Se il carcere duro viola la costituzione di Agnese Moro La Stampa, 22 febbraio 2019 In Occidente la storia della democrazia è strettamente legata a quella della proclamazione e della protezione dei diritti umani. Diritti universali e intangibili; riconosciuti a tutti a prescindere da meriti, demeriti, appartenenze. Potrebbero esistere la democrazia e la stessa identità dell’Occidente senza queste fondamenta? Una domanda da porsi seriamente dal momento che sembra sempre più forte nei governi europei un certo fastidio per l’ostacolo che tali diritti costituirebbero per la nostra sicurezza. Qualche indicazione può venirci dall’esperienza del regime di detenzione previsto dall’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario, al quale sono sottoposti principalmente appartenenti ad organizzazioni criminali (738 uomini, 10 donne e 5 internati in Casa di lavoro). La recente e dettagliata relazione del Garante delle persone detenute o private della libertà sull’applicazione di tale regime (garantenazionaleprivatiliberta.it) ci dà molti elementi di riflessione. Per impedire la comunicazione in entrata e in uscita tra organizzazioni criminali di provenienza e detenuti, e tra i detenuti stessi, è stata messa in piedi una vita quotidiana tale da violare per periodi lunghi, o lunghissimi - anche 20 anni - la nostra Costituzione e non pochi articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; che si chiama universale proprio perché si applica a tutti e non solo ai buoni. Cosa fare e non fare è indicato in maniera minuziosa nella circolare n. 3676/612 del 2 ottobre 2017 dell’Amministrazione Penitenziaria. Esempi? Un colloquio al mese di un’ora con i familiari attraverso il vetro integrale; i bambini di meno di 12 anni possono accedere al di là del vetro, ma con speciale permesso. In cella si possono tenere 30 fotografie, 4 libri, giornali forse. Niente appeso alle pareti perché devono essere minuziosamente controllate ogni giorno; materiale per disegnare o dipingere solo se si è tra coloro che frequentano la sala pittura. Si può acquistare solo ciò che è indicato in una specifica lista in modo che niente sia particolare, nocivo, eccessivo. Il basilico fresco sì, il rosmarino solo come aroma. Questo tentativo di prevedere e prevenire qualsiasi problema sommando divieto a divieto crea isolamenti lunari opponendosi al difficile cammino di risveglio di coscienza e di umanità, compito che la pena deve assolvere nella nostra democrazia. E che è l’unico vero antidoto a tornare a sbagliare. Senza produrre peraltro più sicurezza, dal momento che sembra non aver impedito né limitato il prosperare delle nostre organizzazioni criminali. Tre metri quadrati a testa (e l’impennata dei suicidi) di Giulio Isola Avvenire, 22 febbraio 2019 Negli ultimi 12 mesi gli ospiti dei 190 penitenziari italiani sono cresciuti di 2.500 unità, superando i livelli di guardia del 2011. L’anno scorso dietro le sbarre si sono tolti la vita in 65, ma dall’inizio dell’anno ci sono già tre morti anche tra il personale di custodia. Sarà un caso? Poggioreale nel 2018 ha raggiunto un altro tristissimo “record” nazionale, dopo quello di sovraffollamento: i suicidi in carcere, ben 4 su 65 avvenuti in totale nelle italiche prigioni. Esiste un nesso tra un’insostenibile qualità di vita in cella e la scelta estrema di darsi la morte? Sfogliando l’ultimo rapporto di Antigone (l’associazione specializzata nella difesa dei diritti dei detenuti) una risposta esplicita si trova “I due eventi non sempre dipendono uno dall’altro. È chiaro, però, che se il sovraffollamento si unisce e combina con altri fattori, allora diventa il punto di partenza di un’escalation senza fine di disagi e auto-violenze”. L’anno scorso ha segnato per l’appunto un’impennata di suicidi, toccando livelli che non si vedevano dal 2011: un morto per propria volontà ogni 900 carcerati, quando la percentuale tra le persone libere è di oltre 10 volte più bassa, pari allo 0,1 per mille. E contemporaneamente le persone ristrette in cella avevano superato le 60.000 unità, con un aumento di 2.500 rispetto ai 12 mesi precedenti e circa 10mila soggetti oltre il tetto di capienza teorica di legge. Puglia e Lombardia guidano questa poco onorevole classifica che dunque accomuna Nord e Sud, come conferma anche il podio per singole città: dove svettano Como, Taranto e Brescia. Le uniche regioni formalmente “in regola” con l’affollamento risultano essere Sardegna e Trentino. Siamo alla soglia della disumanità, per cui l’Italia ha già subìto una condanna dalla Corte di Strasburgo nel 2013. Infatti una ventina degli 80 penitenziari (su 190 totali) visitati da Antigone ha a disposizione una media di soli 3 metri quadrati per ciascun ospite, che è la misura minima per non incappare in una violazione dei diritti umani. Dopodiché andrebbero considerate pure altre variabili di vivibilità come l’esistenza di riscaldamento, i servizi igienici per lo meno separati dalla cella o la disponibilità di acqua calda: comfort minimali per la stessa salute, la cui presenza è però tutt’altro che scontata nelle patrie galere. La situazione è così dura che i suicidi riguardano anche il personale di sorveglianza, sottoposto a una turnazione severa perché l’organico è sottodimensionato e con continue pressioni derivanti dalla delicatezza dell’incarico: in vent’anni, i casi censiti dal sito Ristretti Orizzonti sono almeno 145, ben tre solo dall’inizio dell’anno a oggi (il picco si verificò nel 2015 con 14 episodi); l’allarme ha raggiunto ormai i vertici delle forze dell’ordine, che hanno istituito un apposito Osservatorio sul fenomeno. Soluzioni? Naturalmente costruire nuovi penitenziari: però ne servirebbe almeno una quarantina, per un investimento minimo di un miliardo di euro. Ma si potrebbe agire pure su altre leve assai meno dispendiose: ad esempio sfruttare le misure alternative al carcere, cui già secondo la legge attuale potrebbe accedere un terzo dei detenuti; peccato che gli stessi interessati non facciano domanda perché non conoscono nemmeno tale possibilità. Altra chance sarebbe sveltire le procedure: al 31 gennaio le persone in attesa di primo giudizio erano 9.933, ovvero quasi esattamente il numero eccedente la capienza massima delle nostre celle. Gli orologi della legge di Armando Spataro La Repubblica, 22 febbraio 2019 Nei giorni scorsi, a seguito dell’inchiesta che ha coinvolto i genitori di Matteo Renzi, ha ripreso vigore la ricorrente polemica sulla “giustizia ad orologeria”. Il senso di questa definizione sta nell’attribuzione ai magistrati, che tali inchieste conducono, di finalità estranee ai loro doveri. Ma quando si prova a specificare tali finalità, i commentatori si dividono: secondo alcuni, i magistrati sarebbero orientati dallo scopo di colpire personaggi e partiti politici; secondo altri, da quello opposto di favorire quelli a loro vicini. Il tutto secondo una logica di rafforzamento della propria immagine e di espansione del proprio potere. Va subito sgombrato il campo da un possibile equivoco: è evidente che ogni provvedimento giudiziario può essere duramente criticato. Ma qui si tratta di altro, di offese delegittimanti e prive di ogni fondamento. Appare poi contraddittorio affermare di voler “attendere l’esito delle inchieste con fiducia nella giustizia” e contestualmente sparare ad alzo zero contro la magistratura. Per smentire i riferimenti alla “giustizia ad orologeria”, peraltro, basterebbe ricordare che si tratta di uno slogan che da trent’anni viene riciclato da politici sotto accusa, appartenenti a ogni schieramento: ma - allora - a vantaggio o in danno di chi i magistrati agirebbero con le loro indagini? Si pensa forse che nella magistratura operi una galassia di fazioni politicamente in guerra, eterodirette e pronte a colpire questo o quel partito in nome di non chiare contiguità? Chi sparla dovrebbe porsi queste domande informandosi innanzitutto sul valore della obbligatorietà dell’azione penale che, a garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, impone di procedere ad indagini immediate nei confronti di chiunque, per ogni notizia di reato. Non esiste possibilità alcuna, come piaceva al Duce, di muoversi secondo ragioni di opportunità che, secondo alcuni commentatori, dovrebbero essere particolarmente cogenti sia nei periodi di voto, per non influenzare l’elettore, sia in quelli immediatamente successivi per non mettere a rischio accordi politici. In sostanza, in questi spazi temporali, interventi “invasivi” dovrebbero essere evitati o rinviati. Ma tale logica è inaccettabile: diversamente, le Procure - cui si deve invece chiedere di usare la professionalità necessaria quando si esercita un così delicato potere - sarebbero inerti per scelta e per lunghi periodi. Manca nel dibattito di questi giorni, però, qualsiasi riferimento alla produzione di “leggi ad orologeria”, quelle sì costituenti una inconfutabile realtà, anche in conseguenza delle giustificazioni politiche che ne hanno accompagnato l’approvazione. È sufficiente scorrere rapidamente le cronache per ricordare alcuni dei “capolavori” varati in risposta ad attività giudiziarie: le due leggi del 2001, l’una sulle rogatorie internazionali e l’altra sul rientro dei capitali illeciti costituiti all’estero; quelle del 2002 sulla depenalizzazione del falso in bilancio e la cosiddetta legge Cirami sul legittimo sospetto che favoriva la sottrazione di specifici processi al giudice naturale; il lodo Schifani del 2003 (poi bocciato dalla Consulta) che - come avrebbe poi previsto il Lodo Alfano nel 2008 (anch’esso dichiarato incostituzionale) - congelava per un certo periodo di tempo i processi alle più alte cariche dello Stato; la legge “ex Cirielli” del 2005 che abbatteva i termini di prescrizione dei reati, favorendone l’estinzione; la legge Pecorella del 2006 (anch’essa poi dichiarata incostituzionale) che limitava l’appello dei pm contro le sentenze di proscioglimento. E che dire della riforma del processo penale del 2009, poi non approvata, che sostanzialmente indeboliva la obbligatorietà dell’azione penale? Non fu casuale, in proposito, l’affermazione di Silvio Berlusconi secondo cui, con quella riforma, non ci sarebbe stata “Mani Pulite”. Assolutamente vero! Il ricordo di queste leggi dovrebbe indurre ad abbandonare l’uso dell’espressione “giustizia ad orologeria”. O, in subordine, ad usare e controllare due o più orologi. Per criticare la separazione delle carriere Davigo usa un’idea anticostituzionale di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 febbraio 2019 In genere i soprannomi, sia quelli elogiativi sia quelli più offensivi, hanno un’attinenza con la realtà, con una caratteristica particolare o spiccata del soggetto a cui si riferiscono. Ecco, di Piercamillo Davigo non si è mai capito perché abbiano iniziato a chiamarlo “Dottor Sottile”, una locuzione usata già in età medievale - si pensi al “Doctor Subtilis” Duns Scoto - per indicare filosofi e giuristi specializzati in argomentazioni sofisticate e anche un po’ bizantine. Davigo invece in vita sua per il sottile non ci è mai andato, al cesello ha sempre preferito l’accetta. Qualche giorno fa, ospite di Floris, ha affrontato così il tema della separazione delle carriere nella magistratura: “Questa tesi è una stravaganza, riposa sull’idea che le parti in un processo siano uguali. Le parti nel processo non possono essere uguali, perché se il pm va in udienza sapendo che l’imputato è innocente e ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia. Se il difensore, colto da crisi di coscienza, dice al giudice che il suo cliente è Jack lo squartatore commette reato di infedele patrocinio. Che uguaglianza può esserci tra una parte che è punita se mente e un’altra che è punita se dice la verità?”. Applausi (da Floris sono di routine, ma stavolta erano sinceri). Con una battuta in televisione e tra i battimani del pubblico in studio, un giudice presidente di sezione penale in Cassazione e ora membro del Csm disintegra l’articolo 111 della Costituzione: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Con un grezzo paralogismo che confonde i termini “parità” e “uguaglianza” e induce a credere che con la separazione delle carriere pm e avvocati debbano poi appartenere al medesimo organo, Davigo risolve una questione dibattuta da decenni. I giuristi studiano e discutono, confrontano i diversi modelli giurisdizionali delle democrazie occidentali, e nessuno di loro si è reso conto di una cosa, che gli avvocati dicono le bugie e i pm no. E pensare che per un ragionamento del genere non serve “sottile”, il Dottore basta pure grossolano. Per l’effettività delle prerogative del difensore e per la sua libertà camerepenali.it, 22 febbraio 2019 L’Unione interviene a tutela della funzione difensiva e dell’effettività del diritto di difesa. Il documento della Giunta. “È di questi ultimi due giorni un certo battage mediatico su iniziative giudiziarie contro avvocati per asseriti comportamenti di favoreggiamento dei loro assistiti durante le indagini. La maggior parte degli articoli non ha ritenuto di dar conto della posizione dei Colleghi sottoposti ad investigazione. I loro chiarimenti consentono di meglio comprendere i contesti, come nel caso dell’Avv. Francesco Tagliaferri che ha egli stesso chiesto che si verifichi in un processo il proprio comportamento rinunziando alla udienza preliminare o come nel caso dell’Avv. Annamaria Marin, Presidente della Camera Penale di Venezia, che ha viste respinte le istanze di accusa dal Giudice, il quale ne ha negato il fondamento. Le Camere Penali territoriali hanno espresso solidarietà ai Colleghi dando conto di quale sia la linea di demarcazione tra il reato di favoreggiamento ed invece il legittimo esercizio dell’attività difensiva. L’Unione si associa alle espressioni di solidarietà nel convincimento che i Colleghi sapranno rappresentare le legittime ragioni del loro agire dinanzi ai competenti Giudici. A Catania si pubblica su siti online il contenuto di conversazioni che coinvolgono un avvocato, intercettato durante un incontro con il proprio assistito. Vale la pena però segnalare che le vicende giudiziarie richiamate trovano il loro riferimento in attività di captazione di conversazioni telefoniche delle quali gli avvocati sono stati protagonisti, non in quanto indagati, ma in quanto difensori di indagati. Insomma, il punto è ancora una volta quello della qualità delle garanzie di libertà del difensore. L’art. 103 del codice di rito è assolutamente chiaro nel vietare l’intercettazione delle comunicazioni tra difensore e assistito ma interpretazioni a volte capziose della norma e pronunzie giurisprudenziali, peraltro non in linea con i principi di tutela previsti dalle norme pattizie e con pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, consentono ancora oggi un recupero istruttorio di tale materiale creando così un vulnus alla effettività del diritto di difesa. L’Unione delle Camere Penali è da sempre impegnata nell’affermare che lo statuto del difensore deve essere rafforzato per rendere non aggirabile il divieto di ascolto delle comunicazioni dell’avvocato difensore ed effettive tutte le guarentigie che debbono accompagnare il concreto esercizio della funzione difensiva, ciò per impedire l’intrusione investigativa nel campo della difesa e così garantire un processo equo”. Formigoni condannato: l’ex governatore della Lombardia va in carcere di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 22 febbraio 2019 Roberto Formigoni, per vent’anni l’uomo più potente della Lombardia, andrà in carcere. Ieri sera, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della Cassazione hanno reso definitiva la condanna per corruzione dell’ex presidente della Regione: 5 anni e dieci mesi, pena ridotta. Uno dei pochi politici italiani approdati alla Seconda Repubblica dopo aver superato indenne la Prima, l’ex leader politico di Comunione e liberazione e potentissimo governatore della Lombardia, colui che un tempo pareva addirittura destinato a prendere dalle mani di Silvio Berlusconi le redini del centrodestra si vede aprire davanti agli occhi il cupo baratro del carcere con la sentenza della Cassazione che conferma la condanna per corruzione che gli era stata inflitta a settembre 2018 in appello per il caso Maugeri. La pena scende, però, da 7 anni e mezzo a 5 anni e 10 mesi per effetto della prescrizione caduta su un capo di accusa. A portarlo in cella, però, è la “spazza-corrotti”. Formigoni, che a fine marzo prossimo compirà 72 anni, andrà in carcere senza poter godere dei benefici penitenziari. A partire dalla detenzione domiciliare che prima era prevista per gli ultrasettantenni, ma ora è esclusa per tutti coloro che sono condannati per reati contro la pubblica amministrazione (come la corruzione). Potrebbe presentarsi spontaneamente già stamattina nel carcere milanese di Bollate. Secondo la sentenza della sesta sezione penale della Cassazione, Formigoni, che per 18 anni consecutivi ha guidato il Pirellone, avrebbe ricevuto fino al 2011 dal faccendiere Pierangelo Daccò l’uso esclusivo di yacht da sogno, l’acquisto di parte di una villa in Sardegna e altri benefit per un valore totale di 6,6 milioni in cambio di vantaggi per l’ospedale San Raffaele di Don Luigi Verzè, poi defunto, e della clinica Maugeri di Pavia che in un decennio si sono assicurate finanziamenti pubblici, il primo per 120 milioni di euro, la seconda per 180, come accertarono le indagini dei pm milanesi Laura Pedio e Antonio Pastore. I giudici hanno certificato che la prescrizione per le vicende relative al San Raffaele è già scattata da qualche mese, come sarebbe avvenuto a luglio anche per tutto il resto. Confermate le condanne a 7 anni e 7 mesi per l’ex direttore amministrativo della Maugeri Costantino Passerino, destinato anche lui al carcere, e a 3 anni e 4 mesi per l’imprenditore Carlo Farina, che chiederà l’affidamento, entrambi non coinvolti nella questione San Raffaele. Il faccendiere Daccò era stato già condannato in via definitiva a 9 anni per la vicenda San Raffaele e aveva patteggiato altri 2 anni e 7 mesi per la Maugeri uscendo dal processo. Dopo 6 anni tra carcere e domiciliari, è libero ed è in attesa dell’affidamento in prova ai servizi sociali per gli ultimi 4 anni che gli restano da scontare. Nel processo non è più imputato Antonio Simone, l’ex socio di Daccò che, con il suo avvocato Giuseppe Lucibello, aveva accortamente scelto di patteggiare a 4 anni e 8 mesi e mezzo. Detratto il tempo già passato agli arresti, anche lui ha potuto chiedere l’affidamento. Anche per Formigoni si era parlato durante l’appello a Milano di un patteggiamento, ma la trattativa tra accusa e difesa non è mai decollata. Il pg della Cassazione Luigi Birritteri aveva chiesto la condanna di Formigoni. “Il suo ruolo, l’entità e la mole della corruzione fanno ritenere difficile ipotizzare una vicenda di pari gravità”, ha detto il magistrato per il quale la pena non andava attenuata per evitare che “la legge possa essere calpestata con grida manzoniane” di fronte a un tale “imponente baratto corruttivo”. La difesa dell’ex senatore aveva invece chiesto l’assoluzione o in subordine l’annullamento della sentenza con rinvio in appello per un nuovo processo. “Nessuno è riuscito a dimostrare la riconducibilità di un singolo atto di ufficio alle utilità contestate”, ha detto l’avvocato Franco Coppi sostenendo la “totale mancanza di prove” a carico di Formigoni. Per l’ex governatore i guai giudiziari non sono finiti. Tutti i suoi beni, compreso il vitalizio da consigliere regionale, gli sono stati sequestrati e a Cremona è in corso un altro processo per corruzione che gli è costato la negazione delle attenuanti e un anno e mezzo di carcere in più nell’appello San Raffaele/Maugeri. È quello che riguarda la fornitura di una costosa apparecchiatura sanitaria a un ospedale e in cui ha patteggiato 5 anni l’ex consigliere regionale lombardo di Fi Massimo Guarischi, colui che ha sostituito nel 2011 Daccò come finanziatore delle vacanze. La condanna definitiva per Formigoni trova “umanamente dispiaciuto” il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Già stamani la Procura generale di Milano potrebbe emettere l’ordine di esecuzione della pena mentre la difesa, con l’avvocato Mario Brusa, tenterà ancora la strada della detenzione domiciliare. “Caro don Ciotti, sono un prete e non una guardia. Per questo visito i boss” di Davide Varì Il Dubbio, 22 febbraio 2019 È guerra tra tonache in Sicilia. Da un lato quella di don Luigi Ciotti, artefice e guida di Libera, l’associazione che gestisce l’impero dei beni sequestrati alla mafia; dall’altro quella di don Michele Crociata, anonimo parroco in pensione di Castellammare del Golfo, ameno paesone in provincia di Trapani. La scintilla l’ha attizzata lo stesso don Ciotti: “Se per tanto, troppo tempo la mafia ha potuto proliferare e radicarsi in maniera così perversa forse è anche grazie ai tanti don Michele Crociata”. Il prete trapanese a quel punto non solo non ha abbozzato ma, inforcate le lenti da presbite e impugnati mouse e tastiera, si è lanciato in un lungo e piccato post su Facebook. “Io, al posto di don Luigi Ciotti, preferirei fare il prete invece di andare in giro a fare il politico”. Un’accusa inaspettata e singolare visto che il povero don Crociata prega e lavora in Sicilia mentre il teatro negato è quello di Oderzo, piccolo e remoto borgo del Trevigiano. Ma evidentemente don Ciotti covava quello sfogo da troppo tempo. Fatto sta che il prete trapanese non solo non ha abbozzato ma, inforcate le lenti da presbite e impugnati mouse e tastiera, si è lanciato in un lungo e piccato post su Facebook. “Io, al posto di Ciotti, preferirei fare il prete invece di andare in giro a fare il politico”, ha scritto infatti don Michele, al quale le falangi di Libera non perdonano l’amicizia con Mariano Saracino, un presunto boss locale - un boss minore per la verità - finito ai domiciliari con l’accusa di estorsione. Ma don Michele, bontà sua, non ha mai nascosto quella sua frequentazione e nel post ha deciso di rivendicarla: “Non sono mica un carabiniere, sono un prete. Unicuique suum. “A ciascuno il suo…”“, ha concluso citando Sciascia. Insomma, il sacerdote siciliano è convinto che la cura delle anime “perdute” - già, soprattutto quelle perdute - sia il primo dovere di un prete: “Sapete perché incontro quella persona condannata? - ha infatti spiegato - Per indurlo a un ripensamento. Anche lui è un figlio di Dio. È una cosa normale. Se fossi un carabiniere è chiaro che agirei diversamente. E sta andando bene. Sono la frequenza e la qualità degli incontri che con il tempo possono indurre a un ripensamento o a una riflessione. È un lavoro molto lento e incerto”. E don Michele è così convinto di quello che dice da difendere anche il collega che ha celebrato il funerale di Tommaso Spadaro, un padrino vero, il cosiddetto “re della Kalsa”, anche se lui preferiva presentarsi come il Gianni Agnelli di Palermo. “Negli ultimi anni - spiega infatti don Michele - questa persona aveva fatto un cammino spirituale quindi non vedo il motivo di non celebrarlo. Tutti siamo figli di Dio, anche quelli che commettono cose brutte e grosse”. E in effetti, pur essendo considerato un irriducibile di Cosa nostra, Spadaro in carcere si era laureato in filosofia con 110 e lode e con una tesi su Gandhi e la non violenza. Fatto sta che Libera non ha mollato la presa, e di fronte alle repliche di don Michele ha rilanciato i sospetti. Ai discepoli di don Ciotti non piace infatti quel modo “troppo discreto” con cui il prete di Castellammare del Golfo si reca a casa del boss: “Don Michele - spiegano - sembra usare l’espressione ‘ con discrezionè come sinonimo di ‘ prudentementè, o ‘ senza dare troppo nell’occhio’, quasi ‘ a volersi muovere dietro le quintè“. Insomma, l’allusione di Libera, per quanto discreta e prudente, è fin troppo chiara: don Michele si muove nell’ombra e nel silenzio come fanno i mammasantissima. Ma lui proprio non ci sta: “Io non sono giudice del mio prossimo, quelli di Libera hanno una mentalità e una cultura di tipo giacobino e demonizzano tutti quelli che la pensano diversamente. Ciotti non fa nulla di brutto, di cattivo, ma io penso che un prete deve svolgere altro”. E poi di nuovo l’attacco all’eccessiva intraprendenza politica di don Ciotti: “Noi ecclesiastici rispondiamo ai dettami della chiesa, la politica risponde al sentire comune. Un prete non può andare in giro per l’Italia facendo politica. Deve invece operare nella propria diocesi come cooperatore del suo vescovo. Ciò che ormai da molti anni don Ciotti non fa”. In attesa che il buon Dio illumini il cammino dell’uno e l’altro, don Michele è tornato a casa del boss, perché lui, come direbbe Sciascia e come ha provato a spiegare a don Ciotti, è convinto che la politica sia tempo perso “e chi non se ne rende conto o è cieco o ci trova il suo interesse”. Dunque, a ciascuno il suo. Battisti chiede di commutare l’ergastolo in trent’anni di Manuela Messina La Stampa, 22 febbraio 2019 Cesare Battisti chiede di scontare 30 anni di carcere al posto dell’ergastolo. E il tutto sulla base di un accordo stipulato nel 2017, due anni prima del suo arresto, tra Italia e Brasile, Paese in cui l’ex terrorista dei Pac ha vissuto per anni e in cui non è prevista la pena dell’ergastolo. Battisti, catturato a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia, dopo 37 anni di latitanza e condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti negli anni 70 in Italia, è detenuto dal 14 gennaio scorso nel carcere di Oristano. Il legale che lo assiste nell’aspetto dell’esecuzione della pena, l’avvocato Davide Steccanella, cerca ora di fare valere le ragioni tecniche, a suo avviso non rispettate, delle procedure di espulsione. Secondo il difensore, infatti, l’unico titolo valido di estradizione è quell’accordo con il paese di Bolsonaro, la cui collaborazione è stata centrale nell’arresto dell’ex terrorista. Per il legale, in sostanza, non esisterebbero documenti validi che attestino l’estradizione dalla Bolivia all’Italia. Da qui l’istanza di rideterminazione della pena, presentata dalla difesa alla Corte d’Assise d’Appello di Milano e su cui la Procura generale, ha già dato parere negativo. L’esposizione mediatica di Battisti Il legale ha anche lamentato “la particolare esposizione mediatica dell’arresto del condannato” e lo “straordinario rincorrersi, il giorno stesso, di pubbliche dichiarazioni da parte di ministri dell’attuale esecutivo, che si sono espressi in termini di assoluta certezza, tanto sull’entità della pena che l’arrestato dovrà in concreto scontare, tanto sulle specifiche modalità penitenziarie”. L’esposizione mediatica indicata dal legale fa quasi certamente riferimento al video celebrativo dell’ arrivo di Battisti all’aeroporto di Ciampino e pubblicato sulla pagina Facebook del ministro Bonafede. Vicenda che vede indagati (la procura di Roma ha già chiesto l’archiviazione nel trasmettere gli atti al tribunale dei ministri) il vicepremier Matteo Salvini e appunto il Guardasigilli per mancata tutela della dignità della persona arrestata. Adriano Sabbadin, figlio del macellaio Lino ucciso dai Pac di recente in una cerimonia molto partecipata a Caltana di S.Maria di Sala, in provincia di Venezia, aveva detto che “con l’arresto di Cesare Battisti si può chiudere un capitolo: giustizia è fatta”. Si attendono le altre reazioni. Revisione del giudicato solo per sentenze pilota di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 febbraio 2019 Solo le sentenze pilota della Corte dei diritti dell’uomo impongono la revisione di una pronuncia italiana ormai definitiva. Lo sottolinea la Corte di cassazione con la sentenza 7918 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto un ricorso indirizzato a fare riaprire il giudizio perché, trattandosi di una vicenda che aveva visto infliggere una condanna in appello dopo un’assoluzione in primo grado, non si era proceduto a un nuovo esame dei testimoni. In questo senso veniva valorizzata come sentenza pilota (caso che può dare luogo alla revisione sulla base di quanto sancito dalla Corte costituzionale nel 2011) la sentenza Lorefice contro Italia del 29 giugno 2017 che avrebbe dato luogo alla modifica normativa, sempre nel 2017, del Codice di procedura penale che impone l’obbligo di rinnovazione delle decisive prove dichiarative. Conclusione sulla quale però dissente la Cassazione che, invece, ricorda come la riforma di due anni fa è piuttosto stata indotta da una serie di pronunce della stessa Cassazione, tutte accomunate dalla necessità di assicurare che la responsabilità penale sia assicurata al di là di ogni ragionevole dubbio. Puglia: stipendi non pagati, sciopero degli addetti mensa delle carceri bariviva.it, 22 febbraio 2019 L’astensione dal lavoro prevista per lunedì 25 febbraio, i sindacati: “Necessaria celere risposta dal ministero”. Incroceranno le braccia lunedì 25 febbraio i circa cento lavoratori addetti ai servizi di ristorazione nelle mense di servizio per il personale della polizia penitenziaria, nelle sedi degli Istituti penitenziari delle circoscrizioni territoriali di competenza di Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Umbria, Puglia. Il servizio è gestito da Food & Facility Srl in qualità di consorziata di Unilabor titolare del contratto di appalto. La mobilitazione è stata indetta dai sindacati di categoria Filcams Cgil Fisascat Cisl e Uiltucs, per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi di dicembre 2018 e gennaio 2019 e delle quote a saldo delle tredicesime non ancora corrisposte “nonostante lo stato di agitazione e la richiesta di erogazione immediata delle retribuzioni mancanti” hanno stigmatizzato le tre sigle nella nota unitaria trasmessa alle due direzioni societarie ed al Ministero della Giustizia. I sindacati sottolineano che: “i lavoratori al 1 aprile 2018 sono stati oggetto di un passaggio del proprio rapporto di lavoro da Sybaris Srl a Food&Facility Srl, nell’ambito di un riaffido interno al Consorzio Unilabor, in quanto Sybaris non riusciva a far fronte ai pagamenti degli stipendi e alla gestione dell’appalto delle Case Circondariali e che l’operazione, di fatto, è stata condotta come un cambio di appalto, instaurando rapporti di lavoro ex novo dove i dipendenti oltre ad avere retribuito in ritardo le mensilità dovute da Sybaris ad oggi non hanno ancora percepito le competenze di fine rapporto e i Tfr, di cui si era fatto garante il Consorzio”. Per i sindacati “quello che è evidente è che il Ministero della Giustizia, ricorrendo di fatto a gare al massimo ribasso, continua da anni ad appaltare il servizio di ristorazione delle guardie penitenziarie ad aziende che si aggiudicano l’appalto a condizioni non sostenibili che, in breve tempo, vengono scaricate sui lavoratori attraverso la non erogazione degli stipendi ed emolumenti o comunque in costante ritardo”. “L’auspicio - concludono le tre sigle - è che il dicastero fornisca una celere risposta ad una situazione che necessita di una soluzione sia nell’interesse dei lavoratori che operano in appalto, sia del proprio personale di custodia”. Cagliari: detenuto s’impicca in cella, è il secondo in 15 giorni Il Secolo XIX, 22 febbraio 2019 Un detenuto senegalese s’è ucciso impiccandosi con una coperta, nella cella della Casa circondariale di Cagliari- Uta che condivideva con due compagni. Quando i sanitari del 118 sono intervenuti, allertati dagli agenti della Polizia penitenziaria, hanno a lungo tentato invano di rianimare D. M., 40 anni. “È il secondo suicidio in poco più di 15 giorni”. Sulla vicenda è stata aperta un’indagine dalla magistratura. “Le condizioni di vita in una struttura penitenziaria dove la presenza dei detenuti supera la capienza regolamentare e dove per contro sono carenti gli agenti della Polizia penitenziaria e i sanitari - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha dato la notizia - non può lasciare indifferenti”. Comunicato dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” “Si è tolto la vita impiccandosi con una coperta intorno al collo nella cella che condivideva con due compagni. Quando i Sanitari del 118 sono intervenuti, allertati dagli Agenti della Polizia Penitenziaria, hanno a lungo tentato invano di rianimarlo. D. M. 40 anni ha cessato di vivere. La Casa Circondariale di Cagliari-Uta registra, in poco più di 15 giorni, un altro suicidio. Non ci sono parole per questa nuova tragedia”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso del suicidio in carcere, la notte scorsa, di un giovane detenuto senegalese. Sulla vicenda è stata aperta un’indagine dalla Magistratura. “Le condizioni di vita in una struttura penitenziaria dove la presenza dei detenuti supera la capienza regolamentare e dove per contro sono carenti gli Agenti della Polizia Penitenziaria e i Sanitari - sottolinea Caligaris - non può lasciare indifferenti. Il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria devono intervenire per scongiurare episodi tragici di autolesionismo con programmi specifici. Non si può pensare che pochi Agenti possano fare miracoli”. “Non conosciamo le ragioni che hanno spinto il giovane detenuto straniero a togliersi la vita. Abbiamo però la certezza - ricorda la presidente di Sdr - che la pena detentiva è destabilizzante e può generare momenti di grave sconforto. Dietro le sbarre ci sono persone con situazioni umane e familiari difficili, molte con problematiche psichiche per le quali il sentimento di solitudine può generare crisi profonde irreversibili. C’è sofferenza e troppo tempo per pensare mentre scarseggia il lavoro e l’impiego utile della giornata”. “In queste circostanze prevalgono sempre il dolore e lo sgomento ma - conclude Caligaris - le Istituzioni non possono non registrare l’ennesimo fallimento specialmente quando le persone ristrette hanno ancora maggiori difficoltà non potendo spesso neppure esprimersi compiutamente non conoscendo appieno la lingua italiana. Il sistema carcerario va rivisto e la pena detentiva deve essere davvero l’extrema ratio e diventare strumento di riabilitazione e non, come talvolta accade, luogo di espiazione senza speranza”. Napoli: la giustizia si arena a Poggioreale di Antonio Averaimo Avvenire, 22 febbraio 2019 Viaggio nel carcere più sovraffollato d’Italia: 2.296 i detenuti presenti contro i 1.638 posti disponibili. Criminalità, decessi, manifestazioni di protesta. Garante e cappellano: “Serve subito un intervento”. I dati parlano chiaro e non lasciano scampo: quello di Poggioreale è per l’ennesimo anno di fila il carcere più sovraffollato d’Italia. Secondo il recente report del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 31 dicembre 2018, l’istituto penitenziario napoletano si conferma al vertice di questa speciale classifica con un sovraffollamento del 40,2%. Dovrebbero esserci 1.638 detenuti, ma ce ne sono 2.296. Un dato, quello del carcere napoletano, peraltro in perfetta linea con il trend nazionale, che vede aumentare ogni anno i numeri del sovraffollamento. Nel 2018, i detenuti in esubero sono stati il 17,9%. Nel 2015 erano il 5,2%. Dati che preoccupano ancor di più se si pensa che negli ultimi dieci anni la capienza delle carceri italiane è aumentata del 17,4%. Ma non è bastato a risolvere il problema. E non è bastata nemmeno la legge introdotta nel 2010 sull’esecuzione domiciliare delle pene, che ha consentito di scontare presso la propria abitazione (o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) la pena detentiva non superiore a 18 mesi. Proprio in quell’anno è stato raggiunto il picco massimo del sovraffollamento: 67.961 persone ospitate da strutture con una capienza di 44.073, il 54,2% di presenze in eccesso rispetto ai posti disponibili. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia, a beneficiare della norma sono state 24.782 persone. Nel carcere di Poggioreale tutti questi dati prendono forma. Celle affollate, mancanza di attività, fino ad arrivare ai suicidi e ai casi di malasanità in carcere. C’è da citare anche lo scandalo della “cella zero”, per la quale è in corso un processo. Si tratterebbe di una stanza al piano di terra, senza finestre, in cui per anni sarebbero state perpetrate violenze e torture a danni dei detenuti. I primi anni, ha denunciato Pietro Ioia, ex detenuto di Poggioreale, c’era anche un cappio appeso. Sono giorni difficili per il carcere napoletano. Pochi giorni fa è andata in scena una clamorosa protesta dei detenuti e delle loro famiglie per le condizioni di detenzione. L’occasione è stata la morte in prigione in circostanze da chiarire di Claudio Volpe, un detenuto 34enne. Volpe aveva i sintomi di una banale influenza, poi la situazione si è all’improvviso aggravata ed è sopraggiunto il decesso. “Una condanna per droga non si può scontare con la morte”, dicono i familiari, che per diversi giorni di seguito hanno manifestato davanti all’istituto penitenziario. Proteste a cui si sono uniti nel corso della notte anche i detenuti di due padiglioni del carcere napoletano. “Il vero problema delle carceri italiane è dato dalla mancanza di una vera e propria politica di misure alternative al carcere. Il sovraffollamento di Poggioreale e degli altri penitenziari italiani è figlio di questa miopia - sostiene il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello Basti un dato: nel solo padiglione Firenze ci sono ben 362 detenuti primari. Dati che devono far riflettere, come quello che dal 1990 vede 16mila persone incensurate varcare la soglia del carcere”. Secondo Ciambriello “non si può pensare di risolvere tutto col carcere: a Poggioreale ci sono solo 892 detenuti condannati in via definitiva. Abbiamo poi otto internati, che invece dovrebbero stare nelle Rems, le strutture che dovrebbero sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari. Invece li teniamo in carcere. Sono solo alcuni dei tanti che potrebbero scontare le pene fuori da questi casermoni che sono diventate le carceri italiane”. Con il decreto legge semplificazioni è previsto un piano straordinario da 30 milioni di edilizia penitenziaria, che prevede la realizzazione di nuove strutture carcerarie, la manutenzione e la ristrutturazione di quelle già esistenti. Recentemente il Dap ha annunciato la costruzione di un nuovo carcere da 1.200 posti nel Napoletano, che dovrebbe alleggerire la situazione di Poggioreale. “Ma non si risolvono così i problemi di Poggioreale e delle carceri italiane sovraffollate - afferma Antonio Mattone, responsabile per il servizio alle carceri in Campania della Comunità di Sant’Egidio Il governo pensa di risolvere tutto costruendo nuovi istituti. Ma il punto non è questo: il carcere italiano è un carcere duro e non deduca il detenuto, che in molti casi torna a delinquere appena uscito. Voglio ricordare che proprio qui a Poggioreale addirittura è nato il fenomeno della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, che non muovendosi dal carcere ha creato la più pericolosa organizzazione criminale della Campania”. Anche per il cappellano del carcere napoletano, don Franco Esposito, “la soluzione non è solo nella certezza della pena: spesso questa significa solo certezza della mancanza di recupero. A Napoli stiamo sperimentando vie alternative al carcere con un centro di pastorale carceraria della diocesi, che non riceve alcun sostegno dallo Stato: abbiamo avuto 40 persone messe alla prova o affidate ai servizi sociali. Solo uno o due sono tornati a delinquere. D’altronde i dati sono chiari: l’80% dei detenuti ritorna in carcere, mentre la recidiva scende al 10% per le misure alternative al carcere”. Roma: l’incredibile storia di tossicodipendente, tra furia giudiziaria e angherie in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2019 È detenuto a Civitavecchia, ha una tossicodipendenza da cocaina, ma non ha mai spacciato. È alla sua prima carcerazione in custodia cautelare, teoricamente non dovrebbe nemmeno starci ed è stato picchiato selvaggiamente da un suo compagno di cella (provocandogli ecchimosi su tutto il corpo e cinque punti di sutura al cranio) nonostante avesse segnalato che mostrava segni evidenti di squilibri. Un caso segnalato a Rita Bernardini del Partito Radicale dall’avvocato Davide Vigna che desta stupore, perché emergerebbero delle vere e proprie ingiustizie nei confronti del detenuto su diversi profili. Si tratta di un uomo, romano, da anni affetto di tossicodipendenza da cocaina. Non è uno spacciatore, ma amava condividere l’uso della sostanza stupefacente con alcuni suoi amici e la cedeva la maggior parte delle volte a titolo gratuito, quindi non per trarne profitto. Per la legge è sempre spaccio, ma non di grave entità visto che, appunto, non è la sua fonte di guadagno. Anche perché lavorava, verbo utilizzato al passato visto che dopo l’arresto ha perso il lavoro. Viene tratto in arresto il 6 febbraio scorso e rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, ed è la sua prima esperienza di custodia cautelare. Ma i fatti sono precedenti a una condanna del 2017 con la sospensione condizionale della pena. Non solo, questi fatti emergono proprio dall’indagine condotta in quel contesto, due anni fa. Perché applicargli ora la misura cautelare più grave? La sua storia è semplice, dice l’avvocato Davide Vigna a Il Dubbio. “Lui era già stato arrestato in flagranza nel 2017- spiega l’avvocato - e l’abbiamo capito ora come avvenne: all’epoca era stato intercettato un suo amico e gli inquirenti captarono una telefonata in cui il mio assistito avrebbe dovuto cedergli della cocaina: alla cessione i carabinieri lo arrestavano in flagranza, però, siccome si trattava di quantitativo non elevato e lui era anche consumatore, il giudice lo mandò agli arresti domiciliari fin da subito e poi gli sostituì la misura con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria”. L’uomo aveva anche ammesso il fatto che gli veniva contestato e cosi, scelto il rito abbreviato, il giudice lo condannò con la concessione della sospensione condizionale della pena, riconoscendogli il comma V dell’art. 73 Dpr 309/90, quello per la lieve entità del fatto. Precisamente si trattava di una sola cessione di cocaina: il giudice lo condannò a 2 anni con pena sospesa, perché emerse nel giudizio che la sua condotta era inserita in un contesto di uso personale, come venne anche provato dalle risultanze degli appostamenti dei carabinieri, che lo avevano arrestato. Era il 2017. A febbraio di quest’anno, viene arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. Riferisce sempre l’avvocato Davide Vigna: “Mi leggo l’ordinanza e apprendo che erano stati acquisiti dei tabulati sulla sua utenza telefonica a seguito dell’arresto e che riferiscono pertanto di fatti che erano tutti avvenuti in precedenza rispetto all’arresto”. Dai tabulati, prosegue l’avvocato, emergeva che i suoi acquirenti erano persone che lo conoscevano, degli amici, e, sapendo che era un consumatore e che aveva la disponibilità della cocaina, se la facevano cedere per lo più a titolo gratuito e il più delle volte la consumavano insieme a lui. È evidente che l’ordinanza riguarda fatti pregressi a quelli per cui l’uomo già è stato condannato ed “è pacifico che si tratti di fatti che andrebbero in continuazione con quelli della sentenza del 2017”, osserva l’avvocato. Si fa riferimento all’istituto del reato continuato, il quale prevede che, per i fatti analoghi commessi in uno stesso periodo in quello che è definito “il medesimo disegno criminoso”, la pena complessiva sia calcolata prevedendo quella per il reato più grave aumentata con una somma ritenuta di equità dal giudice. Per questo motivo, “i fatti per cui è stato oggi arrestato non andrebbero ad incidere neanche tanto sulla pena dei 2 anni con la continuazione”, ribadisce l’avvocato Vigna. In sostanza anche quelli di questa ordinanza che l’hanno condotto in carcere, non possono che essere anch’essi di lieve entità, quelli del comma V dell’art 73 del Dpr 309/90: ma nell’ordinanza attuale c’è scritto che non sono concedibili gli arresti domiciliari perché la sua abitazione è luogo di spaccio. Ciò, a fronte di un dato che corre in versante opposto: l’uomo, dal 2017 non ha più commesso reati, ma non solo: quella casa è stata venduta, tant’è che egli ha trascorso quest’ultimo anno in Spagna, partito dopo la sentenza da uomo libero, e quando i Carabinieri andarono a cercarlo, in quella casa ci trovarono non lui ma un’altra famiglia. Lunedì scorso uno degli avvocati dello studio Vigna è andato a fare un colloquio con l’assistito, ma la scena che si è ritrovata davanti agli occhi è stata scioccante: l’uomo si presentava con indosso un collare ortopedico, plurime ecchimosi di colore viola intenso e escoriazioni in tutto il corpo, una ferita in testa nella quale pare siano stati applicati 5 punti di sutura, oltreché visibilmente stravolto. Cosa gli era accaduto? La settimana precedente è stato picchiato dal compagno di cella appena era rientrato dal passeggio. Gli ha scaraventato contro lo sgabello di legno posto all’interno della cella, per poi saltargli addosso mentre era caduto a terra per il colpo subito e ha continuato a riempirlo di calci, pugni e graffi sino all’intervento dell’agente di polizia penitenziaria che a sua volta è stato aggredito del detenuto. Eppure l’aggressore già era stato segnalato dall’uomo, in quanto mostrava fin da subito segnali di squilibrio. Appena l’hanno messo in cella, dava testate al muro, lo fissava e urlava. Quando è accaduto il pestaggio non si è avuta alcuna comunicazione ufficiale da parte delle autorità alle quali lo stesso è affidato in custodia. Grazie ad una chiamata anonima effettuata dal carcere, l’avvocato si è allarmato ed è andato a trovare il suo assistito lunedì scorso. Senza quella chiamata, nessuno se ne sarebbe accorto visto che non era in programma nessuna visita. “Faremo causa civile - spiega l’avvocato Vigna - perché c’è un obbligo di protezione, visto il principio costituzionale di tutela dei diritti inviolabili della persona anche in regime di detenzione”. A questo si aggiunge il fatto che per giorni il carcere non ha dato l’autorizzazione alla sorella del detenuto di farle effettuare un colloquio, nonostante che nell’ordinanza applicativa non erano state disposte alcune limitazioni. Ma non solo. Grazie alla sollecitazione dell’avvocato, la cancelleria del GIP aveva inoltrato al carcere l’autorizzazione esplicita di fare i colloqui. Giovedì scorso, la cancelleria aveva mandato una pec con l’ovvia comunicazione del nulla osta ai colloqui: tuttavia, anche il giorno dopo, avevano negato alla sorella di fare il colloquio. Solo dopo, una volta riferito che la cancelleria ha detto che ha mandato da tempo la pec, gli agenti le hanno dato il permesso con tanto di scuse. Ora due sono le istanze per chiedere la scarcerazione e la misura alternativa. A breve il responso. Castrovillari (Cs): cambio al vertice del carcere di Emilio Enzo Quintieri* sibarinet.it, 22 febbraio 2019 Giuseppe Carrà, Dirigente Penitenziario per tanti anni alla guida della Casa di Reclusione di Rossano, è il nuovo Direttore della Casa Circondariale di Castrovillari. Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Regione Calabria, che venerdì 15 febbraio, insieme all’esponente radicale Valentina Anna Moretti, ha effettuato una visita all’Istituto Penitenziario di Castrovillari, gestito per alcuni anni dalla bravissima Dirigente Maria Luisa Mendicino, che ha assunto la direzione della Casa Circondariale di Cosenza. La delegazione di Radicali Italiani, autorizzata dal Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Lina Di Domenico, è stata ricevuta dal neo Direttore Giuseppe Carrà, dal Commissario Capo Carmine Di Giacomo e dall’Ispettore Superiore Sergio Falcone, Comandante e Vice Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria e dal Funzionario Giuridico Pedagogico Maria Pia Patrizia Barbaro. Dopo un breve colloquio, la delegazione radicale, insieme al Direttore ed ai responsabili dell’area della sicurezza e del trattamento, si è recata a far visita a tutti gli Uffici ed agli spazi detentivi dell’Istituto. Nella Casa Circondariale di Castrovillari, al momento della visita, a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti (1 camera non disponibile per 2 posti detentivi), erano ristretti 153 detenuti (25 donne) di cui 38 stranieri (5 donne), aventi le seguenti posizioni giuridiche : 34 giudicabili, 12 appellanti, 13 ricorrenti e 76 definitivi di cui 1 ergastolano e 2 semiliberi. Altri 16 detenuti hanno una posizione “mista”, 11 dei quali con almeno una condanna definitiva. Tra la popolazione detenuta è stata rilevata la presenza di 20 tossicodipendenti (2 donne) di cui 6 in terapia metadonica (1 donna), 1 sieropositivo, 100 con problemi psichiatrici, 5 con disabilità motorie, 10 affetti dal virus dell’Hiv (2 donne) e 30 da epatite c. Nell’Istituto, alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, lavorano 37 detenuti, 27 fissi e 10 per assistenza alla persona, che assistono altri detenuti convalescenti o non autosufficienti. Un altro detenuto lavora alle dipendenze dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza e provvede alla pulizia dei locali dell’area sanitaria. Una detenuta lavora in Art. 21 OP quale addetta alla pulizia dei locali della Direzione, della Caserma della Polizia Penitenziaria e degli altri ambienti all’esterno dell’intercinta ed altri 5 detenuti gestiscono la succursale del canile municipale all’interno dell’Istituto. Relativamente al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, ultimamente, presso il Reparto di Castrovillari sono in forza 95 unità a fronte di una pianta organica che ne prevede 124 mentre per quanto concerne i Funzionari Giuridico Pedagogici ne sono presenti 2 in pianta stabile oltre al responsabile della Segreteria Tecnica. Al termine della visita, la delegazione, ha incontrato l’ex Direttore Maria Luisa Mendicino, ringraziandola per il buon lavoro fatto negli ultimi anni, insieme ai suoi collaboratori, che ha permesso alla Casa Circondariale di Castrovillari di fare enormi progressi, soprattutto dal punto di vista del miglioramento della qualità di vita detentiva poiché, tra gli altri, sono stati effettuati numerosi interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria (ristrutturazione locali doccia, tinteggiatura di tutte le sezioni detentive, etc.) ed altre progettualità (rifacimento aree verdi esterne e del campo sportivo polivalente) finanziate con i fondi della Cassa delle Ammende. Al nuovo Direttore Giuseppe Carrà i Radicali Italiani hanno formulato gli auguri per il suo nuovo incarico, certi che continuerà a svolgere un ottimo lavoro insieme allo staff, preparato e competente, che ha a sua disposizione. *Radicali Italiani Novara: nascerà un Centro di Giustizia Riparativa di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 22 febbraio 2019 È stato firmato ieri un Protocollo d’intesa per la creazione e l’avvio di un Centro di Giustizia Riparativa a Novara. Hanno partecipato alla stipula la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, la Procura della Repubblica di Novara, l’Ufficio interdistrettuale di Esecuzione penale esterna di Torino e quello per l’esecuzione penale esterna di Novara, l’Ordine degli Avvocati, l’Assessorato alla sicurezza e il Comando della Polizia locali, le associazioni La logica del cuore, Cammino, Liberazione e speranza, OrientaMente, la Diocesi di Novara e il Centro mediazione di Torino. L’impegno così assunto è stato considerato un “ulteriore tassello al lavoro di prevenzione e ascolto svolto in questi due anni dal Nucleo di prossimità della Polizia Locale”, come sottolineato dal Mario Paganini, assessore alla sicurezza. Il modello rieducativo e riabilitante, come viene chiamato, si concretizza attraverso il coinvolgimento dei diversi piani interessati: quello della vittima, quello del responsabile dell’azione illecita e quello della comunità di appartenenza. Gli obiettivi perseguiti sono: il ristoro della vittima, la riconciliazione tra le parti, il rafforzamento del senso di sicurezza. Fondamentale è stato ritenuto il coinvolgimento dei soggetti che, oltre essere rappresentanti e garanti della legalità, possono essere anche agenti destinatari delle azioni di recupero e figure di mediazione nella gestione del percorso che deve essere compiuto da parte di chi sceglie questa strada. “La giustizia riparativa è un’opportunità da cogliere e deve diventare una ‘buona praticà, soprattutto quando sono coinvolti i giovani” ha proseguito l’assessore, aprendosi così “un percorso di maturazione, di riflessione, di crescita e di responsabilizzazione nei confronti non solo della vittima, ma di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nel cammino”. Il Protocollo prevede anche la costituzione di un Tavolo permanente di coordinamento che deve attivamente favorire il confronto fra tutti i soggetti coinvolti. Al tempo stesso, i servizi socio-assistenziali e delle istituzioni scolastiche, avvieranno per il proprio personale corsi di formazione, finalizzati al raggiungimento degli obiettivi, ciascuno per la propria competenza. Torino: Casa di Carità, già riaperta la cucina distrutta in carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 22 febbraio 2019 Sono tornate in funzione le attività del laboratorio della Casa di Carità Arti e Mestieri nel carcere Vallette dopo che anarchici avevano incendiato i locali. Il direttore Minervini ha reso agibili alcuni locali nella sezione femminile e la cooperativa “Liberamensa” ha messo a disposizione temporaneamente le cucine in attesa di una soluzione logistica stabile. L’articolo 27 della nostra Costituzione recita che “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un assunto certamente ignorato dal gruppo di anarchici (che evidentemente si battono per l’assenza di Governo e di leggi) che domenica 10 febbraio scorso, hanno protestato con violenza contro gli arresti dei loro 11 compagni che hanno messo a ferro e fuoco il quartiere dell’asilo di via Alessandria sgomberato dalle forze dell’ordine. Il gruppo di facinorosi, recatosi ai cancelli del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, non contento degli atti vandalici appena compiuti in città, ha provocato un incendio al capannone, inaugurato neppure un anno fa, in cui la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri tiene i corsi di Panificazione, Pasticceria e Cucina frequentati da circa 45 detenuti che, come prevede la Costituzione, nel tempo della pena hanno l’opportunità di imparare un mestiere. Gli scontri, sedati dalla Polizia, hanno causato lo scoppio di alcune bombole di gas e il crollo del capannone che ospitava una cucina e le attrezzature del laboratorio per un valore di 15 mila euro. Lo sconcerto del presidente della Fondazione, Attilio Bondone, espresso anche tramite le colonne del nostro giornale, era stato immediato anche perché, conseguenza della scorribanda è stata l’interruzione dei corsi. Bondone, appellandosi alla sensibilità di istituzioni e cittadini, sottolineava come “la sospensione dei corsi costituisce un grave danno per tutta la collettività oltre che per le persone detenute che, attraverso l’apprendimento di una professionalità spendibile anche all’esterno, desiderano creare le basi per il reinserimento nella società dopo il termine della pena”. Appello che non è caduto nel vuoto: in soli tre giorni, comunicano dalla Casa di Carità, da 40 anni impegnata nei corsi di formazione professionale nel carcere torinese, “grazie alla sensibilità del direttore del ‘Lorusso e Cutugno’, Domenico Minervini, da sempre attento ai temi rieducazione dei reclusi, le lezioni sono riprese in soli tre giorni dopo il rogo”. Il direttore ha reso agibili alcuni locali nella sezione femminile e la cooperativa Liberamensa, che gestisce il ristorante del carcere aperto nel fine settimana anche ai “liberi”, ha messo a disposizione temporaneamente le cucine in attesa di una soluzione logistica stabile e che si trovino i fondi per il noleggio di nuove attrezzature. Per questo la Fondazione invita le istituzioni e la cittadinanza a contribuire al ripristino dei laboratori distrutti con una donazione sul c.c. IT55L0200801108000002701895 - Causale: “Erogazione liberale - Laboratorio cucina presso Carcere di Torino”. Un gesto per sostenere la Costituzione. Roma: dibattito sul carcere tra Antigone, Garante e Dap di Giacomo Di Stefano radiocolonna.it, 22 febbraio 2019 Alla Fondazione Basso di Roma la presentazione del libro sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Un focus sui tre decreti legislativi sulla riforma dell’ordinamento penitenziario approvati dal Parlamento italiano e su quelle parti della riforma che non hanno visto la luce. Ieri pomeriggio, alla Fondazione Basso di Roma, si è svolta la presentazione del nuovo libro dell’Associazione Antigone. L’occasione per presentarlo al pubblico e per discutere con ospiti illustri sui problemi e le prospettive della detenzione nel nostro Paese. Presenti Patrizio Gonnella (presidente di Antigone), Mauro Palma (Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale), Francesco Basentini (Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e Gemma Tuccillo (Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità). “Il divieto esplicito di violenza fisica e morale è alla base del nuovo ordinamento penitenziario, un divieto più ampio della nozione della tortura. Sarà interessante vedere come si andrà ad applicare questo divieto, perché quella “morale” è una violenza ad ampio spettro. Potrebbe essere anche rappresentata dal carcere, in certe circostanze - spiega Gonnella - un’altra novità è il riconoscimento dell’identità di genere nell’ordinamento penitenziario. Con il dovere di proteggerla e difenderla dalle discriminazioni stando attenti a non segregare e ghettizzare le minoranze sessuali”. Altro elemento da verificare, secondo il presidente di Antigone, è l’alimentazione differenziata per motivi religiosi. Sarà utile vedere nella pratica come si svilupperà questa innovazione. Poi c’è il tema della possibilità di esprimersi da parte dei detenuti: un condannato può rilasciare interviste, esprimere un’idea? Sul capitolo sanità, conclude Gonnella, ora si prescrive che le cure non siano solo efficaci ma anche tempestive. L’Asl, dice, va messa nelle condizioni di lavorare e di visitare almeno due volte all’anno un singolo detenuto. “L’ordinamento penitenziario più che di riforme ha bisogno di interventi, di finanziamenti. Il fallimento dell’ultima riforma dell’ordinamento penitenziario non è stato un dramma - confida Basentini - personalmente, in questi mesi andare a visitare le carceri è stata un’esperienza molto importante. I detenuti parlano principalmente di bisogno di lavoro, di assistenza sanitaria e di occupazione del tempo libero. Per risolvere queste tre problematiche non serve una riforma ma un’inclusione di altri mondi all’interno di quello penitenziario, dalle associazioni di categoria alle realtà che si occupano di sanità. Non è un testo normativo che risolverà i problemi delle carceri” Poi c’è turno di Palma, che all’inizio se la prende con un ministro della Repubblica (Salvini) che ha auspicato che una persona marcisse in carcere, “contravvenendo all’articolo 27 della Costituzione”. “La tutela della dignità e dell’intangibilità fisica del detenuto sono le basi da cui partire - racconta il garante - in Italia gli ingressi in carcere non sono aumentati, il problema è che non sono diminuite le uscite. Questo perché c’è l’incapacità di riassorbire le persone che escono dalla detenzione” Un altro tema importante per Palma è l’edilizia penitenziaria: si deve passare, conclude, da un’idea funzionale a una più umana, ed essere meno ingegneri e più architetti. Reggio Calabria: Roberto Di Bella incontra i detenuti dell’alta sicurezza di Danilo Loria strettoweb.com, 22 febbraio 2019 L’iniziativa è promossa dal Centro Comunitario Agape e dall’associazione Libera. Un incontro a carte scoperte, un confronto vero e senza sconti sulle tre sofferenze che il programma Liberi di scegliere ha abbracciato: quella dei minori che vivono in famiglie di mafia, quella dei genitori destinatari dei provvedimenti di allontanamento e quella delle vittime innocenti della ndrangheta che rappresentano la parte che paga il prezzo più pesante, senza essere anche loro “liberi di scegliere”. Unanime e non scontato (ricordiamo le lettere inviate negli anni scorsi di minacce con annessi proiettili al Presidente e agli operatori della giustizia minorile) da parte dei detenuti il riconoscimento al presidente Di Bella della sua grande umanità e del suo impegno sincero a perseguire il bene dei ragazzi interessati dai suoi provvedimenti. È stato questo e molto altro l’incontro, promosso dal Centro Comunitario Agape e dall’associazione Libera nel carcere di Reggio Calabria tra i detenuti dell’alta sicurezza ed il presidente del Tribunale per i Minorenni Roberto Di Bella. L’incontro è stato voluto fermamente dal Presidente Di Bella per parlare senza filtri ai detenuti, molti con cognomi pesanti, tra i quali anche genitori di ragazzi interessati dei suoi provvedimenti. Il film di Rai Uno, con il suo racconto crudo ma vero di una storia di vita è stato lo spunto per aprire una discussione su un tema lacerante sia per chi subisce l’allontanamento del proprio figlio dalla propria famiglia, sia per il giudice che di fronte a situazioni di grave pregiudizio per il minore si sente in dovere di intervenire per la sua tutela, per offrirgli delle alternative di vita pur se temporanee. All’appuntamento i detenuti sono arrivati preparati assistendo alla proiezione del film, avviando dei gruppi di discussione guidati dall’insegnante di religione Mimmo Nasone che ha presentato anche le loro critiche e riserve, non tanto sul l’operato del presidente ma su un sistema sociale che non fa prevenzione, che nega il diritto allo studio, che non offre a chi ha scontato la pena la possibilità di reinserirsi anzi spesso condanna anche i figli solo per il cognome che portano. A Di Bella è stato riconosciuto il merito di avere acceso i riflettori sulla sofferenza di questi ragazzi a fronte di una politica che finora ha ignorato la loro condizione sociale. Nel suo intervento ha espresso con chiarezza l’umanità con cui ricopre il suo ruolo. Ha parlato del costo emotivo del suo lavoro come giudice e della frustrazione che lo accompagnato quando, dopo tanti anni, si ritrovava a dover giudicare figli o nipoti di persone a lui tristemente note. Il fine dei provvedimenti emanati ha chiarito è, in primo luogo, quello di tutelare i ragazzi, di aiutarli a liberarsi da una schiacciante eredità, fornire strumenti per una scelta consapevole, cercando di coinvolgere il più possibile le famiglie, anche quelle apparentemente irriducibili. Ma a tutti ha chiesto di aprire, di dare la possibilità ai figli di fare un loro percorso diverso, di lasciarli liberi di scegliere. Nel dibattito i detenuti pur riconoscendo i meriti del giudice hanno affermato che sia poco vero che il contesto non ti fa scegliere, secondo loro un adolescente può scegliere, il problema è la terra bruciata che viene fatta intorno al nome. Altri hanno sottolineato come l’offerta di alternative sia estremamente limitata e per questo le persone non sono realmente libere, così - ha detto un detenuto - “siamo liberi come l’acqua nei tubi”. Ancora c’è chi ritiene che il film non fa onore all’umanità che traspare invece dalla testimonianza del Presidente Di Bella alla quale è stata posta la domanda pungente: “lei non ritiene, per caso, di essere una pedina nelle mani di un sistema che ha idee diverse dalle sue e che lo lascia solo?” e ancora “quelle istituzioni e comunità hanno realmente adempiuto al proprio ruolo?”. Efficace anche l’intervento degli attori della fiction presenti, Franco Colella e Saverio Malara; il primo, in particolare, ha sottolineato il rischio di portare in scena questi personaggi in maniera seduttiva ed eccessivamente enfatizzata e il messaggio quasi positivo che molte fiction lasciano spesso passare. Per lui l’interpretazione di questo personaggio del boss spera che possa invece suscitare nei giovani soprattutto sentimenti di ripulsa Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Massimo Parisi ed il Direttore della casa circondariale Calogero tessitore, hanno dato la loro disponibilità a fare continuare questo dialogo avviato ed anche di favorire dentro e fuori dal carcere percorsi che. attraverso soprattutto il lavoro possano offrire a tutti una seconda opportunità. Giuseppe Marino di Libera e Mario Nasone del centro agape che hanno promosso l’evento l’impegno a continuare il lavoro a fianco del presidente Di Bella e per sensibilizzare le forze sociali e politiche affinché investano seriamente sulle politiche educative e sociali. La maschera della paura di Michele Serra La Repubblica, 22 febbraio 2019 Esiste un rapporto di causa ed effetto tra una politica che grida “prima gli italiani!” e gli episodi di aggressività contro i neri (compresi i neri italiani; e i neri bambini, come pare sia accaduto in una scuola elementare di Foligno)? Con garbo perfino eccessivo una famiglia di Melegnano, premiata con una svastica sul muro di casa per avere adottato un senegalese, dice che sì, c’è un legame tra l’ossessione securitaria e l’odio razziale. Se ne dispiace. E lo segnala: anche perché, se è di sicurezza che si parla, una svastica che bussa al tuo portone non è quanto di meglio per addormentarsi sereni la sera e svegliarsi di buon umore al mattino. Quel genere di politica - oggi parte decisiva della maggioranza di governo - nega con sdegno di essere la causa, anche perché sostiene di essere, semmai, l’effetto: il sovranismo si auto-formula come la sola risposta credibile allo smarrimento e alla paura della gente di fronte all’immigrazione incontrollata, alla globalizzazione, alla perdita di identità. Mette la divisa, e mette regole, a pulsioni che altrimenti, non fossero governate, potrebbero degenerare: un po’ come quando Beppe Grillo disse che, non fosse per lui e per il suo Movimento, avrebbe vinto Alba Dorata. L’alibi perfetto, non fosse che le Albe Dorate di casa nostra oggi si sentono, con qualche diritto, quasi nell’area di governo: e in molte istituzioni locali lo sono. E fanno il saluto romano nell’aula con la fotografia di Mattarella. E restano seduti quando si commemorano i morti della Shoah. Però, anche volendo ammettere che sia davvero quella l’intenzione (filantropica, dunque: aiutare la gente a non avere paura), si tratta poi di decidere se il vento che gonfia le tue vele debba decidere lui la rotta; o siano lecite correzioni, e magari regole severe non solo contro gli africani aggrappati a un gommone e gli occupanti abusivi di baracche di lamiera, ma anche contro chi traccia svastiche, o trasforma una curva di stadio in una provincia (molto meridionale) del Reich, o proclama e progetta la supremazia della razza bianca. E francamente non risulta, nemmeno al più benevolo degli sguardi, che il leader più rappresentativo di questo governo, ovvero il ministro dell’Interno, abbia mai detto o fatto qualcosa che possa davvero irritare, o scoraggiare, o addirittura punire, quella parte della sua claque (non piccola) che interpreta l’attuale fase politica come un “libera tutti”. E dunque è finita la pacchia, fuori gli stranieri, non esistono italiani negri, basta con i froci: non si dubita che, se non Salvini, il suo nutrito staff (di soli maschi) legga le tante pagine social che, inneggiando al Capitano, inneggiano anche al razzismo, al fascismo, a qualunque cosa sia finalmente pronunciabile sulle rovine del politicamente corretto. Il problema è che, nell’era social, il potere traccia la propria sagoma con le proprie mani. È definita perfino nei dettagli, nelle sfumature, ritoccata giorno dopo giorno, anzi ora dopo ora, pennellata dopo pennellata. Ed è la sua sagoma pubblica (non certo il suo animo di persona umana, che solo in pochi possono conoscere) che ci racconta di un vicepremier che va di persona a sgomberare edifici occupati, certo non a cancellare una svastica tracciata contro italiani integerrimi e generosi; che si fa selfie con ultras di estrema destra, e a quelli dei centri sociali farebbe volentieri una foto segnaletica; che può risparmiarsi lo sfratto di Casa Pound, perché l’edificio è pulito, non quello dei migranti che avevano trovato casa e una qualche integrazione nel Cara di Castelnuovo di Porto. Non è neanche: due pesi, due misure. È un coerente autoritratto di un coerente leader di estrema destra, che contro l’estrema destra non farebbe niente di “securitario” perché non vuole o non può inimicarsi un settore decisivo del suo elettorato e del suo successo politico. La sola cosa che non può fare, dunque, è stupirsi oppure offendersi se una famiglia di cittadini lombardi (popolo anche loro, se non disturba dirlo) mette in relazione la situazione politica con il brutto clima razzista che minaccia di pretendere sempre più spazio. E se nessuno glielo impedisce (forse il ministero dell’Interno?) se lo prenderà. Marco Boato e i giovani anarchici: “violenza, un fallimento” di Simone Casalini Corriere del Trentino, 22 febbraio 2019 Gli anni di piombo sono un’eco lontana e nemmeno accostabile agli anarchici coevi, ma la violenza spesso genera violenza. L’ha conosciuta da vicino Marco Boato, uno dei leader del Sessantotto trentino a Sociologia, che l’ha sempre combattuta a costo (quasi) della vita. “Prima linea decretò la mia morte dopo il grande convegno contro la repressione di Bologna del 1977, riuscii a salvarmi” racconta l’ex parlamentare con una militanza in Lotta continua. Che agli anarchici di oggi, soprattutto alle nuove leve, offre le memorie del passato: “L’uso della violenza politica porta solo in carcere ed è stata un’esperienza fallimentare. Rimpiango la figura esemplare dell’anarchico Pinelli”. Allora Boato, ci risiamo con il “mito della violenza”? “Un gruppo di matrice anarchica è presente da molti anni in Trentino, a cavallo tra Trento e Rovereto soprattutto. Non credo che il “mito della violenza” sia l’elemento caratterizzante, ma lo è purtroppo l’uso di strumenti violenti per mettere in atto le loro azioni clandestine, che fortunatamente fino ad oggi hanno colpito le cose e non le persone. Per gli arrestati di questi giorni, come per tutti, devono valere ovviamente le garanzie costituzionali dello stato di diritto, che saranno fatte valere dai loro avvocati”. Il movimento, dicono gli inquirenti, ha ramificazioni internazionali sempre più forti... “Non mi sorprende. Il movimento anarchico, nelle sue varie diramazioni, ha sempre avuto anche un’articolazione internazionale: fa parte della sua storia. Spesso si tratta di contatti sporadici, con singoli militanti di altri Paesi. Altre volte vengono messe in atto vere e proprie manifestazioni con una partecipazione di carattere internazionale, come è avvenuto più volte e anche di recente a Torino”. Lei è stato uno dei grandi protagonisti del Sessantotto, poi vennero gli anni Settanta dove lo scontro ideologico si acuì, aprendo varchi alla lotta armata. Da dove nasce il movimento anarchico di oggi? “Negli anni Settanta si sono formati vari gruppi terroristici che erano la negazione dei movimenti collettivi e di massa del biennio ‘68-’69 e degli anni seguenti. Oltre alle più note Brigate Rosse e a Prima Linea, a metà del 1970 si formò anche un gruppo terroristico di matrice anarchica, Azione Rivoluzionaria, che ebbe vita breve e tragica. Non credo che gli anarchici degli ultimi anni abbiano alcuna connessione con quella esperienza. Forse è più realistico trovarne una radice nella componente più violenta e minoritaria del più vasto e pacifico movimento No global, della fine degli anni Novanta, e dell’inizio degli anni 2000, e nel fenomeno dei Black Bloc, soprattutto di origine tedesca”. Lei si è sempre battuto contro la violenza, ma l’ha osservata da vicino negli anni Settanta... “Le racconto un aneddoto. Il 24 settembre 1977, nella penultima giornata del grande convegno contro la repressione di Bologna, a cui parteciparono almeno 70.000 persone (secondo la questura) e forse 100.000 complessivamente, intervenni all’interno del palasport, dove erano radunati in gran parte i simpatizzanti della lotta armata, ma non solo. Il mio breve discorso, continuamente interrotto da urla e fischi, fu finalizzato a dissuadere dall’intraprendere la strada della lotta armata. Al termine, rischiai un vero e proprio linciaggio. Per fortuna fui difeso da centinaia di simpatizzanti di Lotta Continua. Il giorno dopo, domenica 25 settembre, ci fu l’enorme e pacifico corteo conclusivo, nel corso del quale però rischiai una nuova aggressione. Anni dopo, visitando le carceri da deputato radicale, un esponente dissociato di Prima Linea mi disse che a Bologna l’ala più violenta aveva deciso di uccidermi. Per fortuna riuscii ad accorgermene in tempo e sventai l’aggressione che mi stava per colpire alle spalle”. A differenza di chi ha praticato la violenza politica (e la lotta armata) negli anni Settanta soprattutto, questo movimento anarchico non sembra avere alcuna forma di consenso sociale... “L’area di consenso degli anarchici di oggi è assai limitata, ma esiste, sia pure in misura enormemente inferiore rispetto a quanto avvenne negli anni Settanta. I due contesti storici sono radicalmente diversi, perché non esistono più quei movimenti collettivi di massa all’ombra dei quali tentavano di inserirsi i gruppi della lotta armata, che in questo modo ne segnarono la fine”. Teme che questo movimento anarchico possa compiere un “salto di qualità” — cioè passare dagli attentati dimostrativi all’omicidio (o ferimento) politico, come è risultato anche da un’intercettazione ambientale? “Potrebbe succedere, ma fortunatamente finora non è accaduto. La lezione dell’ormai lontano passato ci dice che un’escalation, dalle cose alle persone, è sempre possibile. Mi auguro davvero che così non sia, anche perché è in atto un’attenta vigilanza da parte degli organi inquirenti”. Cosa direbbe agli anarchici odierni, giovani e militanti di lunga data? “Ai meno giovani direi di valutare attentamente a quali rischi di auto-distruzione della propria vita personale possono condurre quelli che vengono dopo di loro. Ai più giovani, per una lunga conoscenza dei fatti storici, direi che l’uso della violenza politica non porta da nessuna parte se non, quando si viene scoperti, all’interno del carcere, come accadde a migliaia di detenuti negli anni Settanta e Ottanta. Nessuno è richiesto di abiure ideologiche, ma è auspicabile che queste esperienze fallimentari portino a battersi per i propri ideali scegliendo la strada gandhiana della nonviolenza. L’anarchico esemplare fu negli anni Sessanta il milanese Pino Pinelli, di cui ancora oggi rimpiango la tragica fine alla questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana”. Chiesa e pedofilia, la trincea vaticana per difendere la tolleranza zero e rompere l’assedio di Massimo Franco Corriere della Sera, 22 febbraio 2019 Lo spartiacque della Chiesa in nome della trasparenza e la strategia incompiuta verso il prossimo Conclave. “Il primo obiettivo di questa riunione è spezzare l’assedio permanente che subiamo sulla pedofilia. Siamo una Chiesa in uscita, non rinchiusa nel fortino nel quale vorrebbero costringerci i nemici”. Il messaggio è insieme bellicoso e orgoglioso. Conferma quanto, nella cerchia stretta di papa Francesco, la riunione dei presidenti delle conferenze episcopali mondiali cominciata ieri, giovedì 21 febbraio, a Roma sia uno spartiacque: almeno nelle intenzioni del Pontefice argentino. Anche se è stato lui stesso, a sorpresa, a ridurre le aspettative sui risultati. In realtà, il Vaticano sa bene che sulle molestie sessuali dei suoi sacerdoti (qui le storie raccontate durante il summit in Vaticano) si sta giocando la credibilità, in Occidente ma non solo; e che questo vertice plenario si apre in un contesto problematico, per non dire ostile. Non è tanto l’ultimo libro sull’omosessualità nella Chiesa, che tende a raffigurare il Vaticano come una Sodoma irredimibile. In quelle pagine, sostiene chi l’ha letto, accanto a qualche verità ci sarebbero pettegolezzi, illazioni e accuse gratuite. Ma, più che il contenuto, colpisce la disponibilità con la quale la “corporazione clericale”, qualcuno la definisce così, si è prestata al gioco al massacro reciproco. È quello, prima di ogni altra cosa, a sconcertare. Si inserisce in una cornice poco pia di lotte interne nelle quali i comportamenti sessuali sono diventati un’arma impropria: da Roma agli Stati Uniti, al Sudamerica, giù fino all’Australia del cardinale George Pell, sotto processo per una vecchia storia di molestie. Il tentativo papale è di rovesciare una trama che ultimamente ha finito per chiamare in causa perfino lui; a mettere in dubbio la sua strategia della “tolleranza zero”, ereditata da Benedetto XVI, nei confronti di questi crimini. Avere voluto i vertici di tutte le conferenze dei vescovi a Roma per discuterne, rende l’appuntamento comunque straordinario. “È un momento capitale nella nostra storia. La Chiesa fa un bilancio che parte da Benedetto XVI, arriva a Francesco e cerca di andare oltre in nome della trasparenza e della denuncia di questi crimini abominevoli”, elenca una persona molto vicina a Jorge Mario Bergoglio. Nuovi criteri di prevenzione; pene più dure e certe; tempi più rapidi nei processi canonici. Ma, al fondo, rimane la consapevolezza che “possiamo mettere tutte le barriere giuridiche che vogliamo. Ma senza conversione non si faranno veri passi avanti”. Avere radunato tutti i vescovi è un estremo sforzo di unità e di compattezza, nella consapevolezza che questo tema si proietterà anche sul prossimo conclave, se rimarrà irrisolto. “Si tratta forse non “del”, ma certo di “un” fronte strategico per Francesco. E l’America rappresenta la prima linea più rischiosa e contraddittoria”. Su questo non ci sono dubbi. L’episcopato statunitense è tra i più colpiti dalle accuse di molestie; e in parallelo il più critico verso quelle che considera le contraddizioni del papato. A metà febbraio, sul Wall Street Journal è uscito un articolo che descriveva il gelo tra Francesco e il cardinale e arcivescovo di Boston, Sean O’Malley. Motivo: una presunta ritirata del Papa rispetto alla strategia della “tolleranza zero”, propugnata da anni da O’Malley. Ha sorpreso che l’arcivescovo non sia stato scelto come rappresentante dei vescovi Usa per la riunione in corso. E c’è chi ricorda che fu lui, nel gennaio del 2018, a criticare Francesco che aveva liquidato come “calunnie” le accuse di numerose vittime ad alcuni vescovi cileni. Dopo quell’attacco, il Papa si scusò e aprì un’inchiesta in Cile che confermò le informazioni in possesso di O’Malley: alcune, peraltro, già trasmesse per iscritto negli anni precedenti al Pontefice dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Pochi mesi dopo, a fine estate del 2018, è esploso il caso del cardinale Theodore McCarrick, oggi ridotto allo stato laicale da Francesco. E sull’onda di quell’uno-due di scandali Nord e Sudamericani, decollò l’idea del summit. Ma lo sfondo rimane tuttora confuso. Non l’ha chiarito la promozione recente di uno degli uomini più vicini a McCarrick, Kevin Farrell, come Camerlengo di Santa Romana Chiesa. Sono indizi di una strategia tuttora incompiuta. Ma l’attesa è grande, e non solo delle vittime, nonostante il minimalismo papale. E, inutile nasconderlo, è enorme anche il timore che, senza un cambio di passo reale, visibile, si debba registrare un’altra occasione perduta. Arcigay a scuola contro il bullismo. Ma i genitori protestano di Chiara Benotti La Stampa, 22 febbraio 2019 Riparte il progetto contro il bullismo omofobo “A scuola per conoscersi” di Arcigay e Arcilesbica Friuli Venezia Giulia per 160 alunni e nella media Lozer a Pordenone, e si alzano le polemiche di alcuni genitori che minacciano di non mandare i figli in aula: ieri mattina, comunque, erano tutti in classe. Alle 10 scattava infatti il primo appuntamento con la psicologa Claudia Moretto per mettere a fuoco identità-diversità di genere. “Siamo pronti a vigilare sul progetto - ha anticipato Massimo Drigo, vicepresidente del consiglio di istituto. Sono temi delicati e non sono adatti alla fascia dei pre-adolescenti”. Possibilisti e integralisti divisi invece nella Lozer: un anno fa la Regione ha chiuso i rubinetti al progetto che nella scuola Lozer investe nel 2018-2019 l’ultimo assegno. “Il Comune di Pordenone non ha mai finanziato il progetto”, ha detto il consigliere comunale e regionale Alessandro Basso. Il progetto “A scuola per conoscersi” è stato approvato lo scorso dicembre in consiglio di istituto: pare che fossero assenti alcuni rappresentanti dei genitori. “Assente alla seduta in dicembre 2018 - Drigo aveva un impegno istituzionale. Vari genitori si sono rivolti ai rappresentanti collegiali per protestare”. Il dettaglio è sulla scelta personale. “Mio figlio - ha detto Drigo - parteciperà agli incontri del progetto e poi ne discuteremo a casa, insieme”. La resa dei conti ci sarà nella seduta del consiglio di istituto tra poche settimane, in marzo. Il bullismo omofobo - “I casi di bullismo omofobo sono in aumento nelle scuole: riceviamo segnalazioni di un fenomeno sommerso che spesso viene scambiato per altre forme di violenza - ha segnalato Giacomo Deperu ex presidente di Arcigay Friuli Venezia Giulia -. Alcuni genitori forse cavalcano l’onda di pregiudizi per fini ideologici: sbagliano. La paura è spesso figlia della disinformazione e in aula -conclude - il progetto è condotto da esperti psicologi”. Sempre presenti i docenti: lo ha assicurato la dirigente Lucia Cibin che di più non dice. “Oltre cinquanta studenti ogni mille sono gay e lesbiche nell’indagine campione 2013-2014 - ricorda Arcigay. Vittime di aggressioni verbali o fisiche in classe e nei corridoi”. Il progetto va avanti: 14 incontri per sette classi terze alla Lozer. Anche se i genitori si sono divisi proprio nell’imminenza del primo incontro. Ieri non è stato possibile ottenere un parere della dirigente della scuola. Rifugiati. Nonostante i rischi la Libia resta la principale destinazione Redattore Sociale, 22 febbraio 2019 Impact, in collaborazione con l’Unhcr, ha condotto un’analisi sui dati tra maggio e dicembre 2018. Nonostante i gravi pericoli e le opportunità economiche sempre più limitate per rifugiati e migranti, la Libia resta in cima alle destinazioni sia per lavorare che per transitare in Italia. La Tunisia tra le potenziali rotte future. Impact, in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ha condotto un’analisi longitudinale dei principali cambiamenti nelle rotte migratorie miste monitorate in Libia tra maggio e dicembre 2018, sulla base dei risultati di un primo studio sull’argomento condotto nell’aprile 2018. La valutazione si è concentrata sui cambiamenti nella mobilità dei rifugiati e dei migranti in Libia, con particolare attenzione all’Est e all’impatto di un aumento degli scontri violenti in alcune parti della Libia sulla mobilità all’interno del paese. Inoltre ha preso in esame la misura in cui la migrazione di rifugiati e migranti dalla Libia verso i paesi vicini è cambiata, come conseguenza degli sviluppi lungo la costa della Libia e dei continui rischi di protezione per rifugiati e migranti all’interno della Libia. Questi i principali risultati ottenuti: la valutazione ha rilevato che le rotte migratorie miste verso e all’interno della Libia non sono cambiate dall’aprile 2018. Mentre è stata registrata una diminuzione degli arrivi dal Niger, sembra esserci un aumento di rifugiati e migranti che entrano in Libia attraverso il Ciad. Per quanto riguarda i fattori di migrazione, sebbene i gravi rischi di protezione e le opportunità economiche sempre più limitate per rifugiati e migranti, le ragioni della migrazione in Libia di nuovi arrivati non sono cambiate, poiché la situazione nei paesi di origine non è migliorata. E ancora, l’emigrazione dalla Libia verso i paesi limitrofi è stata registrata come bassa, poiché gli intervistati continuano a ritenere che la Libia sia rimasta la destinazione più attraente per rifugiati e migranti nella regione, sia per lavorare che per transitare in Italia. Considerando le future destinazioni alternative nella regione, quella potenziale più segnalata per rifugiati e migranti nella regione è stata la Tunisia. Infine, solo uno su 90 rifugiati e migranti intervistati in Libia ha conosciuto personalmente qualcuno che ha lasciato la Libia per transitare in Marocco con l’obiettivo di raggiungere l’Europa attraverso la Spagna. I discount della droga, offerte e affari sul web di Francesco Lo Dico Il Mattino, 22 febbraio 2019 Ecco i siti dello spaccio online. Promozioni per i rivenditori: si paga 50 dollari per 24 pasticche di ecstasy in Bitcoin e PayPal, pacchi anonimi. Clicchi, metti nel carrello, compili il form d’acquisto: sul sito drugs.center.biz è tutto rapido ed efficiente. Per informazioni di ogni genere, basta aprire un ticket: i fornitori hanno tempi di reazione rapidissimi. E poi al cliente vengono fornite tutte le informazioni che gli servono: bastano 6,90 dollari per la consegna ordinaria a sette giorni, e 20 per quella espressa in una giornata lavorativa: ecco l’hard discount della droga su internet. Oggi su drugs-center.biz tira aria di festa per tutti: chi diventa reseller, e cioè rivenditore, ha diritto a uno sconto del 50 per cento su tutti gli stupefacenti in catalogo. Vediamo l’offerta, sormontata da una grafica accattivante. “Babe, take me with you”, dice una donnina avvenente al suo partner pronto a comprare per lei una “special night”. Di regali sorprendenti, ce n’è a caterva. La cocaina Bio, pura all’86 per cento, la porti via a 100 dollari al grammo. Ma se vai sulla quantità, il prezzo cala fino a 70, per crollare a 50 semmai ti venisse in mente di prendere parte al business, e aderire alla rete di spaccio. Se invece vuoi solo rallegrare un party con gli amici, niente di meglio: le pillole di ecstasy, di un accecante colore viola, le tirano dietro: poco più di 50 dollari per 24 pezzi. Altrimenti c’è anche lo speed: anfetamine pure a 5 euro al grammo. E per i più nostalgici c’è un grande classico degli anni 80 come la Brown sugar, l’eroina dall’inconfondibile color sabbia è prezzata a 50 dollari al grammo. Clicchi, metti nel carrello, compili il form d’acquisto: su drugs.center è tutto rapido ed efficiente. Per informazioni di ogni genere, basta aprire un ticket: i fornitori hanno tempi di reazione rapidissimi. La piattaforma ha del resto sede a Gibilterra, difficile impicciarsi per chi vuole saperne di più. E poi al cliente vengono fornite tutte le informazioni che gli servono: bastano 6,90 dollari per la consegna ordinaria a sette giorni, e 20 per quella espressa in una giornata lavorativa. Paura di essere beccati? I pusher di Gibilterra si dicono molto sicuri del fatto loro: “Invieremo i prodotti all’interno di altre cose, così che il pacco anonimo sfuggirà ai controlli e quel cretino del postino non cerchi di rubarti la roba”. E al sicuro sono anche i dati personali: “Vengono raccolti in un server virtuale e cancellati dopo la consegna”, assicurano i gestori nelle info. Peraltro puoi tracciare il tuo pacchetto come fosse un regalo di Amazon. E, naturalmente, si paga tutto in Bitcoin: sistema non tracciabile che mette al riparo acquirente e fornitore. Una rapida guida ti insegna come fare. Ma in alternativa, drugs-center accetta anche pagamenti con Western Union, MoneyGram e Ria. Tempo di saldi anche su buycocaineforsale.com, ebay americana della droga dove oggi, in occasione dei due anni di attività, porti via la roba con lo sconto del 20 per cento. Il copyright del sito è di sicuro impatto: “Buy Cocaine Online - Cartel de Medellin”. Ma qui il rapporto con il cliente è ancora più semplice e diretto: stampigliato in alto a destra c’è persino un numero Wathsapp dedicato, che per ovvie ragioni non vi forniremo. Imperdibile l’offerta sulla coca boliviana: 5 grammi al costo di 250 dollari. Ma per chi pensa più in grande c’è anche il classico mezzo chilo, che porti a casa con 7mila dollari. Per i rivenditori, margini di guadagno davvero prestigiosi. All’insegna dell’ormai diffusissima formula di rito: compri in bitcoin, ricevi a casa tua senza affanni in un tempo compreso tra i tre e i sette giorni. Sede ad Atlanta, ha ampia riconoscibilità anche buycokeonline.net, altro drugstore liberamente accessibile in rete. Anche in questo caso si accettano ormai soltanto pagamenti in Bitcoin, ma la piattaforma suggerisce un trucchetto semplice semplice: basta usare la propria carta di credito o il proprio PayPal per convertire in criptomoneta le proprie riserve. Il servizio sembra di qualità: per trasportare la roba, informa il sito, si ricorre a colossi come Tnt, Dhl e FedEx. E i prezzi davvero competitivi: 5 grammi di coca boliviana costano 235 dollari. In perfetto italiano, ma con sede in Olanda, anche un altro discount della droga come zamnesia. com. In carnet più di 3mila prodotti, che svariano dal kratom, potente smartdrug thailandese in Italia illegale, che al modico costo di 9,75 euro offre dieci grammi di sballo garantito, ma anche i tipici effetti collaterali del prodotto: delirio, tremori, aggressività, episodi di psicosi, allucinazioni e paranoia. Competitiva anche l’offerta sulla salvia divinorum, sostanza psicotropa vietata e inserita nelle tabelle ministeriali italiane nel 2005: solo 5 euro al grammo, per un potentissimo allucinogeno che, scrive l’Istituto superiore di sanità, ha tra gli effetti avversi “depressione, schizofrenia e flashback negativi simili a quelli riportati per l’Lsd”. Gettonatissime le “party pills”, ossia le pasticche da discoteca come la Energy E (“una spinta di energia con cui ballare tutta la notte”, assicura il sito) e Trip E: a base di Fibw - Argyreia nervosa, un potente allucinogeno naturale, che si compra in offerta a 9 euro e 35 per una confezione di quattro capsule. Qui però il cliente ha più opzioni: oltre ai Bitcoin, Zamnesia accetta la maggior parte delle carte di credito, bonifici bancari, e persino contanti in busta. Haiti in rivolta contro Moïse, corruzione e miseria di Claudia Fanti Il Manifesto, 22 febbraio 2019 Non si fermano le proteste antigovernative che chiedono le dimissioni del presidente. Almeno dieci le vittime della repressione. Proteste ininterrotte e sanguinosa repressione. E una gravissima crisi economica frutto di decenni di politiche neoliberiste. È quanto, dal 7 febbraio scorso, sta andando in scena ad Haiti, nel silenzio pressoché totale della grande stampa, troppo distratta dalla presunta crisi umanitaria del Venezuela. Già nell’ottobre 2018 e poi ancora, e con più decisione, a novembre, il popolo era sceso in piazza in tutto il paese contro la distrazione di oltre 3 miliardi di dollari dal fondo di Petrocaribe - il programma solidale lanciato nel 2005 dal governo Chávez per distribuire petrolio all’area caraibica - operata da ministri e funzionari legati in particolare al precedente governo di Michel Martelly. Ma anche, secondo alcune rivelazioni, da un’impresa allora amministrata dall’attuale presidente, Jovenel Moïse. Di fronte al rifiuto del governo di prendere sul serio la domanda posta allora per tutto il paese - “Dove sta il denaro di Petrocaribe?” - era solo questione di tempo che la ribellione esplodesse di nuovo, come puntualmente avvenuto il 7 febbraio, nel secondo anniversario dell’insediamento presidenziale di Moïse. Quella che era nata come una protesta anti-corruzione nel frattempo si è trasformata in una vera rivolta, con manifestazioni di centinaia di migliaia di persone in tutte le grandi città del paese, mirate esplicitamente alla rinuncia del presidente, con la motivazione, illustrata dal rappresentante della Brigata internazionale di Alba Movimientos ad Haiti Lautaro Rivara, che, se “non è accertato che Moïse sia un ladro, è sicuro però che sia a capo di una banda di ladri”. È una rivolta in cui hanno già perso la vita almeno dieci persone - ma c’è chi parla di oltre 50 vittime della repressione governativa - e che, in un paese in cui metà degli abitanti sopravvive con meno di due dollari al giorno, appare ulteriormente aggravata da un’esponenziale svalutazione della moneta locale, il gourde, rispetto al dollaro, da un’inflazione vicina al 15%, dalla scarsità di combustibile e dalla difficoltà di accesso ai beni essenziali. Moïse ha interrotto il silenzio solo dopo otto giorni di protesta, dichiarando alla televisione di aver “ascoltato la voce della gente”, ma respingendo l’ipotesi di un governo di transizione come richiesto dalle organizzazioni e dai partiti riuniti nel Settore democratico e popolare. E, chiedendo di “dialogare con tutte le forze del paese”, ha cercato anche di ingraziarsi le fasce più basse, promettendo misure dirette ad “alleviare la loro miseria”. Troppo poco e troppo tardi. Si sono fatti sentire anche gli Stati uniti, che, seguendo una strategia opposta a quella impiegata per il Venezuela, hanno elogiato il presidente per il suo richiamo al dialogo, insistendo sulla necessità di un negoziato con l’opposizione sui temi della politica economica e della lotta alla corruzione. Anche per Haiti, però, come per il Venezuela, l’amministrazione Trump lavora a un programma di assistenza umanitaria, per far fronte, dice, alle necessità delle fasce più povere in tema di sicurezza alimentare. Una politica di “aiuti” già sperimentata in passato, e con effetti catastrofici, dal popolo haitiano, essendo sfociata di fatto nell’occupazione del paese. Ruanda. Un anno fa la strage impunita dei rifugiati congolesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 febbraio 2019 Il 22 febbraio 2018 le forze di polizia del Ruanda aprirono il fuoco contro un gruppo di rifugiati congolesi che protestava di fronte all’ufficio dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) di Karongi e all’interno del campo di Kiziba. Due giorni prima centinaia di rifugiati avevano marciato per 15 chilometri dal campo di Kiziba fino alla sede dell’agenzia Onu per i rifugiati chiedendo che venissero ripristinati i sussidi o, in alternativa, di essere rimpatriati o trasferiti in un paese terzo. Nonostante fossero stati sollecitati a tornare indietro, i rifugiati rimasero a Karongi fino al 22, quando la polizia ruandese intervenne rovinosamente. Testimoni oculari riferirono che i rifugiati lanciarono sassi ma solo dopo che la polizia aveva cominciato a lanciare lacrimogeni in mezzo alla folla. Alla fine delle proteste, rimasero sul terreno privi di vita 11 rifugiati: otto a Karongi, altri tre a Kiziba. Nei mesi successivi vi furono altre sporadiche manifestazioni intorno a Kiziba, con altri feriti e un rifugiato deceduto dopo il ricovero in ospedale. A distanza di un anno da quei tragici fatti, nonostante le sollecitazioni dell’Unhcr e di Amnesty International, nessun agente delle forze di polizia del Ruanda è stato mai indagato. In compenso, almeno 63 rifugiati congolesi sono stati accusati di “organizzazione e partecipazione a una manifestazione illegale”, “violenza contro pubblico ufficiale” e “diffusione di notizie false allo scopo di creare un’opinione pubblica internazionale ostile nei confronti del governo ruandese”.