi da ricondurre alla logica enunciata dal presidente De Vito: “I magistrati devono conoscere la realtà in cui si trovano a operare, oltre che le norme”. Perché altrimenti “si resta insidiati da due tentazioni”. La prima è quella di “rifugiarsi nel formalismo senza pretendere di controllare la volontà del sovrano alla luce della Costituzione”, “pretesa”, o meglio missione che è viceversa la cifra culturale storicamente radicata nella corrente “di sinistra”. L’altra tentazione è “la ricerca del consenso”. Certo, spiega la segretaria Guglielmi, “noi magistrati dobbiamo essere consapevoli dei limiti della nostra funzione, ma dobbiamo allo stesso tempo essere consapevoli del mondo esterno, anzi calati in esso. Altrimenti rischiamo di restare rinchiusi nella cittadella della separatezza”. Forse le toghe progressiste che nel prossimo fine settimana si riuniranno a Roma intravedono una simile digressione in altre componenti della magistratura. Non certo nell’attuale guida dell’Anm, di cui apprezzano la “scelta di proporre soluzioni per il processo insieme con l’Unione Camere penali”. Il presidente dei penalisti Gian Domenico Caiazza sarà fra i relatori della tavola rotonda di sabato mattina su “Regole sotto attacco, Stato di diritto e pulsioni demagogiche”. “Non si può semplificare il dibattito sulle garanzie che”, ricorda Guglielmi, “sono valori centrali della giurisdizione in quanto ne rappresentano la fonte di legittimazione”. L’appello è dunque a “prendere sul serio i diritti” come fa Medel, la rete della magistratura progressista europea a cui Md aderisce e che venerdì pomeriggio interverrà con il proprio presidente Filipe Marques. Si tratta della sessione dedicata alle “Politiche sull’immigrazione”, che coinvolgerà tra gli altri Laura Boldrini e Luigi Ferrajoli. Un impegno che vede Magistratura democratica lanciare l’allarme in sintonia con la Fnsi, il sindacato dei giornalisti che ieri ha ospitato la conferenza stampa nella propria sede. E non a caso il segretario Raffaele Lorusso ha ricordato ai magistrati che “noi e voi siamo sempre i primi a finire nel mirino quando, come avvenuto in Turchia, il percorso della democrazia su interrompe”. Caso Diciotti. Come si può parlare di guerra della magistratura contro la politica? di Bruno Tinti Italia Oggi, 23 febbraio 2019 La procedura seguita è regolamentata da una legge costruita e approvata dalla politica. La vicenda è stata trattata dagli organi di informazione in maniera sostanzialmente uniforme, sia nel “prima” che nel “dopo”. “Prima”: una serie di ipotesi sul comportamento dei grillini. “Poi”: un elenco delle concessioni con cui il non processabile Salvini ha remunerato la conseguita impunità. Niente di originale, ovviamente: era tutto largamente prevedibile, sia il “prima” che il “dopo”. Altrettanto non originale, in ambedue le fasi, i commenti sullo scontro giustizia/politica, sui magistrati che pretendono di condizionare la politica e, in particolare, sullo sciagurato sopravvivere dello Stato Etico e del “giustizialismo”, incompressibile definizione che allude a ideologie perverse di giudici potenti quanto incontrollabili. È di questa perseverante stupidaggine che intendo scrivere. C’è un primo banale profilo: si tratta di falsità. Talmente evidenti che sono diffi cili da confutare, proprio come avviene per la propaganda di cui ho scritto altre volte: dare uno stipendio a un cittadino che non lavora è il mezzo per aiutarlo a trovare lavoro; e non è vero che non ci sono soldi perché ce li procuriamo facendo debiti. Sono luoghi comuni insostenibili da un punto di vista di logica elementare; perché è tautologico dire che il godimento di risorse economiche gratuite è controproducente con la necessità e la volontà di lavorare per sostenersi; e che contrarre un debito è la dimostrazione fattuale della mancanza di denaro che, appunto, si ottiene a debito. Nello stesso modo, accusare di giustizialismo (come ho scritto, definizione priva di significato logico) chi ritiene che un reato resta un reato chiunque lo commetta, dal Papa al comune cittadino, è oggettivamente insostenibile. E tuttavia la popolarità di questa affermazione dimostra come qualsiasi sciocchezza, purché ripetuta e pubblicizzata numerose volte, finisce con sostituire la verità. C’è poi un secondo profilo che, per l’opinione pubblica così spregiudicatamente manipolata, rischia di essere di più difficile comprensione, inquinato com’è da aspetti tecnici. La vicenda Salvini/Diciotti è regolamentata da una legge costruita e approvata dalla politica: se ci sono elementi che rendono possibile pensare che un reato sia stato commesso da un ministro, la giustizia deve chiedere alla politica di autorizzare il processo (che è una verifica, non una condanna). Che vuol dire, in soldoni, che è privilegio della politica decidere se processare o meno se stessa: il giudice non è altro che lo strumento di cui essa può avvalersi. Per rendere ancora più evidente questo concetto, immaginiamo che un cittadino, uno qualsiasi, avesse denunciato Salvini per sequestro di persona dei migranti della Diciotti. La Procura cui questa denuncia fosse arrivata, avrebbe avuto due strade: ritenere che la denuncia era infondata e quindi chiederne l’archiviazione al Tribunale del Ministri; ovvero ritenere che erano necessarie indagini, compiute le quali e nel caso l’ipotesi di reato avesse avuto fondamento, chiedere allo stesso Tribunale di procedere contro il ministro denunciato (nel caso di specie è stato il Tribunale a ritenere che la richiesta di archiviazione della Procura era infondata e che occorreva un processo ma la cosa non cambia). Quello che sicuramente non è possibile perché non consentito dalla legge è inguattare la denuncia in un cassetto e non procedere; e nemmeno che un giudice (in realtà una serie di magistrati, prima quelli della Procura e poi quelli del Tribunale dei ministri) decida che quando un ministro è denunciato per un reato non si deve procedere. Per legge, questa decisione spetta al parlamento. Sicché, come può parlarsi di guerra della magistratura nei confronti della politica, quando ciò che è avvenuto nella vicenda Salvini/Diciotti è imposto dalla legge? E attenzione, che qui sia mancata la denuncia di un cittadino e che l’iniziativa sia arrivata dalla stessa Procura, è irrilevante. Succede tutti i giorni, per ogni tipo di reato. D’altra parte, vi piacerebbe vivere in uno Stato in cui i cittadini non denunciano i reati (pensate ai delitti di mafia) e le Procure della repubblica non avessero il potere (in realtà il dovere) di procedere autonomamente? Oppure in uno Stato dove ci fosse una legge che facesse divieto alle Procure di indagare quando il possibile autore di un possibile reato fosse un ministro o comunque un uomo politico? E, alla fi ne e perché no, una legge che facesse divieto di denunciare un ministro o un politico? Ma il profilo che più mi preoccupa è il periodico riproporre la tesi dello Stato etico/giustizialista. Un tendenzioso e immorale paralogismo. Prima di tutto perché perseguire reati e rei (nel che consiste il principio di legalità) è cosa buona e giusta, essenziale per la sopravvivenza della collettività e, per chi crede nella divinità, l’essenza stessa dell’etica (il perdono è successivo all’accertamento della responsabilità, non è logicamente concepibile senza di questo). Sicché uno Stato che applica la legge (nel caso di specie chiedere al parlamento l’autorizzazione a verificare se un ministro ha infranto la legge) è certamente uno Stato Etico. E non si vede dove sia il problema. Ma poi perché le conseguenze di questo modo di pensare inquinano profondamente la stessa politica. Come ho scritto all’inizio, l’informazione si è dilungata nell’elenco delle “vittorie” dei grillini, premio del loro voto contro l’autorizzazione a procedere. Il che era scontato. Perché, in realtà, pochi sono preoccupati dell’immoralità di un voto che non sia frutto di una personale e magari sofferta convinzione ma derivante da un bieco calcolo di dare/avere. E invece. Quale affidamento può dare una politica che non decide secondo giustizia ma in base ai vantaggi che consegue il partito, la fazione, il singolo parlamentare/ministro/ leader? Se questa immonda tesi dello Stato etico/giustizialista avesse davvero diritto di cittadinanza, è a questo tipo di politica che dovrebbe essere applicata e non a chi rispetta la legge. Supponiamo che Salvini fosse stato accusato di corruzione o finanziamento illecito del partito; i grillini avrebbero barattato l’impunità del loro sodale con il no alla Tav? Il sì o il no in funzione della loro personale valutazione della gravità del reato (forse) commesso? Altro che Stato Etico, lo Stato che ci è consegnato da questi individui è lo Stato tiranno, quello in cui chi governa non è soggetto alla legge. Evasione fiscale. Gli avvocati dicono “no” alla crociata di Bonafede di Massimo Malpica Il Giornale, 23 febbraio 2019 Il Guardasigilli vorrebbe abbassare la soglia di punibilità. A far finire Alfonso Bonafede nel mirino degli avvocati è un’intervista concessa dal ministro della Giustizia al Fatto Quotidiano, nella quale il titolare del dicastero di via Arenula prima “difende” il voto che ha salvato Salvini, sostenendo che nel caso Diciotti il vicepremier ha agito “nell”interesse preminente dello Stato”, poi però, rispondendo a una domanda, rivendica come la lotta all’evasione fiscale faccia ancora parte dell’agenda del governo. E anzi, annunciando un rilancio in grande stile della “battaglia agli evasori”, con tanto di estensione della casistica penale per gli illeciti fiscali. E sfruttando l’occasione per “prendersela” con un presunto lassismo di Matteo Renzi, “reo” secondo Bonafede di aver varato sul tema dell’evasione “alcuni interventi vergognosi”. Nello specifico “l’aumento delle soglie di punibilità per alcune fattispecie di reato”. Un punto su cui il Guardasigilli spiega al quotidiano diretto da Marco Travaglio di non essere affatto d’accordo, tanto da voler proporre all’esecutivo di tornare ad abbassarle. L’unico esempio esplicito fatto da Bonafede riguarda la dichiarazione infedele. Oggi è reato solo se l’imposta evasa per le dichiarazioni non veritiere del contribuente supera i 150mila euro, e il ministro assicura di voler lavorare a un disegno di legge che, tra l’altro, riporti quella soglia al valore precedente, ossia 50mila euro. Quello che però Bonafede non sottolinea è che anche oggi se uno evade 130mila euro non è che - se scoperto - resta impunito. Semplicemente fino a quel limite quantitativo la fattispecie di illecito fiscale non è considerata reato, ma va comunque punito come illecito amministrativo. A tutto vantaggio di un sistema giustizia già oberato di lavoro, per non parlare del sovraffollamento carcerario (visto che la dichiarazione infedele “penale” è punita con la reclusione da uno a tre anni). E infatti il dettaglio non sfugge a chi di reati se ne occupa quotidianamente, come l’Unione delle Camere penali italiane. Il cui presidente, Giandomenico Caiazza, ieri parlando all’ Adnkronos si è detto “sorpreso” dell’uscita di Bonafede. Proprio perché l’Ucpi, insieme all’Associazione nazionale magistrati e allo stesso Guardasigilli, come rivela Caiazza, siedono tutti insieme intorno a un tavolo “per ragionare su come alleggerire il sistema processuale penale in modo da accorciare i tempi della giustizia”. E “tra le strategie da adottare - spiega ancora il presidente dei penalisti - abbiamo indicato la strada della depenalizzazione, ma se invece vediamo che si intende ampliare l’ambito di rilevanza penale anche per i reati fiscali, allora vediamo una contraddizione di fondo”, sospira l’avvocato. Secondo il quale l’abbassamento delle soglie di punibilità avrebbe come conseguenza quello di ingolfare “ancora di più il sistema, con l’effetto di produrre risultati opposti a quelli che si intende raggiungere”. Insomma, l’annuncio di Bonafede odora di populismo. E gioca sull’equazione per cui davanti a un illecito “si immagina spesso che l’unica risposta seria sia quella della sanzione penale”, come spiega Caiazza, “anche quando le risposte più efficaci e immediate sarebbero quelle di tipo amministrativo”. I limiti della legge contro i corrotti di Piero Colaprico La Repubblica, 23 febbraio 2019 Non è la spazza-corrotti a far entrare in galera Roberto Formigoni, il punto vero è che non lo fa uscire. C’è grande confusione, persino tra avvocati, ma il fatto è che gli ultrasettantenni, senza precedenti penali gravi, entravano in carcere e nel giro di un giorno, o di qualche settimana, al massimo questione di mesi, uscivano per scontare la pena ai domiciliari (Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi, compratore di sentenze, o Callisto Tanzi, numero uno della Parmalat, truffatore di risparmiatori). Adesso, grazie alla spazza-corrotti, questa possibilità è scomparsa per chi è condannato per mafia e corruzione. È quindi dal cittadino Formigoni, finito in carcere a 72 anni, che potrebbe nascere il primo ricorso in grado di rendere incostituzionale la legge voluta fortemente dal governo gialloverde. E anche qui, al netto del caos delle parole, il tema non è poi così difficile da capire: non è possibile applicare una pena più severa a chiunque, se la legge è stata approvata in un tempo successivo ai fatti, gravi o meno gravi, commessi da chiunque. È contro la convenzione dei diritti dell’uomo. Inoltre, non sempre chi fa cronaca da vicino vede corruzioni da milioni di euro, come quelle attribuite al Celeste e costate 5 anni e 10 mesi definitivi. Ci sono corruzioni per 200 euro. Equiparare il corrotto della pubblica amministrazione al picciotto che ammazza è davvero normale? Formigoni, al quale non abbiamo mai fatto sconti, era un numero primo della politica, adesso che è in carcere sembra restare un numero primo della peggiore giustizia, quella “esemplare”. Governa e poi vai in cella. La maledizione dei presidenti di Regione di Simona Musco Il Dubbio, 23 febbraio 2019 L’arresto di Formigoni è solo l’ultimo di una lunga serie. C’è il presidente della Basilicata, Marcello Pittella, finito ai domiciliari con l’accusa di falso e abuso d’ufficio per le nomine nella sanità. C’è Giancarlo Galan, per 15 anni presidente del Veneto, prima in carcere e poi ai domiciliari con l’accusa di corruzione, concussione e riciclaggio nella maxi inchiesta sulle tangenti per il Mose. E anche Ottaviano Del Turco, arrestato per l’inchiesta sulla sanitopoli abruzzese quando era a capo della giunta, accusato anche di associazione a delinquere, accusa poi caduta. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano circa 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. L’ex presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, è solo l’ultimo in ordine di tempo: dopo la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione, da ieri si trova in carcere a Bollate. Prima di lui la Lombardia aveva visto indagato e condannato anche Roberto Maroni. Ma il carcere è un destino che il Celeste condivide con il collega calabrese, anche lui di centrodestra, Giuseppe Scopelliti, condannato definitivamente, ad aprile scorso, a quattro anni e sette mesi per gli ammanchi nei bilanci del Comune di Reggio Calabria dal 2008 al 2010, periodo in cui era sindaco della città. Accusato di abuso d’ufficio (reato prescritto) e falso in atto pubblico, l’ex sindaco ha ottenuto solo uno sconto di cinque mesi rispetto alla condanna in appello. Il 5 aprile, dunque, l’ex presidente si è recato nel carcere di Arghillà, che ora può lasciare quattro ore al giorno per svolgere attività di volontariato. Ma la “maledizione” dei governatori si è abbattuta anche sul suo successore piddino, Mario Oliverio, oggi costretto all’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore con l’accusa di abuso d’ufficio e corruzione, contestata dalla Dda di Catanzaro per la gestione di alcuni appalti milionari della Regione. Non è una novità, dunque, anche perché la Calabria si è vista indagare gli ultimi cinque governatori. Oltre Scopelliti e Oliverio ci sono, infatti, anche Luigi Meduri, governatore dal 1999 al 2000, arrestato nel 2015 per una storia di tangenti che coinvolgeva anche l’Anas. Ai domiciliari da ottobre a dicembre, poi sottoposto all’obbligo di firma fino a marzo 2016, nei mesi scorsi è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Ma i guai hanno riguardato anche il suo successore, l’ex magistrato Giuseppe Chiaravalloti, finito nelle indagini di Luigi De Magistris - “Poseidone”, “Dinasty2” e “Why not” - con le accuse di frode, corruzione e abuso d’ufficio. In due casi fu prosciolto, in “Why not” nel 2013 scattò la prescrizione. E quest’ultima inchiesta coinvolse anche Agazio Loiero - coinvolto in diverse indagini, uscendone sempre pulito - assolto poi per “non aver commesso il fatto”. Una poltrona maledetta quella della cittadella regionale di Catanzaro, dunque. Come forse lo è anche quella a Palazzo d’Orléans, in Sicilia, dove fra il 1994 e oggi sono sei i presidenti e gli ex presidenti finiti in casi giudiziari. Prima Rino Nicolosi (Dc), arrestato e condannato due volte: cinque anni e mezzo per mazzette sulla costruzione di un centro fieristico a Catania e tre anni e due mesi per una tangente di mezzo miliardo sull’acquisto della sede di rappresentanza della Regione siciliana a Roma. Ma Nicolosi era coinvolto anche nel processo sulla “Tangentopoli siciliana”, durante il quale ammise: “la politica costa”. Ci fu poi Giuseppe Provenzano (Forza Italia), per il quale Giovanni Falcone chiese l’arresto per avere intrattenuto rapporti con la moglie del boss Provenzano, quale commercialista della donna. Dopo meno di una settimana fu scagionato dallo stesso Falcone, ma poi condannato assieme ad un altro presidente, Giuseppe Drago, a tre anni per peculato e all’interdizione dai pubblici uffici. Ci sono poi Totò Cuffaro - condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia - e Raffaele Lombardo, arrestato due volte e ora di nuovo a processo, dopo la decisione della Cassazione di accogliere il ricorso della Procura generale di Catania: dopo una condanna in primo grado a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, il 31 marzo 2017 la Corte d’Appello di Catania aveva ridotto la pena a 2 anni solo per voto di scambio. Infine Rosario Crocetta, indagato nel 2017 per corruzione e finito nell’inchiesta Montante l’anno dopo con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito. Tra gli imputati e assolti eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni. Ma la storia dei governatori finiti agli arresti è lunga e parte da lontano. In Campania (dove tra gli indagati eccellenti ci sono stati anche l’ex presidente Antonio Bassolino e l’attuale governatore Vincenzo De Luca) c’è ad esempio Ferdinando Clemente di San Luca (Dc), presidente dal 1989 al 1993, anno in cui venne arrestato con l’accusa di aver ricevuto delle tangenti. Nel 2002 fu riabilitato e risarcito con 160mila euro. Il collega democristiano Antonio Fantini, che lo aveva preceduto, dopo una condanna a 2 anni e 10 mesi per la cattiva gestione dei fondi per il Terremoto dell’Irpinia del 1980, nel 2009 venne sottoposto al divieto di dimora in Campania om un’inchiesta sull’Agenzia regionale per la Protezione ambientale. Agli arresti, negli anni, ci sono finiti anche Marco Marcucci, ex presidente della Toscana, finito in carcere a Sollicciano per lo scandalo della diga del Bilancino e assolto nel 1999 perché il fatto non sussiste; e Angelo Rojch, presidente in Sardegna dal 1982 al 1984, indagato per truffa alla Comunità europea nei corsi professionale e per voto di scambio. In carcere ci rimase per 30 giorni, salvo poi essere assolto con formula piena. In Liguria, Alberto Teardo, president dal 28 settembre 1981 al 25 maggio 1983, venne arrestato per corruzione e concussione con altri esponenti del Psi ligure, scontando più di due anni di carcere. In Abruzzo non è toccato solo a Del Turco, ma anche al suo predecessore Rocco Salini: la giunta venne arrestata in blocco per l’uso scorretto di 450 miliardi di fondi europei e lui fu l’unico condannato ad un anno e 4 mesi di reclusione per falso ideologico e abuso d’ufficio. Ma la conta non finisce qui: in Friuli, nel 1994, finì in carcere Adriano Biasutti, coinvolto in Mani pulite e condannato, a seguito di un patteggiamento, a38 mesi di reclusione, mentre in Umbria, nel 2013, Maria Rita Lorenzetti è rimasta 14 giorni ai domiciliari nell’inchiesta sul passante ferroviario dell’alta velocità in costruzione, con le accuse di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, corruzione e traffico illecito di rifiuti. La “spazza-corrotti” è incostituzionale: il caso Formigoni di Simone Santucci camerapenalediroma.it, 23 febbraio 2019 Comunicato della Commissione carcere della Camera Penale di Roma. La “spazza-corrotti”, legge n. 3 del 2019, è incostituzionale: il caso Formigoni. E’ notizia di strettissima attualità l’emissione dell’ordine di carcerazione per Roberto Formigoni. L’ex governatore della Regione Lombardia dovrà scontare la pena detentiva di 5 anni e 10 mesi, così come statuito dalla Corte di Cassazione che, seppur riducendo la pena comminata nei precedenti gradi di giudizio, ha aperto per Roberto Formigoni le porte del carcere. E proprio questo è il punto: perché andrà in carcere? L’art. 47 ter, comma 1, dell’ordinamento penitenziario prevede, infatti, che la pena detentiva inflitta a una persona che abbia compiuto i settant’anni di età, possa essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza. La speciale ipotesi di detenzione domiciliare risponde a una finalità umanitaria coerente al perno cui è orientata, nel nostro ordinamento, l’esecuzione della pena: la dignità dell’uomo e il rispetto della condizione naturale di vulnerabilità connaturata alla reclusione. Il superamento di una certa soglia di età comporta, all’evidenza, difficoltà maggiori e sofferenze aggiuntive per chi si trova ristretto. Ebbene il 31 gennaio 2019 è entrata in vigore, preannunciata da venti repressivi e da ostentati clamori securitari, la legge 9 gennaio 2019 n. 3, nota anche con il famigerato termine “spazza-corrotti” che ha inserito nell’ambito dell’art. 4 bis O.P. alcuni reati contro la pubblica amministrazione (peculato, concussione e corruzione) rendendoli, dunque, “ostativi”. La norma dell’ordinamento penitenziario, per giurisprudenza costante, non è considerata ‘norma penale sostanziale’ poiché ritenuta afferente, non all’accertamento del reato ed all’irrogazione della pena e, dunque, governata dal criterio della irretroattività (art. 2 c.p. e art. 25 Cost.) ma alle modalità esecutive della sanzione inflitta e, conseguentemente, - in assenza di specifiche norme transitorie - non sottratta al principio del tempus regit actum e immediatamente applicabile (come nel caso di Formigoni) anche ai reati commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore. La modifica normativa dell’art. 4 bis O.P., ha effetti dirompenti e, anche per le pene sotto i quattro anni, impedirà la sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, comma 5 c.p.p., con ovvia incidenza sul già drammatico problema del sovraffollamento delle strutture carcerarie. La Corte Costituzionale negli ultimi anni si è a più riprese soffermata sull’art. 4 bis O.P. e sulle esclusioni che tale norma determina dall’accesso al reinserimento ed alla restituzione in società della persona condannata, incorniciando un principio fondamentale: “l’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena”. Le deroghe al principio rieducativo, dunque, colpiscono l’anima costituzionale della pena e sono ammesse - in virtù dell’operare di un bilanciamento di valori di pari rango - solo in presenza di reati ontologicamente connotati da caratteristiche di gravissimo allarme sociale e di pervicace offensività pubblica e pervasività. Caratteristiche, queste, che connotano i reati di mafia e di terrorismo e che, tuttavia, anche per tali gravi crimini non consentono di ritenere superati i profili tragici dell’ostatività (art. 4 bis O.P.) sempre meritevoli di aspra critica laddove impediscono al Magistrato di Sorveglianza la verifica di percorsi individuali di pentimento e di adesione a positivi modelli comportamentali compiuti dal recluso, a fronte di una perequazione legale tra ravvedimento e collaborazione con la giustizia del tutto astratta e non aderente al dato reale. Non può, allora, non destare sconcerto l’inclusione nell’alveo dei reati di cui all’art. 4 bis O.P. di fattispecie normative che in nessuna misura incarnano i presupposti fondanti la ragionevolezza (si è detto, discutibile) di meccanismi assoluti di esclusione (dall’accesso alla sospensione della pena; alle misure alternative al carcere; alla previsione della reclusione come extrema ratio, soprattutto nei casi contemplati dall’art. 47 ter co. I O.P.). Strage Thyssen, ordine di carcerazione per i manager tedeschi condannati Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2019 Questa la decisione del Tribunale regionale di Essen, che si è pronunciato in proposito il 17 gennaio sul caso di Harald Espenhahn, e il 4 febbraio su Gerald Priegnitz. Secondo quanto ha spiegato il portavoce dello stesso Tribunale all’Ansa, i due dirigenti hanno impugnato la decisione, presso la Corte di appello di Hamm. E non potranno essere arrestati prima della pronuncia. L’ordine di carcerazione dei due manager tedeschi della Thyssenkrupp, condannati in via definitiva in Italia ma ancora liberi, emanato in Italia del 2016, è applicabile anche in Germania. Questa la decisione del Tribunale regionale di Essen, che si è pronunciato in proposito il 17 gennaio sul caso di Harald Espenhahn, e il 4 febbraio su Gerald Priegnitz. Secondo quanto ha spiegato il portavoce dello stesso Tribunale all’Ansa, i due dirigenti hanno impugnato la decisione, presso la Corte di appello di Hamm. E non potranno essere arrestati prima della pronuncia. I due dirigenti del gruppo sono condannati in via definitiva, il 13 maggio 2016, per il rogo del 2007 avvenuto alla sede di Torino in cui persero la vita sette operai. All’amministratore delegato Espenhahn sono stati inflitti 9 anni e 8 mesi mentre al consigliere del gruppo Priegnitz sono stati inflitti 6 anni e 10 mesi. Quando la sentenza diventerà eseguibili i due sconteranno una condanna di 5 anni, il massimo consentito in Germania per l’omicidio colposo. La Procura di Essen aveva chiesto l’arresto a settembre dei due dirigenti dopo una lunga battaglia passata anche per il caso della traduzione del verdetto. La notizia è stata accolta con grande soddisfazione da Raffaele Guariniello, l’ex pubblico ministero che seguì il processo torinese. “L’importante è che i dirigenti tedeschi scontino le pene, come avvenuto per i manager italiani. Sono passati tanti anni dalla tragedia, ma questo è un giorno importante perché giustizia è stata fatta”, ha detto all’agenzia Agi. Dopo le rivelazioni fatte il 19 febbraio scorso da Le Iene sul caso ThyssenKrupp, il ministero della Giustizia aveva inviato una lettera alla procura di Essen, città del Land Nord Reno-Vestfalia, competente nell’applicazione della sentenza sul rogo mortale scoppiato nella notte tra il 5 e 6 dicembre 2007. Nella missiva, il dicastero guidato da Alfondo Bonafede, chiedeva di verificare la veridicità delle notizie, ma soprattutto vuole avere una “conferma delle conclusioni, già avanzate dalla procura di Essen, con le quali si è chiesto il riconoscimento ed esecuzione della sentenza” come precedentemente comunicato con una nota del novembre scorso. Il giorno dopo il verdetto della suprema Corte gli imputati italiani si costituirono. E proprio nei giorni scorsi ha lasciato il carcere dopo due anni e mezzo Cosimo Cafueri, ex responsabile della sicurezza dello stabilimento, condannato a 6 anni e 8 mesi. Il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Torino, è analogo a quello concesso a Spoleto a Marco Pucci, ex consigliere Thyssen che era detenuto a Terni per gli stessi motivi. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone(il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate). Quella notte allo scoppio del rogo i sette operai insieme al collega Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto e poi deputato del Pd, avevano tentato di spegnere le fiamme, ma ogni loro sforzo era stato inutile: nonostante i frequenti incendi sulla linea 5, gli estintori erano quasi vuoti, le manichette di acqua inutili, l’impianto non era adeguato perché il management sapeva che lo stabilimento sarebbe stato chiuso. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in un post su Facebook assicura: “Continueremo a monitorare giorno per giorno la vicenda e terremo informati tutti voi e soprattutto le famiglie”. Cuneo: agente penitenziario in servizio nel carcere si toglie la vita impiccandosi quotidianopiemontese.it, 23 febbraio 2019 Un agente di 49 anni in servizio del carcere di Cuneo si è ucciso ieri mattina, impiccandosi nella sua abitazione. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, commenta Vicente Santilli, segretario regionale Sappe del Piemonte. “Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, molto disponibile ed era sempre a disposizione degli altri. Per questo risulta ancora più incomprensibile il suo terribile gesto. Napoli: se a Poggioreale ritorna l’incubo sovraffollamento di Antonio Mattone Il Mattino, 23 febbraio 2019 Uno psicologo in servizio nella Casa circondariale di Poggioreale ha ricevuto intimidazioni da parte di un agente perché non voleva sorvolare su un presunto pestaggio denunciato da un detenuto. Un episodio molto grave che risale al giugno scorso, che è stato reso pubblico solo qualche giorno fa. Una notizia che ha fatto seguito alla reazione dei parenti di Claudio Volpe, il carcerato deceduto il 10 febbraio in circostanze ancora da chiarire, che avevano protestato lanciando bottiglie e pietre contro il cancello dell’istituto e all’interno del parcheggio del personale. Proprio alla vigilia della prima udienza preliminare sulla vicenda della cella zero, nel penitenziario napoletano il termometro sta salendo e si avvertono segnali preoccupanti. Il penitenziario di Poggioreale ha rappresentato da sempre lo stato di salute del pianeta carcere in Italia. L’aria che si respira all’interno di quelle mura riproduce il clima che si avverte nelle case circondariali del paese. Dagli anni delle rivolte prima della Riforma del 1975 fino alla recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti. Cosa sta succedendo oggi nel carcere più grande dell’Europa occidentale e nell’intero sistema penitenziario italiano? Innanzitutto sta tornando il sovraffollamento. Attualmente sono presenti più di 2400 detenuti, 1000 in più della capienza regolamentare e 700 oltre le presenze che si registrarono dopo lo sfollamento che si ebbe in seguito alla condanna della Cedu. Mille carcerati in più sono quanti ne può contenere un istituto come San Vittore a Milano. Ma il numero di agenti e operatori penitenziari che dovrebbero seguirli resta uguale ed è avanti negli anni. Solo nella polizia penitenziaria ci sono attualmente 150 unità in meno rispetto a quanto previsto in organico. D’altra parte nelle 190 prigioni italiane abbiamo superato di nuovo le 60mila presenze, 10mila in più del dovuto. La ricetta del Governo per ovviare a questa criticità è quella poco realistica di costruire nuove carceri. Ci vorrebbero un quinto dei posti al momento disponibili per potersi mettere in regola. Per dare un po’ di respiro a Poggioreale si parla di costruire un nuovo penitenziario nella zona di Nola. E’ una impostazione carcero centrica della giustizia che trova le sue ragioni nel mantra martellante della sicurezza. Anche se sappiamo che più carcere non significa rendere più sicura la società, perché solo persone realmente cambiate renderanno più tranquille le nostre città e le nostre esistenze. E questo non potrà mai avvenire chiudendo in cella le persone che hanno commesso reati “buttando la chiave”, ma solo con il difficile e complesso lavoro di recupero verso chi ha preso strade sbagliate. Un’altra criticità è quella della salute. Bisogna ancora accertare le cause del decesso di Claudio Volpe e, prima di esprimere condanne generalizzate, è da irresponsabili gettare benzina sul fuoco. Tuttavia sappiamo che il sistema assistenziale è inadeguato. Dopo pochi giorni dal suo insediamento, il nuovo manager dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva ha visitato il Centro clinico San Paolo e sembra sia rimasto molto colpito dalle carenze strutturali dei locali. Occorre procedere quanto prima alla ristrutturazione del reparto e dotarlo di attrezzature nuove ed efficienti. Ricordo che due anni fa un paziente si ustionò il volto per un corto circuito causato dall’impianto di ossigeno. E poi ci sono gli atavici problemi dei ricoveri ospedalieri e degli esami specialistici, per non parlare delle persone con disagio piscologico e psichiatrico. Infine, bisogna stabilizzare sanitari ed infermieri, perché il continuo turn over non favorisce una adeguata continuità terapeutica e spezza il rapporto fiduciario che si instaura tra medico e malato. Le tensioni di questi giorni hanno portato gli agenti di Poggioreale ad attuare l’astensione dai pasti della mensa. Una protesta per attirare l’attenzione sulla carenza di organico ma anche per denunciare le minacce che alcuni poliziotti hanno ricevuto sui social. Bisogna dire che l’episodio dell’aggressione ricevuta dallo psicologo, seppur grave, mi sembra un colpo di coda di un retaggio ormai lontano e per fortuna destinato a scomparire. Conosco molti agenti che svolgono il loro lavoro tra tante avversità e con grande impegno. Un compito gravoso per i turni massacranti a cui sono sottoposti e per la difficoltà a gestire persone non facili. Prima che la situazione degeneri bisogna intervenire per creare le condizioni: solo così il penitenziario napoletano potrà proseguire sulla strada del cambiamento. Una politica di sola repressione e la galera senza speranza servono solo ad avvelenare il clima e ad alimentare odio e rancore nella società. Ma ancora di più all’interno delle prigioni. E chi semina vento raccoglierà tempesta, a Poggioreale come nelle altre carceri italiane. Reggio Calabria: il grazie dei boss al giudice “aiuta i nostri figli” di Federico Minniti Avvenire, 23 febbraio 2019 Il presidente del Tribunale dei minori rivela: mi scrivono anche dal 41bis. In carcere i protagonisti della fiction Rai. “Date la possibilità ai vostri figli di scegliere una vita diversa dalla vostra”. Non usa giri di parole Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Ad ascoltarlo, mercoledì sera nel salone della Casa circondariale Giuseppe Panzera della Città sullo Stretto, ci sono i detenuti di massima sicurezza del carcere reggino. Sono “uomini d’onore”, affiliati alla ‘ndrangheta e alcuni sono padri che hanno visto i propri figli allontanati da un provvedimento firmato dal loro interlocutore. L’iniziativa è stata promossa da Libera, Centro comunitario Agape e la rete delle Alleanze Educative. Un confronto, a carte scoperte. “Non è vero che non c’è scelta per colpa della famiglia di origine, i ragazzi sono ‘costretti’ dallo Stato che gli fa terra bruciata attorno”, ribatte uno dei detenuti. “C’è un costo emotivo altissimo in quello che faccio - ha spiegato Di Bella - ma non potete immaginare la frustrazione di ritrovare a dover giudicare i figli o i nipoti di persone che in precedenza erano già passate dal mio ufficio per reati simili”. Una cosa è certa, la fama di ‘confiscatore di figli’ che per i primi anni ha accompagnato il presidente del Tribunale per i minorenni negli ambienti delle cosche, sta iniziando a umanizzarsi. “Lei non ha paura di essere lasciato solo?”, domanda un esponente mafioso che sta scontando la sua pena in carcere provando ad incalzare Di Bella: “Quale altra istituzione sta adempiendo realmente al suo ruolo come fa lei?”. La logica della delegittimazione rimane nei cliché dialettici della ‘ndrangheta. Ma anche su questo il giudice messinese ha pochi dubbi: “Bisogna tutelare i ragazzi, alleggerire le loro spalle dall’eredità schiacciante che si trovano a sopportare. Anche voi volete che i vostri figli siano liberi di scegliere”. A riprova di ciò sono le decine di lettere in cui diversi detenuti (anche del 41 bis) chiedono a Di Bella di intervenire per ‘salvare’ quei ragazzi dal destino apparentemente segnato. Succede anche di più: “Mi stanno scrivendo semplici detenuti e perfino boss al 41 bis. ‘Giudice, la ringrazio - dicono -. Prosegua nella strada che ha intrapreso per i nostri figli, avessi avuto io la stessa opportunità che sta fornendo ai miei ragazzi forse non mi troverei nel luogo di sofferenza in cui sono ora” ha raccontato Di Bella. Accanto a lui, sono entrati nel ‘limbo’ carcerario anche due degli attori protagonisti del cast di ‘Liberi di Scegliere’, la fiction andata in onda su RaiUno lo scorso 22 gennaio diretta da Giacomo Campiotti e che ha fatto conoscere al grande pubblico il protocollo che prevede la sospensione della responsabilità genitoriale delle famiglie mafiose. Si tratta di Francesco Colella e Saverio Malara, artisti calabresi, che hanno voluto spiegare come la serie-tv sia di segno opposto rispetto a quelle che mitizzano il crimine, avallando la ‘seduzione criminale’ che i clan esercitano nel controllo capillare dei territori. Per fronteggiare questa emorragia valoriale, negli anni sono stati 60 i minori entrati nel progetto del Tribunale dei minorenni, di cui 40 sono stati allontanati dalla Calabria. Proprio nelle ore in cui quasi 600 studenti di Reggio Calabria (con un’attività parallela a quella di Di Bella in carcere) toccavano con mano il dramma dei figli di ‘ndrangheta, il web ‘partoriva’ una canzone trap (il genere musicale più in voga tra gli adolescenti) di Glock21, al secolo Domenico Bellocco, nipote e cugino di ‘ndranghetisti dell’omonima famiglia che controlla Rosarno e, assieme ai Pesce, ai Piromalli, ai Molè, l’intera Piana di Gioia Tauro e buona parte del narcotraffico internazionale. Il brano è zeppo di riferimenti al presunto lusso vissuto da questi ragazzi, alla vita “in strada coi miei fratelli” e ai tradimenti dei “finti amici”. Una canzone della ‘malavita’ che ha come set palazzoni e strade sterrate appena fuori dal centro di Rosarno. Roma: alla Magliana ci si sente un po’ più sicuri, grazie alla giustizia riparativa di Paola Springhetti retisolidali.it, 23 febbraio 2019 Con il progetto Asylum, la cooperativa Magliana 80 ha proposto un percorso sperimentale di confronto tra comunità e detenuti. Di giustizia riparativa negli ultimi anni si parla molto, anche se il tema non è ancora arrivato all’opinione pubblica, che probabilmente fa fatica a metabolizzarlo ed accettarlo, in tempi in cui il problema della sicurezza viene ogni giorno gonfiato e reso prioritario dalla politica e anche dall’informazione. Per questo sono importanti iniziative come quella del Cnca, che il primo febbraio scorso ha organizzato, insieme al Coordinamento Italiano Case Alloggio/Aids (Cica), il convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”. Per dire, ancora volta, che la via più facile e popolare - quella del “mettiamoli dentro e buttiamo via la chiave” - non è la più efficace, in termini di sicurezza, visto che le misure alternative alla detenzione e i percorsi di accompagnamento all’uscita dal carcere producono un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%. Altrettanto importanti sono le esperienze sul campo, visto che la giustizia riparativa non è solo un’idea, ma anche un insieme di metodi sperimentati, che possono incidere sulla vita delle persone e dei territori. Una di queste esperienza, a Roma, è il progetto Asylum Inclusione Sociale della cooperativa sociale Magliana 80. Finanziato con fondi europei, tramite la regione Lazio, ha per obiettivo finale l’inclusione sociale di detenuti adulti e giovani, è partito a marzo dell’anno scorso, finirà a maggio. Ne parliamo con Germana Cesarano, psicologa, responsabile del progetto. Che cosa è la giustizia riparativa? “Ci sono diversi approcci di pensiero. C’è chi considera giustizia riparativa l’insieme delle misure di pena alternative al carcere: messa alla prova, lavori socialmente utili, misure alternative alla detenzione. Più specificamente però - ed è il nostro caso - si parla di giustizia riparativa in riferimento non alla pena, ma alla rottura dei rapporti all’interno della società civile, una rottura che può crearsi tra chi ha commesso un reato e la vittima, o chi ha genericamente infranto le regole della società civile e la società stessa, che si sente colpita nella sua sicurezza, nella sua integrità, nella sua etica.” Esistono metodologie per cercare di ricucire questa frattura? “Sì, le stiamo importando dall’estero, anche se in Italia ci sono sperimentazioni molto interessanti. Puntiamo sulle Conferenze riparative, cioè sull’incontro tra persone che volontariamente si mettono in discussione su quello che hanno fatto, e altre persone che volontariamente portano la loro difficoltà. Insomma, con questo progetto stiamo cercando di costruire l’incontro tra persone che hanno commesso vari reati e il quartiere dove vengono a fare altri percorsi di uscita dal carcere. Molti pensano che la sicurezza sia venuta meno, perché vedono persone che consumano la pena fuori dal carcere, facendo altre attività. Ora hanno la possibilità di incontrarle e di parlare con loro”. In che modo favorite il rientro dei detenuti nella società? “Da un lato attraverso un corso di formazione, che dà un minimo di know how per potersi vendere sul mercato del lavoro: si tratta di un corso da pizzaiolo. Dall’altro lato il progetto prevede un’attenzione alla storia e al vissuto di ciascuno, quindi anche una rilettura del perché sono arrivati a compiere reati. E poi ci sono le Conferenze riparative, che fanno parte del percorso di presa di coscienza. Spesso le persone che sono state in carcere hanno anche un passato di tossicodipendenza, ma in generale il detenuto tende ad autoassolversi, a dire che la giustizia non è giusta, che quello che ha commesso non è poi così grave… In qualche maniera tendono minimizzare, a non vedere il danno e la frattura con la società”. Questo percorso di presa di coscienza non dovrebbe essere fatto in carcere? “Andrebbe fatto all’inizio della pena, ma la situazione delle carceri in Italia, dal punto di vista delle risorse umane e quindi della possibilità di lavorare con le persone, è problematico. Poiché le carceri sono sovraffollate, il personale è sottodimensionato. Avere un colloquio con un educatore o con uno psicologo è difficile e diventa inevitabile favorire la risposta chimica - quindi attraverso medicinali - al disagio. Non dormi, sei in ansia, stai male? C’è una pastiglia, non un percorso. Anche per questo la giustizia riparativa è più avanti con i minorenni: perché con loro si cerca di evitare la carcerazione, e quindi c’è una cultura, un’esperienza, un’attenzione al percorso di rilettura”. Come sono state scelte le 15 persone che partecipano al progetto? “I paletti del progetto sono piuttosto rigidi: abbiamo dovuto prendere persone che avessero un fine pena tra i sei e i nove mesi; che non avessero pericolosità sociale; che stessero scontando la pena fuori dal carcere (in affidamento o detenzione domiciliare). Ma mentre per gli affidati è stato molto facile ottenere l’autorizzazione, per gli altri abbiamo dovuto attendere l’autorizzazione del magistrato e questo ha rallentato gli ingressi. E tra l’altro in qualche caso non è stata data”. Come si fa una conferenza riparativa? “Noi abbiamo cominciando presentando il progetto a tutto il mondo che ci circondava: amministratori del Municipio XI, dove ha sede il progetto, la Consulta del volontariato, i condomini, a cui abbiamo chiesto anche di dirci qual è il danno che pensano di subire a causa della nostra presenza nel palazzo (rumori molesti, fastidio di sentire quello che parla solo di detenzione e reati, vedere la macchina della polizia che tutte le settimane viene a fare i controlli… e c’è una signora arrabbiata perché uno dei nostri utenti si è fidanzato con la figli). Questa è stata la parte più faticosa, se non altro per trovare un orario corretto che vada bene a persone che hanno impegni diversi. Al primo incontro, su cento condomini sono venuti in due, ma al secondo è venuto un numero significativo”. Ci sono stati cambiamenti nei modi di pensare degli abitanti del condominio? “Sì, direi che le tecniche di mediazione del conflitto hanno funzionato. All’inizio non è stato facile: in fondo chiedevamo loro di rivivere momenti spiacevoli e di accettare un dialogo con persone che, in qualche modo, li avevano provocati. Abbiamo anche compiuto delle azioni che hanno aiutato i cittadini a guardare con occhi diversi la nostra presenza, ad esempio prendendoci cura del piccolo spazio verde che circonda il condominio”. E negli utenti del progetto? “Anche per loro qualche cosa è cambiato, soprattutto nella presa di coscienza delle proprie responsabilità, ma anche nel modo di guardare gli altri. C’è chi, per fare un esempio, aveva sempre considerato con disprezzo le prostitute che frequentava, ma incontrandole nella sede di Magliana 80 ha capito che anche loro sono persone, con una storia, una sensibilità, dei problemi da affrontare… E soprattutto ha preso coscienza dei propri errori e dei danni che ha fatto”. Con il volontariato come è andata? “Grazie alla consulta siamo riusciti ad aprire un dialogo con le associazioni, a cui abbiamo spiegato il progetto e tutto il lavoro che stavamo facendo. Il risultato è che alcune si sono rese disponibili per accogliere persone in messa alla prova: un bel passo avanti”. Quindi, in generale? “Direi che gli abitanti della zona non cambiano strada, quando passano davanti alla comunità”. Venezia: i volontari del carcere femminile “l’ispezione non fermi i progetti” di Marta Gasparon Il Gazzettino, 23 febbraio 2019 È un grido accorato quello lanciato ieri mattina, all’Ateneo Veneto, dalle associazioni e cooperative veneziane che da più di vent’anni operano nel carcere femminile della Giudecca, in seguito all’ispezione ministeriale effettuata settimana scorsa e che ha approntato alcuni consigli e prescrizioni rispetto alla gestione di tale penitenziario. Prescrizioni restrittive di cui il mondo associativo ha ricevuto notizia soltanto attraverso l’articolo del Gazzettino del 16 febbraio scorso, in quanto indirizzate solo alla direttrice. E riguardo alle quali il magistrato di sorveglianza Fiorentin ha espresso la volontà di essere informato. La Commissione avrebbe agito in seguito alla drammatica vicenda dell’agente di polizia penitenziaria Maria Teresa Trovato Mazza, morta lo scorso 12 gennaio dopo due anni di coma. “Ispezioni alquanto anomale” evidenzia l’avvocato Ilenia Rosteghin, vicepresidente dell’associazione Gabbianella, non tanto per l’atto in sé, quanto piuttosto per la tempistica. Alla Giudecca vengono fatte già ben 86 perquisizioni all’anno: è il carcere più controllato d’Europa. “E’ strano che il tutto dice sia avvenuto due anni dopo il fatto, solo in seguito all’esplosione mediatica del caso”. Cancellazione della sorveglianza dinamica (sostituita da telecamere), regolamentazione dei contatti tra quelle detenute che lavorano all’esterno e quelle che non escono mai, eliminazione della possibilità di rivolgersi per gli acquisti all’esterno alla cooperativa Il granello di senape e divieto dell’uso di tinture per capelli. Questi i punti che riassumono l’esito della visita della Commissione ministeriale, a cui le associazioni hanno risposto attraverso una lettera aperta, rigettando innanzitutto l’immagine a loro avviso scorretta che è stata data del carcere e sottolineando come “pur restando un luogo di pena, alla Giudecca si sia saputo costruire un fecondo rapporto con la città e le istituzioni e si siano avviati percorsi finalizzati al reinserimento sociale delle recluse. Percorsi che hanno portato ad esiti straordinari, come il crollo drastico delle recidive”. Le associazioni Fondamenta delle convertite, Il granello di senape, Closer, Il cerchio e Rio Terà dei pensieri si augurano che gli organismi preposti portino il loro compito a termine in breve tempo e chiedono rispetto per chi opera all’interno della struttura carceraria e vuole continuare a farlo. Tante le dimostrazioni di vicinanza che la lettera ha ispirato: dagli assessori comunali e regionali Venturini (Coesione sociale) e Lanzarin (Politiche sanitarie) alla Camera Penale veneziana, dal Comitato per le pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Venezia al vicepresidente del Consiglio regionale. Tutti concordi nell’affermare che le realtà del volontariato penitenziario hanno portato a progettazioni di alto livello, responsabilizzato le detenute e valorizzato la persona e la dignità umana e riconoscendo a tali operatori un ruolo fondamentale nel percorso rieducativo e di reinclusione sociale. “Siamo in attesa di vedere e sapere cosa succederà. Vogliamo lanciare un allarme alla città ha dichiarato il presidente della Fondamenta delle penitenti per informarla. Tutti ci sentiamo in diritto di difendere quanto realizzato finora”. La reazione di coloro che sono intervenuti ieri mattina è stata unitaria e volta a considerare l’impatto devastante che avrebbero le nuove restrizioni: sulla vendita di fiori e verdure ogni giovedì, sulla gestione dei bambini negli Icam, sulla possibilità di ottenere prodotti per la cura di sé e sul lavoro di lavanderia e sartoria riconosciuti ormai a livello internazionale. Piacenza: il ministro Salvini in carcere dall’imprenditore che sparò ai ladri di Liana Milella La Repubblica, 23 febbraio 2019 In cella da martedì scorso Angelo Peveri: sconta 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio. I ministro dell’Interno, comunque si chiami, deve stare dalla parte della legge. Matteo Salvini o non lo sa, o peggio fa finta di non saperlo. Altrimenti, dal Viminale, non avrebbe annunciato, ieri per oggi alle 17, la sua visita nel carcere di Piacenza all’imprenditore Angelo Peveri, appena condannato dalla Cassazione a 4 anni e 6 mesi per aver sparato nel 2011 al romeno Dorel Jucan. “Mi sono semplicemente difeso” assicura Peveri. Ma il procuratore Salvatore Cappelleri, sul quotidiano Libertà, dichiara: “La legittima difesa non c’entra nulla con questa storia”. E ricostruisce i fatti. Un allarme squilla. Peveri si precipita dove tre ladri stanno rubando il suo gasolio con un fucile a pompa calibro 12. Spara da un ponte. In aria, dice lui. “Spari diretti verso il basso” per il procuratore. Con Peveri c’è l’operaio Gheorge Batezatu che si precipita giù e afferra Dorel. Lo colpisce. Arriva Peveri. Il procuratore Cappelleri cita la Cassazione: “Afferra il ladro per il collo, più volte gli viene sbattuta la testa sui sassi”. “Da uno, due metri” vengono “esplosi due colpi di fucile, uno raggiunge Dorel al petto”. “Da una persona in piedi su una supina”. Per Cappelleri “tutti dovrebbero rispettare una sentenza definitiva”. Ma Salvini deve aver visto un altro film. Lui sfrutta l’occasione, anche sbagliata, per portare a casa la nuova legittima difesa. In calendario la prossima settimana alla Camera. “Legge incostituzionale” per le toghe di Md. Ma Salvini sfida i giudici. In tv, a “Di martedì”, ha mandato “un abbraccio a Peveri”. Ha riscritto la sentenza: “Lui è in carcere perché dopo l’ennesima rapina ha esploso accidentalmente un colpo. Il risultato: in galera c’è chi si è difeso, in strada chi è andato a rapinare”. Il procuratore: “Di legittima difesa non hanno parlato neppure gli avvocati difensori”. Ma Salvini stravolge la verità processuale. Sta con i sindaci e gli imprenditori che stanno con Peveri. Firma la sua futura legge: Stato e polizie assenti, il Far West dell’auto difesa armata. Rovigo: a detenuto straniero negata la libertà anticipata per una sigaretta non spenta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2019 Il magistrato respinge l’istanza per la liberazione anticipata, perché il detenuto straniero non ha spento subito la sigaretta alla richiesta di un agente penitenziario, nonostante avesse intrapreso un percorso di riabilitazione attraverso il Sert, una prova di adesione a un trattamento penitenziario in funzione risocializzante. A darne notizia è il suo avvocato difensore, la radicale Simona Giannetti del foro di Milano. Il detenuto si chiama Gannouch Mhammed marocchino, vive in Italia da anni con la seconda moglie, anche lei del Marocco e la figlia di pochi anni. È in carcere a Rovigo per scontare una pena di un anno di reclusione, per avere tra il gennaio e l’ottobre 2017 offeso e minacciato la moglie. La vicenda processuale nasce ad ottobre del 2017 quando era stato denunciato dalla moglie e poi arrestato in flagranza perché, secondo le sue dichiarazioni raccolte senza un interprete dai poliziotti del Commissariato intervenuti, lui aveva tentato di ucciderla con un coltello. Quindi, sottoposto ad interrogatorio di garanzia ammetteva di aver in certe occasioni offeso e aggredito verbalmente la moglie, anche perché, spiegò, era un periodo che usava cocaina - circostanza provata poi dalla difesa con la certificazione del Sert di San Vittore dove è stato detenuto - e ci litigava, soprattutto per ragioni legate alla notevole differenza di età. Il Gip comunque ne dispose la custodia cautelare in carcere, ritenendo che sussistessero i gravi indizi, soprattutto in ragione della gravità della contestazione del reato di tentato omicidio che nel frattempo il Pm aveva formalizzato, ma che Ghannouch aveva sempre negato di aver commesso. È nel corso delle indagini, quando Ghannouch si trova in carcerazione preventiva a San Vittore, che intervengono le nuove dichiarazioni della moglie sollecitate al Pm dalla difesa anche a seguito dell’interrogatorio dell’indagato. In ragione di queste nuove dichiarazioni il Pm si persuade che per il tentato omicidio non vi fossero indizi così gravi, al punto da accogliere l’istanza di scarcerazione che nel frattempo aveva formalizzato la difesa. Cosi, nell’aprile 2018 il Gip scarcera Ghannouh applicandogli la misura dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare con il divieto di avvicinamento a moglie e figlia minorenne. Il 24 settembre scorso è rientrato in carcere a causa dalla violazione di quel divieto: Ghannouch lo violò perché aveva necessità di vedere la figlia. Nelle more della carcerazione preventiva si è svolto il processo con rito abbreviato condizionato senza che la moglie si costituisse parte civile. Al termine del giudizio, il Gup Aurelio Barazzetta, che è anche l’attuale Presidente dell’Ufficio Gip di Milano, lo ha assolto per il reato di tentato omicidio, non ritenendo i fatti in alcun modo provati e lo ha condannato, per il solo capo d’imputazione delle minacce e aggressioni verbali, alla pena finale di un anno di reclusione. Durante il processo Ghannouch era detenuto a San Vittore e la moglie comunque gli scriveva. Poi è stato trasferito a Rovigo secondo quella regola non scritta che se un detenuto non fa colloqui coi parenti, può essere mandato più lontano dal luogo di origine. In vista della fine della pena, maturato il semestre per chiedere la liberazione anticipata, l’avvocata Giannetti ha chiesto al magistrato di Sorveglianza di Padova - competente territorialmente per il carcere di Rovigo - di concedere lo sconto della pena. Nell’istanza era segnalato che si trattava di una richiesta definita “liberatoria” dal momento che, in caso di accoglimento, il termine del 19 marzo sarebbe stato anticipato al 25 gennaio: data ovviamente già decorsa e per questo liberatoria. Peraltro l’istanza era relativa al periodo trascorso in carcere a San Vittore nella prima fase della custodia cautelare dal 1.10.2017 al 31.3.2018. Si tratta del periodo in cui Ghannouch era sottoposto alla misura anche per la più grave contestazione del tentato omicidio, per cui poi fu assolto. Non solo, in quel periodo Ghannouch aveva aderito al programma di riabilitazione con il Sert per la disintossicazione dalla cocaina, che si era rivelata uno dei motivi per cui aveva tenuto le condotte che lo avevano portato alla denuncia. Adesione che ben fu considerata dal Gip anche nella determinazione della pena sul profilo della personalità dell’imputato: adesione che riguardava il suo percorso di rieducazione e risocializzazione in carcere. Tornando all’istanza di liberazione anticipata, l’avvocata radicale denuncia che il Magistrato di Sorveglianza di Padova ha rigettato la richiesta perché “è emerso - così si legge nel rigetto - che nel corso del semestre il ristretto è incorso in un rilievo disciplinare in data 11.3.2017 poiché dopo essere stato invitato da un agente di polizia penitenziaria a spegnere la sigaretta egli continuava a fumare, fatto di cui il detenuto successivamente si scusava”. Non solo il Magistrato aggiunge che “l’episodio pare indicativo di una scarsa aderenza al percorso trattamentale”. A questo proposito l’avvocata Simona Giannetti osserva: “Dire che il percorso rieducativo del trattamento penitenziario possa essere ridotto ad una condotta di mera adesione ad un ordine, che riguardi un comportamento umano istantaneo e certamente da contestualizzare, pare del tutto avvilente proprio con riguardo al significato del concetto di trattamento penitenziario, laddove lo stesso consista invece in una serie di partecipazioni e adesioni che provino la scelta di vita risocializzante, come ad esempio nel caso di Ghannouch l’aver seguito il percorso del Sert di disintossicazione. Aggiungo che, in termini di senso di umanità nell’esecuzione della pena, sarebbe interessante capire se siano noti, al di là di chi in carcere ci entra per visitarne gli spazi e le persone, il valore di una sigaretta”. Il carcere milanese, come scrive il magistrato di Sorveglianza, avrebbe fatto il richiamo: questo sarebbe bastato al magistrato padovano per rigettare la richiesta del beneficio. Si tratta dell’istituto dell’art 54 ordinamento penitenziario che permette lo sconto di pena di 45 giorni per ogni semestre a chi “abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”: l’obiettivo è quello di favorire il reinserimento del condannato, cioè il processo di risocializzazione. “Oltre il danno la beffa, verrebbe da dire”, osserva l’avvocata Giannetti. Ad onor del vero, nelle more dell’istanza, il magistrato di Sorveglianza, in attesa di terminare l’istruttoria per decidere se concedere o meno la liberazione anticipata, aveva deciso di applicare a Ghannouch la misura alternativa dell’espulsione, prevista dall’art. 16 dlGS 286/ 98, il quale prevede che, per il detenuto che abbia una pena inferiore ai 2 anni da scontare, il magistrato di Sorveglianza possa sostituirla con l’espulsione. Nel caso di Ghannouch il provvedimento è destinato a un detenuto che è stato condannato a un anno di carcere, per lo più eseguito in misura cautelare per un fatto per cui è stato assolto, e quando ha ricevuto il decreto - era febbraio - aveva un fine pena di un mese oltre ad essere attesa della liberazione anticipata. Del resto anche le misure alternative, per una pena così bassa, come osserva il suo difensore, erano pressoché inaccessibili. “La moglie non poteva accettarlo in detenzione domiciliare per ovvi motivi - sottolinea l’avvocata - e, in assenza di altri parenti, ogni istanza diversa presentata al Tribunale di Sorveglianza sarebbe stata decisa in un tempo certamente superiore ai 3 mesi, che sono il periodo compreso tra il passaggio in giudicato della sentenza e il fine pena. Però bisogna dire - osserva Simona Giannetti - che anche questa delle misure alternative, di fatto accessibili maggiormente a chi ha pene pressoché elevate, sia un’altra storia ancora”. Vasto: (Ch): gli alunni del “Mattei” incontrano i detenuti della Casa Lavoro zonalocale.it, 23 febbraio 2019 Toccante esperienza per gli alunni delleclassi 1°B e 2°F dell’ IIS E. Mattei di Vasto, i quali, il 20 febbraio scorso, accompagnati dai docenti Silvana Ottaviano, Vito Evangelista, Di Giambattista Natascia e Cieri Maurizio, si sono recati presso la Casa Lavoro con sezione Circondariale di Vasto. Si è trattato di un percorso avviato con la visione del film “Sulla mia pelle” che ricostruisce la triste vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi, e che si è concluso con lavisita presso il carcere di Torre Sinello. Una visita inusuale, solitamente rivolta ai ragazzi delle ultime classi e di altri indirizzi di scuola, sulla quale i professori hanno voluto scommettere perché consapevoli del suo profondo valore umano e formativo. Gli studenti, inizialmente in fermento per il clima festoso che normalmente si vive quando si salta un giorno di scuola, nel momento in cui hanno varcato l’inquietante cancello della struttura, sono piombati in un religioso silenzio, avvertendo immediatamente il rigore del luogo e percependo che non si sarebbe trattato di una semplice uscita fuoriporta ma di una esperienza che li avrebbe segnati. Professionali, accoglienti e generosi, pur nel quadro di regole ferree di un tale contesto, sono stati gli operatori della struttura, in testa la Prof.ssa Giusy Rossi, i quali hanno organizzato tutto nei minimi dettagli, illustrando il duro e nobile lavoro che viene svolto quotidianamente per la custodia e la rieducazione dei detenuti. Un lavoro ispirato all’art. 27 della Costituzione il quale recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Inoltre, emozionanti e cariche di tensioni sono state le testimonianze di alcuni detenuti, che con ammirevole autocritica hanno riconosciuto i propri errori, esortando i ragazzi a non perdere mai la retta via, a dare importanza allo studio e al lavoro onesto, a rimanere sempre distanti dal mondo della droga, ma che, con altrettanta soddisfazione, hanno illustrato il loro percorso di recupero e le tante speranze che riservano nella nuova vita che li attende fuori. Prof. Vito Evangelista Prof.ssa Silvana Ottaviano Lecce: i detenuti restaurano il “Bon Jovi”, una barca usata dai migranti Il Messaggero, 23 febbraio 2019 “L’imbarcazione Bon Jovi - localizzata e sequestrata a maggio 2018 dalla Guardia di Finanza a 11 miglia da Santa Maria di Leuca mentre trasportava 60 migranti di nazionalità curda, pakistana e indiana tra cui donne e tanti bambini - verrà restaurata dai detenuti, diventando strumento di legalità e recupero sociale. Bon Jovi tornerà a solcare il mare con a bordo ragazzi difficili, a cui verranno trasmessi valori imprescindibili: lavorare in squadra, affrontare le difficoltà e rispettare le regole”. Lo ha spiegato l’assessore pugliese all’Istruzione, alla Formazione e al Lavoro, Sebastiano Leo, durante la conferenza stampa di presentazione del progetto. “L’imbarcazione - ha continuato l’assessore - sarà il cuore del laboratorio avviato all’interno della Casa Circondariale di Lecce, tramite il progetto “Operatore per la realizzazione di manufatti lignei”, finanziato dalla Regione Puglia e realizzato dall’Associazione Calasanzio Cultura e Formazione, da Alba Mediterranea, dalla Casa Circondariale di Lecce e da Assonautica provincia di Lecce. La Bon Jovi, un tempo utilizzata dagli scafisti per traghettare migranti, solcherà di nuovo il mare con una nuova missione: diventare ambasciatrice di legalità e speranza. Infatti, dopo l’attività di restauro ad opera dei detenuti, sarà riutilizzata per l’integrazione e l’inclusione sociale di soggetti svantaggiati, utilizzando quali strumenti educativi e terapeutici il mare e la navigazione. Milano: martedì prossimo il convegno “Gli invisibili”, i disabili in carcere” mi-lorenteggio.com, 23 febbraio 2019 Gli esiti del progetto rivolto a persone con disabilità sottoposte all’autorità giudiziaria verranno presentati il 26 febbraio nella sede della Camera del lavoro metropolitana di Milano. Martedì 26 febbraio dalle ore 14, nella sala Buozzi della Camera del lavoro metropolitana, in corso di Porta Vittoria 43 a Milano, verranno presentati gli esiti del progetto “Gli invisibili. Disabilità tra carcere e territorio”, che ha visto il Comune di Cesano Boscone partner associato. L’iniziativa era rivolta a persone con invalidità di tipo fisico e di tipo psichico sottoposte all’autorità giudiziaria nei tre istituti penali milanesi (le carceri di San Vittore, Bollate e Opera) e in misura alternativa sul territorio di Milano e Città metropolitana. “Siamo soddisfatti di aver partecipato a questo progetto - dichiara l’assessora alle politiche di welfare locale Mara Rubichi - che ci ha permesso di offrire a persone particolarmente fragili un percorso di reinserimento nella società. Un’opportunità di riscatto per chi proviene da un passato problematico: includere significa ridare fiducia e lavorare affinché chi è rimasto ai margini della società, e quindi invisibile per un periodo, possa invece comprendere e superare il proprio disagio, tornando a essere una risorsa positiva”. Laboratori di agricoltura sociale e di artigianato artistico, progetti di reinserimento individuale attraverso il disability manager, percorsi di supporto al reinserimento lavorativo con tirocini propedeutici, accoglienza abitativa temporanea in appartamenti protetti a Milano con personale specializzato: sono gli interventi messi in atto dal progetto con l’obiettivo di affiancare “gli invisibili”, individui la cui permanenza in istituto necessita di particolari condizioni o risulta incompatibile con il loro stato di salute. Il progetto “Gli invisibili” è stato realizzato dal Consorzio SiR (come Ente capofila) nell’ambito del Programma Operativo Regionale “Opportunità e inclusione”, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. La partecipazione del Comune di Cesano Boscone come partner non ha avuto alcun costo. Roma: teatro a Rebibbia, debutta “Cento lettere: dalle sbarre alle stelle” dazebaonews.it, 23 febbraio 2019 A recitare dieci detenuti con la partecipazione di Flavio Insinna. Il teatro stabile d’Abruzzo, diretto da Simone Cristicchi, presenta il primo marzo alle 16, nel carcere romano di Rebibbia, in un evento aperto alle autorità, alla stampa accreditata, agli studenti delle classi superiori e ai detenuti, la tournée dello spettacolo ‘Dalle sbarre alle stelle’, tratto dal libro di Attilio Frasca e Fabio Masi (Itaca Edizioni) “Cento lettere: dalle sbarre alle stelle”. In scena la storia vera di Attilio Frasca, che interpreta nel ruolo di se stesso, narrata attraverso le lettere che ha scritto dal carcere ai suoi migliori amici. A recitare dieci detenuti che lo scorso dicembre hanno dato vita all’anteprima organizzata nel teatro del carcere San Donato di Pescara. Lo spettacolo vede la partecipazione di Flavio Insinna, voce narrante che, attraverso un’interpretazione toccante delle lettere, ne diviene l’anima e la coscienza, il pensiero e la speranza. La tournée, rendono noto gli organizzatori, proseguirà al di fuori del carcere, nei teatri di Pescara, L’Aquila, Napoli e Roma. Napoli: “Il capocella”, carcere e diritti alla biblioteca Annalisa Durante Il Mattino, 23 febbraio 2019 Il mondo carcerario arriva a Forcella e lo fa attraverso il palcoscenico. L’appuntamento è per sabato 23 febbraio, a partire dalle ore 10.30, a Piazza Forcella, in via Vicaria Vecchia 23. Nella struttura dove ha sede la Biblioteca “Annalisa Durante” si svolgerà lo spettacolo “Il Capocella”, tratto dal romanzo di Vincenzo Russo, autore della drammaturgia del testo, la cui regia è affidata a Costantino Punzo. L’arte dunque come spunto di riflessione sul carcere. Intorno al tema dei detenuti e dei loro diritti discuteranno, prima della messinscena, rappresentanti delle istituzioni e dell’associazionismo: il deputato Paolo Siani; il consigliere regionale Gianluca Daniele; l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli Gaetano Daniele; il sindaco di San Giorgio a Cremano Giorgio Zinno; il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Riccardo Polidoro; la direttrice del carcere di Poggioreale Maria Luisa Palma; Il direttore del carcere minorile di Nitida Gianluca Guida; il direttore della Pastorale carceraria don Franco Esposito; il presidente dell’associazione “Annalisa Durante” Giuseppe Perna; il presidente dell’associazione “Gioco di squadra” onlus Carmela Esposito; l’attivista per i diritti dei detenuti Pietro Ioia. Interpreti dello spettacolo: Peppe Carosella, Flavio D’Alma, Emanuele Iovino (che è anche assistente alla regia), Carlo Paoletti, Melania Pellino, Francesco Rivieccio. Scenografia di Ilaria Lieto con il supporto di Ciro Punzo, ricerche musicali di Gaetano Riccio, tecnico luci e audio Simone Somma. “È un onore per me che tanti seri e bravi professionisti si siano interessati al romanzo. Il nostro principale obiettivo è di emozionare e invitare al dialogo su un tema così importante”, dichiara Russo. La storia - La storia racconta le sfortunate vicende criminali di Claudio, costretto a delinquere in seguito a un’adolescenza difficile e a un impossibile inserimento nel mondo del lavoro, fino al momento in cui la sua vita s’interseca a quella di Teodoro, un Capocella, termine con il quale si è soliti definire, in gergo carcerario, il detenuto con più anzianità detentiva in quella cella. Claudio e Teodoro però sono anche accomunati dalla consapevolezza di essere due persone in realtà estranee al malaffare, finite nel carcere di Poggioreale solo a causa di particolari circostanze fortuite. Anche per questo, tra i due nel tempo nasce un sincero rapporto di amicizia e affetto, per cui il Capocella sarà in grado di cambiare in meglio la vita di Claudio. Vibo Valentia: teatro educativo a scuola e nelle carceri, esperienze a confronto di Angela Bentivoglio ilvibonese.it, 23 febbraio 2019 Il progetto promosso dall’Unione italiana libero teatro in collaborazione con Agita è giunto a conclusione dopo una serie di workshop e laboratori teatrali. Si è conclusa con successo, al 501 Hotel di Vibo Valentia, la quinta edizione di “Esperienze a confronto” sul teatro educativo, organizzata dalla Uilt Calabria (Unione italiana libero teatro), fortemente voluta dal presidente regionale Gino Capolupo, in collaborazione con Agita (Associazione per la promozione e la ricerca della cultura teatrale nella scuola e nel sociale). L’evento, di caratura nazionale, ha visto la partecipazione di dirigenti scolastici, insegnanti, studenti, educatori, operatori, e attori di teatro amatoriale provenienti da tutta Italia. “Operatore oggi: conoscenze, abilità e competenze dell’operatore teatrale nella scuola e nel sociale” questo il tema della tavola rotonda moderata dal giornalista Maurizio Bonanno, che ha visto relazionare Gino Capolupo, Antonio Caponigro e Giusy Fanelli, rispettivamente responsabile nazionale e regionale Uilt Teatro educativo, il presidente della Provincia di Vibo Valentia Salvatore Solano, Loredana Perissinotto, presidente Agita e il presidente Uilt nazionale Antonio Perrelli. “È un progetto - ha esordito Capolupo - che vuole portare all’attenzione del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca l’importanza educativa del teatro nelle scuole, ma anche laddove ci sono situazioni di disagio e dare quindi un valido contributo. È un percorso - ha continuato - che richiede molta preparazione. Non basta essere bravi attori o registi teatrali, bisogna formare delle figure idonee con competenze non solo teatrali ma anche pedagogiche, in grado di saper interagire con i propri fruitori che possono essere studenti, diversamente abili, oppure detenuti, e il nostro obiettivo è proprio quello di creare questa figura professionale attraverso corsi di formazione”. Dal canto suo, il presidente della Provincia Solano ha dichiarato: “il mio intento è far si che il teatro a Vibo diventi realtà. Il teatro è cultura - ha continuato - e aiuta la crescita della città”. Per Antonio Perrelli “la Calabria e tutto il Meridione sono sempre nel nostro cuore e proprio dal Sud, terra tradizionalmente ricca di cultura e di idee innovative, arrivano le speranze sia da un punto di vista ideologico che pratico. In Calabria c’è questa voglia di crescere ed emergere nell’ambito del teatro amatoriale e la Uilt farà di tutto per sostenere ogni iniziativa - ha continuato, educare i giovani al teatro, attraverso la scuola è una semina che darà i suoi buoni frutti. Ci crediamo molto e stiamo lavorando per questo”. Loredana Perissinotto ha commentato: “Il teatro è un linguaggio antico ed è il più umano che ci sia, farlo nelle scuole o dove ci sono situazioni di disagio, significa dare un’opportunità per far nascere una prospettiva di un progetto futuro. Credo molto in questo linguaggio - ha continuato - che è connaturato alla specie umana e che utilizza tutti i sensi: la parola, l’immagine, il movimento. È un continuo lavorare all’insegna del “noi”. Per Antonio Caponigro, ancora, “Il teatro a 360 gradi, non solo come obiettivo artistico ma anche come percorso di formazione educativo, di socializzazione ed inclusione, ha la funzione fondamentale di prevenire il disagio, di collaborare all’inclusione, all’integrazione, ovviamente con delle ricadute nella comunicazione e nell’espressione, e tutto ciò è un percorso che la Uilt sta proseguendo da diversi anni”. Infine Giusi Fanelli ha affermato: “Al tavolo di Esperienze a confronto si è realizzato il giusto spazio comunicativo tra un’eterogeneità di presenze e di professionalità, il nostro intento è quello di riuscire, attraverso il teatro educativo, a liberarsi di tutte quelle maschere pirandelliane ed essere se stessi. Vista la folta partecipazione di studenti, possiamo dire che l’obiettivo è stato raggiunto. Sono soprattutto i giovani i nostri destinatari immediati e in questi due giorni sono diventati i veri protagonisti dei laboratori. Le loro idee e i loro interessi hanno trovato in Esperienze a confronto la giusta qualità e il giusto progetto”. Due giornate ricche di eventi hanno caratterizzato la manifestazione; tre i workshop su come si conduce il teatro nella scuola e nel sociale e su come scegliere il teatro da far vedere. Diversi i laboratori teatrali con le testimonianze degli operatori che hanno svolto attività nella Casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello, nella Casa circondariale di Vibo Valentia e di Siano, nel carcere minorile di Nisida (Na). Due sketch teatrali: “I viaggi della speranza” e “Tante barche in mezzo al mare” interpretati, con l’aiuto della regista Anna Faga, da tre giovani immigrati ospiti nei centri di accoglienza e, infine, lo spettacolo teatrale “Cappuccetto Rosso in tutte le lingue del mondo” a cura della Compagnia del “Teatro del MU” di Catanzaro. Se spengono Radio Radicale danno un colpo mortale alla libertà di stampa di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 febbraio 2019 Hanno chiuso anche molte altre testate storiche, per esempio Il Mondo, Paese Sera, l’Europeo, il Borghese, il Popolo. Ogni volta che uno di questi giornali spariva dalle edicole il risultato era un indebolimento del sistema- informazione. Fortissimo. E anche un indebolimento della nostra democrazia politica. In Occidente la democrazia politica vive di informazione e vive di giornali, di radio, di Tv. Senza muore. Oggi anche i maggiori studiosi europei osservano come il sistema dell’informazione, in Italia, sia molto debole. Ci sono tre o quattro grandi giornali che svolgono ancora una funzione “generalista” e poi alcuni piccoli giornali, come anche il nostro, impegnati sul fronte dell’informazione con tutte le proprie forze, ma oggettivamente deboli. Al fianco di questi giornali c’è un certo numero di giornali di propaganda, che galleggiano bene nel mercato ma hanno modeste funzioni di informazione. Radio Radicale, che esiste da 42 anni, aveva - ed ha - una funzione assolutamente speciale. Copre le istituzioni e la politica a tutto campo. Con grande professionalità, in modo imparziale, completo. Offre alla società delle enormi possibilità di conoscere e una quantità grandissima di informazioni e di sapere. Non è possibile sostituirla. Cioè sostituire o surrogare il lavoro che fa. L’inventò Marco Pannella, che è stato tra i quattro o cinque personaggi più importanti della Repubblica italiana. Era il 1976, mancavano pochi mesi alle elezioni politiche. Era in corso un gran duello tra il Pci di Berlinguer e la Dc che aveva appeno messo a terra Fanfani e scelto Zaccagnini. Il duello poi finì in un’alleanza, un patto. In quel frangente Pannella decise di presentare il Partito radicale alle elezioni, sebbene l’impresa fosse quasi disperata. Alla tornata precedente, nel 1972, un paio di partiti di sinistra, piuttosto robusti, come il Psiup di Basso e Foa e il manifesto di Magri e Natoli, che teneva insieme i principali gruppi extraparlamentari, avevano fallito l’obiettivo. Insieme avevano raccolto quasi due milioni di voti ma non avevano superato sbarramento (che allora consisteva nella conquista piena di un collegio elettorale, senza l’aiuto dei resti: meccanismo complesso che spiegheremo bene un’altra volta). Pannella rischiò, anche se tutti lo sconsigliavano, ce la fece per pochissimi voti. In tutto ne raccolse meno di 400 mila ma riuscì a centrare il collegio pieno (credo a Roma, ma non sono sicuro) e mandò quattro deputati a rompere le scatole all’alleanza tra Dc e Pci, che controllavano più dei tre quarti del Parlamento. Segretario del partito radicale era Adelaide Aglietta, che credo sia stata la prima segretaria di partito donna di tutta la storia italiana. Donna combattiva, intelligente, appassionata, anche spigolosa, forse, ma molto mite, dolcissima. Prima delle elezioni del 1976 nessuna donna era mai stata né segretaria di partito, né ministra, né rettore di università, né Procuratore della repubblica. Pannella andò in Parlamento insieme ad Emma Bonino, che Pertini battezzò “il monello di Montecitorio”, alla Aglietta e, se ricordo bene, ad Adele Faccio. E organizzò un gran casino. Alla Camera tornò l’ostruzionismo, che era sparito dai tempi della legge truffa, cioè dal 1953. E’ alla vigilia di quella campagna elettorale che iniziò a funzionare Radio Radicale. Tenete conto che all’epoca le radio libere erano pochissime. La radio era solo Rai (primo, secondo e terzo) più radio Vaticana e Montecarlo. La Tv solo Rai (primo e secondo). Basta. Pannella puntò sull’informazione e riversò sulla radio tutto il finanziamento pubblico al partito che riusciva a mettere insieme. Disse: il finanziamento non è al partito ma a un servizio pubblico. Radio radicale è il servizio pubblico. Quando negli anni ottanta la radio stava per morire, Pannella riuscì a firmare una convenzione con palazzo Chigi che riconosceva il valore di servizio pubblico e in cambio dava un finanziamento. Ora il nuovo governo gialloverde vuole levare il finanziamento. Come ha deciso di levarlo ai giornali. La conclusione sarà la chiusura di radio radicale e del manifesto. Non credo che nessuno possa dubitare che se questo succederà sarà un attacco evidente e grave del governo all’informazione. Speriamo che tutto il mondo dell’informazione saprà mobilitarsi per difendere se stesso. Difendere Radio Radicale (e anche il manifesto) vuol dire difendere se stesso. Speriamo che il governo ci ripensi. Che abbandoni, o metta in minoranza, le idee autoritarie e anti liberali che hanno ispirato il taglio a Radio Radicale. Gli opposti stereotipi sull’Italia dei migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 23 febbraio 2019 Sono accaduti episodi da non minimizzare, ma ci sono anche possibili antidoti. La politica, sia a destra sia a sinistra, potrebbe disinnescare la bomba. Dopo la triste stagione degli opposti estremismi, siamo assediati dagli opposti stereotipi. Vittime o carnefici dei migranti, agnelli terrorizzati o lupi xenofobi, senza nulla in mezzo: mentre in mezzo, naturalmente, c’è il Paese reale. Non siamo “italiani brava gente”. Quello era un mito fasullo che, inventato per riabilitare il “buon” soldato nostrano dal ruolo di reggicoda degli occupanti nazisti, s’è esteso nei decenni successivi a tutta la popolazione del Belpaese, descritta quale immune, grazie a una sua innata bonomia, dalle crudeltà in cui spesso s’invera la storia. Ma non siamo neppure una sezione europea del Ku Klux Klan: altra semplificazione non meno farlocca, fondata sulla sineddoche paranoica secondo la quale una parte (quella, oggi assai visibile, dell’intolleranza e della rabbia contro i nuovi arrivati) valga a narrare il tutto (la nostra intera comunità nazionale). Intendiamoci. Ci sono episodi molto gravi e numeri da non prendere sottogamba: ma anche fenomeni che li spiegano e antidoti possibili. L’impennata di violenze contro gli stranieri, quadruplicate negli ultimi due anni, non è casuale. Luca Traini, il razzista che un anno fa sparò a sei migranti nelle strade di Macerata, ha avuto ammiratori ed epigoni. Anche se ogni volta dovremmo fare un passo in più dentro ciascuna vicenda. L’omicidio del bracciante maliano Soumaila Sacko, ammazzato il 2 giugno dell’anno scorso nelle campagne calabresi mentre cercava di procurarsi lamiere per la sua baracca, è frutto di un agguato razzista ma anche di una mafiosa rivendicazione territoriale. Il pestaggio mortale di un marocchino sospettato di rubare ad Aprilia, la notte tra il 28 e il 29 luglio, era razzismo combinato a una spietata caccia al ladro in sintonia con questi tempi di ferro. A un’analisi efficace non contribuiscono né il negazionismo della destra (non sta succedendo niente) né il panrazzismo della sinistra (siamo circondati da suprematisti bianchi). Ma la cronaca di questi giorni - con il truce “esperimento” del maestro di Foligno a spese di un bambino di colore isolato dai suoi compagni e stigmatizzato (“guardate quanto è brutto”) o le scritte infami sotto casa di quella famiglia di Melegnano che ha adottato un profugo senegalese - ci impone una domanda semplice: dove si nascondeva tanta ferocia, dov’era sepolta questa materia oscura dell’Italia? La risposta è altrettanto semplice. Non si nascondeva, ma noi non la vedevamo. Dalla fine della guerra la predicazione pedagogica dei grandi partiti di massa e il disgusto per l’avventura fascista appena terminata avevano tenuto sotto chiave questo lato oscuro. Il tracollo dei partiti “ciellenisti” e delle loro ideologie ha coinciso con la fine di quella pedagogia e con la stanchezza per tutto ciò che suonasse come “politicamente corretto”. Ma sono stati ancora necessari due grandi eventi e una lunga e colpevole distrazione collettiva per far saltare il chiavistello: la crisi economica che ha piagato l’Occidente, e soprattutto l’Italia, e soprattutto i suoi ultimi, assieme alla crisi migratoria, che soprattutto in Italia ha esacerbato i suoi effetti, combinate con il protratto abbandono delle aree più disagiate del Paese (le periferie e i ghetti socio-economici). La politica ha dato il suo peggio: la sinistra con le sue rimozioni e la destra con le sue strumentalizzazioni. Ma proprio la politica potrebbe - la sinistra disincagliandosi da una visione irenica delle migrazioni e la destra dall’idea di farne cassa elettorale a ogni turno - disinnescare la bomba sociale che abbiamo sotto gli occhi. Gli scontri razziali a Corcolle, periferia romana, scoppiarono attorno ad autobus che passavano ogni ora e mezza: il primo, banale rimedio sarebbe aumentare il numero delle corse. Il primo antidoto contro la guerriglia tra ultimi e penultimi è rimuoverne le cause materiali. Un migrante saggio di Borgo Mezzanone scriveva su Foggia Today che le tensioni coi residenti non erano frutto di “razzismo ma piuttosto di stress quotidiano dovuto alla cattiva gestione delle situazioni da parte delle istituzioni e all’ignoranza di entrambe le parti, gli immigrati e i cittadini di Borgo”: un vero manifesto riformista. Gli italiani non meritano la riduzione a stereotipi. Ce n’è una quota assai sottorappresentata: quella, ad esempio, cui appartengono i volontari di Sant’Egidio quando impiantano una scuola d’arte in un cortile famigerato di Tor Bella Monaca. Una molto contraddittoria (forse maggioritaria), sintetizzata nel delizioso aneddoto del militante leghista che, dopo aver strillato contro “i negher” in piazza, si scusa e fila via perché ha “il turno in parrocchia alla mensa degli immigrati”. E c’è la parte dei bambini di Foligno. Quelli che, durante il luciferino “esperimento” del maestro, si schierano accanto al compagno con la pelle nera e dicono: “Noi siamo come lui”. Così noialtri, grazie a loro, sappiamo che non saremo mai come l’Alabama. Droghe. Lettera aperta al governo: cosa dirà all’Onu? di Leonardo Fiorentini* Il Manifesto, 23 febbraio 2019 A Vienna è in programma a marzo un importante vertice Onu sulle droghe: la 62esima sessione della Commission on Narcotic Drugs (Cnd). Nel mese di marzo è previsto a Vienna un importante vertice Onu sulle droghe. Si tratta della 62esima sessione della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) che sarà anticipata, il 15 e 16 marzo, da un segmento governativo ad alto livello. Si tratta dell’appuntamento di chiusura di un ciclo politico sulle droghe, iniziato a New York nel 1998 con lo slogan “Un mondo libero dalla droga - possiamo farcela!”. A oltre 20 anni da quel proclama, è evidente a tutti che l’obiettivo è fallito. La Società della Ragione, Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni, Cnca, Lila e Cgil, con l’adesione di Antigone, Arci, A Buon Diritto e Legacoop Sociali hanno inviato una lettera aperta al governo chiedendo un’occasione di dialogo in preparazione di Vienna. Come fu fatto in occasione della Sessione Speciale sulle droghe del 2016 (Un-Gass) quando addirittura la società civile, di tutte le visioni, fu inclusa nella delegazione governativa. Marco Perduca dell’Associazione Coscioni ha sottolineato che è necessario un dibattito pubblico e trasparente, magari anche in Parlamento. Sono quattro i punti cardine su cui si chiede una discussione. In primis il rapporto tra le politiche sulle droghe e il rispetto dei diritti umani. Dalla criminalizzazione del consumo alla sproporzionalità delle pene, fino alla pena di morte e alle esecuzioni stragiudiziali purtroppo in larga parte del mondo le politiche di contrasto alla droga si sono tradotte in azione in contrasto anche con i diritti umani. Serve poi una maggiore coerenza fra le azioni dell’Unodc (l’agenzia ONU che si occupa delle droghe) e quelle di altre agenzie come Who, Unaids e Undp, o come l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani che spesso si sono espresse per un cambio di rotta politica sulle droghe. Gli stessi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals) centrati sulla promozione della pace, della sicurezza, del benessere delle comunità sono messi a rischio dall’approccio della War on Drugs. Infine, c’è il grande tema dell’insufficiente disponibilità di sostanze psicoattive a uso medico (si pensi alla cannabis terapeutica in Italia, ma anche agli antidolorifici di base nei paesi poveri). Non è più tempo di proclami, ma è necessario trovare obiettivi ragionevoli, realistici e misurabili. Per questo i promotori chiedono “che il governo italiano sostenga l’istituzione di una commissione - cui la società civile partecipi - per la revisione e l’adeguamento degli indicatori di valutazione delle politiche globali”. Il confronto non potrà eludere temi anche nazionali, come la declinazione della Riduzione del Danno nei Livelli Essenziali di Assistenza, come ha ricordato Denise Amerini per la Cgil. Un confronto che, a dire di Grazia Zuffa (la Società della Ragione), avrebbe anche un valore pedagogico: ad esempio per far comprendere come la “modica quantità”, entrata recentemente nelle mire del Ministro Fontana, in effetti non esiste più da quasi 30 anni. Germania. Stranieri metà dei detenuti, ad Amburgo sono il 61% di Roberto Giardina Italia Oggi, 23 febbraio 2019 Mai così tanti stranieri nelle carceri tedesche. In ogni regione, sono almeno la metà. Un dato cui si cerca di non dare risalto per non favorire i populisti dell’estrema destra. In maggioranza provengono dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dalla Georgia, dalla Libia e dalla Tunisia, riferisce la Frankfurter Allgemeine. In Nord Renania Westfalia sono passati dal 33% nel 2015 al 36%. Crescono anche nei Länder della ex Germania Orientale: in Sassonia nel 2016 erano 482, l’anno dopo 601, oggi sono raddoppiati a 981. La percentuale è altissima ad Amburgo, dove in due anni si è passati dal 55 al 61%, a Berlino dal 43 al 51%, in Bassa Sassonia dal 29 al 23%, in Baviera in cinque anni si è passati dal 32 al 45%. Bisogna tener conto che dal settembre 2015, quando Frau Merkel non chiuse le frontiere, in quattro mesi vennero accolti un milione e centomila Flüchtlinge, fuggiaschi. I commenti razzisti sono fuori posto, ma i profughi sono in gran parte giovani maschi, e vivono nei centri di accoglienza, creando una situazione esplosiva. I detenuti dall’Est Europa, nella maggioranza dei casi, fanno parte di bande più o meno organizzate. Entrano in Germania e vi restano, i controlli non sono affatto severi, la frontiera dalla Polonia o dalla Repubblica Ceca è a pochi chilometri dalla capitale. Sono responsabili di furti negli appartamenti o nei negozi, di spaccio di droga, reati comuni, e giudicati socialmente poco pericolosi. Inquieta invece l’aumento degli islamisti finiti in carcere, ha dichiarato il ministro della giustizia in Baden Württemberg, il cristianodemocratico Guido Wolf. A Stoccarda nel 2014 erano non più di due o tre, due anni dopo erano una trentina, oggi sono 48. In Nord Renania Westfalia, su 5.683 carcerati di origine straniera, gli islamisti sono 32, accusati di aver partecipato a organizzazioni terroristiche. In Assia, sarebbero meno di una ventina. Numeri che possono essere considerati trascurabili ma si tratta di “soggetti particolarmente pericolosi”. Un problema difficile da risolvere presentano i minorenni non accompagnati giunti in Germania. Sarebbero 17 mila, “sarebbero” perché di molti si sono perse le tracce. E si hanno dubbi sulla loro età. Quasi tutti dichiarano di avere 17 anni, come dodici dei tredici minorenni sbarcati a Catania dalla Sea Watch. E tutti sarebbero nati lo stesso giorno, il 1° gennaio del 2002. Più che un inganno, una presa in giro. Un profugo afghano, il 16 ottobre del 2017, a Friburgo violentò e uccise una studentessa diciottenne. Quando giunse in Germania dalla Grecia (dove aveva scaraventato giù da una scogliera una ragazza, rimasta gravemente ferita), alla polizia dichiarò di essere nato il giorno in cui era stato fermato. Nessuno si insospettì per la coincidenza. Giudicato come minorenne, se la sarebbe cavata con una pena massima a dieci anni, ma gli esami clinici dimostrarono che aveva almeno 24 anni, probabilmente 26, e dovrà scontare l’ergastolo. Non è un caso isolato. A Kandel, in Renania Palatinato, un profugo ha ucciso una quindicenne che lo respingeva. È stato condannato a otto anni e mezzo perché in effetti era ancora minorenne. Basterebbe una radiografia del polso per accertare l’età, in Germania non è possibile perché violerebbe la privacy. Si chiede di cambiare le norme e si vuole espellere subito chi non ha documenti e non vuole rivelare dove è nato. Ma non sarà poi facile, perché il paese della probabile provenienza si rifiuta di accoglierlo. Stati Uniti. Amnesty: “Via pena di morte solo per risparmiare? Ok, purché lo facciano” di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 23 febbraio 2019 Secondo il Wall Street Journal in sei Stati degli Usa si sta discutendo una proposta - avallata anche dai Repubblicani - per abolire la pena di morte. Si tratta di Kansas, Kentucky, Missouri, Montana, Wyoming e New Hampshire. In Alabama se ne discuterà nei prossimi mesi. La motivazione non è legata a valori etici. “Va abolita perché costa troppo alle casse dello Stato” è l’opinione dei proponenti. Ne parliamo con Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International. “Non bisogna stupirsi - premette Marches, negli Stati Uniti l’approccio a questo tema è molto pragmatico. In Europa i favorevoli e i contrari alla pena di morte si basano su argomentazioni di carattere filosofico, etico o religioso. Negli Usa sappiamo che la maggioranza della popolazione in linea di principio è tendenzialmente favorevole ma poi scattano altre valutazioni”. Quali? “Si interrogano se la pena di morte sia utile o meno, se serva effettivamente come deterrente ossia se rappresenti uno strumento realmente efficace per la prevenzione dei crimini”. Una domanda a cui voi rispondete no… “Certo, secondo noi di Amnesty International la pena di morte non funge da deterrente. Ma non lo diciamo soltanto noi, lo testimoniano anche gli studi criminologici delle Nazioni Unite. Però poi entrano in gioco anche altri fattori, per esempio nell’Illinois la pena capitale è stata abolita perché sono stati registrati troppi errori giudiziari. Badi bene, non si è trattato di un’abolizione per principio ma soltanto perché, dopo averle giustiziate, si sono resi conto che molti condannati erano innocenti”. Invece ora subentrano delle considerazioni più strettamente economiche… “Fino a qualche tempo fa c’era chi sosteneva che la pena dell’ergastolo avesse un costo più alto per la società perché lasciare in carcere un detenuto, che ha commesso un grave crimine, voleva dire mantenerlo in vita per trenta o quarant’anni. In realtà non è così perché il modo in cui si svolgono i processi capitali, gli appelli, le istanze per la grazia, nonché l’esigenza di tenere efficienti tutte le strutture e le strumentazioni necessarie a dare la morte al condannato fanno in modo che una condanna capitale costi di più per lo Stato rispetto a una lunga pena detentiva”. E qual è la vostra reazione di fronte a questi conti? “A noi di Amnesty International, ma posso dire a tutto il movimento abolizionista, interessa l’obiettivo finale che è quello appunto di cancellare ovunque la pena di morte. Noi siamo fermamente convinti che lo strumento della pena capitale sia ingiusto ma con quei Paesi che decidono, in maniera molto pragmatica, di non praticarla per convenienza economica, dialoghiamo volentieri. E accogliamo la loro decisione. Ci mancherebbe”. Tra gli Stati che starebbero per prendere la decisione di rinunciare definitivamente alla pena di morte ce ne sono due - Kansas e New Hampshire - che da molto tempo non fanno più esecuzioni capitali. Sembra un controsenso… “No, perché la macchina della pena capitale è molto costosa: si devono mantenere in funzione gli strumenti che servono a mettere a morte, gli uffici giudiziari competenti, il personale, la commissione per valutare le domande di grazia, i bracci della morte. Sono settori vuoti ma ci sono. In realtà stiamo parlando di Stati che di fatto hanno smesso da tempo di fare esecuzioni capitali. Questa decisione comporterebbe lo smantellamento dell’apparato e farebbe diventare questa tendenza una scelta definitiva”. Invece c’è lo Stato del Texas che continua a praticarla convintamente e che neanche si pone il problema economico… “Sì, il Texas continua a mandare a morte, le esecuzioni sono state 559 dal 1976 a oggi. Magari decidesse di tornare sui propri passi”. Sarebbe un esempio importante anche per tutti quei Paesi che continuano a condannare a morte… “E’ chiaro. La strategia per l’abolizione della pena di morte è molto articolata, ha tempi lunghi e si procede un passo alla volta. Però oggi, nel mondo, c’è una sensibilità diversa rispetto a quarant’anni fa: nel 1975 o nel 1980 la maggioranza delle nazioni era favorevole, ormai si va verso l’abolizione”. Come si costruisce una cultura in questo senso? “Prima le scelte devono essere fatte dalle autorità, secondo proprie motivazioni, poi una volta attuate - quando si vede che non c’è un aumento della criminalità - i cittadini si abituano al fatto di essere in uno Stato abolizionista. Normalmente il consenso all’abolizione cresce successivamente al provvedimento”.