Sgravi contributivi per chi assume lavoratori detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2019 Le istruzioni in una Circolare dell’Inps. È stata pubblicata la circolare Inps n. 27 2019 con le istruzioni per la fruizione degli sgravi contributivi per l’assunzione di persone detenute o internate a seguito delle modifiche introdotte in materia dal decreto 24 luglio 2014, n. 148. Si tratta, ricordiamo, dei benefici contributivi previsti a favore delle cooperative sociali che impieghino persone detenute o internate negli istituti penitenziari, ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari, nonché delle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi, all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate. In accordo con il Ministero della Giustizia, a decorrere dall’annualità 2019, ai fini del riconoscimento dell’agevolazione contributiva, i datori di lavoro interessati dovranno presentare per ogni singolo anno un’istanza di ammissione al beneficio, sia per i rapporti di lavoro già in essere - anche se già autorizzati per gli anni precedenti che per quelli che verranno instaurati; l’ammissione al beneficio, ricorrendo tutti gli altri presupposti di legge, avverrà secondo l’ordine cronologico di presentazione delle istanze, fino a esaurimento delle risorse disponibili. La circolare illustra nel dettaglio le modifiche contenute nel decreto interministeriale citato e le modalità di accesso al beneficio contributivo, secondo le linee guida condivise con il Ministero della Giustizia. Si ricorda che lo sgravio contributivo è ammesso nell’ipotesi di assunzione di: detenuti e internati negli istituti penitenziari; ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, oggi Rems; condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge n. 354/ 1975 e successive modificazioni. Sono escluse le ipotesi di assunzione di condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione - come ad esempio per chi si trova agli arresti domiciliari. Lo sgravio contributivo spetta per le assunzioni con contratto di lavoro subordinato sia a tempo determinato che indeterminato, anche a tempo parziale, rapporti di apprendistato, lavoro intermittente e somministrazione di lavoro. La misura dell’agevolazione è pari al 95 per cento dell’aliquota contributiva complessivamente dovuta (quota a carico del datore di lavoro e del lavoratore), calcolata sulla retribuzione corrisposta al lavoratore. Il beneficio spetta per la durata del rapporto e fino a quando i lavoratori si trovano nella condizione di detenuti e internati. Inoltre, dal 20 agosto 2013, lo sgravio contributivo spetta anche per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo, a condizione che l’assunzione della persona sia avvenuta mentre questi era ammesso al regime di semilibertà o al lavoro esterno. “Prendiamoci la libertà”, la guida per chi sta per uscire dal carcere sossanita.org, 21 febbraio 2019 La mini guida che Antigone, grazie al supporto dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Roma, ha realizzato per i detenuti e le detenute che sono prossimi a fare il loro ritorno in libertà. Il momento del fine pena rappresenta per molti ex detenuti una fase di disorientamento e questa piccola guida si pone l’intento di fornire informazioni semplici e di aiuto immediato. La guida si occupa anche di problemi burocratici legati al mondo del lavoro, al sussidio in caso di disoccupazione e agli eventuali strascichi che una detenzione si porta con sé. Due sezioni sono dedicate alle questioni aperte con carcere e giustizia, dalle spese di mantenimento alla richiesta, nella maggior parte dei casi trascorsi tre anni dalla fine della pena, della riabilitazione penale. Inoltre vi sono contenute informazioni utili per ottenere documenti di identità, certificati anagrafici e anche per trovare un medico di famiglia”. Infine, soprattutto per quanto riguarda la città di Roma, sono riportati degli indirizzi utili in caso di necessità primarie, come un pasto caldo, un posto per dormire o un centro che possa affrontare il problema della dipendenza da sostanze. Polizia penitenziaria: suicidi in aumento di Rosalba Trabalzini* ius101.it, 21 febbraio 2019 A Sanremo la scorsa settimana, presso l’istituto penitenziario di Valle Armea, uno dei sovraintendenti capo della Polizia Penitenziaria si è tolto la vita sparandosi con la pistola in dotazione. Con questo ultimo suicidio abbiamo raggiunto quota 57 negli ultimi tre anni, ovvero una media di 19 ogni anno o meglio ancora di 3 casi ogni due mesi. Questi numeri sono inaccettabili, sono numeri che debbono far riflettere, in primis il capo del Dicastero di Grazia e Giustizia, il dicastero da cui dipende il corpo di Polizia Penitenziaria. Ho cercato di indagare al fine di comprendere le cause che sono alla base dell’elevato numero di suicidi da parte del Corpo di Polizia Penitenziaria. Mi sono permessa di fare una attenta analisi perché sono dieci mesi che lavoro come psichiatra all’interno di uno dei 195 istituti penitenziari sparsi sul nostro territorio nazionale. Ovviamente, il mio ruolo è quello di prestare attenzione alla prevenzione del malessere che può condurre un persona reclusa al suicidio e all’intervento terapeutico sulla patologia psichiatrica, se questa si rende necessaria. Dal mio posto di osservazione privilegiato ho avuto modo di osservare dall’interno il grande disagio in cui devono districarsi gli agenti delle strutture carcerarie. Il disagio non è solo dovuto alla carenza di personale, inevitabilmente per coprire i turni di servizio, l’avvicendamento è così stretto da non lasciare del tempo per un recupero psico-fisico ottimale. Tra le cause di elevato disagio, ci sono anche i vari presidi che noi psichiatri assegniamo ad alcuni detenuti che riteniamo debbano essere attenzionati. Possiamo, infatti, applicare l’istituto della sorveglianza a vista, ovvero - One-to-One - dove l’agente non deve mai perdere di vista la persona che riteniamo a rischio di atti auto ed etero lesivi. E’ questo un servizio altamente stressante a livello psichico, perché purtroppo, il singolo agente sorvegliante si trova ad affrontare non solo un soggetto che potenzialmente può fare di tutto, ma persone che si sono macchiate di reati per il quale la colpa potrebbe superare il normale decorso dei pensieri e quindi, diventare spettatore davanti all’imprevedibilità umana. L’ulteriore presidio è quello della Grandissima Sorveglianza, il soggetto deve essere controllato ogni 15 minuti. Si evince quanto questi presidi siano ad altissima fonte di stress senza attuare un recupero più che valido. Alcune indiscrezioni sulle cause di questo ultimo suicidio dicono che forse il timore di soffrire di un male incurabile potrebbe aver determinato l’estremo gesto dell’ispettore. Personalmente sostengo che forse, sì, la paura potrebbe aver stimolato l’estremo atto, ma perché come tutti gli agenti che hanno in dotazione un’arma di servizio, ovvero, essere sottoposti regolarmente ad una serie di accertamenti psico-fisici di controllo, non venga applicata anche al corpo di Polizia Penitenziaria? So che è previsto un controllo di idoneità ogni due anni. Il timore di una possibile malattia oncologica da sola non è sufficiente a determinare una decisione così importante, deve aver giocato una buona parte del lavoro l’elevato carico di stress lavorativo e come conseguenza deve essersi attivata una forma depressiva su base reattiva. Se fossero previste delle visite programmate per accertare l’idoneità al possesso di un’arma, si potrebbero intercettare eventuali sofferenze psichiche a cui porre rimedio, ma soprattutto, si sarebbero evitati i tanti suicidi che, guarda caso, sono quasi tutti avvenuti con l’arma di ordinanza. Allarmante disagio psichico Ho iniziato la mia attività lavorativa nel pubblico dietro le sbarre di un ospedale psichiatrico come infermiera, attività che porterò a termine dietro le sbarre di un istituto penitenziario come psichiatra. Nel lontano 1969, quando misi piede per la prima volta nel pad. 15 del Santa Maria della Pietà il disagio psichico era del corpo infermieristico che di fatto doveva accudire, senza avere a disposizione i farmaci antipsicotici di oggi, i pazienti psichiatrici. Gli unici oggetti in nostro possesso erano le grandi chiavi apriporta e delle forbici per tagliare eventuali lacci stretti intorno alle aree vitali. Alla mole di lavoro quotidiano, sedici ore su ventiquattro tutti i giorni senza riposo settimanale, si aggiungevano le angherie delle suore preposte al nostro controllo, dando direttive che nulla avevano a che fare con la gestione della malattia mentale. Il germe del nostro disagio veniva avviato dalle colleghe “anziane” e si esplicava attraverso l’oppressione sulle novizie per superare, attraverso l’effetto rivalsa, la difficoltà del sentirsi inermi davanti ad un sistema dissociante per il quale nessuno aveva risposte idonee. Oggi, nel 2018, svolgo la mia professione di psichiatra a tempo presso un istituto penitenziario. Il mio contatto, non solo con i detenuti ma soprattutto con il corpo di polizia penitenziaria, mi ha indotto a leggere con più attenzione quello che emerge tra il popolo costretto a vivere dietro le sbarre, indifferentemente se per lavoro o per detenzione obbligata. Troppo spesso vedo il disagio affiorare tra gli agenti che si susseguono nei vari ruoli a cui vengono adibiti e aver letto di un agente, di soli trenta anni, che si è tolto la vita lo scorso 12 agosto nel parcheggio carcere di San Gimignano con la pistola di ordinanza, mi ha incuriosito. Ho cercato quindi di documentarmi se altri agenti avessero tentato suicidio ed ho scoperto che non solo ci sono stati altri suicidi tra il corpo di polizia penitenziaria ma, negli ultimi tre anni, questi sono stati ben cinquantacinque! Quasi tutti gli agenti hanno utilizzato l’arma di ordinanza per dire addio alla vita. E proprio nel capire come funziona la valutazione a proposito della detenzione di un’arma, con grande meraviglia ho scoperto che coloro che fanno parte delle forze dell’ordine non vengono mai sottoposti ad un controllo periodico dello stato di salute sia fisica sia psichica a meno che non venga richiesta da un superiore. Sono fermamente convinta che chiunque abbia in dotazione un’arma per lavoro dovrebbe essere sottoposto ad un controllo per la propria e altrui incolumità almeno ogni due anni. A maggior ragione questo controllo dovrebbe essere attuato agli agenti di polizia penitenziaria, sono loro ad essere il corpo più esposto allo stress, non solo per i turni di lavoro a cui sono sottoposti a causa dell’organico sottodotato, ma soprattutto per la qualità e quantità dei detenuti che, purtroppo, affollano i nostri istituti penitenziari. Non possiamo di certo ignorare che sono aumentati i detenuti a cui devono essere offerte le cure per tossicodipendenze varie oltre a tutte le problematiche connesse all’aumento dei pazienti psichiatrici in arrivo, effetto della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. E’ questa forse la sfida più grande a cui il corpo di polizia penitenziaria è chiamato a dare risposte di accudimento. Di fatto, non avendone le competenze gestionali, sono chiamati a svolgere attività di supervisione quando noi psichiatri, ad esempio, diamo come indicazione la sorveglianza vista. In questo caso l’agente non deve mai perdere di vista il paziente per l’intera durata del suo turno di lavoro - One-to-One - nella singola cella o la grandissima sorveglianza con controlli ogni quindici minuti. Ecco gli agenti sono stati proiettati, loro malgrado a fare le stesse identiche mansioni con cui ho iniziato io ben cinquant’anni fa, scontrandosi di fatto con la patologia mentale senza averne la benché minima competenza. Tutto quanto evidenziato, inevitabilmente è fonte di disagio più o meno intenso a tutti i livelli tra coloro che lavorano e vivono la vita negli istituti di detenzione: - Gli agenti - non sono preparati a questa nuova e stressante realtà che inevitabilmente si ripercuote sulle loro vite e non solo sul posto di lavoro. Purtroppo, pur lasciando la divisa nello stipetto dello spogliatoio e lavato via l’odore della struttura, non riescono a depositare il peso dello stress, portando di fatto il doloroso bagaglio anche all’interno della propria famiglia; - I pazienti detenuti con diagnosi di malattia mentale o tossicodipendenza - restringendoli in cella non si fa altro che accentuare lo stato mentale già compromesso dalla patologia in atto, ragione per cui l’angoscia rasenta limiti tali da compromettere ulteriormente lo stato mentale generando crisi crepuscolari fino al suicidio; - I comandanti del corpo di polizia penitenziaria - unico corpo di polizia non in carico al Ministero degli Interni come tutti gli altri ma al Ministero della Giustizia, che si trovano a gestire situazioni fuori dall’ordinario penitenziario e soprattutto a loro poco conosciute, pur adoperandosi per cercare soluzioni adeguate; - I commissari degli istituti penitenziari - personale non in forza al corpo di polizia penitenziaria pur gestendone le competenze, sono dipendenti civili del Ministero della Giustizia, che si trovano a dover gestire la salubrità sia fisica sia mentale oltre all’economia dell’intera popolazione dell’istituto penitenziario a loro affidato. *Psichiatra Male non fare, ma molta paura avere di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 febbraio 2019 La pessima frase di Albamente (ex Anm) smentita dai numeri di malagiustizia. In un’intervista alla Stampa in margine al caso dei coniugi Renzi, il magistrato Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm (corrente Area ed ex Md), si è lasciato dal sen fuggire un’affermazione grave dal punto di vista della civiltà giuridica e inoltre infondata sotto il profilo dei fatti. Dopo affermazioni degne della magistratura politicizzata d’altri tempi, e battute su un esponente politico, Renzi, che un magistrato potrebbe evitare (“Mi sembra si stia ritagliando spazi più che altro nel mondo della cultura”), Albamonte ha detto: “La verità è che per non avere la magistratura tra i piedi, bisognerebbe non delinquere”. Un mediocre calco della dottrina Davigo, “esistono solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti”, che racchiude un’idea inquisitoria della giustizia incompatibile con una concezione liberale del diritto. E soprattutto destituita di fondamento, anzi falsa, in Italia. Bastano i numeri. Il presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario qualche settimana fa ha presentato dati incontrovertibili: un imputato ogni tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico. Si può ipotizzare “la cifra monstre di un milione e mezzo di indagati, arrestati, intercettati, interrogati, pur essendo innocenti, che attendono in media quattro anni per sottrarsi all’incubo di un’inchiesta penale che coincide con una persecuzione”, ha scritto sul Foglio Alessandro Barbano. Il sito errorigiudiziari.com riporta le storie, accertate, di 756 persone vittime di errori giudiziari. Altri numeri: dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Mef) al 30 settembre 2018 si sono registrati oltre 27.200 casi, un migliaio all’anno di custodie cautelari indebite, per una spesa di 740 milioni di euro in indennizzi. Quanto agli errori giudiziari, dal 1991 al 2017 i risarcimenti ammontano a oltre 46 milioni. Male non fare, paura non avere? Purtroppo ci sono centinaia di migliaia di cittadini innocenti che hanno dovuto, e devono, avere paura dell’ingiusta, e pure costosa, giustizia italiana. Garantisti a corrente alternata di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 21 febbraio 2019 Tutto già visto a partire da Tangentopoli e dalle iniziali lodi sperticate per Di Pietro. Marco Pannella era così coerente da essere garantista fino in fondo, gli altri così così. “All’ordine “Facite Ammuina!” tutti li garantisti che stanno a prora vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora…”. La parodia della più celebre delle “Ordinanze generali della Real Marina del Regno delle Due Sicilie” (a sua volta considerata un falso storico), parodia scelta dall’Opinione delle Libertà per deridere il marasma intorno al “garantismo a targhe alterne”, fotografa come meglio non si potrebbe le contraddizioni su un tema spinosissimo. Sono decenni, infatti, che le inchieste giudiziarie sono prese a pretesto per scontri politici dominati da fazioni quasi indifferenti alla colpevolezza o all’innocenza degli imputati. Basti ad esempio, prima ancora di Mani Pulite e delle risse successive, il voto che spaccò la Camera negli anni Cinquanta sul caso di Giovanni Battista Giuffré, il “banchiere di Dio” che, “assolte” per un soffio le banche coinvolte nella truffa, se la cavò ritirandosi in un convento. Sempre lì: innocentisti contro colpevolisti. Sicurissimi gli uni e gli altri che la verità stia dalla parte loro. Come oggi. Il voto contro il processo a Salvini e insieme la scelta di non infierire sui genitori di Renzi erano per il Cavaliere una scelta obbligata, dopo tanto tempo speso a sbandierare il garantismo contro i nemici accusati di giustizialismo. E l’ha fatta. In linea di massima, però, siamo sempre al vecchio andazzo. Il proprio “reo”, fosse anche colpevole, lo è comunque meno dell’altrui. Due pesi e due misure. Tutto già visto, a partire da Tangentopoli e dalle iniziali lodi sperticate per Tonino Di Pietro. Con Berlusconi che diceva “le mie televisioni sono al suo servizio”, Gasparri che gioiva “è mejo del duce”, Bossi che urlava “vada avanti a tutta manetta” e D’Alema che spiegava “conosco Di Pietro per una strana coincidenza: ci siamo simpatici” e via così finché gli uni e gli altri non si accorsero che le inchieste finivano per toccare non solo i rispettivi “nemici” ma un po’ tutti. Il passaggio dagli elogi ai distinguo e alle critiche più feroci fu rapidissimo. Non è facile, come ricordava Marco Pannella, così coerente sui suoi principi da “convocare” pubbliche assemblee di parlamentari spaventati dalle toghe, essere garantisti fino in fondo. Lui lo era, altri così così. Si pensi a cosa diceva uno che oggi è fuori dei giochi ma allora contava molto, Gianfranco Fini: “Basta col garantismo, basta con questa larva di Stato impotente, basta con la legge che premia i delinquenti e abbandona i cittadini onesti”. Per non dire di una vecchia scheda di adesione a Forza Italia: “Dichiaro 1) di non avere carichi pendenti 2) di non aver ricevuto avvisi di garanzia 3) di non essere stato e non essere sottoposto a misure di prevenzione”. Parole alla Beppe Grillo, diremmo oggi. Lo stesso Grillo che nel 2016 esultava sul suo blog per le manette a un sindaco: “Un arrestato al giorno toglie il Pd di torno. Domani a chi tocca? Sono aperte le scommesse”. L’accusato era colpevole o innocente? Boh... “Il garantismo ci deve essere nei confronti dei cittadini: devono aver la garanzia assoluta che chi li governa non è un corrotto e non li deruba. Con il Pd questa garanzia non c’è, al contrario: hai la certezza che non sarà così”. Non meno spiccio su garantismo è stato in tempi recenti Luigi Di Maio. Come quando, dopo la video-inchiesta di Fanpage.it sui rifiuti che coinvolgeva Roberto De Luca, figlio del governatore campano, lo additò su uno schermo così: “Voglio farvi vedere il volto degli assassini politici della mia gente”. Inchiesta, processo, condanna: tutto fatto. Senza manco un voto Rousseau... C’è poi da stupirsi se oggi il ministro della giustizia Alfonso Bonafede assicura che sul voto pro-Salvini “non c’è stata alcuna svolta garantista” come se il garantismo lo infastidisse? Sia chiaro: anche la sinistra ha maramaldeggiato per anni sui grillini, sui rimborsi, sui sindaci di Quarto o di Bagheria, su Virginia Raggi chiamata a dimettersi per vicende giudiziarie dalle quali sarebbe uscita assolta, sui lavoratori in nero di Antonio Di Maio, sui guai societari del padre di Alessandro Di Battista e via così. Senza badare mai troppo alla gravità delle colpe. Al che i democratici ribatteranno che già prima che irrompessero i grillini, erano già stati tirati in ballo dalle destre in scandali come quello di Telekom Serbia (ricordate le accuse a “Mortadella”, “Cicogna” e “Ranocchio”?) finiti con l’archiviazione. Chi è senza peccato, su questo versante, scagli la prima pietra. Non parliamo dei lamenti sulla “giustizia a orologeria”. L’ultimo, l’altra sera, è stato Matteo Renzi: “Non grido ai complotti ma la vicenda dei miei genitori ha totalmente oscurato tutto ciò che è accaduto ieri nel mondo della politica. Un capolavoro mediatico, tanto di cappello”. Quante volte avevamo sentito denunce simili, negli anni, lanciate dal Cavaliere (“Io sono il maggiore perseguitato dalla magistratura di tutte le epoche, nella storia degli uomini, in tutto il mondo”) e dai partiti di destra? Quante? Ecco, davanti all’ennesima puntata di un tormentone che, a prescindere dai protagonisti, va avanti da troppi anni, sarebbe ora che il nostro paese vivesse queste cose in maniera diversa. Distinguendo. Guardando i fatti. Le leggi. Le carte processuali. Non schierandosi di qua o di là a priori. E non vale solo per chi governa. Ma anche per tutti quegli italiani che sulla Rete si spaccano in fazioni incattivite, biliose e volgari. Contribuendo a rendere l’aria troppo spesso irrespirabile. Caro Renzi, il garantismo del Pd ha troppe pause... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 febbraio 2019 Carissimo senatore Renzi, ho scritto su questo giornale, nei giorni scorsi, che considero sproporzionata l’iniziativa della magistratura contro i suoi genitori, e che non riesco a non vedere in quegli arresti un’azione evidentemente politica ed evidentemente rivolta contro di lei. Penso che ciò sia grave. Come sono state altrettanto gravi, in passato, altre iniziative dei Pm. Ho apprezzato la sua reazione, che ho trovato ragionevole ma al tempo stessa netta e fiera. E’ stata la reazione di un garantista. Personalmente sono convinto della necessità che la sinistra ritrovi la sua anima garantista. Purtroppo io credo che la sinistra italiana abbia delle radici che la legano al giustizialismo, radici che hanno origine nel vecchio stalinismo di 40 anni fa, e che poi si sono rafforzate negli anni della lotta al terrorismo e, successivamente, negli anni di “Mani pulite”, quando i magistrati assunsero il monopolio della moralità, dell’etica, dell’autorevolezza, radendo al suolo il prestigio della politica. E tuttavia è sempre esistito un pezzetto di sinistra (quello socialista, quello liberale e in piccola misura anche quello cristiano e persino quello comunista) che non ha mai pensato di potere barattare lo Stato di diritto con dei vantaggi politici, o elettorali. Lei naturalmente può farmi osservare che la sua formazione politica ha avuto poco o niente a che fare col “tronco” giustizialista della vecchia sinistra, e neppure con il “tronchetto” girotondino degli ultimi vent’anni. È vero. Ma non è di questo che voglio discutere. Voglio solo farle osservare che il comportamento del Pd, anche in questi ultimi anni, è stato assai altalenante. E che forse - io dico: senza forse - è giunto il momento di criticare apertamente quegli atteggiamenti, e di dare un taglio netto alle tradizioni super- legalitarie e autoritarie. Mi riferisco a episodi di alcuni anni fa, che però sono stati molto gravi, ma anche ad avvenimenti più recenti. Il Pd, ad esempio, si schierò per il varo della legge Severino, che non è una legge garantista e che assegna un potere esorbitante alla magistratura, e poi si schierò per la sua applicazione retroattiva, giungendo a determinare l’espulsione dal Parlamento del capo dell’opposizione. Cosa mai avvenuta nel dopoguerra. Quel giorno i senatori dei 5 Stelle esposero uno striscione di tipo fascista: “Fuori uno, tutti a casa”, che riecheggiava il famoso discorso di Mussolini sul “bivacco di manipoli”: non ricordo che il suo partito insorse. Il Pd sollecitò qualche mese dopo le dimissioni del ministro Lupi e poi della ministra Guidi, che pure non erano nemmeno stati indagati, ma travolti dai giornali, dai 5 Stelle e dalle fughe di notizie (intercettazioni prive di qualunque valore penale) permesse da pezzi della magistratura e cavalcate, fuori da ogni etica professionale, dai giornalisti. Ricorderà sicuramente i colloqui assolutamente privati tra la ministra Guidi e il suo fidanzato, sbattuti in prima pagina. Fu un’infamia, lo sa: un’infamia. Non ci fu reazione del Pd, e Guidi fu scaricata. Si dimise. Come era stato scaricato, qualche mese prima, il segretario del partito in Campania, Stefano Graziano, che poi fu assolto da tutto - proprio da tutto - ed ora credo che sia commissario del Pd in Calabria. In Parlamento il Pd ha votato molte volte a favore dell’arresto di deputati o senatori avversari, o persino alleati. Penso all’arresto del senatore Caridi, deciso quattro giorni dopo l’invio da parte della magistratura di una richiesta lunga 4000 pagine, e dunque deciso senza defezioni e senza che nessuno avesse letto neppure un centinaio di quelle pagine. Un anno dopo la Cassazione disse che l’arresto non era legittimo, ma il Parlamento non se ne era accorto, e neanche il Pd. E’ stato così con Minzolini, anche lui buttato fuori dal Senato, col voto del Pd, dopo che un giudice lo aveva condannato e senza che nessuno avesse niente da dire sul fatto che questo giudice era stato in precedenza un deputato del centrosinistra, avversario politico di Minzolini. Alcuni senatori del Pd si dissociarono. Ma il resto del partito fu compatto. Mi fermo qui, ma l’elenco potrebbe continuare per diverse pagine. Voglio solo fare un accenno all’ultimo caso, e cioè al voto contro Salvini. Ho letto l’intervista del presidente del Pd all’Huffington Post e in gran parte la condivido. C’è un punto però che non posso accettare: la distinzione tra il caso Renzi e il caso Salvini. E’ chiaro che nel caso dei suoi genitori quel che colpisce è la sproporzione del provvedimento. Quanta gente è stata messa in custodia cautelare per il sospetto di due o tre fatture gonfiate? Forse mai nessuno. Giusto. Ma secondo lei non c’è nessuna sproporzione nel chiedere che il ministro Salvini sia processato per sequestro di persona, come i banditi sardi negli anni sessanta o la banda della Magliana? E’ evidente la sproporzione che rende lampante il valore politico, e non giudiziario, delle accuse. E allora perché il Pd non ha votato contro l’autorizzazione a procedere? Per non assomigliare a Berlusconi, accusato spesso di volersi difendere dai processi e non nei processi? Senatore, guardi che io penso tutto il male possibile delle politiche di Berlusconi (e ancora molto, molto più male di quella di Salvini) ma sul terreno del garantismo, Berlusconi è stato sempre coerente e imparziale, e se si vuole essere davvero garantisti non c’è niente di male ad imitarlo. Anzi, è necessario. Ieri, in un’intervista concessa a Paola Sacchi, la senatrice Stefania Craxi (che è la figlia di uno statista che fu malmenato dalla giustizia) l’ha invitata a dare un taglio netto col vecchio giustizialismo della sinistra. Ha ragione la senatrice Craxi. La ascolti. In questi giorni ho letto molte dichiarazioni di esponenti del Pd che difendono lei e accusano i leghisti. Chiedono perché la magistratura si accanisca coi suoi genitori e perdoni Salvini per la Diciotti o per i 49 milioni. Possibile che non si riesca a esprimere il proprio garantismo senza chiedere punizioni per gli altri? Possibile che anche il Pd debba restare imprigionato in quel livello infimo della polemica, tipico dei 5 stelle, che suona così: “E allora gli altri?” Senatore, il garantismo è uno solo: uno. Non ammette pause, non ha variabili. Se il garantismo accetta un’eccezione muore. Non esiste più. Vale per San Francesco e per Riina. Il garantismo pone lo stato di diritto al di sopra di tutto, impone che lo stato di diritto non sia negoziabile, non possa essere emendato, corretto, limitato, adattato alle circostanze. E’ difficile, per un politico, essere garantista: ma è necessario, se vogliamo che la modernità sia uno sviluppo della civiltà e non una sua sospensione. Lei è in grado di imporre questa svolta? E’ in grado di promettere che non userà mai più la leva della giustizia e del moralismo come strumento di lotta politica? Di giurare che la grande lezione di Aldo Moro - penso proprio al Moro del discorso a difesa della Dc sulla Lockheed e poi al Moro delle lettere dal covo delle Br - diventerà la sua bussola? Io ci spero. Le toghe contro i dem: “la giustizia non è mai a orologeria” di Davide Varì Il Dubbio, 21 febbraio 2019 L’Anm replica alle accuse del Pd: “non facciamo mai politica, applichiamo solo la legge”. “È inammissibile parlare di giustizia a orologeria”. Le toghe della magistratura stavolta si sentono sotto attacco. Sotto attacco anche da chi, fino a ieri, le difendeva dalle incursioni di una parte, molto minoritaria per la verità, della politica. E a colpire i magistrati sono state soprattutto le parole durissime pronunciate dai dem renziani nelle ore successive la notizia dell’arresto dei genitori dell’ex premier. “Questo arresto è allucinante in uno Stato di diritto”, tuonava ancora fino a ieri Matteo Orfini. “La giustizia in questo Paese è malata”, faceva eco Roberto Giachetti. Per non parlare dei messaggi della chat del “Giglio magico” resi pubblici dall’Huffington Post: un diluvio di proteste contro “l’arroganza e dei magistrati” e “l’abnormità” delle misure cautelari. Insomma, di fronte a questa valanga il sindacato delle toghe non poteva non intervenire. E lo ha fatto ieri con un comunicato firmato dalla giunta dell’Anm al gran completo: “L’azione della magistratura non si arresta mai e non è mai rivolta a una contingenza politica o a favorire o danneggiare una parte politica”. E poi: “Ogni giorno la magistratura emette migliaia di provvedimenti e non è accettabile parlare di interventi orientati, mediaticamente pilotati o aventi finalità politiche”. I provvedimenti della magistratura, continuano i vertici del sindacato delle toghe, “hanno sempre un unico obiettivo, la tutela dei diritti dei cittadini, senza distinzioni. Non possiamo dire che sono giuste quando trovano il nostro gradimento o che sono politiche quando non ci piacciono, i magistrati non svolgono un’azione politica, ma applicano rigorosamente le leggi dello Stato. È giusto fare chiarezza su questo - conclude l’Anm - perché vogliamo evitare dannosi tuffi in un passato che non vogliamo più rivivere e interrompere un refrain che rende una cattivo servizio ai cittadini”. Ma una reazione forte e decisa arriva anche dai consiglieri del Csm di AreaDG, Giuseppe Cascini, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro, i quali puntano dritti alle parole di sfogo pronunciate da Matteo Renzi il quale, nel sottolineare la “strana coincidenza temporale” tra il voto dei 5Stelle per il processo a Salvini e l’arresto dei suoi genitori, ha parlato senza mezzi termini di “capolavoro mediatico”. Insomma, secondo l’ex premier l’arresto dei suoi genitori sarebbe servito a coprire l’operazione di salvataggio di Salvini. Un’accusa inaccettabile per le toghe di Area, che scrivono: “Siamo convinti che i provvedimenti giudiziari possano e debbano essere commentati e anche criticati. Non è accettabile però che, come spesso capita, vengano strumentalizzati nel dibattito politico”. E ancora: “Siamo preoccupati per taluni commenti che suggeriscono che la applicazione di una misura cautelare domiciliare nei confronti dei genitori di Renzi sia stata un “capolavoro mediatico” o sia dovuta all’impegno politico del figlio”. I togati di Area rilevano quindi che “spesso la magistratura è stata accusata di interferire nel dibattito politico; per prevenire questo rischio - concludono converrebbe evitare che le vicende giudiziarie vengano ogni volta colorate di finalità politica”. E nella battaglia tra toghe e i dem si è inserita anche Forza Italia che proprio ieri ha ripresentato un cavallo di battaglia berlusconiano: la legge sulla separazione delle carriere. “Il testo - ha spiegato Paolo Sisto - prevede distinti concorsi, due organi di autogoverno, uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante, e la modifica della composizione dei membri elettivi dei due istituendi CSM rispetto a quello esistente”. “I pm, quindi, continueranno ad essere magistrati e a godere delle garanzie di autonomia e indipendenza, ma apparterranno a un ordine giudiziario distinto da quello dei giudici”. Giulia Bongiorno: “Legittima difesa a marzo. A Roma non vedo cambi di marcia” di Simone Canettieri Il Messaggero, 21 febbraio 2019 Ministro Giulia Bongiorno, sulla legittima difesa teme i tranelli del M5S in Aula? “No, ho rapporti frequenti con il ministro Bonafede e sono più che serena. Per noi della Lega, è anche una questione di coerenza. In campagna elettorale abbiamo parlato tanto di questo provvedimento. Inoltre, è proprio di questi giorni la storia di un uomo aggredito che dovrà scontare 4 anni e mezzo di pena, mentre il suo aggressore solo 10 mesi”. Quindi quando diventerà legge? “Entro marzo la legittima difesa vedrà la luce. Oltre a essere equilibrata sarà un faro per chi indaga: quando l’aggredito si trova in una condizione di turbamento e si difende non è punibile. I magistrati potranno prendere in considerazione lo stato psicologico della vittima, per evitargli così la via crucis del processo penale”. Non c’è il rischio che si crei un far-west? “No, non è una legge che arma il popolo italiano, non è una licenza d’uccidere. È la prima legge che si occupa in modo serio delle vittime”. Ma è sicura che servirà da deterrente? “Sì, chi delinque valuta anche i rischi e la legislazione vigente. E quindi sapere che lo Stato italiano si sta schierando a favore delle persone aggredite sarà un segnale importante”. C’è chi dice che così si arriverà a un Paese armato fino ai denti e con una giustizia fai da te. “Falsità, è un testo incisivo che limita l’eccessiva discrezionalità della magistratura nei confronti di chi reagisce in uno stato di paura”. Le famiglie che si sentono indifese non è detto che così saranno più sicure, non trova? “Questo è un altro punto interessante: in passato c’era un tessuto sociale diverso, c’erano famiglie patriarcali, composte da numerose persone. Ora non è più così, e questa legge servirà anche a equilibrare questi mutamenti della società. E comunque nella legge abbiamo utilizzato il verbo “respingere”, non è un attacco al nemico”. A che punto è la riforma del processo penale? “Con Bonafede ci siamo visti tre volte, adesso il ministro sta facendo una serie di approfondimenti coinvolgendo avvocatura e magistratura. Sarà una legge delega, spero che possa vedere la luce al più presto, ma sarà lui ad annunciarne i tempi. La mia funzione è soltanto quella di fornire il punto di vista della Lega”. Qual è il punto qualificante affinché non ci sia l’effetto bomba atomica con lo stop alla prescrizione? “Nei processi penali esiste una fase, quella delle indagini preliminari, sulla quale secondo me si deve intervenire con delle correzioni. Ci sono reati che già durante le indagini si prescrivono. Il tempo delle indagini preliminari deve essere utilizzato per fare indagini: troppo spesso ci sono tempi morti. I fascicoli non possono sostare per mesi sulle scrivanie. Stesso discorso poi per la fissazione delle udienze. Le sto facendo due esempi, ma i passaggi sono tanti e i tempi morti pure: ecco, bisogna toglierli”. Rivedrete anche l’uso delle intercettazioni? “Di questo non ne abbiamo parlato”. La Lega appoggerà il ddl sulla separazione delle carriere dei magistrati presentato da Forza Italia? “Da parte nostra c’è interesse e condivisione, senza preclusioni. Però dobbiamo ricordarci che in questa fase noi siamo su un binario, e dobbiamo tener conto degli impegni che abbiamo assunto nel contratto di governo. Per me la separazione è un segno di civiltà, sicuramente”. Sul caso Diciotti alla fine ha vinto la linea Bongiorno: niente processo per Salvini. “Non è così. Per andare a processo, il vicepremier Matteo Salvini avrebbe dovuto mentire agli italiani, perché avrebbe dovuto dire alla Giunta che non c’era un interesse pubblico e che aveva agito per interesse personale. La legge è chiara: se c’è interesse pubblico manca l’antigiuridicità. Era impossibile dire votate contro di me. Tuttavia, se processato Salvini sarebbe stato sicuramente assolto, anche se forse tra dieci anni”. Da donna di diritto non le ha creato imbarazzo assistere a una votazione su Rousseau su questo tema? “È nel Dna dei grillini, questo continuo contatto con i loro militanti, può piacere o non piacere. È una modalità che hanno usato in passato. Personalmente non ho questa ansia di ricercare sempre il confronto con l’elettorato”. C’è stato un 41% di voti favorevoli all’autorizzazione: è un dato su cui anche voi dovete riflettere? “A me sembrava evidente che non ci fosse un interesse privato di Salvini, non conosco il percorso logico di questo 41%, a me sembra difficile da argomentare il contrario”. Matteo Renzi, a proposito dell’inchiesta sui genitori, esprime fiducia nella magistratura ma parla di tempistica sospetta: non è un ossimoro? “Non esprimo pareri su una vicenda giudiziaria da ministro e senza conoscerne le carte, però un tema che non fa parte del contratto di governo, ma su cui bisognerebbe intervenire, è quello delle misure cautelari. La detenzione prima del processo non può essere la prassi, semmai dovrebbe essere il contrario. In Italia c’è stata un’inversione totale: siccome i processi sono lunghi, spesso si ricorre alla misura cautelare. Non va bene”. I rapporti di forza dentro la maggioranza stanno cambiando? “Salvini ha fatto presente che non sarà un sondaggio a fargli cambiare atteggiamento: siamo rispettosi dei patti”. Rispetto a un anno fa i pesi si sono invertiti. “C’è una crescita di fiducia, penso all’Abruzzo, e credo sarà confermata in Sardegna ma anche alle Europee, perché siamo concreti: dalla legittima difesa all’immigrazione, stiamo portando avanti cose che dicevamo in campagna elettorale. La gente aveva paura di Salvini, ma adesso si sta rendendo conto che è una persona concreta. Non condivido chi dice che c’è un demerito dei grillini, anche perché il governo è comunque fatto da due forze politiche”. Chiudiamo con Roma: come trova la Capitale? “Ora non voglio litigare con la sindaca, eh. Ho incontrato più volte Raggi, nei limiti di quanto può fare il mio ministero c’è la massima collaborazione”. Ma? “Io sono molto innamorata di Roma e vorrei vederla risorgere. Invece per adesso non c’è un cambio di marcia, purtroppo” Separazione delle carriere, la proposta di legge arriva alla Camera di Liana Milella La Repubblica, 21 febbraio 2019 Sulla giustizia una nuova grana per la maggioranza. Il testo di iniziativa popolare è in commissione a Montecitorio. Tra i firmatari, ai banchetti, un anno fa c’era anche Salvini. Fi è in pressing per l’approvazione. La Lega è favorevole. Ma i 5Stelle già si oppongono. Matteo Salvini a Lucca, un anno e mezzo fa, piegato sul tavolino proprio mentre sta per firmare la legge di iniziativa popolare sponsorizzata dalle Camere penali per separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, e dividere pure in due il Csm. In maniche di camicia, bianca ovviamente, il leader della Lega si poggia sul tavolino dove campeggia il manifesto degli avvocati e dov’è scritto in bella evidenza “separazione delle carriere” con tanto di vignette. Un autografo, ed è fatta. Un trofeo di certo per Giandomenico Caiazza, il presidente dei penalisti che adesso segue con ansia la sorte della sua legge, appena approdata alla Camera, nella commissione Affari costituzionali in quota Forza Italia, e sicuramente destinata ad aprire nuove frizioni tra Lega e M5S. Perché il Carroccio - non solo con Salvini, ma con tutto il partito, ad esempio il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni - è favorevole a tenere distinta la strada di chi fa il giudice da chi invece sceglie di essere un pubblico accusatore. Tutta all’opposto la filosofia dei grillini, tant’è che nel contratto di governo non c’è traccia della separazione. Se ne discusse a quel tavolo, ma il niet pentastellato fu reciso. Ma la foto resta, e ieri, a margine della commissione, più di un leghista ricordava proprio la firma di Salvini al banchetto degli avvocati a Lucca. E mentre dal Senato Berlusconi inneggia alla separazione delle carriere - lui che, quand’era al governo, per farlo ha tentato di cambiare la Costituzione - alla Camera il suo responsabile Giustizia Enrico Costa punzecchia i leghisti. “Il fatto che, su iniziativa delle Camere Penali, questa proposta di legge sia stata sottoscritta da decine di migliaia di cittadini - dice Costa - dimostra quanta sensibilità ci sia nel Paese su questo tema. Forza Italia c’è, ci auguriamo che la Lega, oltre a firmarla, la voti anche”. Come spiega in commissione il relatore Francesco Paolo Sisto, anche lui avvocato come Costa, “cambia anche l’obbligatorietà dell’azione penale, attribuendo alla legge la determinazione dei casi e dei modi del suo esercizio”. Una vera e propria sfida che può aprire una concreta breccia dentro il partito di Salvini che da sempre vede di buon occhio i giudici distinti dai pm, due Csm, due carriere indipendenti in cui non sia possibile passare da una parte all’altra. I grillini, a cominciare dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, la pensano all’opposto. E non è certo un caso se il presidente della Camera Roberto Fico abbia deciso di lasciare la legge nella sola commissione Affari costituzionali, sottraendola alla commissione Giustizia, la cui presidente di M5S Giulia Sarti di certo non vuole separare le carriere. Niente permesso per i funerali della figlia allo stragista di Piazza della Loggia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2019 Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. “Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità”, sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come “nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella”. E poi: “Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio”. Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. “Non condivido la decisione - ha spiegato Milani - di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia”. Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. “Ci sono occasioni - ha concluso Milani - per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati”. Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: “Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa”. Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni 60 e 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice Tritone. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente. Omicidio stradale, non è automatica la revoca della patente al colpevole di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2019 Più spazio alla valutazione del giudice nell’omicidio stradale. La revoca della patente infatti non deve essere l’automatica conseguenza del reato, ma deve scattare solo se la condotta è stata aggravata dall’assunzione di alcol o stupefacenti; in tutti gli altri casi l’autorità giudiziaria dovrà valutare la gravità della condotta, decidendo, eventualmente, di applicare la più lieve sanzione della sospensione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale in una sentenza i cui contenuti sono stati anticipati ieri da un comunicato. A questo giudizio di parziale illegittimità dell’articolo 222 del Codice della strada, la Consulta ha però accompagnato una valutazione positiva del divieto per il giudice di bilanciare con l’attenuante le aggravanti della guida in stato di ebbrezza o sotto l’influsso di droghe. Le questioni erano state sollevate da una pluralità di uffici giudiziari che avevano messo in evidenza una serie di punti critici della normativa introdotta 3 anni fa. Il tribunale di Torino aveva ricordato che l’articolo 222 prevede che, nei casi di condanna o di applicazione della pena dopo patteggiamento, per i reati di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi, anche dopo la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, deve essere sempre applicata la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, con il divieto conseguente di ottenerne una nuova prima che siano passati 5 anni. L’ufficio piemontese aveva denunciato l’irragionevolezza della previsione quando, senza possibilità di graduazione, sottopone alla medesima sanzione accessoria situazioni, quali le lesioni stradali gravi o gravissime e l’omicidio stradale, la cui diversità è invece attestata dalla notevole differenziazione delle sanzioni penali, graduate in funzione di un diverso disvalore sociale. Se questo aspetto della pronuncia va nella direzione di un recupero di margini di valutazione da parte della magistratura, in direzione diversa va la decisione sull’altro punto affrontato che ha invece promosso la riforma. Il Gup di Roma aveva sollevato la questione di legittimità con riferimento in particolare alla circostanza attenuante prevista, per il reato di omicidio stradale, dal comma settimo dell’articolo 589-bis del Codice penale, per il quale “qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole la pena è diminuita fino alla metà”. Attenuante che però il successivo articolo 590 quater del Codice penale vieta di considerare prevalente o equivalente rispetto alle aggravanti (come la guida dopo avare assunto droghe o alcol) nei reati di omicidio stradale e lesioni stradali. Un divieto, sosteneva il Gup, che impedisce al giudice la possibilità di valutare nel caso concreto la prevalenza della diminuente rispetto alle aggravanti, con conseguente aumento sproporzionato di pena anche nel caso di percentuale minima di colpa dell’imputato. Il trattamento sanzionatorio così delineato dalla riforma del 2016 contrasterebbe inoltre con il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. Stalking, il rigetto dell’istanza di ammonimento deve essere motivato Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2019 Consiglio di Stato - Sezione III -Sentenza 15 febbraio 2019 n. 1085. “Il rigetto dell’istanza di ammonimento presentata ai sensi dell’articolo 8, d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 deve essere motivato”. Questo il principio espresso dalla III sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 15 febbraio 2019 n. 1085. La Sezione ha premesso che l’ammonimento orale, previsto dall’articolo 8, del Dl 23 febbraio 2009, n. 11 è una misura deputata a svolgere una funzione avanzata di prevenzione e di dissuasione dello stalking, i comportamenti sanzionati dall’articolo 612-bis cp. Ai fini della sua emissione, pertanto, non è richiesta la piena prova della responsabilità dell’ammonito per le ipotesi di reato perseguite dal menzionato articolo 612-bis cp, ma il provvedimento monitorio può trovare sostegno in un quadro istruttorio da cui emergano, anche sul piano indiziario, eventi che recano un vulnus alla riservatezza della vita di relazione o, su un piano anche solo potenziale, all’integrità della persona. Anche all’ammonimento, infatti, deve applicarsi quella logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo probabilistico che, come la Sezione ha ribadito di recente (Consiglio di Stato, sezione III, 30 gennaio 2019, n. 758), informa l’intero diritto amministrativo della prevenzione. Ciò premesso, la Sezione ha chiarito che l’ammonimento è un provvedimento discrezionale chiamato ad effettuare una delicata valutazione delle condotte poste in essere dallo stalker in funzione preventiva e dissuasiva, e deve quindi essere adeguatamente motivato ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990. Mai come per i provvedimenti aventi natura preventiva e anticipatoria l’obbligo di motivazione è essenziale nel nostro ordinamento ad evitare che detti provvedimenti, fondati su fattispecie di pericolo, sanzionino in realtà, arbitrariamente, una colpa d’autore e integrino, così, altrettante “pene del sospetto”. Correlativamente, però, anche i provvedimenti, essi pure discrezionali, con cui l’autorità amministrativa ritenga insussistenti i presupposti per l’emissione delle misure preventive devono essere debitamente motivati, ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, affinché non siano immotivatamente frustrate le esigenze di tutela della collettività e, nel caso delle misure di cui all’articolo 8, del Dl n. 11 del 2009, dei singoli. Daspo a chi affigge manifesti contro la polizia anche non durante le partite di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 20 febbraio 2019 n. 7648. Il Daspo amministrativo contro un tifoso può essere emesso anche per uno striscione affisso in prossimità dello stadio e non in concomitanza di una partita di calcio. La Corte di cassazione con la sentenza n. 7648 ha confermato ieri la convalida del Gip di un provvedimento del questore di Roma. Il caso - Il Daspo era stato emesso a seguito del fermo e dell’identificazione di una persona che aveva affisso in prossimità dello Stadio olimpico, la sera successiva alla disputa di una partita Lazio-Milan, uno striscione di un metro per dieci con su scritto “01.03 Stefano Furlan! Acab Lazio”. Acab è notoriamente - dice la Cassazione - l’acronimo dell’espressione inglese All cops are bastard. Dunque per la Cassazione l’accostamento del nome e della data di morte, per mano della polizia, di un tifoso della Triestina con un’espressione fortemente offensiva verso i poliziotti sono sufficienti a integrare un incitamento alla violenza in un dato ambiente sociale. La difesa - La difesa del tifoso colpito dal Daspo sosteneva, invece, che - al massimo - si poteva intravedere nell’affissione del manifesto un atto denigratorio verso le forze dell’ordine e ciò non è presupposto che legittima l’adozione del provvedimento del questore. Un comportamento che, al di là dell’eventuale rilevanza penale, non integrerebbe la condotta di chi inneggia, incita o induce alla violenza. Il rischio potenziale - La sentenza smentisce la lamentata assenza dei presupposti per l’adozione del Daspo sotto diversi profili. Ma soprattutto mettendo al centro i comportamenti che costituiscono un volano di violenza e spiegando che sono rilevanti tutti quelli che per la percezione in un dato ambiente ne sono potenzialmente generatori. La potenzialità è la chiave di volta che fa cadere anche tutti gli altri rilievi come quello di trovarsi al di fuori dello stadio e non esserci concomitanza con lo svolgimento dell’evento sportivo. Infatti, spiega la Cassazione che - anche a causa della prassi di solidazi tra tifoserie di diverse squadre - l’atto di evocare un episodio in cui era stato ucciso un tifoso dalle forze dell’ordine mentre cercavano di sedare gli scontri verificatisi in occasione di una partita tra Triestina e Udinese nel 1984 rinnovava quel sodalizio e lo faceva attraverso un attacco diretto contro la Polizia. Ciò che è potenzialmente idoneo a provocare nuovi scontri o azioni dirette di esponenti delle curve contro i poliziotti. Nessun obbligo per il giudice di procedere al colloquio personale con il richiedente asilo Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2019 Straniero - Richiesta di protezione internazionale - Colloquio personale - Obbligo nei procedimenti di impugnazione - Non sussiste - Esame del fascicolo, del verbale o la trascrizione del colloquio - Sufficienza. L’obbligo di consentire al richiedente di sostenere un colloquio personale prima di decidere sulla domanda di protezione internazionale, grava esclusivamente sull’autorità amministrativa incaricata di procedere all’esame della domanda e non si applica quindi ai procedimenti di impugnazione. Il giudice dell’impugnazione può quindi decidere di non procedere all’audizione se ritenga sufficiente allo scopo il semplice esame del fascicolo, ivi compreso il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in primo grado. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 5 febbraio 2019 n. 3236. Straniero - Richiesta di protezione internazionale - Colloquio personale - Obbligo nei procedimenti di impugnazione - Non sussiste - In caso di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti. Se nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione territoriale dinanzi all’autorità giudiziaria quest’ultima, in mancanza della videoregistrazione, fissa l’udienza per la comparizione delle parti, nessun profilo di nullità è ravvisabile per la mancata audizione personale del richiedente asilo, non prevista dall’articolo 35 bis del dlgs n. 25 del 2008 né dal sistema processuale civilistico a pena di nullità, restando affidato al potere discrezionale del giudice di merito di valutare se tale incombente si configuri di qualche potenziale utilità, al fine di acquisire elementi di convincimento per la decisione. • Corte di cassazione, sezione I civile, ordinanza 13 dicembre 2018 n. 32319. Straniero - Richiesta di protezione internazionale - Audizione personale del richiedente - Obbligo nei procedimenti di impugnazione - Non sussiste - Eccezione di illegittimità costituzionale - Art. 35 bis d.lgs. n. 25 del 2008 - Per mancata previsione dell’obbligo di audizione - Manifesta infondatezza. E’ manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale l’art. 35 bis d.lgs. n. 25 del 2008, per la mancata previsione dell’obbligatorietà dell’audizione del richiedente asilo, da parte del giudice, stante la ragionevolezza della norma la quale prevede che il ricorso al tribunale sia preceduto da una fase amministrativa nella quale l’istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraverso il colloquio dinanzi alle Commissioni territoriali, composte da personale specializzato. • Corte di cassazione, sezione I civile, ordinanza 13 dicembre 2018 n. 32318. Straniero - Richiesta di protezione internazionale - Colloquio personale - Obbligo nei procedimenti di impugnazione - Non sussiste. In mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve senz’altro fissare l’udienza di comparizione delle parti, a pena di nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso per inidoneità del procedimento adottato in violazione del principio del contraddittorio. Ciò, beninteso, non vuole automaticamente dire che si debba anche necessariamente dar corso all’audizione del richiedente. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 5 luglio 2018 n. 17717. Calabria: Ruffa (Radicali) ai consiglieri regionali “nominare il Garante dei detenuti” cn24tv.it, 21 febbraio 2019 I membri dell’associazione Radicale Nonviolenta hanno inviato una lettera ai Consiglieri regionali per chiedere di eleggere subito il Garante Regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà. “Dopo anni che come militanti del partito radicale ne segnalavamo l’urgenza, l’Assemblea del Consiglio Regionale della Calabria approvava la legge regionale 29 gennaio 2018, n. 1 “istituzione del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. È trascorso più di un anno e alla lodevole iniziativa scaturita dalle proposte di legge dei presidenti Irto e Sergio non è seguita ancora l’elezione del garante”. E’ quanto si legge in un comunicato stampa di Rocco Ruffa, già componente del comitato nazionale di Radicali italiani, tesoriere dell’Associazione Radicale Nonviolenta Abolire la miseria-19 maggio. “Per questo - si legge ancora nella nota - con Giuseppe Candido e Mina Welby, rispettivamente segretario e presidente dell’associazione Radicale Nonviolenta Abolire la miseria 19 maggio di cui mi onoro di essere tesoriere, abbiamo inviato una lettera congiunta ai consiglieri regionali per chiedere che questa importante figura sia subito eletta” - spiega la nota. “In un clima securitario - conclude Ruffa - che l’attuale compagine governativa e i mezzi di informazione non fanno altro che alimentare appare indispensabile un sussulto di responsabilità che rimetta al centro dell’azione politica la difesa e la tutela dei diritti umani a cominciare dagli “ultimi” della società che la figura del garante regionale è chiamato a svolgere in maniera autonoma dalla magistratura, dalla amministrazione penitenziaria e dal governo”. Genova: giovane detenuto muore in cella, era arrivato da poche ore Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2019 Un ragazzo di 22 anni, italiano, detenuto nel carcere di Marassi a Genova, è stato trovato morto ieri mattina in cella. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Secondo la ricostruzione, il giovane - che era arrivato in carcere solo poche ore prima nel pomeriggio di martedì - ieri è stato trovato senza vita nel suo letto. “È l’ennesima tragedia nel carcere di Marassi - sottolinea Michele Lorenzo, segretario ligure del Sappe - Oltre al dolore per l’ennesima giovane vita stroncata dietro le sbarre questa morte getta inquietanti interrogativi sul come sia possibile che un ragazzo così giovane possa morire poche ore dopo l’ingresso in una struttura pubblica come il carcere. Alla Procura il compito di fare luce su queste misteriose morti mentre l’Amministrazione penitenziaria assiste impassibile ed inerme collezionando l’ennesima sconfitta”. Il sindacato denuncia ancora l’allarme personale: “La polizia penitenziaria in Liguria è carente di 300 unità e in un carcere come Marassi, con 750 detenuti su 548 posti, è impossibile da continuare a gestire la situazione”. Trento: rivolta in carcere, gli indagati sono ottantacinque di Dafne Roat Corriere del Trentino, 21 febbraio 2019 Contestati i reati di violenza a pubblico ufficiale, incendio e danneggiamento. Sono ottantacinque i detenuti indagati nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla Procura dopo i disordini avvenuti nel carcere di Spini a Trento lo scorso 22 dicembre. In poche ore i detenuti avevano messo sotto sopra numerose sezioni. Ingenti i danni. Trenta indagati, massimo quaranta: erano solo le prime stime. Sembrava già un numero importante, ma nel corso delle indagini è cresciuto e ora sono saliti a 85 i detenuti, di cui la maggior parte (38) di origini tunisine, poi ci sono marocchini, albanesi, ma anche italiani, accusati di aver partecipato alla rivolta del 22 dicembre scorso. In poche ore il carcere era stato messo a ferro a fuoco, intere sezioni erano state danneggiate, alcune sono tuttora inservibili. È difficile dimenticare quelle ore di lunghe trattative all’interno della casa circondariale di Spini di Gardolo e l’estenuante attesa dei familiari che aspettavano all’esterno, con i bambini nei passeggini e per mano, nella speranza di poter far visita al loro familiare. Ora è tornata la quiete in carcere, ma il conto della giustizia non è ancora arrivato. E sarà pesante. Nei giorni scorsi, infatti, è stato notificato agli 85 detenuti l’avviso di conclusione indagini firmato dal procuratore Sandro Raimondi e dal sostituto Antonella Nazzaro. Nell’atto d’accusa vengono contestati i reati di danneggiamento, incendio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni, mentre la Procura ha deciso di non procedere per il reato di sequestro di persona ipotizzato in un primo momento per il blitz nella lavanderia. Quando gli animi erano più surriscaldati e la tensione era ormai alle stelle alcuni detenuti avevano rinchiuso in lavanderia un dipendente impedendogli di uscire dal locale. In realtà pare che i detenuti volessero semplicemente rinchiudersi per evitare il momento più critico della sommossa. Nell’indagine, condotta dalla polizia penitenziaria, si ricostruiscono i momenti salienti della rivolta scoppiata dopo la notizia, lanciata da un detenuto impiegato nell’ufficio interno conti correnti, della morte di Sabri El Adibi, il trentaduenne di origini tunisine che si è tolto la vita in cella. Un gesto estremo avvenuto a pochi mesi dalla libertà che ha scatenato la reazione dei compagni. Sono dieci, di cui la maggior parte di nazionalità tunisina e marocchina, i presunti promotori della sommossa individuati dalla Procura. Sarebbero stati loro a guidare la rivolta iniziata verso le 8.30 del mattino nella sezione G. Tutto era cominciato con una semplice battitura dei cancelli, un atto di protesta tipico nei carceri. Mentre l’eco del ferro battuto diventava sempre più assordante un manipolo di cinque detenuti hanno incitato la rivolta. Erano le 9.10 del mattino, solo l’inizio della sommossa. Il passo successivo è stato l’incendio di una saletta ricreativa della sezione F. Le fiamme e il fumo iniziavano a invadere la sezione quando altri due detenuti con un asticella di metallo hanno spaccato una telecamere. Poi è stata la volta delle plafoniere e delle luci. In poche ore la rivolta ha coinvolto anche le sezioni F al primo piano, poi al secondo la G e la H. Piatti e bombolette lanciate, le minacce. Sono state solo l’inizio, in poco tempo la guerriglia ha assunto importanti proporzioni, sedata solo dopo una lunga giornata di trattative. I danni sono ingentissimi. Ora le difese, che sono già al lavoro, avranno venti giorni di tempo per presentare le controdeduzioni. Siena: il Garante dei detenuti “celle piccole e servizi igienici inadeguati” quinewssiena.it, 21 febbraio 2019 Il Garante dei detenuti e il difensore civico regionale hanno incontrato il sindaco Luigi de Mossi per un confronto sulle problematiche del carcere. Prosegue l’attività sinergica fra il garante dei detenuti e il difensore civico regionale per la tutela dei diritti, particolarmente mirata alla tutela delle persone deboli e svantaggiate. Lunedì 18 febbraio, Franco Corleone e Sandro Vannini hanno visitato la casa circondariale di Siena e successivamente hanno incontrato il sindaco Luigi De Mossi, per un confronto sulle problematiche del piccolo Istituto di Siena. “Come rilevato nel corso della visita - si legge in una nota del Consiglio regionale - la struttura del carcere, che è vetusta, presenta celle molto piccole e con servizi igienici inadeguati”. “Grazie al lavoro degli operatori, alla direzione del carcere, alla polizia penitenziaria e alle educatrici - prosegue la nota del Consiglio regionale - nell’Istituto è garantito un buon livello di attività scolastiche e culturali: la scuola media superiore, una biblioteca funzionante, una produzione teatrale e una produzione di libri scritti dai detenuti. La criticità maggiore è relativa all’assistenza sanitaria: i detenuti lamentano che non è assicurata la continuità terapeutica in quanto sono affidati a un medico di guardia che cambia ogni giorno”. “Il sindaco - riferiscono il garante e difensore civico - ha assicurato l’intenzione di nominare un garante dei diritti dei detenuti per il carcere di Siena”. Infine, sarebbe in fase di sottoscrizione un protocollo per impegnare alcuni detenuti in lavori di pubblica utilità sul verde urbano. Salerno: Zarrillo (Cim) “la Rems nel carcere è diventato un luogo di potere” di Tommaso D’Angelo Cronache di Salerno, 21 febbraio 2019 “La legge Basaglia ha rovinato la psichiatria, totalmente”. Non usa mezzi termini il professore Antonio Zarrillo, direttore del centro di igiene mentale di Salerno intervenuto dopo l’incontro tenutosi ieri mattina, a Palazzo di Città, “Una legge per i matti: quarant’anni dopo Basaglia”. “E’ stato possibile chiudere i manicomi perché nello stesso periodo uscì un farmaco, l’aloperidolo, che permise di gestire i pazienti molto facilmente”, ha poi aggiunto Zarrillo secondo cui il farmaco sarebbe tossico, pur portando risultati immediati. “Quella legge chiuse il manicomio ma queste persone furono affidate, successivamente, alle unità operative di salute mentale. Persone che, ad oggi, vivono nelle stesse condizioni ma nelle varie strutture convenzionate, presenti su tutto il territorio”. Dottore, quante sono le cliniche di cui parla? “Sono tantissime. E loro si divisero i pazienti che sostano in queste cliniche, diverse dal manicomio. E fu anche un affare. Alcuni di loro furono messi nella struttura di Contursi che poi si incendiò e per questo nasce il centro a Mariconda, un dono di Berlusconi. Il manicomio fu chiuso e sono nate le cliniche private convenzionate”. Quali sono le difficoltà che, secondo lei, devono fronteggiare le cliniche private? “E’ più o meno un manicomio, anzi anche peggio perché non ci sono questi grandi giardini. Ma non è colpa dei proprietari delle cliniche private che li ospitano e quando non si possono gestire e non ci sono le famiglie che le seguono, spesso finiscono nelle cliniche private, con un costo altissimo. Alcuni passano lì tanti anni altri vengono dimessi e poi rientrano. La cosa peggiore di questa legge è che loro hanno avuto un atteggiamento negativo verso i farmaci, utilizzandoli come ultima risorsa, affidandosi alla famosa riabilitazione e in effetti questi pazienti vivono nelle case con i familiari e situazioni terribili a causa di questa presenza ingestibile di queste persone affette da seri disturbi. Noi non facciamo altro che assisterli dall’esterno e il manicomio è stato rimesso nelle case”. Dottore, dell’Opg cosa dice? “L’Opg aveva solo un compito quello di ricoverare pazienti pericolosi ed è stato chiuso senza criterio e questi pazienti pericolosi oggi o sono in carcere o in quelle pochissime Rems che dovrebbero essere sorvegliate per legge dai vigili urbani”. A Salerno la Rems è presente solo al carcere… “Si, solo al carcere o si ricoverano le persone presso cliniche convenzionate come riserva, che ospitano i pazienti più gestibili, cronici ma non hanno nulla a che vedere con l’idea della Rems che dovrebbe invece essere un luogo di recupero. Il presidente italiano dell’associazione psichiatri Opg disse “siamo a rischio camorra” perché queste Rems vengono utilizzate in modo strano da camorristi. Noi ogni settimana dovremmo seguire queste persone e io dovrei seguire personaggi di rilievo. Basaglia era un grande uomo ma gli eredi sono indegni”. Ad oggi, la Rems al carcere è una struttura che funziona o ci sono difficoltà oggettive? “A Salerno, stranamente, è stata affidata ad una struttura esterna al dipartimento di salute mentale che gestisce Pagano e noi con lui non abbiamo alcun tipo di rapporto, non potendo entrare in carcere. Io mi ritrovo ad avere richieste di un mio paziente e non posso visitarlo personalmente. I finanziamenti sugli Opg sono notevoli ma questo budget viene gestito in modo autonomo. E’ un luogo di potere”. Reggio Calabria: biblioteca e carcere, un cantiere di attività formative e culturali cmnews.it, 21 febbraio 2019 Prende vita il progetto condiviso tra l’Amministrazione comunale e la Direzione dell’Istituto Penitenziario di Reggio Calabria - Arghillà, oggetto della convenzione approvata dalla Giunta municipale con delibera n° 57/2018. l’Assessore Irene Calabrò, alla presenza del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Avv. Agostino Siviglia ed accompagnata dal personale della Biblioteca Comunale “P. De Nava”, ha dato avvio al programma delle attività, accolti dal Direttore della Casa circondariale di Reggio Calabria e dai Funzionari Maria Pollino e Domenico Speranza. La convenzione, sottoscritta dal Comune - Biblioteca comunale “P. De Nava” e dalla Direzione della Casa circondariale di Reggio Calabria - Arghillà, prevede l’instaurarsi di un solido rapporto di collaborazione tra i due Enti teso a trasformare la Biblioteca del carcere da luogo di conservazione dei libri in “cantiere di formazione” per attività culturali e informative, il tutto nel rispetto delle misure di sicurezza adottate dall’istituto penitenziario. L’Ordinamento penitenziario stabilisce, infatti, che presso ogni istituto debba essere organizzato un servizio di biblioteca, anche attraverso intese con biblioteche e centri di lettura pubblici. La presenza di una biblioteca in ogni istituto penitenziario italiano è prevista dagli articoli 12 e 19 della L. 354/1975 e, secondo l’art. 21 del regolamento di esecuzione (D.P.R. 230/2000), i libri e i periodici a disposizione della biblioteca devono garantire “una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società, assicurando ai soggetti in esecuzione di pena un agevole accesso alle pubblicazioni presenti in biblioteca, oltre alla possibilità di consultare altre pubblicazioni mediante l’attuazione di specifiche intese con biblioteche e centri di lettura pubblici”. Il personale comunale, coordinato dall’Assessorato alla Valorizzazione del Patrimonio culturale, supporterà i detenuti incaricati della gestione della biblioteca del penitenziario facilitando l’apprendimento delle tecniche di catalogazione e di revisione del patrimonio documentario. All’interno della Casa circondariale la Biblioteca comunale, oltre a prestare i testi del proprio patrimonio, promuoverà lo scambio interbibliotecario ed incrementerà la dotazione libraria della biblioteca penitenziaria. Il Comune per l’occasione ha consegnato circa 200 volumi alla Direzione della casa circondariale per l’avvio del progetto. “Si tratta di un’iniziativa significativa - dichiara l’Assessore Irene Calabrò - che arricchisce la nostra Biblioteca e supporta la Direzione del carcere a dotare l’Istituto di un servizio che può essere di grande aiuto al percorso di inclusione sociale dei detenuti creando uno spazio utile a superare l’isolamento e la deprivazione culturale. Riteniamo fondamentale promuovere il valore della cultura come strumento per il recupero sociale delle persone sottoposte ad esecuzione di pena e porteremo avanti progetti che possano facilitare anche il recupero del rapporto genitoriale all’interno delle mura carcerarie attraverso il progetto Nati per Leggere già attivo presso la Biblioteca De Nava. Leggere non può essere un privilegio riservato a pochi: è un diritto universale della persona sancito dalla Carta del Lettore ed è un’opportunità da favorire anche nell’interesse collettivo mediante appositi servizi pubblici. Su richiesta del Direttore si è concordato di estendere le attività oggetto della convenzione anche al Plesso San Pietro”. Trieste: incontro con la scrittrice Nevia Iud presso la Casa circondariale di Elisabetta Burla Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2019 Il 23 febbraio 2019 ad ore 10.00 Nevia Iud presenterà il libro “Lo scialle a rete” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - in sinergia con la Direzione della locale Casa Circondariale. “Lo scialle a rete” offre uno spaccato della condizione femminile e della maternità - in particolare - nella Trieste e territori limitrofi dei primi del 900. L’autrice affronta, con uno stile narrativo scorrevole e incisivo, le complicate decisioni prese da alcune madri, soprattutto provenienti dai bassi ceti, di abbandonare il proprio figlio neonato presso le strutture ospedaliere perché frutto di una violenza subita o perché la drammatica povertà impediva la possibilità di sfamare la nuova creatura. Emerge dal racconto la scarsa considerazione - da parte della società - della donna, e dei minori spesso avviati precocemente al lavoro. L’Autrice descrive con analisi attenta lo stato d’animo, lo struggimento della/delle madri costrette dalle vicende esterne ad assumere una decisione così difficile e straziante. La mano tesa da un’ostetrica permette alla protagonista del libro di riflettere sulla decisione e maturare una nuova e più consapevole considerazione di sé, della maternità e della condizione femminile. I temi affrontati sono ancora drammaticamente attuali: spesso la gravidanza, ora come allora, viene nascosta ai familiari, spesso la decisione di abbandonare il proprio figlio è molto sofferta, spesso l’abbandono è atto di estremo amore, un’offerta di sopravvivenza e un’aspettativa di vita migliore nella speranza di potersi ricongiungere. Un incontro culturale e sociale, una riflessione importante sulla vita e la responsabilità. Napoli: a Forcella carcere e diritti dei detenuti nello spettacolo “Il capocella” La Repubblica, 21 febbraio 2019 Il mondo carcerario arriva a Forcella e lo fa attraverso il palcoscenico. L’appuntamento è per sabato 23, a partire dalle 10.30, a Piazza Forcella, in via Vicaria vecchia 23. Nella struttura dove ha sede la Biblioteca “Annalisa Durante” si svolgerà lo spettacolo “Il capocella”, tratto dal romanzo di Vincenzo Russo, autore della drammaturgia del testo, la cui regia è affidata a Costantino Punzo. La storia, che vede sul palco Peppe Carosella, Flavio D’Alma, Emanuele Iovino (che è anche assistente alla regia), Carlo Paoletti, Melania Pellino e Francesco Rivieccio racconta le sfortunate vicende criminali di Claudio, costretto a delinquere in seguito a un’adolescenza difficile e a un impossibile inserimento nel mondo del lavoro. Fino al momento in cui la sua vita s’interseca a quella di Teodoro, un “capocella”, termine con il quale si è soliti definire, in gergo carcerario, il detenuto con più anzianità detentiva in quella cella. Claudio e Teodoro però sono anche accomunati dalla consapevolezza di essere due persone in realtà estranee al malaffare, finite nel carcere di Poggioreale solo a causa di particolari circostanze fortuite. Anche per questo, tra i due nel tempo nasce un sincero rapporto di amicizia e affetto, per cui il capocella sarà in grado di cambiare in meglio la vita di Claudio. L’arte dunque come spunto di riflessione sul carcere. Intorno al tema dei detenuti e dei loro diritti discuteranno, prima della messinscena, rappresentanti delle istituzioni e dell’associazionismo: il deputato Paolo Siani, il consigliere regionale Gianluca Daniele, l’assessore comunale alla Cultura Nino Daniele; il sindaco di San Giorgio a Cremano Giorgio Zinno, il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Riccardo Polidoro, la direttrice del carcere di Poggioreale Maria Luisa Palma, il direttore del carcere minorile di Nisida Gianluca Guida, il direttore della Pastorale carceraria don Franco Esposito; il presidente dell’associazione “Annalisa Durante” Giuseppe Perna; il presidente dell’associazione “Gioco di squadra” onlus Carmela Esposito; l’attivista per i diritti dei detenuti Pietro Ioia. Santa Maria Capua Vetere (Ce): una giornata speciale per detenute di Alta Sicurezza larampa.it, 21 febbraio 2019 “Ieri, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le 64 detenute del reparto Senna di alta sicurezza hanno vissuto una giornata speciale, grazie all’iniziativa del Garante e del Rotary club Posillipo di Napoli, che hanno vita ad una iniziativa conviviale che ha consentito alle detenute delle due sezioni di potersi incontrare, cucinare e mangiare insieme”. E’ quanto rende noto il Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. Hanno partecipato il presidente del Rotary club Posillipo Paolo Giugliano con una forte delegazione di rotariani, la vice direttrice Mariella Parenti, il comandante Gaetano Manganiello, L’educatrice di reparto Giovanna Tesoro e diversi ispettori e commissari dell’Istituto. Per il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, “le detenute, a prescindere dal reato meritano un’attenzione particolare così come in parte si fa già in quest’istituto grazie a laboratori di sartoria e ricamo, e un centro estetico. Sono convinto che reinserire loro sia nella società che hanno offeso che nella famiglia che hanno fatto soffrire per i loro errori, sia importante per “bonificare” l’intero ambiente dove abitano. Una detenuta che evita la recidiva, è un passaggio di crescita per la società e per migliorare la qualità della famiglia, dei propri figli e dell’intero ambiente nel quale andranno a rivivere”. Pesente a queste iniziative di promozione umana e di solidarietà il magistrato di sorveglianza Marco Puglia che nel suo intervento ha detto tra l’altro: “Condividere il pasto è un modo concreto di comunione, uno strumento di confronto. L’iniziativa promossa oggi è un grande segnale. Viviamo tempi in cui si parla di separazione, di non accoglienza, non tutte le persone nella società vivono questo distacco e questa indifferenza e la presenza di tanti volontari oggi dimostra che la società nella quale viviamo è più accogliente di quello che sembri. Il mio è un ringraziamento agli organizzatori. L’augurio a voi detenute: valorizzate questi gesti e queste iniziative”. Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 21 febbraio 2019 Ciò che non è riuscito - pur avendoci provato - a molti governi precedenti, è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio Radicale. Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio, questo stesso quotidiano. Poiché sono i mezzi a prefigurare i fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti. Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando. È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano “conoscere per deliberare”. Da un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà voce a ogni voce; “dentro, ma fuori dal Palazzo”. Un ossimoro radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da ovunque, per tutti, direttamente. Così è stata fin dalle origini. Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica, consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati. Se è la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal 1975. La sua probabile chiusura - come quella delle testate che seguiranno - segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce, dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici selfie. Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e del futuro. Il suo archivio è il più grande tabernacolo audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da chiunque. Sappiamo da Orwell che “chi controlla il passato, controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro”. Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori. Qui lo stop all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente. Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come? Il cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il probabile. “La stampa serve chi è governato, non chi governa”. Corte Suprema degli Stati Uniti, 30 giugno 1971. Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio Radicale? Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa ad hoc? Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi, dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del pluralismo informativo? Il film The Post, citando la Corte Suprema, ha ricordato a tutti che “la stampa serve chi è governato, non chi governa”. Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino che tutti ci accomuna. Stati Uniti. Cambio di rotta dei repubblicani: vogliono abolire la pena di morte globalist.it, 21 febbraio 2019 I deputati repubblicani di sei stati tutti notoriamente conservatori stanno sostenendo proposte a favore dell’abolizione della pena capitale. Un sorprendente cambio di rotta quello dei deputati repubblicani di almeno sei stati americani, che stanno spingendo per la totale eliminazione della pena di morte. Sorprendente perché storicamente il partito repubblicano ha fatto della difesa della pena capitale uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma oggi, riporta il Wall Street Journal, i deputati rep di Kansas, Kentucky, Missouri, Montana e Wyoming (tutti, dato ancora più sorprendente, storicamente ‘rossi’, il colore dei conservatori) stanno sponsorizzando progetti di legge per mettere fine alla pena di morte, citando preoccupazioni di bilancio e morali. In New Hampshire, addirittura, molti repubblicani si sono schierati a sostegno di un progetto di legge presentato dai democratici proprio contro la pena di morte. Sri Lanka. Il governo cerca candidati a fare il boia di Alessandra Colarizi Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2019 Ma l’ultimo scelto ha lasciato l’incarico dopo aver visto il patibolo. Il presidente Maithripala Sirisena ha annunciato la ripresa entro tre mesi delle impiccagioni nei casi di narcotraffico, mettendo fine a una moratoria che durava dal 1976. Il giro di vite messo in atto da Colombo si ispira alla brutale guerra al narcotraffico delle Filippine. Maschio, tra i 18 e i 45 anni, con “eccellente carattere morale” e “una forza mentale molto buona”. Sono le caratteristiche che deve avere chiunque voglia candidarsi a boia in Sri Lanka, secondo quanto si apprende dai messaggi pubblicitari fatti circolare sulla stampa dal governo di Colombo. Due sono le posizioni aperte. A inizio febbraio, il presidente Maithripala Sirisena ha annunciato la ripresa - entro tre mesi - delle esecuzioni per impiccagione nei casi di narcotraffico, mettendo fine a una moratoria che durava dal 1976. Negli ultimi quarant’anni le autorità srilankesi hanno sponsorizzato regolarmente l’incarico, sperando di riuscire ad addestrare boia professionisti nel caso in cui le esecuzioni fossero riprese. Prima di allora, l’incarico veniva tramandato di padre in figlio. Ma dall’inizio della moratoria, solo tre persone hanno accettato di ricoprire il controverso ruolo, e tutte lo hanno abbandonato prima di effettuare anche una sola esecuzione. Ultimo in ordine di tempo P.S.U. Premasinghe, 45 anni. Ma è durato poco. Ottenuto il lavoro cinque anni fa, si è dimesso in stato di shock dopo aver visto il patibolo nella prigione principale di Colombo, pochi giorni dopo aver iniziato il training. La posizione è rimasta aperta da allora. Questo, tuttavia, non ha impedito ai tribunali locali di continuare a dispensare condanne a morte, sebbene nessuna sia stata portata a termine. Per la legge dello Sri Lanka, sono sanzionabili con la pena capitale l’omicidio e il traffico di droga, così come il possesso di più di due grammi di eroina pura, nota come diacetilmorfina. Secondo le ultime stime, circa 1.300 persone si trovano dietro le sbarre in attesa di essere giustiziate, di cui 48 per reati legati alla droga. Il ministero della Giustizia e delle Riforme carcerarie ha deciso questa settimana di importare un nuovo cappio in aggiunta a quello attualmente sul patibolo, acquistato dal Pakistan 12 anni fa e mai utilizzato. Il giro di vite messo in atto da Colombo si ispira alla brutale guerra al narcotraffico delle Filippine, accusata dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani di aver tolto la vita a oltre 20mila persone, ben più delle 5000 riportate dalle statistiche ufficiali. Recentemente, in visita nell’arcipelago, Sirisena aveva lodato la campagna di Rodrigo Duterte definendola “un esempio per il mondo”. Solo pochi giorni dopo, il governo di Manila si è impegnato a inviare una squadra di “specialisti” per fornire competenze tecniche ai funzionari srilankesi impegnati nella lotta contro gli stupefacenti. Secondo il governo, i narcotici rappresentano un problema reale nel paese asiatico. Proprio lo scorso gennaio le autorità hanno sequestrato una partita di cocaina per un valore di 108 milioni di dollari nel porto di Colombo, uno snodo sempre più centrale nel narcotraffico internazionale. Il contrabbando di stupefacenti è ora di pertinenza di una task force speciale istituita per combattere i militanti Tamil negli anni 80 e sottoposta sotto il controllo presidenziale durante la crisi politica innescata lo scorso novembre dalla temporanea sostituzione del premier Ranil Wickremesinghe con l’ex leader Mahinda Rajapaksa. Mentre lo Sri Lanka è un paese a maggioranza buddhista - religione che professa la non violenza - la nuova campagna antidroga gode di una popolarità preziosa per Sirisena, in cerca di un secondo mandato alle elezioni del 2020. Le critiche, tuttavia, non mancano. Tra i detrattori spicca il nome di C.T. Jansz, che negli anni 50 ha supervisionato alcune esecuzioni come commissario generale delle carceri. Jansz ricorda che persino i funzionari disapprovavano la crudeltà delle esecuzioni. “Tutta la prigione era in lutto”, racconta al New York Times. Grecia. “Arrestato perché salvavo esseri umani sull’isola di Lesbo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 febbraio 2019 L’incredibile storia di Seán Binder accusato di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati. In un’Europa attraversata dal razzismo, migliaia di ragazze e ragazzi agiscono in prima persona contro la strage di migranti. Seán Binder, studente di origini tedesche cresciuto in Irlanda, è uno di loro. Il 18 agosto scorso è stato arrestato sull’isola greca di Lesbo con accuse pesantissime. Era insieme a Sara Mardini, nuotatrice siriana di 23 anni che nel 2015 ha salvato 18 persone nel naufragio della barca con cui si dirigeva in Europa. Lo abbiamo incontrato alla presentazione di “Welcoming Europe. Per un’Europa che accoglie”. Perché sei andato a Lesbo? A ottobre 2017 avevo appena finito un master in “Difesa europea e politiche di sicurezza”. Molto di quello che avevo studiato come “sicurezza” riguardava la cosiddetta “crisi dei rifugiati”. Ho pensato di avere delle conoscenze su quello che stava accadendo e siccome ho anche delle competenze pratiche, sono un sommozzatore per la ricerca e il soccorso, ho sentito di poter essere utile sull’isola. All’inizio facevo parte dell’equipaggio di una barca, aiutando negli interventi in mare, e del gruppo di terra, che sosteneva le imbarcazione approdate sulla costa. I rifugiati possono arrivare in stato di ipotermia e avere bisogno di interventi di primo soccorso. Li fornivamo con un team medico. Lavoravamo insieme alle autorità locali, in un’ottima relazione. Cosa ti è successo sull’isola? Anche se la “crisi” non è più sui giornali, le barche continuano ad arrivare. Le persone cercano ancora di raggiungere l’Europa. Possono esserci tra 50 e 80 arrivi al giorno. Noi aiutavamo le imbarcazioni in difficoltà, assistendo la guardia costiera greca o Frontex nel recupero di persone in pericolo. Lo abbiamo fatto fino a febbraio 2018 quando siamo stati arrestati per la prima volta. In quel momento ero diventato coordinatore dell’organizzazione [Emergency Response Centre International, ong greca ndr]. Coordinavo gli interventi di emergenza e formavamo altre ong assicurandoci di utilizzare le prassi migliori e rispettare tutte le procedure. Avevamo anche aperto un ambulatorio a Moria, uno dei più grandi centri d’accoglienza europei, offrendo assistenza sanitaria. La polizia greca è venuta a prenderci alle 2 di notte, ci ha perquisito e indagato, ma non ha trovato niente. Così il giorno seguente siamo stati rilasciati. Successivamente sui giornali hanno iniziato a circolare strane notizie, si diceva che i servizi segreti fossero sull’isola, si nominavano James Bond e gli 007. Sembrava veramente bizzarro, ma poi ad agosto siamo stati arrestati di nuovo. Siamo finiti in “detenzione preventiva”: non eravamo stati giudicati colpevoli di nulla, ma siccome le accuse erano molto pesanti hanno deciso di isolarci dalla società. Siamo rimasti in carcere per 106 lunghi giorni accusati di spionaggio, traffico di esseri umani, riciclaggio di denaro e altri reati. Pensi ci sia stata una ragione politica? In nessun modo mi definirei un prigioniero politico. Però quando abbiamo dato le informazioni sul nostro caso ad Amnesty International, Human Rights Watch e altri esperti di diritto penale greco e internazionale, tutti sono stati concordi nel dire che non c’erano prove. Le leggi che hanno provato a usare contro di noi non si applicano al caso. Quindi deve esserci un’altra ragione. C’è una tendenza di criminalizzazione dell’umanitario che attraversa l’Europa. Ci sono almeno 46 casi simili al nostro, contro persone che hanno distribuito acqua o si sono assicurate che i rifugiati non morissero di freddo. C’è un’idea radicata secondo cui le organizzazioni umanitarie sarebbero un “fattore di attrazione” perché rendono la traversata dei migranti più sicura, spingendoli a partire. Per me è un’accusa molto seria. La prima volta che ci ho riflettuto sopra mi sono detto “oh mio dio, quanto sono ingenuo. Per ogni persona che tiro fuori dall’acqua ne metto in pericolo altre per le quali non posso fare niente. Devo fermarmi”. Poi però mi sono messo a studiare e ho scoperto che nessuna ricerca indipendente è arrivata a queste conclusioni. Nessuno ha potuto dimostrare che esiste una correlazione tra le attività di ricerca e soccorso e la quantità di persone che partono. L’unica correlazione è tra queste attività e i morti in mare: più sono, meno gente perde la vita. Quindi se criminalizzi l’umanitario muoiono più persone. Per me questo è spaventoso. Egitto. Nove esecuzioni capitali solo ieri, 15 impiccagioni a febbraio di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 febbraio 2019 La “giustizia” al tempo di al-Sisi. Processi di massa e confessioni estorte con la tortura. Vertiginoso aumento delle impiccagioni dal golpe del 2013. Le ultime eseguite a pochi giorni da attacchi jihadisti in Sinai, un osso per l’opinione pubblica. Sono stati impiccati ieri mattina in una prigione del Cairo: i nove prigionieri uccisi ieri dal regime egiziano sono solo gli ultimi di una campagna di esecuzioni che ha raggiunto un nuovo apice nelle ultime settimane. A guardarne in foto i volti giovani e sorridenti, lo zainetto in spalla, Ahmed Wahdan, Abul Qassem Youssef, Ahmed Gamal Hegazy, Mahmoud al-Ahmady, Abu Bakr Abdel Megid, Abdel Rahman Soliman Kahwash, Ahmed al-Degwy, Ahmed Mahrous e Islam Mekkawy non sembrano affatto gli spietati esecutori di un omicidio. Sono stati accusati, sulla base solo delle loro confessioni sotto tortura, di aver pianificato ed eseguito l’assassinio dell’ex procuratore generale Hisham Barakat, ucciso nel giugno 2015 da un’autobomba. Alle famiglie, dice il loro legale, è stato comunicato la notte precedente ma non è stato dato il permesso (un diritto sancito) di far loro visita: venite a prendervi i corpi in obitorio, il messaggio. Dubbi sulla loro colpevolezza erano stati sollevati su Facebook dalla figlia dello stesso Barakat, Marwa, la notte prima delle impiccagioni: “Questi giovani non sono i killer di mio padre, moriranno ingiustamente”. Un post poi sostituito da uno di tutt’altro tenore con il fratello di Marwa che si affrettava a parlare di un hacker infiltrato nel suo profilo Fb. Qualunque sia l’opinione della famiglia dell’ex procuratore, restano i corpi dei nove giovani. Che si aggiungono a quelli dei sei giustiziati nelle ultime due settimane, denuncia il gruppo contro la pena di morte Reprieve: tre accusati dell’omicidio di un funzionario di polizia e tre per quello del figlio di un giudice, entrambi nel settembre 2013, un mese dopo il massacro di Rabaa (un migliaio di sostenitori del deposto presidente Morsi uccisi dalle forze armate egiziane). Tutte e tre le ultime esecuzioni sono avvenute a pochi giorni da attacchi islamisti in Sinai contro l’esercito, a sancire quella che sembra un osso da lanciare all’opinione pubblica. “Le esecuzioni sono salite alle stelle - dice la direttrice di Reprieve, Maya Foa - tra abusi diffusi, violazioni giudiziarie, torture, confessioni false e l’uso ripetuto di processi di massa”. In sintesi il sistema giudiziario plasmato dall’ex generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013. A condannare le ultime esecuzioni è stata Amnesty, il giorno prima, sperando di fermare il boia: “Giustiziare prigionieri o condannarli sulla base di confessioni estratte con la tortura non è giustizia”, il commento di Najia Bounaim, direttrice di Ai per il Nord Africa. Dal luglio 2013 le corti militari e civili egiziane hanno condannato a morte 1.451 persone, per lo più membri (o sospetti tali) dei Fratelli musulmani, alla fine di processi di massa che violano i principi standard di equità e spesso sulla base di confessioni estorte e di detenzioni cautelari lunghe anni. Di queste, secondo Reprieve, ne sono state eseguite 83 tra gennaio 2014 e febbraio 2018. Più alti i numeri forniti dal database della Cornell Law School, costruito sulla base dei report di organizzazioni per i diritti umani: dal 2013 sono stati uccisi almeno 143 condannati a morte; tra il 2007 e il 2012 se ne contarono 12. Non solo pena di morte: la scorsa settimana delle 156 persone condannate da una corte militare 26 erano minori al tempo dell’arresto, nel 2014. Dopo quasi cinque anni di detenzione cautelare, a ragazzini che all’epoca avevano tra 14 e 17 anni sono state comminate pene dai tre ai cinque anni di prigione, in violazione della legge egiziana che proibisce l’arresto sotto i 15 anni di età e impone il giudizio da parte di una corte minorile. Dal luglio 2013 sono stati detenuti in Egitto quasi 3.200 minori.