Carceri, la piaga del sovraffollamento e l’aumento dei suicidi nelle celle di Marta Rizzo La Repubblica, 20 febbraio 2019 Il “faccia a faccia” tra Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti e Francesco Basentini, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap). Provvedimenti recenti, difetti, limiti e ipotesi risolutive del sistema carcerario: il Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma e il capo del Dap, Francesco Basentini, in un botta e risposta sulla gestione dei cittadini detenuti. Dopo aver incontrato Mauro Palma, è stato necessario conoscere il Capo Dap eletto nel giugno scorso. Francesco Basentini, ex PM di Potenza, che ci accoglie nel suo ufficio dietro Via di Bravetta, dove si inizia subito a ragionare sulle 27 pagine che riportano le Linee Programmatiche scritte per delineare le questioni da affrontare e risolvere nell’Amministrare delle carceri italiane. Gli riportiamo le parole di Mauro Palma: “Il Dap - dice il Garante dei detenuti - non ha ancora una linea chiara d’azione, pur apprezzandone la buona volontà, a mio avviso - sostiene Palma - sono acerbe”. Replica il DAP: è alto il costo per gli spostamenti dei carcerati. “Ho scritto le Linee Programmatiche - esordisce Basentini - per chiarire le priorità delle carceri italiane. Per entrare subito nello specifico, il tema delle traduzioni dei detenuti va affrontato principalmente sul piano economico: la Polizia Penitenziaria fa 185.000 traduzioni, che riguardano circa mezzo milione di detenuti. Questo costa al Paese circa 120-130 milioni di euro, anche perché un processo penale si svolge mediamente in 8-10 udienze. Visti i dati, mi chiedo se sia davvero necessario trasportare da carcere a Tribunale e ritorno tutti i detenuti per tutte le udienze processuali. La proposta è: portare in aula il detenuto ‘per motivi di giustizià, cioè solo quando l’imputato deve necessariamente presenziare a un processo. In Italia, il sistema processuale penale impone che quando l’imputato è tale per reati di mafia o terrorismo, partecipi in udienza in videoconferenza. Ma se un imputato ha commesso una pena minore, ha diritto a presentarsi in udienza. Credo che o si riconosce all’imputato di reati gravissimi il diritto di presenziare in udienza, oppure è più agevole che l’imputato di reati minori possa non essere in aula al suo processo. Ne faccio un discorso meramente pratico”. Replica Palma: “Nel processo il detenuto deve poter parlare col suo avvocato”. “L’oralità è un elemento essenziale nel percorso detentivo. Il detenuto, quando non partecipa in aula, non ha alcun rapporto concreto con il suo avvocato o col magistrato che deve giudicare i fatti commessi: si tratta di questioni delicatissime. La video chiamata è una necessità, che si realizza con detenuti molto particolari, mafiosi o terroristi, e solo a questi casi dev’essere limitata. Estenderla a tutti sarebbe un terribile errore. In particolare, nelle Linee Programmatiche di Basentini, la pratica delle video chiamate viene estesa all’udienza di convalida. Secondo me, proprio l’udienza di convalida è un momento essenziale, in cui serve la visibilità tra magistrato e imputato. Su questo punto, sono in dissenso col Capo Dap”. Replica il DAP: “Ruoli tecnici anche nella Polizia Penitenziaria”. “Per scelta normativa - dice il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - il mondo degli assistenti, degli psicologi, degli educatori in carcere non fa parte dell’Amministrazione penitenziaria. Vorrei creare dei ‘ruoli tecnici’ nel corpo della Polizia Penitenziaria. Così come nella Polizia di Stato esistono professionisti che non si occupano propriamente della sicurezza, ma fanno lavori a supporto del personale della stessa Polizia di Stato, vorrei che i così detti ‘ruoli tecnici’ entrassero nella Polizia Penitenziaria: esperti, educatori, assistenti sociali, psicologi, che siano anche poliziotti penitenziari. Questo per riconoscere economicamente professionisti spesso mal remunerati e sottovalutati, a torto. A oggi, c’è pochissimo personale civile che si occupi del trattamento dei detenuti. Altro problema è che solo una minima parte dei detenuti riceve assistenza sanitaria dalle Asl, regionalmente: parlo di pochissime ore settimanali di assistenza sanitaria in carcere. Propongo almeno 250 assunzioni di funzionari o esperti dell’area pedagogica, figure nuove che comprenderanno la così detta ‘area dei comparti centrali’, per un servizio di trattamento, non di custodia”. Replica Palma: “È bene che i ruoli restino diversificati e pluralisti”. “Comprendo le motivazioni di Basentini di istituire ‘ruoli tecnici’ nella Polizia Penitenziaria, ma non le condivido. Secondo me - dice Palma - è una soluzione molto pericolosa. In un servizio come quello carcerario, che è un servizio per la collettività e deve mirare all’uscita di chi sta scontando una pena, è importante che i ruoli restino diversificati e pluralisti. La molteplicità degli approcci è un modo per aprire il detenuto anche a se stesso e alle sue responsabilità, di fronte a persone che hanno ruoli differenti tra loro. Adeguare i ruoli tecnici tra Polizia di Stato e Polizia Penitenziaria è concettualmente un errore: la Polizia di Stato ha un rapporto episodico con le persone, limitato nel tempo. Al contrario, il servizio di esecuzione penale ha un rapporto continuativo con i detenuti, estremamente delicato. Questo tipo di rapporti ha bisogno di variabilità di approcci, di molteplicità di sguardi, non di uniformità. Il sistema carcerario non è un sistema di Polizia”. Replica del DAP: “Il lavoro per i detenuti è una priorità”. “Parlo da osservatore di tutti i 197 istituti penitenziari e case circondariali e case di detenzione d’Italia - spiega il Capo DAP - Visito spessissimo questi luoghi e mi rendo conto che una priorità vera è il lavoro. E di questo si lamentano tanto i detenuti quanto gli operatori: direttori, educatori, personale di Polizia Penitenziaria, dicono che dando lavoro, e quindi dignità ai detenuti, loro stessi lavorano con maggiore serenità. Nella segreteria organizzativa del DAP abbiamo istituito un ufficio che si occupi dei contratti di lavoro esterni e interni per i detenuti. Mi riferisco soprattutto ai lavori di pubblica utilità, istituiti dal Ministro con i sindaci delle città. Uno dei progetti più importanti che si sta realizzando in questo periodo, si chiama ‘Mi riscatto’ ed è attivo a Roma, Torino, Milano e Palermo. I detenuti, dopo essere stati formati dentro, vanno a lavorare nella città, per la collettività. Lo scopo è quello di far uscire dalle carceri almeno 3.000 detenuti e farli lavorare fuori. Già a Roma, in questi giorni molti detenuti hanno fatto segnaletica orizzontale, pulizia di giardini e tombini. Replica di Palma: “Un lavoro automatico e unitario, non discrezionale”. “Il lavoro è un elemento fondante della Costituzione italiana e questo è un principio unico dal quale partire. A oggi, so che il DAP ha sottoscritto un protocollo con la Cassa delle Ammende, per il quale si dà ai detenuti un sussidio di 3 milioni di euro per i lavori socialmente utili: è il ‘Mi Riscatto’ di cui parla Basentini. Credo che, ovviamente, è meglio un sussidio di nulla. Ma il lavoro di pubblica utilità è gratuito e, quindi, non può essere considerato tale. Il sussidio della Cassa delle Ammende mi solleva, ma non annulla il mio dissenso: dobbiamo prevedere un lavoro automatico e unitario per i detenuti, non discrezionale e caduto dall’alto, come è un sussidio. Il binomio lavoro-salario non può mai essere sostituito dal binomio lavoro-sussidio. Non aderisco a questo progetto, a partire dal nome. ‘Mi riscatto’ è improprio: la pena, per chi commette reato, sta già nella privazione della libertà e, privato della libertà, il detenuto sta pagando per il suo reato, si sta riscattando tramite la pena. Il ricatto morale dell’aria in cambio del lavoro ottenuto con un sussidio, per altro con il personale penitenziario che sorveglia, è davvero poco dignitoso e infantilizzante”. Replica il DAP: “Il problema degli ex OPG e la nostra impotenza”. “Sanità da monitorare”. “I dati - spiega il Capo DAP - mi portano a dire che aumenta il numero di detenuti con profili psichiatrici. Una cosa è certa: le Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg, non funzionano, soprattutto numericamente. Quando furono finalmente chiusi gli Opg, bisognava concepire una serie di strutture con condizioni logistiche e trattamentali più adeguate. C’è il problema gravissimo di posti da occupare: nelle Rems di tutta Italia, sono circa 650 i posti disponibili, almeno altre 750 perone restano fuori. Di questi, che sono casi psichiatrici, devo segnalare che alcuni vengono tenuti in carcere senza titolo: dovrebbero andare in una Rems, ma rimangono in carcere perché lì non c’è posto. Il DAP cerca di sollecitate responsabili delle strutture ospedaliere e manager della sanità regionale alla tutela della salute dei detenuti. La causa del problema è fuori: esiste, cioè, un corto circuito del sistema inter-istituzionale. Quando l’Amministrazione deve custodire un detenuto con un problema medico, ma chi si deve occupare del problema medico non entra in carcere, lì il DAP è impotente. Replica Palma: “Le illecite detenzioni”. “Le Rems sono molto diverse tra di loro, sono poche forse, ma funzionano. Tenere in carcere persone in attesa di entrare in Rems si chiama “illecita detenzione”. Segnalo, piuttosto, che nelle Rems ci sono troppi individui con misure di sicurezza provvisoria e non definitiva. I dati ci dicono che, dalla chiusura degli Opg, sono percentualmente molto aumentate le misure di sicurezza provvisoria: mentre in passato, un Gip che doveva mandare il detenuto in Opg con una misura provvisoria ci pensava 50 volte prima di buttarlo in quell’inferno, ora, con strutture ben più civili degli Opg come le Rems, usa le misure provvisorie con maggiore facilità. Il che fa riempire queste strutture e non consente di smaltire le misure provvisorie. Il DAP si dovrebbe occupare, poi, dei detenuti in misura provvisoria che sono liberi, perché non c’è posto nelle Rems (farei anche notare a Basentini che non sono aumentati i reati commessi fuori da queste persone). In linea di principio, segnalo che il magistrato, prima di prendere un provvedimento, dovrebbe accertarsi delle possibilità di misure in atto, inoltre dovrebbero esserci più Rems. Replica il DAP: “I suicidi non sono una emergenza assoluta”. “Certamente - dice Basentini - l’aumento dei suicidi è un allarme insopportabile e credo si ricolleghi al problema sanitario e al lavoro. Ma, al momento, non rappresentano una emergenza straordinaria”. Replica Palma: “Ogni suicidio è una vicenda a sé”. “E non si può ricondurre a chi dirige il carcere - sottolinea il Garante Nazionele dei detenuti - sul suicidio carcerario gioca un elemento fondamentale: il sentirsi del tutto estranei e abbandonati dal mondo, dalla vita esterna. Durante gli Stati Generali, al di là dei modi e dei contenuti più o meno condivisibili, il detenuto si è sentito parte attiva del dibattito politico. Ora, si sente nuovamente un elemento passivo e dimenticato. Questo senso di inessenzialità assoluta, di non essere neanche un oggetto di scontro, per esempio, può essere un elemento forte di depressione. Va poi detto che l’Italia non ha un tasso di suicidi così elevato, rispetto ad altri Paesi europei. I tassi più alti di suicidi carcerari li troviamo nei Paesi Scandinavi e quelli carcerari corrispondono a quelli esterni, cosa che Italia invece non è, perché c’è una forte sproporzione tra l’aumento dei suicidi in carcere rispetto a quelli esterni, di molto inferiori”. Replica il DAP: “Sovraffollamento e misure alternative”. “Sul sovraffollamento - dice Basentini - posso garantire che c’è un tendenziale aumento della popolazione detentiva, ma sembra livellarsi tra i 59.000 e i 60.000 detenuti da diverse settimane. Le soluzioni per arginare il sovraffollamento le sta adottando il Dap e lo stesso Ministero di Giustizia. Quest’ultimo si sta occupando degli accordi bilaterali con i Paesi che sono tra i più importanti fornitori di popolazione detentiva: Albania, Romania, Tunisia e Marocco. Il Dap, per le misure alternative, sta facendo una campagna d’informazione: in carceri, molta gente potrebbe usufruire delle misure alternative, ma gli stessi detenuti non fanno domanda di misure alternative perché non sanno cosa siano. Il Dap propone un provvedimento tramite brochures informative di 6-8 pagine, tradotte in 6 lingue differenti; si danno al detenuto al momento dell’ingresso e stanno nelle singole celle. Inoltre, il Dap si sta occupando di una norma di legge, finora non applicata e non so perché, valida per circa 2.000 detenuti, secondo la quale, quando un detenuto è stato catturato (perché scoperto in flagranza, per esempio) e deve scontare una pena al di sotto dei 2 anni, quel detenuto deve ottenere una ‘espulsione alternativa alla penà: dopo essere stato identificato e arrestato, cioè, dev’essere trasferito nel suo Paese d’origine che, se lo ritiene necessario, gli farà scontare la pena, altrimenti, comunque, lo costringe a non muoversi da lì”. Replica di Palma: “Tre metri quadrati sono la soglia del diritto”. Lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano e non la si può considerare uno standard. In Italia, il sistema è 9 metri quadrati vale per il primo arrivato in una cella, più 5 metri per ogni nuovo detenuto, in celle che prevedono al massimo 4 posti. Questo parametro, che per altro è quello di abitabilità delle abitazioni civili, io stesso lo definisco eccessivo. Basterebbe applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 7 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Anzi, ultimamente si calcola che 6 metri quadrati, più 4 quindi, e quindi in 14 metri quarati, ci possono vivere 4 persone. Ma bisogna essere molto rigidi e controllare lo standard: non si può dire che abbiamo un parametro così alto di 9 mtq, ma poi non lo si rispetta. Replica del DAP: “La Sala Situazioni”. All’interno del DAP, c’è una stanza inaugurata dopo il 2013, dopo quella giusta e indecente condanna della Corte Europea per i Diritti Umani per tortura a causa del sovraffollamento nelle carceri italiane. Da allora, la ‘Sala Situazioni’ monitora quotidianamente, 24 ore su 24, tutte le celle di tutte le carceri nazionali, attraverso un sistema informatico che, a detta dello stesso Mauro Palma, è tra i più sofisticati e avanzati d’Europa. Tramite diversi schermi collegati a sistemi informatici, a loro volta collegati con ciascun istituto di pena, si controlla tutto: quante celle ci sono, chi entra e chi esce di minuto in minuto. Si accede alle celle con un click e, con un click, si può conoscere tutta l’esistenza dei singoli detenuti di ciascuna e di tutte le stanze. Fa venire un po’ di ansia questo luogo, per quel senso di controllo estremo a cui il detenuto è sottoposto, perennemente ‘sorvegliato e punito’. D’altra parte, l’esercizio del dubbio porta a pensare che, dando tanta attenzione a questi luoghi di pena e alle loro condizioni, il Potere non voglia dimenticare più la sua parte buia, come diceva Foucault”. Anno giudiziario 2019: la situazione delle carceri di Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro* camerepenali.it, 20 febbraio 2019 Pubblichiamo un documento dei Responsabili dell’Osservatorio Carcere, scritto in occasione dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario dei Penalisti Italiani. Ci eravamo lasciati al Congresso di Sorrento, nell’ottobre 2018, delusi e amareggiati per l’eliminazione del “cuore” della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario: la possibilità per il Magistrato di Sorveglianza di concedere misure alternative, oggi di comunità, senza automatismi e preclusioni. Stiamo continuando a denunciare, anche con iniziative specifiche, i trattamenti inumani e degradanti a cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri italiane, oggi ancora più preoccupanti perché non s’intravedono soluzioni e gli interlocutori sono del tutto insensibili a quanto sta avvenendo: sovraffollamento, suicidi, decessi innaturali, scarsa tutela della salute, nessuna attenzione per il diritto all’affettività e alla territorialità, l’assenza di forme dignitose di trattamento. In poche parole, una detenzione oltre i limiti della legalità costituzionale. Siamo costretti, oggi, ad inaugurare il nostro anno giudiziario lanciando un ennesimo disperato grido di allarme. La lettura dei dati statistici ha consegnato il 2018 alla storia come l’annus horribilis del sistema carcerario: 67 suicidi (record in negativo dal 2009) e 100 decessi, 59.655 detenuti presenti a fronte di 50.581 posti regolamentari (con una presenza media pari a 58.872, la più alta dopo la sentenza “Torreggiani” e con 1/3 non definitivi), 52 “bambini in cella”, un tasso di sovraffollamento medio, sulla carta, pari a 117,94% (in realtà molto di più considerato che, per come ammesso dal capo del Dap di recente, esistono ulteriori 4.600 posti regolamentari per nulla utilizzabili) sono numeri emblematici del drammatico stato dell’Esecuzione penale in Italia. Numeri contro cui si infrangono le velleitarie e fuorvianti decisioni governative di procedere alla costruzione di nuove carceri nonché di pretendere “più carcere”. Eppure, secondo il piano carceri presentato nel 2013, già al 2016 avremmo dovuto avere 57.712 posti regolamentari. Ma se il consuntivo del 2018 ci offre, come detto, un quadro a tinte fosche, i primi dati del 2019 segnalano il rischio di buio pesto! Secondo gli ultimi dati, in un mese e mezzo (al 13 febbraio 2019) si sarebbero verificati già 6 suicidi e 9 decessi. Il numero dei detenuti al 31 gennaio 2019 ha toccato la cifra di 60.125. La capienza regolamentare, per contro, si è ridotta sino a 50.550 (a cui bisogna togliere almeno altri 4.600 non utilizzabili). Il tasso di sovraffollamento, quindi, è arrivato a toccare 118,94%. In buona sostanza, dal giugno dello scorso anno ad oggi, a fronte di 1.366 detenuti in più, ci sono 82 posti regolamentari in meno. Il diritto alla territorialità della detenzione, su cui il Congresso di Sorrento ha approvato una specifica mozione all’unanimità, rimane un’enunciazione per nulla applicata. La tanto pubblicizzata introduzione di video-collegamenti con i familiari, tra l’altro limitato ai detenuti appartenenti al circuito c.d. media sicurezza, è un presunto beneficio in quanto viene equiparato al colloquio sottostando ai limiti quantitativi e temporali previsti. La volontà di voler affrontare la drammatica emergenza nell’infinita e non definita attesa della costruzione di nuove carceri è una follia che va immediatamente fermata anche sollecitando un nuovo intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Intanto le carceri sono una polveriera e le recenti rivolte di Trento e Napoli ne sono la tangibile prova, il tutto mentre la politica sembra ignorare il problema emanando provvedimenti legislativi inutilmente carcerogeni, come l’estensione del campo d’azione delle preclusioni previste dall’art. 4 bis O.P. ad altre fattispecie, si veda il ddl c.d. “spazza-corrotti”. *Responsabili dell’Osservatorio Carcere UCPI Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 20 febbraio 2019 C’è un articolo, sul Giornale di ieri, 19 febbraio, di cui non so se provare un tetro scandalo o una specie di felicità. Non per chi l’ha scritto, Cristina Bassi e Luca Fazzo, cui sono invece grato, ma per quello che dice il loro intervistato, Giuseppe Gennari, un giudice per le indagini preliminari, che svolge questo compito da 17 anni e in 17 anni ha mandato in galera una congrua quantità di umani, colpevoli e incolpevoli, com’è inevitabile. La notizia è questa: che dopo 17 anni il magistrato ha “per la prima volta” messo piede - e occhi e tutti i suoi sensi - dentro il carcere. Ed essendo umano ne è stato sconvolto. Descrive quei “buchi maleodoranti”. Dice della loro iniquità, della pena tanto più dura per i più disgraziati, “un marocchino catturato alla stazione”. Dice della inutilità, che “usciranno come prima”, o peggio. Dice: “Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io”. Bisognerebbe, infatti. Il Giornale ha intitolato così: “Il giudice che scopre il carcere: condanniamo senza sapere cosa sia”. Da una vita penso che la formazione dei magistrati dovrebbe prevedere l’obbligo di trascorrere anonimamente in un carcere almeno un giorno e soprattutto una notte. Il giudice intervistato ha comunque avuto il coraggio, se vogliamo chiamarlo così, di dire di sé, di cadere dalle nuvole sulla nuda terra. Di praticare finalmente una personale separazione delle carriere, fra quella di sé giudice e quella di sé uomo. Ventennale del Gom. Perché è stato creato e che cosa fa di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 20 febbraio 2019 Il Gruppo Operativo Mobile (Gom) nasce nel 1997, su iniziativa dell’allora Direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Michele Coiro, quando il Corpo di polizia penitenziaria assume su di sé l’incarico del servizio traduzioni dei detenuti, svolto fino a poco prima dallo Scop, Servizio di Coordinamento Operativo Polizia Penitenziaria, dell’Arma dei Carabinieri. Il provvedimento diventa un vero e proprio decreto ministeriale istitutivo del Corpo due anni più tardi, esattamente il 19 febbraio 1999, a firma del Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, quando a dirigere il Dipartimento c’è già Alessandro Margara. Successivamente, il 4 giugno del 2007 un nuovo decreto del Ministro dell’epoca, Clemente Mastella, precisa e definisce meglio servizi e struttura e, infine, il 28 luglio 2017, sempre con Decreto ministeriale, firmato da Andrea Orlando, viene affidato al Gom anche il compito di gestire i detenuti ristretti per reati di terrorismo, anche internazionale, anche se sottoposti a regime diverso da quello dettato dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, per il quale, in effetti, il reparto speciale nasce. Inizialmente, infatti, gli era stato affidato il compito di provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al cosiddetto “carcere duro”, che però loro preferiscono definire “carcere sicuro”. Inoltre, provvede alla vigilanza e all’osservazione dei detenuti che collaborano con la giustizia, fra quelli individuati come di maggior esposizione al rischio; alla traduzione e al piantonamento di detenuti e internati ritenuti dalla Direzione competente ad alto indice di pericolosità, anche a causa della loro posizione processuale. Il Gruppo Operativo Mobile è un ufficio di livello dirigenziale, con sede centrale a Roma, e opera alle dirette dipendenze del Capo del Dipartimento che ne nomina il Direttore, affidando l’incarico a un dirigente superiore del Corpo per non meno di tre e non più di cinque anni, prorogabile per una sola volta, per un biennio. La struttura prevede anche dei reparti operativi mobili istituiti presso istituti penitenziari e servizi territoriali dell’amministrazione penitenziaria per il tempo necessario all’espletamento di servizi in queste sedi. La dotazione organica è di circa 600 persone ma può essere incrementata per periodi determinati e particolari e motivate esigenze operative. Il reclutamento viene fatto ogni due anni tra il personale appartenente ai ruoli non direttivi del Corpo, l’incarico è temporaneo, per non meno di quattro anni, ed è necessaria la disponibilità a raggiungere qualunque sede del Gom. Numerosissime sono le operazioni alle quali ha preso parte il personale dei Gom, da solo o assieme ad altri reparti delle Forze dell’Ordine. Grazie alla loro opera sono emersi i legami con cui si stringono i rapporti fra le potenti famiglie della criminalità organizzata. E centinaia sono state le giornate di piantonamenti gestite da loro su richiesta della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, per la sorveglianza in luoghi di cura esterni, di soggetti socialmente molto pericolosi e ad alto rischio di evasione. Recentemente è stata incrementata la loro attività anche da una fattiva collaborazione con l’Autorità giudiziaria, fornendo spesso ulteriori elementi di carattere investigativo per indagini particolarmente delicate. Due brutte notizie per i giustizialisti di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 febbraio 2019 Gira sul web una vignetta di Altan, con il solito scambio di battute tra i suoi due personaggi classici. Uno chiede all’altro: “Sa l’ora?”. L’altro risponde fiero: “No, ma ho piena fiducia nella magistratura”. In meno di dieci parole, e con un disegno semplice semplice, Altan mette alla berlina, in modo definitivo, nell’ordine: i magistrati, i politici ipocriti, il giustizialismo, i luoghi comuni, la rassegnazione, il conformismo, anche gran parte del nostro giornalismo (e la quasi totalità del giornalismo giudiziario) più un altro po’ di cose che adesso non mi vengono in mente. La vignetta è un commento perfetto alla decisione della procura di Firenze di fare arrestare i genitori di Renzi. Cioè di uno dei due o tre leader politici che hanno dominato l’ultimo quinquennio di vita pubblica, e l’uomo che da un po’ più di due anni è al centro dell’attenzione di varie Procure che però, finora, sono riuscite a colpire diverse persone a lui vicine ma mai lui. L’altra sera sono andati vicinissimi, proprio vicinissimi al bersaglio: hanno catturato padre e madre dell’ex segretario del Pd, e lo hanno fatto - forse studiando i tempi, visto che l’esecuzione dell’ordine di cattura, a quanto pare, è stato rinviato di sette giorni - proprio mentre i 5 Stelle chiudevano la loro prima vita (quella giustizialista) accettando la vecchia (e, credo, giusta) idea berlusconiana che è saggio difendersi nei processi ma è anche saggio, talvolta, difendersi dai processi. Talvolta quando? Beh, generalmente quando si ha l’impressione che il processo, o l’avviso di garanzia, o l’arresto, abbiano una origine fondamentalmente politica. Cioè che siano uno strumento di lotta politica usato da un pezzo della magistratura per modificare gli equilibri del potere o per modificare le idee e le strategie del potere. Matteo Renzi avanza proprio questo sospetto. Dice che i suoi genitori non sarebbero finiti nel guaio nel quale sono finiti, se non fossero i suoi genitori. Cioè sostiene che il motivo dell’arresto sia il grado di parentela con lui, e che l’obiettivo dei magistrati sia proprio lui, l’ex premier, l’ex segretario del Pd, il punto di riferimento - seppure oggi in declino - di un pezzo significativo e forse maggioritario del centrosinistra italiano. È così? Ha ragione Renzi? Lo pensano in molti. Se non altro perché, oggettivamente, non si capisce quale sia la ragione dell’arresto dei due anziani genitori. C’è paura che fuggano in Francia? C’è il rischio che continuino a fare fatture false con cooperative che non esistono più? Oppure c’è la possibilità che inquinino le prove? E se il motivo dell’arresto è questo delle prove, perché sono passati quattro mesi dal momento in cui è stata avanzata dal Pm la richiesta di arresto, e perché è passata un’altra settimana dal momento nel quale la richiesta è stata accolta a quando l’arresto è stato eseguito? Voi capite che a queste domande si potrebbe anche rispondere scrollando le spalle, se riguardassero un processo anonimo. Si potrebbe immaginare che il motivo di questi tempi pasticciati sia solo la sciatteria di qualche ufficio. Ma qui stiamo parlando di Renzi, e chiunque si è occupato del caso certamente era ben consapevole della delicatezza della questione. Dunque è difficile addebitare gli eventuali errori alla sciatteria. Si deve presumere che sia stato tutto ben calcolato. E quindi che sia anche ben calcolato l’effetto mediatico di un arresto di quei due signori abbastanza anziani. L’effetto mediatico dell’arresto - misura che molti considerano sproporzionata, a prescindere dalla colpevolezza o dell’innocenza di papà e mamma Renzi - era esso stesso una delle ragioni fondamentali dell’arresto? Magari ci sbagliamo e non è così, però ammetterete che il sospetto è legittimo. Tantopiù che finora le inchieste sulla famiglia Renzi sono finite in una bolla di sapone, a cominciare da quella del carabiniere Scafarto e al caso Consip. E tantopiù che ormai da molto tempo si susseguono le assoluzioni nei processi ai politici, agli amici, ai fidanzati, ai figli dei politici (finora erano mancati quelli a padre e madre) finiti nel mirino. Si susseguono nell’indifferenza generale della stampa. La notizia, questa settimana, dell’assoluzione dell’ex senatore Grillo (che è un esponente di Forza Italia e non ha niente a che fare né con Beppe né con il ministro Giulia) è passata sotto silenzio, mentre non era passata sotto silenzio la notizia dell’avviso di garanzia e del rinvio a giudizio. Cambieranno le cose? È possibile. Ci sono due significative novità. La prima è che stavolta la notizia dell’arresto dei genitori dei Renzi è stata accolta con indifferenza e quasi con ironia da gran parte del mondo politico e persino da gran parte della stampa. Sembra che nessuno abbia voglia di speculare, almeno finora. L’iniziativa dei magistrati non è presa molto sul serio, è commentata, in genere, con noncuranza. La seconda novità è la svolta a Cinque Stelle. La decisione, sostenuta da un referendum interno, di accusare i magistrati siciliani del tribunale dei ministri di attacco ai diritti della politica è una vera e propria svolta da non sottovalutare. Perché introduce comunque una ferita mortale nella filosofia giustizialista dei Cinque Stelle. E afferma il principio dell’autonomia della politica, che sin qui era stato tenuto nel massimo dispregio. È probabile che ora i Cinque Stelle tenteranno una retromarcia. Ma certi atti politici non si cancellano, e una retromarcia sarà quasi impossibile. Se dio vuole. La giustizia boomerang che distrugge la politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 20 febbraio 2019 Ieri, durante un breve dibattito televisivo con l’ex ministro Flick, a margine della decisione della Giunta del Senato, la presentatrice ha mostrato una lunga scheda sui precedenti casi di immunità parlamentare. Al termine il professor Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha detto rispettosamente: “Avete fatto una scheda bellissima, che però non c’entra nulla”. Ecco, se dovessimo riassumere il senso di questo “much ado about nothing” (molto rumore per nulla) che ci tormenta da mesi, diremmo la stessa cosa. È stato creato un gigantesco polverone su una materia che quasi nessuno si era dato la briga di studiare. Perché il caso di Salvini era del tutto nuovo, e giustamente il presidente Gasparri ha detto che questo provvedimento farà giurisprudenza. Perché qui non si trattava affatto della solita immunità dietro la quale molti politici si sono riparati dalle indagini giudiziarie, ma di una garanzia ministeriale prevista da una legge costituzionale che ne affida la valutazione al vaglio politico. Cosicché anche la petulante litania che “nessuno è al disopra della legge” suonava e suona come una contraddizione, perché è proprio questa Legge a dire che in presenza di un reato - ammesso che ci sia - il ministro non può esser processato se ha agito per un preminente interesse dello Stato. E poiché il governo aveva solennemente confermato che la decisione era stata collegiale per attuare il programma politico concordato, la questione si sarebbe dovuta chiudere lì. E invece non solo ha avvelenato il clima, ma ha fatto riemergere le dolorose contraddizioni del nostro sistema e di chi lo rappresenta. La vittima maggiore è stata la Politica - nel suo senso più alto - che ancora una volta è sembrata succube dell’iniziativa della magistratura. Intendiamoci. Il Tribunale dei Ministri ha fatto il suo dovere mandando tutto al Senato. Incidentalmente notiamo che se avesse voluto davvero perseguitare Salvini non avrebbe riconosciuto la ministerialità del presunto reato, e lo avrebbe affidato alla giurisdizione ordinaria. Ma dal momento che le carte sono arrivate in Giunta, e in presenza delle asseverazioni di Conte e dei due ministri, la questione si sarebbe potuta chiudere subito se ci fosse stata l’unanimità. Sarebbe stato un bel gesto se la sinistra avesse detto: “Noi ripudiamo indignati la scelta governativa, e protestiamo in nome delle ragioni umane e divine. Ma poiché è stata una scelta politica la combattiamo con argomentazioni politiche, e non pseudogiuridiche”. E invece no. La sinistra è caduta nella solita tentazione di valersi dell’ascia giudiziaria per invocare un processo che, chissà mai, avrebbe dato filo da torcere al roccioso avversario. Quelle timide promesse di garantismo che Renzi aveva a suo tempo formulato sono state smentite e sepolte dall’atteggiamento del Pd che si è aggrappato agli esempi impropri delle immunità parlamentari e ai soliti moralismi di maniera. Il Fato tuttavia ha voluto che, proprio mentre la piattaforma grillina riconosceva la garanzia ministeriale a Salvini (e al governo), arrivasse la notizia dell’arresto dei genitori di Renzi. Provvedimento discutibile, perché una custodia cautelare a carico di due settantenni incensurati, per fatti avvenuti anni addietro, emessa quattro mesi dopo la richiesta del pubblico ministero, lascia assai perplessi. Renzi ha reagito con dignità, proclamando fiducia nella giustizia, fiducia peraltro mitigata dall’osservazione che se non fosse entrato in politica forse questo non sarebbe accaduto. Tuttavia lo stesso Renzi aveva espresso - con nostro doloroso stupore - un voto favorevole al processo di Salviní. E non basta. Ieri, a parti invertite, alcuni esponenti del Pd hanno reiterato le vociferanti invocazioni di “Onestà”- per un fatto che in ipotesi poteva anche esser criminale ma che di disonesto non aveva proprio nulla - così allineandosi alla peggiore tradizione giacobina. E per chiudere il cerchio delle dissennatezze abbiamo assistito alla replica di un senatore grillino che, facendo i gesto delle manette, si vantava di non avere parenti agli arresti domiciliari. Concludo. In questa oscillazione di garantismi a senso unico e di confusione dei ruoli, la politica ha perso un’ottima occasione per affrancarsi dalla pesante ipoteca costituita dalle indagini giudiziarie, che da vent’anni la condiziona e talvolta la umilia. Il rifiuto di processare Salvini va infatti ben oltre la persona del ministro e dei componenti del governo. Sarebbe il primo passo per affermare la preminenza della politica sulla giurisdizione, quando è la stessa Costituzione a riconoscere questa necessità. Mentre questo incoraggiante indizio si è dissolto davanti ai cartelli dei democratici e al gesto manettaro del senatore Giarrusso, che agendo d’istinto ha rivelato quell’aspirazione giustizialista che per un attimo era sembrata sopita. Ma, come dicevano i vecchi saggi, “l’arte si imparte, ma la natura vince”. L’arma impropria della mimica giustizialista di Paola Di Caro Corriere della Sera, 20 febbraio 2019 Se anche ci fosse coerenza è comunque triste dover assistere ancora una volta, a mo’ di sfida, di scherno o qualsiasi cosa voglia significare, al gesto delle manette. Una settimana è passata dalla bagarre a Montecitorio scatenata dalle mani chiuse e incrociate del deputato del M5S D’Ambrosio mostrate al collega del Pd Migliore, ed ecco che il gesto si ripete per opera ancora una volta di un esponente dei 5 Stelle, Michele Giarrusso, stavolta davanti all’ingresso del Senato. E le manette mimò Alessandro Di Battista alla Camera nel 2013, per accusare il Pdl, come un anno più tardi fece il pure pentastellato Manlio Di Stefano, durante il voto per l’arresto del Pd Genovese. Come se il rispetto della giustizia fosse prerogativa di una sola parte o di una parte il torto, come se l’inizio di un processo fosse già la sua fine e non un passaggio, come se il carcere non fosse comunque una sconfitta e un percorso di sofferenza umana, e un politico un uomo che le leggi debba scriverle, non usarle come arma contundente. Per la giunta il caso Diciotti va chiuso. La “svolta” dei 5Stelle di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 febbraio 2019 Anonima sequestri. No all’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini Grillini a disagio, ma è il primo passo del “partito di governo”. “Ci vorranno due ore”, aveva previsto il presidente della Giunta per le immunità del Senato, Maurizio Gasparri. Ha sbagliato di poco, la riunione è durata qualcosina in più ma non ci sono stati altri imprevisti. Il sequestro di persona, di 177 persone in questo caso, non è punibile e neppure giudicabile. È stato fatto, a insindacabile giudizio della maggioranza parlamentare allargata a Fi e FdI, in nome di un preminente interesse pubblico. “È stato creato un precedente pericoloso”, commenta uno dei pochi che in giunta si è opposto all’assoluzione per direttissima, l’ex presidente del Senato Piero Grasso. La proposta del presidente-relatore Gasparri passa con 16 voti contro 6. Manca all’appello una senatrice pentastellata, Grazia D’Angelo, non per dissenso ma perché ha partorito nella notte. Compensa Gasparri che vota per la sua stessa relazione. La bocciano i 4 senatori del Pd in giunta, più Grasso per LeU e l’ex 5S De Falco. Tra un mese la parola passerà all’aula e lì qualche dissenso nelle file dei 5S ci sarà ma probabilmente meno del previsto. Una cosa è opporsi a una scelta del leader politico, tutt’altra violare la decisione sacra del blog. Del resto le sindache Raggi e Appendino, che si erano schierate per l’autorizzazione a procedere con un’intervista sparata in prima pagina dal Fatto, si sono affrettate a uniformarsi, rampognate di brutta da un Di Maio che ha colto l’occasione per parlare a sindache perché Travaglio intendesse: “Si sono fatte strumentalizzare”. È da copione anche la protesta del Pd all’uscita dall’aula: rumorosa, con tanto di cartelli “Vergogna” e lo slogan “Onestà” rivolto stavolta contro i detentori abituali del marchio. Al capogruppo Giarrusso questo mondo alla rovescia non va giù. Alza le mani nel segno osceno delle manette e strilla: “Non prendo lezioni da chi ha parenti agli arresti”. Un signore. Ma dietro il gesto greve si nascondono preoccupazioni concrete. Tra i 5S c’è un disagio profondissimo, al quale ha dato voce ieri, con un anatema di inaudita durezza, Marco Travaglio. Giarrusso quindi ci tiene a confermare di essere rimasto il manettaro di sempre. “Non abbiamo salvato Salvini ma garantito che l’azione di governo possa continuare nell’interesse dei cittadini”. Solo una parentesi, necessaria per salvare il governo. Però non è vero. Il giustizialismo, in effetti, riprenderà senza dubbio le redini e i giulivi saluti con le mani a manetta si sprecheranno. La rottura però c’è ed è persino più profonda: per la prima volta i 5S hanno anteposto la ragione politica, il tipo di calcolo abituale per chi fa politica, ai princìpi della fede. Da quel punto di vista il voto di ieri non è un’eccezione ma un segnale di svolta auspicata, se non ancora realizzata. Tanto più che si accompagna a passaggi altrettanto importanti che vanno nella stessa direzione: la fine del vincolo sul doppio mandato e l’ipotesi di darsi una vera direzione politica, una segreteria. I leader dei 5S, Di Maio ma anche Casaleggio, hanno capito di non poter essere insieme “di lotta e di governo”, perché probabilmente proprio quello è il letto di Procuste a cui alludeva Grillo nel suo sibillino post su Fb, e hanno scelto di provare a essere partito di governo più che movimento di lotta. È un passaggio difficile e incerto, perché una componente forte del movimento, quella che si è espressa per l’autorizzazione sul blog, non ne vuole sentire parlare. Ma la posta in gioco è più questa che non il presunto “scambio” di favori con la Lega, anche se il clima rasserenato ha aiutato nel vertice di ieri pomeriggio a sbloccare la situazione sugli emendamenti al Reddito. “Al governo c’è una squadra. Ringrazio per la fiducia la squadra”, ha commentato la lieta novella il diretto interessato, Salvini. Non è una formula di rito. Poco prima Borghi aveva annunciato che sono in corso lavori per portare i 5S in un gruppo comune “eurocritico” a Strasburgo, dopo le europee. A quel punto, con un M5S “normalizzato” e la presenza dei due partiti nello stesso eurogruppo non si tratterebbe più di contratto tra soggetti solo momentaneamente compatibili. Si tratterebbe di una coalizione politica a tutti gli effetti. Una “superLega”, come la definiscono, spauriti, i 5S dissidenti. Mattarella grazia tre vecchi, strano il rancore di molti di Lucia Scozzoli La Croce Quotidiano, 20 febbraio 2019 Erano, sì, condannati per tristissimi crimini, ma nulla si guadagna dove si perda anche la pietà. L’articolo 87 della Costituzione prevede che il presidente della Repubblica possa, con proprio decreto, estinguere, in tutto o in parte, la pena inflitta con sentenza irrevocabile o trasformarla in un’altra specie dì pena prevista dalla legge (ad esempio la reclusione temporanea al posto dell’ergastolo o la multa al posto della reclusione). La domanda di grazia, diretta al presidente della Repubblica, va presentata al ministro della Giustizia e può essere inoltrata dal condannato, da un suo prossimo congiunto, dal convivente, dal tutore o curatore, oppure da un avvocato. Anche il presidente del Consiglio di disciplina dell’istituto penitenziario può proporre, a titolo di ricompensa, la grazia a favore di un detenuto che si sia distinto per comportamenti particolarmente meritevoli. L’iter della domanda prevede di sentire anche il parere del Procuratore generale presso la Corte d’Appello o, se il condannato è detenuto, del magistrato di sorveglianza, i quali acquisiscono ogni utile informazione relativa alla posizione giuridica del condannato, all’opinione delle persone danneggiate dal reato (ad esempio se hanno perdonato), ai dati conoscitivi forniti dalle Forze di Polizia e alle valutazioni dei responsabili degli Istituti penitenziari. Il ministro trasmette poi la domanda di grazia, corredata dagli atti dell’istruttoria, al capo dello Stato, accompagnandola con il proprio “avviso”, favorevole o contrario alla concessione del beneficio. Luigi Einaudi durante il suo mandato emanò oltre 15mila atti di clemenza, Giovanni Gronchi ne concesse 7.423, Antonio Segni/ Cesare Merzagora 926, Giuseppe Saragat 2.925, Giovanni Leone 7.498, Sandro Pertini 6.095 e Francesco Cossiga 1.395. Sotto Oscar Luigi Scalfaro iniziò tangentopoli e prese piede un nuovo feroce giustizialismo populista, per cui anche gli atti di grazia calarono vertiginosamente: 339 con Scalfaro, a seguire Carlo Azeglio Ciampi con 114, fino ad arrivare a Napolitano con sole 23 grazie sulle 1800 richieste giudicate ammissibili. Finora Mattarella ha concesso 11 provvedimenti di grazia: i primi cinque i provvedimenti di clemenza nel 2016 sono verso condannati per reati comuni. A novembre 2017 Sergio Mattarella ha graziato Livio Bearzi, dirigente scolastico friulano che fu preside del convitto aquilano “Domenico Cutugno”, che crollò nel terremoto e uccise tre studenti: Bearzi era da pochi mesi a dirigere l’istituto. Ma tanto bastò per condannarlo in via definitiva dalla Corte di Cassazione a 4 anni di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, per omicidio colposo plurimo e lesioni personali. In occasione della grazia, nessuno ha accusato il presidente di volere, con questo atto, sottintendere che gli abusi edilizi o le inadempienze in materia di sicurezza commesse dai pubblici amministratori siano reati di poco conto. Sempre nel 2017, è stato graziato Fabrizio Spreafico, che nel 1997, all’età di 23 anni, strozzò la madre per una questione di soldi. Condannato a 18 anni e 4 mesi dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano il 23 marzo del 1999, ha espiato circa 8 anni di pena in carcere. Infatti nel 2005, per motivi gravi di salute, ha ottenuto la sospensione dell’esecutività della pena ed è uscito di cella per curarsi. Anche in questa occasione, non si sono sollevati moti di protesta per denunciare la sottintesa volontà del presidente di depenalizzare l’omicidio dei genitori per lucrarne il patrimonio. Successivamente Mattarella ha concesso la grazia a Nicola Giuseppe Scomparin, condannato a vent’anni e due mesi di reclusione dalle autorità thailandesi per detenzione di sostanze stupefacenti. La domanda di grazia è stata accolta favorevolmente dal momento che “la pena detentiva già scontata da Scomparin è notevolmente superiore a quella normalmente inflitta in Italia per fatti analoghi”. O forse Mattarella voleva suggerire che lo spaccio di stupefacenti non sia un reato grave? Qualche giorno fa, Mattarella ha firmato il decreto di concessione della grazia in favore di Franco Antonio Drì (79 anni), Giancarlo Vergelli (88 anni) e Vitangelo Bini (89 anni), che hanno assassinato, nell’ordine, il figlio tossicodipendente e le mogli malate di Alzheimer. Storie brutte, tragiche: nel 2015 Drì aveva sparato nel petto del figlio 47enne, cocainomane da decenni, al culmine dell’ennesima lite ed era stato condannato a 6 anni di reclusione, di cui ha scontato un anno e mezzo in carcere e un anno ai domiciliaci per motivi di salute. La domanda di grazia è stata sostenuta dalla moglie, dall’altro figlio e da oltre mille abitanti di Fiume Veneto, la sua città. Vergelli era stato condannato nel 2016 a 7 anni e 8 mesi per aver strangolato la moglie, Nella Burrini, di 88, malata di Alzheimer, il 22 marzo 2014 nella loro casa, a Firenze, e poi essersi costituito. Bini analogamente era stato condannato a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie malata di Alzheimer, avvenuto nel 2007 a Prato. Dopo averla accudita in casa per 12 anni, l’aveva infine fatta ricoverare in una struttura sanitaria. Ed è qui che Bini l’ha uccisa con tre colpi di pistola. Omicidi che hanno avuto nella disperazione il loro movente: il congiunto è avvinto da un gorgo da cui non è possibile recuperarlo, ha perduto irrimediabilmente la sua lucidità, soffre e crea sofferenza, manca una struttura intorno che dia sostegno pratico e conforto morale, l’unica prospettiva futura è la sopportazione finché non sopraggiunga la morte a levare d’impiccio. Tre uomini che hanno un’arma in casa (ah, che bello potersi armare per legittima difesa) e che, nello sconforto vigliacco e umano di situazioni solo in peggioramento pensano che sia meglio la morte, per la moglie o il figlio, e la galera, per sé, che una vita così. Anche la disperazione è colpa, e infatti sono stati condannati, ma si tratta di tre persone anziane e, come si può vedere dalle date degli eventi salienti, hanno già avuto modo di assaggiare il calice amaro della detenzione. Drì, Vergelli e Bini non sono persone compiaciute del proprio delitto, non sono un Beppino Englaro che va in giro a rilasciare interviste su quanto abbia fatto bene a far morire la figlia, o una Mina Welby, sempre in prima linea per ottenere il suicidio assistito di stato. Possiamo anche trovare qualche dichiarazione fuggevole, strappata al volo dall’impudenza giornalistica, in cui i tre uomini si rammaricano per tutta la vicenda che li ha visti protagonisti, ma anche comprensibili manifestazioni dì sollievo per la grazia ricevuta. Potremmo fare approfonditi excursus nella tragedia della mente di chi, dopo aver condiviso una vita intera con qualcuno, poi lo ammazza. Ma forse è il caso solo di dire che d’ora in poi la questione è una faccenda privata: il resto della vita che attende i tre anziani uomini è il tempo loro concesso per trovare un modo per riconciliarsi con un gesto estremo che è stato perdonato dalla giustizia penale ma non da quella morale. E allora perché ne parliamo? Perché oggi lo sport preferito da tutte le fazioni è la strumentalizzazione e, senza rispetto davvero per nessuno, abbiamo assistito a sbandieramenti di questi atti di grazia privati e circostanziati come implicito avvallo di un’eutanasia fai da te e, di reazione, al sollevamento di tribunali catto-oltranzisti spietati che invocavano il carcere fino all’ultimo istante di pena per tre ultraottantenni. Non mi stupisco della disonestà intellettuale della cricca radicale: sono da sempre dei becchini piagnucolosi appollaiati sulla spalla di chi è lacerato dalla sofferenza, pronti a suggerire con voce suadente la via breve verso il cimitero come soluzione universale a tutti i guai. Mi rammarico invece per coloro che si professano difensori della cattolicità e poi dimenticano la banale pietà umana, lasciandosi infervorare da qualche provocazione pusillanime e finendo per fare la figura dì antipatici giudici dell’inquisizione. Non credo che si possa parlare di sacrificare la vita di tre persone per il bene comune, cioè rifiutare la grazia per il solo motivo di non dare un pretesto propagandistico alla Luca Coscioni & Co. Esiste un primato dell’individuo, unico ed irripetibile, su tutte le presunte battaglie di principio, soprattutto se si tratta di fuochi di paglia di qualche giorno rispetto ad anni di vita (presumibilmente gli ultimi) da passare in galera. Non facciamoci rubare pure la pietà. Irretroattiva la stretta sui permessi umanitari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2019 Sul caso Diciotti Matteo Salvini incassa il no al processo della Giunta per le immunità e tuttavia un dispiacere gli arriva dalla magistratura. Che, ieri, ha espresso un altro no, quello sulla retroattività della linea dura sui permessi di soggiorno per ragioni umanitarie. La Cassazione, infatti, con la sentenza 4890 della Prima sezione civile, ha deciso che le nuove regole non si applicano alle vecchie domande di “asilo”, ma solo a quelle presentate dopo il 5 ottobre scorso, data di entrata in vigore del decreto sicurezza. Gli effetti potrebbero essere significativi, visto che la gran parte delle richieste è stata presentata prima di quella data, che una buona parte delle domande è stata respinta dalle commissioni territoriali sulla base del nuovo e più ristretto elenco delle ragioni che danno luogo alla concessione del permesso. La riforma, infatti, ha ammesso il rilascio da parte del questore, dopo la trasmissione degli atti da parte delle commissioni, di un permesso di soggiorno per “protezione speciale” della durata di un anno, quando esiste un rischio di persecuzione del richiedente, per cure mediche oppure per calamità naturali (di durata però ridotta a sei mesi). Il punto su cui però si è concentrata la Cassazione è quello della disciplina della fase transitoria, dove, leggendo il decreto 113 del 2018, non sono state individuate indicazioni puntuali per i casi nei quali è ancora in corso, a vario titolo, l’accertamento del diritto. È vero che non è in astratto vietata l’applicazione immediata di una nuova norma, ma a patto che questo non contrasti con interessi costituzionalmente protetti. E di certo, puntualizza la sentenza, in quest’ultima categoria deve essere fatta rientrare la qualificazione giuridica del diritto all’accertamento dell’esistenza di seri motivi umanitari per potere usufruire del titolo di soggiorno. Si tratta di una linea, poi, in sintonia con quanto stabilito anche di recente dalla Corte di giustizia europea, con la pronuncia del 12 aprile 2018, nella quale è stata affermata l’illegittimità della diversità dell’esito di una richiesta di ricongiungimento, fondata sulla durata dell’accertamento del diritto. Tuttavia la Cassazione fa ancora un passo ulteriore. E afferma che, quando la verifica sull’esistenza dei “vecchi” requisiti ha dato un esito positivo, la durata del permesso non potrà essere superiore a quanto stabilito dalla riforma. Si tratta di una conclusione che i giudici considerano comunque coerente con la necessità di assicurare una condizione di rigorosa parità di trattamento di situazioni omogenee. “Migranti, il decreto Salvini non è retroattivo” Il Dubbio, 20 febbraio 2019 Secondo la Cassazione non è applicabile ai procedimenti in corso. Le nuove norme in materia di permessi umanitari contenute nel decreto sicurezza entrato in vigore lo scorso 5 ottobre non sono retroattive e, quindi, non sono applicabili ai procedimenti in corso. Lo ha sancito la prima sezione civile della Cassazione, con una sentenza depositata ieri. “La normativa introdotta con il dl n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno - secondo i giudici della Cassazione non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione”. I giudici, dunque, spiegano che all’”accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dei presupposti esistenti prima dell’entrata in vigore” della nuova legge “farà seguito il rilascio da parte del questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale” stabilita da uno degli articoli del decreto Salvini, in cui si prevede che per i “casi speciali” il permesso di soggiorno abbia la durata di 2 anni e, una volta passato questo lasso di tempo, vengano applicate le nuove norme più restrittive. “Deve escludersi che possa desumersi il principio dell’applicabilità immediata alle procedure in itinere della nuova disciplina legislativa incentrata sull’eliminazione del diritto all’accertamento di un titolo di soggiorno sostenuto da ragioni umanitarie”, osserva la Cassazione, nella sentenza depositata ieri e lunga 22 pagine, in cui rileva che si tratta di “situazione giuridiche soggettive che non possono essere scrutinate alla luce di un fatto generatore mutato rispetto al momento in cui è stato chiesto l’accertamento del diritto”. L’applicazione per i procedimenti in corso della disposizione sul provvedimento del questore relativo ai “casi speciali” serve a “determinare una condizione di rigorosa parità di trattamento di situazioni omogenee”, si spiega nella sentenza. Con la pronuncia di ieri - con la quale i giudici della Cassazione hanno esaminato e bocciato il ricorso di un cittadino della Guinea che si era già visto respingere dal tribunale di Napoli le domande di protezione internazionale e umanitaria - la Corte ha condiviso la linea della non retroattività già espressa con requisitorie scritte dalla procura generale della Cassazione nelle scorse settimane. Toscana: troppi detenuti psichiatrici in attesa di ricovero in Rems, tensione nelle carceri versiliatoday.it, 20 febbraio 2019 Il punto sulla realizzazione ormai annunciata da anni della nuova Residenza Sanitaria per l’Esecuzione della misura di sicurezza detentiva (Rems) nell’ex ospedale di Empoli e il quadro complessivo sulle soluzioni di media sicurezza pianificate ormai anni fa dalla giunta regionale in materia di sanità penitenziaria per pazienti con disagio mentale: è quel che chiede con un’interrogazione il Capogruppo di Forza Italia in Consiglio regionale Maurizio Marchetti. “Nei giorni scorsi - ricorda il capogruppo azzurro - ho avuto occasione di visitare il carcere San Giorgio di Lucca e lì mi sono assunto l’impegno di dare voce ai problemi degli istituti di pena per quanto attiene le competenze regionali. Quello relativo ai detenuti portatori di malattie psichiatriche mi è stato segnalato come uno dei più cogenti, con una quantità sempre maggiore di pazienti in attesa di un posto in Rems, la struttura che ha preso il posto dei vecchi Opg come era quello di Montelupo Fiorentino, o in altre di media sicurezza. In un contesto difficile come quello carcerario, la convivenza con pazienti psichiatrici e dichiarati socialmente pericolosi genera tensioni esplosive”. E quindi via, Marchetti è partito da lì con un atto che, ricostruita la cornice normativa dall’abolizione degli Opg alle delibere regionali che hanno disegnato il progetto della nuova rete di accoglienza e detenzione per gli autori di reato con patologie psichiatriche, si spinge a dar conto della situazione e delle segnalazioni giunte al capogruppo di Forza Italia: “Nelle more della realizzazione della Rems negli spazi della ex Casa Circondariale femminile di Empoli (Fi), che a regime dovrebbe arrivare ad ospitare circa 20 pazienti - ricostruisce Marchetti - la sola Rems presente in Toscana è quella sita a Volterra (PI), c/o l’area ospedaliera Padiglione Morel (in via transitoria) e Padiglione Livi (definitiva). Questa riceve pazienti detenuti da Toscana e Umbria e si compone di n. 2 moduli con capacità di accoglienza di 15 persone ciascuno, per un totale di 28 maschi e 2 femmine ospitabili”. La disponibilità è insufficiente: “La struttura di Volterra - richiama Marchetti - dal momento della sua apertura (1 dicembre 2015) ha contato 61 ingressi e 32 dimissioni. Da fonti carcerarie lo scrivente apprende della crescente necessità di posti all’interno di Rems, ovvero dedicati a persone con patologie psichiatriche autori di reato e quindi sottoposti a misure di sicurezza e detenzione, con lo svilupparsi di liste d’attesa che costringono a detenere il paziente destinato a Rems in istituto penitenziario, entro un ambiente inappropriato alle sue peculiarità e con conseguenze non solo sulla sua salute e sulle sue possibilità di recupero, ma anche sul benessere degli altri detenuti e degli operatori carcerari. Ancora, si segnalano allo scrivente carenze nella capacità di accoglimento presso le sezioni Atsm (Articolazione tutela salute mentale) dedicate a detenuti che sviluppino durante la loro permanenza in istituto di pena patologie psichiatriche incompatibili con la permanenza in istituto penitenziario ordinario”. Dunque i quesiti, con Marchetti che chiede il numero di detenuti in attesa di ingresso sia in Rems che in Atsm nonché “lo stato dell’arte” sulla realizzazione della nuova Rems a Empoli i tempi di apertura della stessa. Emilia Romagna: situazione insostenibile nelle mense delle carceri rassegna.it, 20 febbraio 2019 “La situazione delle mense ubicate nelle carceri dei territori di Piacenza, Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna, Rimini e Ferrara è oltre al limite della sostenibilità”. A denunciarlo in una nota sono i sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs Uil, Fp Cgil, Fns Cisl e Uil Penitenziari dell’Emilia Romagna. “I lavoratori ad oggi non hanno ancora ricevuto da Food&Facility la retribuzione di dicembre 2018 e gennaio 2019, oltre che essere ancora in attesa delle spettanze da parte dell’azienda Sybaris, facente parte anch’essa del Consorzio Unilabor ed uscita a marzo 2018 dall’appalto, di tre ratei di tredicesima e del trattamento di fine rapporto - spiegano i sindacati - Gli stessi lavoratori hanno dovuto ricorrere nell’ambito delle procedure fallimentari di JD Service nel 2017 per ottenere il trattamento di fine rapporto. Anche questa ditta faceva parte del Consorzio Unilabor”. “Non ci sono più le condizioni per proseguire, manca la merce, le mense non ricevono la giusta manutenzione, i lavoratori sono lasciati allo sbando - scrivono ancora i sindacati - la stessa Food & Facility da dicembre ha spento i telefoni. Il servizio nei fatti non è più garantito, ledendo così anche il diritto dei poliziotti penitenziari ad avere un pasto certo e di qualità. Cosa si aspetta?”. Secondo i sindacati, per queste ragioni “è urgente che il committente intervenga con l’immediato pagamento in sostituzione degli stipendi mancanti”, “come anche - aggiungono - non è più rinviabile la revoca dell’appalto a Unilabor e l’affidamento diretto ad una ditta che abbia le giuste credenziali per garantire la qualità del servizio e il pagamento degli addetti occupati nel servizio mensa”. “Il ministero della Giustizia continua da anni ad appaltare il servizio di ristorazione per la polizia penitenziaria ad aziende che manifestano come tratto comune, non solo in Emilia Romagna, la mancata erogazione degli stipendi ai lavoratori: è ora di dire basta - concludono i sindacati - Chiediamo risposte certe, per i lavoratori delle mense e per i lavoratori che a quel servizio hanno diritto”. Venezia: gli avvocati contro la stretta in carcere Il Gazzettino, 20 febbraio 2019 La stretta sulle condizioni di vita delle detenute del carcere della Giudecca preoccupa anche il Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati. Un giro di vite imposto dagli ispettori ministeriali, arrivati in laguna sulla scia dell’inchiesta per la morte dell’agente penitenziario Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza, che aveva già sollevato le proteste del garante dei detenuti, Sergio Steffenoni. Ora a mobilitarsi sono gli avvocati del Comitato pari opportunità che con l’associazione Granello di senape hanno organizzato anche degli incontri formativi per le detenute. “Conosciamo la casa reclusione donne delle Giudecca, come singoli professionisti e come Comitato - si legge in una lettera aperta - Ne conosciamo le numerose attività lavorative e riabilitative, le cooperative sociali e le associazioni di volontariato che le promuovono e le sostengono, tra mille difficoltà. Conosciamo le donne ristrette, la loro voglia di affrancarsi da un passato pesante, conosciamo i loro figli, ristretti con loro”. Di qui la preoccupazione per un “possibile restringimento degli spazi di riqualificazione e riabilitazione per le detenute”. “Con il massimo rispetto per il dolore delle persone toccate da un grave lutto e per la doverosa ricerca della verità relativa alla drammatica morte di una giovane agente penitenziaria - categoria che con dedizione e fatica collabora quotidianamente al percorso di cui si è detto - riteniamo che questo non debba in alcun modo compromettere il lavoro costruito faticosamente negli anni all’interno del carcere delle Giudecca nel tracciato dell’art.27 della Costituzione”. San Gimignano (Si): terminato sciopero fame dei detenuti, Cenni (Pd) visita il carcere antennaradioesse.it, 20 febbraio 2019 “Dopo varie segnalazioni in merito a criticità piuttosto evidenti, criticità che hanno visto l’attivazione di più iniziative istituzionali e che hanno registrato anche la protesta dei detenuti della scorsa settimana, ho ritenuto di chiedere, come nelle mie prerogative, una nuova visita al carcere di Ranza. Visita che dopo un rinvio da parte della Direzione del carcere e la mia rinnovata richiesta, ho potuto svolgere ieri. Un sopralluogo durato quasi due ore, accompagnata dal Comandante della polizia penitenziaria, nei vari reparti che mi ha permesso di parlare con i detenuti, con alcuni agenti di polizia penitenziaria e con i medici di turno delle varie sezioni. La situazione è sicuramente più calma rispetto alla scorsa settimana. I detenuti hanno sospeso lo sciopero della fame e ripreso le attività scolastiche e lavorative. Rimangono questioni aperte legate alla struttura, e all’organico ancora costretto a molte ore di straordinario e che ha comunque ancora una volta dato prova di grande professionalità garantendo il massimo della sicurezza anche nei giorni di massima tensione. Da molte settimane, inoltre, sono in assiduo contatto con il Provveditore Regionale e con l’amministrazione comunale di San Gimignano. Conto nelle prossime settimane di poter incontrare i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria in forza a Ranza, per fare il punto su questa fase”. Con queste parole Susanna Cenni, deputata del Partito democratico, commenta ad Antenna Radio Esse la situazione del carcere di Ranza dopo la visita di ieri all’istituto di pena. La parlamentare senese ha avuto modo di visitare i vari reparti e di incontrare, accompagnata dal comandante della polizia penitenziaria Andrea Tosoni, i detenuti, gli agenti e i medici della struttura di Ranza. Caltagirone (Ct): criticità nella sanità penitenziaria della Casa circondariale di Alessandro Annaloro primastampa.eu, 20 febbraio 2019 Numerose le segnalazioni in merito alle carenze di personale sanitario della Casa Circondariale di Caltagirone. La suddetta Casa Circondariale vede, ad oggi, un aumento dei detenuti. Infatti, attualmente il numero di detenuti è di oltre 500 unità e di questi molti sono affetti da patologie psichiatriche e di tossicodipendenza. Come riporta Catania Today, “una tale situazione non risulta essere adeguata agli standard previsti per l’assistenza sanitaria. È stato richiesto un aumento delle ore settimanali per il medico del Sert, la presenza di ulteriori due unità infermieristiche, di un vice Coordinatore medico e di un farmacista. Inoltre, è stato richiesto un aumento delle ore per i medici specialisti in oculistica e odontoiatria, con l’acquisto delle attrezzature sanitarie necessarie - denunciano i sindacalisti Failla, Bellia e Cirignotta - dato l’elevato numero di detenuti che fanno richiesta per risolvere i disturbi visivi e dentali. Ed ancora, è stato rappresentato che negli ambulatori adibiti a visita medica manca ad oggi il materiale di arredo e necessitano anche sedie, frigorifero, armadio per la custodia delle cartelle cliniche, postazione completa di computer e stampante”. La segretaria territoriale Fsi-Usae Catania, pertanto, chiede, ancora una volta al Commissario Straordinario, Dott. Lanza, un immediato intervento per garantire il diritto alla salute all’interno della Casa Circondariale di Caltagirone. “La situazione è grave ed è destinata a peggiorare se non si adotteranno le giuste soluzioni al più presto”, conclude Calogero Coniglio Segretario Regionale Fsi-Usae.” Aversa (Ce): nuove iniziative per il reinserimento sociale dei detenuti ilmeridianonews.it, 20 febbraio 2019 Le sinergie che la direttrice Giacquinto sta costruendo con l’associazione, mirano a fare della Casa di Reclusione della città un istituto in linea con gli standard europei di apertura e umanizzazione della detenzione. Il Centro Nazionale Sportivo Fiamma ha avviato in queste settimane dei progetti sociali da svolgersi all’interno degli istituti penitenziari della Campania, con il patrocinio del Garante dei Detenuti della Campania. Il primo progetto ad essere iniziato è quello sportivo presso la Casa di Reclusione di Aversa, ex Opg “Filippo Saporito”, grazie ad una sinergia avviata tra la dirigenza dell’istituto penitenziario, la Dott.ssa Carlotta Giacquinto e l’associazione Fiamma, che nelle passate settimane ha sottoscritto un protocollo di collaborazione. Durante il progetto oltre all’attività di avviamento allo sport, verrà anche promosso un corso di arbitro, al fine di riconoscere anche un percorso formativo, mentre le attività verranno svolte il sabato mattina preso il campetto dell’istituto o nei locali al chiuso in caso di cattivo tempo e vedrà coinvolti un numero consistente di detenuti divisi per attività. Le sinergie che la direttrice Giacquinto sta costruendo con l’associazione, mirano a fare della Casa di Reclusione di Aversa un istituto in linea con gli standard europei di apertura e umanizzazione della detenzione. L’ex Opg di Aversa, dove ora si trova il carcere a misura attenuata, è stato tra l’altro il primo manicomio giudiziario d’Italia. Le attività saranno coordinate invece dalla Dott.ssa Gilda pezzullo, che guida un equipe di operatori come la Dott.ssa lametta Annarita, ed il responsabile delle attività sportive Eduardo Cimmino, lo stesso dichiara “risistemare il campo, palloni, casacche e conetti sportivi, questi sono stati le prime attrezzatture sportive che hanno visto i detenuti che sono stati inseriti nell’attività progettuale, dopo molto tempo” - continua il responsabile sportivo del Fiamma - “queste persone per una serie di lungaggini burocratiche non svolgevano nessuna attività motoria, quindi la prima cosa sarà di farli riabituare al movimento fisico”. Sul progetto il responsabile dell’associazione Centro Fiamma, Antonio Arzillo fa notare “che lo svolgimento di attività culturali e sociali all’interno degli istituti penitenziari, pur essendo una realtà ormai consolidata, non ha un quadro normativo di riferimento particolarmente sviluppato. I programmi variano da istituto a istituto, le attività ricreative, tra cui lo sport, sono considerate dal 1975, anno della riforma dell’ordinamento penitenziario, uno dei pilastri del trattamento penitenziario che dovrebbe ottenere la rieducazione del condannato. Purtroppo una delle cause della scarsa pratica sportiva è meramente strutturale” - continua il dirigente - “qui siamo riusciti grazie alla volontà della direzione penitenziaria di poter ripristinare il campetto e di avviare un inziale progetto sportivo, ma presto ne seguiranno altri su nuovi settori, anche al fine di fare sperimentazione sociale” Infine come sottolineato più volte dal garante dei Detenuti Ciambriello “In Campania vi sono circa 8.000 detenuti, per 95 educatori e 43 psicologi. L’obiettivo sarà quello di aumentare gradualmente il numero di figure sociali a supporto di chi sconta la pena. Già durante quest’anno il numero di psicologi, assistenti sociali, sociologi, educatori sociali, avvocati che con continuità si sono recati nelle carceri, per mettere in campo nostre progettualità, sono aumentati. Il prossimo obiettivo che ci poniamo è quello di avviare corsi di formazione professionale da destinare ai detenuti”. Pesaro: la protesta artistica dei redattori detenuti, il giornale esce scritto a mano Redattore Sociale, 20 febbraio 2019 Tre mesi fa i computer della redazione sono stati sequestrati, ecco perché il numero di febbraio di “Penna libera tutti” il giornale del carcere di Pesaro è uscito in “forma pre Gutemberg”. Dal 2012 a oggi sono 150 i detenuti che si sono alternati in redazione, oggi sono 14, di cui 4 donne. “Questo numero esce in forma pre-Gutemberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili, non per cifra stilistica vintage oggi molto di moda ma perché in redazione non abbiamo più i computer”. Con queste parole i redattori di “Penna libera tutti”, il giornale del carcere di Pesaro, spiegano nell’editoriale del numero di febbraio la scelta di far uscire le 4 pagine in formato tabloid interamente scritte a mano. Il motivo? “Nel mese di novembre durante un’ispezione di routine è stata riscontrata la manomissione della password di administrator, manomissione fatta in buona fede nel tentativo di correggere delle anomalie che si verificavano nel software”, spiegano i redattori. Da qui il sequestro da parte degli ispettori della Casa circondariale. “I ragazzi capiscono il motivo del provvedimento ma visto che, dopo tre mesi, i computer non sono ancora tornati indietro, hanno pensato a questa forma pacifica di protesta: scrivere il numero a mano”, spiega il direttore Roberto Mazzoli. La protesta pacifica non è passata inosservata. Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttrice di “Ristretti orizzonti”, il giornale del carcere di Padova, l’ha definita “un’idea geniale perché si fa capire che si può protestare in modo non violento e quindi ancora più significativo”. Mentre Sibyl von der Schulenburg, che dirige Artisti Dentro onlus, un’associazione che si pone come tramite tra il dentro e il fuori le mura carcerarie, ha palato dalle pagine del Resto del Carlino di Pesaro, di “gesto artistico”. “Penna libera tutti” esce una volta al mese come inserto del settimanale interdiocesano “Il nuovo amico” dal 2012. “In questi 7 anni non abbiamo mai saltato un’uscita e abbiamo visto passare dalla redazione 150 persone - dice Mazzoli - Oggi sono 14 i redattori, di cui 4 donne”. Il carcere di Pesaro (200 detenuti per 130 posti) è una Casa circondariale “e il turnover è serrato”. In media i redattori rimangono per un anno e mezzo, due in redazione. “La nostra è una delle attività dell’area pedagogica che viene proposta ai detenuti - continua il direttore - le domande sono tante ma riusciamo a prendere al massimo 15 persone, le altre rimangono in attesa che il turnover le sblocchi”. Capita però che anche chi non partecipa alla redazione abbia la possibilità di scrivere sul giornale, “alcuni mandano lettere o articoli che cerchiamo di inserire, spesso si tratta del compagno di cella di uno dei redattori. C’è grande interesse per questa attività e l’uscita del giornale è un momento molto atteso: i detenuti se lo passano e lo spediscono ai familiari”. La redazione si riunisce una volta alla settimana, il venerdì mattina. Oltre a Mazzoli, in redazione c’è Francesca Renga a coordinare il lavoro dei redattori. “La redazione è multietnica, ci sono persone religiose e altre che non lo sono, l’età media è di 30/35 anni, il più giovane ha 23 anni, il più vecchio 60 - dice il direttore - Il vantaggio di Penna libera tutti è di essere inserito in un altro giornale che riesce a portare la voce dei detenuti a tante persone. La linea editoriale che ci siamo dati non è quella del Nuovo amico, ma si rifà a Ristretti orizzonti: ci siamo dati un’autodisciplina e raccontiamo l’esperienza della detenzione ponendo attenzione sia verso chi scrive sia verso chi è fuori”. Da quattro anni anche gli studenti delle scuole superiori del territorio entrano in carcere. Da ottobre a dicembre 2018 sono entrate 7 classi. “Gli insegnanti fanno compilare agli studenti una sorta di questionario per capire cosa sanno del carcere - spiega Mazzoli - Nel primo incontro il dialogo nasce in maniera spontanea, si legge il giornale, si fanno raccontare dai detenuti cos’è la detenzione”. Durante l’anno gli studenti rimangono in contatto con la redazione in forma epistolare. “Il percorso si chiude alla fine dell’anno quando gli studenti ritornano in carcere - continua - e il questionario compilato all’inizio viene ribaltato: i ragazzi si fanno un’idea più precisa del carcere e spesso cadono i pregiudizi verso una realtà che appartiene alla città. È un percorso di legalità”. Reggio Calabria: Libera Calabria e Centro Agape, incontri nelle scuole e nelle carceri agensir.it, 20 febbraio 2019 “Liberi di scegliere”. Ha questo tema il progetto promosso da Libera Calabria e dal Centro comunitario Agape di Reggio Calabria e che, da oggi al 23 febbraio, prevede incontri testimonianze nelle scuole del reggino e in strutture penitenziali per adulti e minori. “Questi momenti che vivremo serviranno a parlare con gli alunni nelle scuole dove ci sono ragazzi che hanno genitori in carcere. Con loro parleremo per spiegare il senso di questa iniziativa e di ‘ndrangheta, ma non solo”, spiega Domenico Nasone, responsabile del settore giustizia e minori della segreteria regionale di Libera. Al centro del progetto di sensibilizzazione, “i protocolli del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria per l’allontanamento dalle famiglie ‘ndranghetiste e l’eventuale perdita di patria potestà, che pure sono soluzioni di estrema ratio, per tutelare il diritto del bambino o ragazzo a un’educazione libera da condizioni omertose e mafiose”, in tutti quei casi in cui “la famiglia è assolutamente non idonea”. Dal 2012 il Tribunale reggino ha emesso “60 decreti di cui una ventina ancora in atto”, specifica Nasone. Il responsabile sottolinea che “in diverse circostanze, prima ancora che il giudice faccia un decreto di imperio, sono le stesse mamme a chiedere aiuto al tribunale e Libera, grazie alla collaborazione di parroci e associazioni locali, si interessa dell’accoglienza delle mamme e dei bambini trasferiti”. Nasone, che ricorda come “l’iniziativa sia in continuità con quello che facciamo da tanto tempo” e che il primo impegno in tal senso “fu già nel 1980”, evidenzia che “da due anni c’è un importante coinvolgimento di Caritas e Cei che sostengono il progetto”. Durante gli incontri “anche la testimonianza di un giovane che negli anni Ottanta fu aiutato a uscire dalla criminalità organizzata e che poi si è rifatto una vita”. Illustrando ancora l’iniziativa, Nasone specifica: “Non porremmo solo attenzione alla famiglia omertosa e mafiosa, ma porremo una domanda inquietante: quale libertà di scelta ha il bambino che vive in un degrado economico e sociale?”. Infatti, “non è solo la ‘ndrangheta che impedisce di scegliere, ma le gravi situazioni di abbandono e povertà. Responsabilità ha anche lo Stato che dovrebbe creare lavoro, opportunità e servizi, riducendo i livelli di povertà”. Firenze: artisti e detenuti per un murales nel carcere di Sollicciano gonews.it, 20 febbraio 2019 Dopo aver lavorato nella Casa circondariale di Ariano Irpino, nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e nella sezione Vega e nella sezione Andromeda della Casa circondariale di Rimini, il gruppo di “Non me la racconti giusta” ha fatto tappa nella Casa di reclusione di Firenze Sollicciano. Non me la racconti giusta è il progetto nato nel 2016 grazie alla collaborazione tra il magazine di arte e cultura contemporanea ziguline, gli artisti Collettivo Fx e Nemo’s, e il fotografo e videomaker Antonio Sena. L’obiettivo di tutto il progetto è esplorare la realtà carceraria italiana attraverso l’arte e riportare all’esterno impressioni, problematiche e il racconto di cinque giorni in cui gli artisti lavorano a stretto contatto con un gruppo di detenuti con i quali condividono la realizzazione di un murales all’interno delle mura del carcere. I propositi sono molteplici, infatti, Nmlrg vuole aprire una finestra che metta in comunicazione l’ambiente carcerario con l’esterno, alimentando la discussione su giustizia e carcere e coinvolgere i detenuti in un progetto culturale non calato dall’alto ma di cui siano i soli responsabili e i veri e propri project manager, responsabili dell’intero processo creativo. La struttura di Sollicciano è stata progettata seguendo lo schema di un giglio, simbolo di Firenze, il che la rende una struttura poco sicura, dove spostamenti e questioni amministrative diventano ancor più complicate. In questa bolgia di burocrazia, abbiamo lavorato con 12 detenuti della Sezione 13 - Emanuele, Gianluca, Franco, Bala, Luis, Kledian, Christian, Stefano, Renzo, Azfal, Issam - dipingendo all’interno dell’area comune. Il modus operandi è rimasto invariato e, dal brainstorming iniziale, sono emerse problematiche riguardano la burocrazia, un termine riduttivo che descrive bene però l’intero sistema carcerario e che, a Sollicciano, è un problema acuito dal sistema di sicurezza che prevede solo quattro ore al giorno fuori dalle celle, con tutte le piccole e grandi difficoltà quotidiane che ne derivano. Questo, insieme a una lettura individuale della situazione attuale di ognuno di loro, ha dato vita a due progetti paralleli. Da un lato, un simbolo di ciò che va cambiato nel carcere e nella propria vita e dall’altro un manifesto di denuncia contro la pressante burocrazia che rende invivibile la quotidianità tra quelle mura. Sul primo muro si trovano quattro telecomandi, in cui ogni tasto ha una forte valenza identificando in ogni parola l’assenza di qualcosa o la necessità di modificarne l’intensità. Cambiare, aumentare, diminuire, ripetere, sono tutti comandi importanti se legati, per esempio, al coraggio, alla pazienza, alla giustizia, alla tristezza. Sull’altra parete, un’imponente mano/timbro indica/giudica un uomo bloccato su un’altissima pila di documenti, pronta a marchiare una “domandina” (i moduli che i detenuti utilizzano per qualsiasi tipo di richiesta all’amministrazione) con un solenne “attendere”, a testimonianza della lentezza della burocrazia che opprime pesantemente il sistema carcerario. A Sollicciano finora, abbiamo riscontrato la partecipazione intellettuale più forte, il che probabilmente deriva dalla mancanza di qualsiasi tipo di attività ricreativa, escluso lo sport a cui possono accedere diverse volte a settimana. Il gruppo ha lavorato con molto entusiasmo, con interesse verso la forma d’arte proposta e verso i contenuti, e con complicità e collaborazione tra di loro e con noi. Il brainstorming finale ha evidenziato la voglia di mettersi alla prova e di potersi esprimere in altri progetti, mostrando anche la volontà di auto organizzarsi e proporre idee all’amministrazione nella speranza di alleviare la dura routine nella sezione. Lavorare in una sezione protetta ci ha offerto nuovi spunti di riflessione e dato vita a ulteriori visioni sul carcere e su come rappresenti un sistema complesso con enormi difficoltà nella gestione di un luogo così lontano e così vicino al mondo esterno. Alla quinta esperienza continuiamo a trovare lampante che l’opinione pubblica consideri ancora il carcere un problema lontano, ignorando o sottovalutando quanto sia una questione che ci riguarda da vicino sia dal punto di vista sociale che economico. Attraverso la diffusione del materiale prodotto all’interno del carcere e del racconto della nostra esperienza, stiamo cercando di abbattere il “muro” di pregiudizi e alimentare la discussione sull’argomento, nella speranza che possa contribuire nella costruzione di un sistema più efficiente e umano. Sostenitori “Non me la racconti giusta” è stato permesso grazie alla disponibilità e all’ospitalità di Raffaella Ganci che ci ha supportato nell’organizzazione, della Casa circondariale di Firenze Sollicciano, in particolare del Direttore Fabio Prestopino e del responsabile educativo Gianfranco Politi, e del Ministero della Giustizia. Un ringraziamento speciale va a Mino Sebastiano per l’immagine grafica. Migranti. Due ufficiali sudanesi che lo torturarono saranno testi contro il giovane eritreo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2019 È accusato di essere il capo dei trafficanti di esseri umani, ma si tratterebbe di uno scambio di persona. “I due agenti sudanesi che sono stati ammessi come testi dalla Corte d’Assise di Palermo sono coloro che l’hanno massacrato di botte, torturato per venti giorni e sono quelli che l’hanno consegnato ai loro capi chiedendogli ventimila euro per liberarlo”. Così spiega a Il Dubbio l’avvocato Michele Calantropo, difensore del rifugiato eritreo molto probabilmente confuso con il vero trafficante di esseri umani. Ebbene sì, il Pm di Palermo ha voluto ascoltare come testi i due agenti del Sudan e la Corte d’Assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto li ha ritenuti rilevanti. Ma chi sono i due ufficiali sudanesi che verranno a testimoniare il 18 marzo contro il ragazzo eritreo Medhanie Tesfamariam Berhe arrestato il 24 maggio del 2016 in Sudan, estradato in Italia il 7 giugno del 2016 e rinviato a giudizio qualche mese dopo con l’accusa di traffico di persone e di essere Medhane Yehdego Mered, ritenuto uno dei più grandi trafficanti di esseri umani sulla cosiddetta “rotta libico- subsahariana” e al centro di indagini condotte dalla stessa procura sui trafficanti coinvolti nella strage di Lampedusa del 2013? I due agenti appartengono al Niss, acronimo di National Intelligence and Security Service. Parliamo della principale arma di repressione del brutale regime islamico del Generale Omar Al Bashir, sul quale pende un mandato di arresto internazionale per crimini contro l’umanità in Darfur. L’ammissione come testi da parte del giudice della Corte d’Assise ha fatto irritare anche Amnesty International dichiarando che la decisione del giudice è inaccettabile per un Paese democratico, sottolineando che “qualsiasi tipo di collaborazione giudiziaria tra l’Italia e la polizia sudanese è moralmente inaccettabile”. Basta infatti leggere il rapporto di Amnesty ed è da far venire la pelle d’oca. In Sudan le forze di sicurezza hanno preso di mira esponenti di partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altri abusi. Le libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica sono state arbitrariamente limitate. Negli stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud la situazione umanitaria e della sicurezza è rimasta disastrosa, con diffuse violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali sui diritti umani. La Niss coordina le azioni terroristiche delle milizie islamiche Janjaweed che massacrano i sudanesi di origine africana nel Darfur con lo specifico intento di sterminare anche i gruppi etnici Fur, Masali e Zaghawa, secondo quanto sostiene la Corte Penale Internazionale e molti ufficiali della Niss sono indagati proprio dalla corte internazionale stessa. A questo si aggiunge il dramma del contenimento degli immigrati tramite accordi bilaterali. L’arresto del giovane è da inquadrare, almeno cronologicamente, in quella cooperazione pratica di polizia che nel 2016 l’Italia stava sviluppando con particolare riferimento al Sudan, ritenuto nodo strategico dei passaggi verso la Libia ed il Mediterraneo. Parliamo del famoso memorandum che prevedeva degli accordi per contrastare le partenze dei migranti irregolari (in realtà profughi in fuga, molti provenienti dall’Eritrea, diretti verso l’Europa) per stabilire una collaborazione di polizia nella caccia ai trafficanti che dal Sudan, in quel periodo, riuscivano a controllare la rotta libica. L’avvocato Calantropo tiene a specificare a Il Dubbio che però “tale accordo non prevedeva assolutamente una collaborazione giudiziaria”. Infatti, il Memorandum contiene una clausola specifica in base alla quale la stessa intesa non produce effetti in materia di estradizione e di mutua assistenza giudiziaria in materia penale. Ma, come dimostra anche il caso del giovane eritreo Mered, in realtà la collaborazione tra autorità italiane e polizia sudanese avviene anche dal punto di vista giudiziario e certamente si può pensare che ciò avvenga in un quadro normativo non assolutamente certo e privo- in Sudan - di qualsiasi garanzia per i diritti di difesa delle persone indagate. Un quadro, quindi, devastante se si pensa che i rapporti delle Nazioni Unite hanno confermato il grado di collusione tra le forze di polizia e le organizzazioni di trafficanti che in Sudan garantivano il passaggio di migliaia di persone in fuga dal Corno d’Africa. Con torture annesse. Nonostante questo quadro devastante il 18 marzo due esponenti delle forze di sicurezza del regime di Bashir (ricercato dalla corte penale internazionale) testimonieranno contro il giovane eritreo che ha subito torture proprio da loro. Come reagirà trovandosi a faccia a faccia con il loro aguzzini in un’aula di tribunale? Mered, infatti, non ce la fa più. Sono oramai tre anni che è rinchiuso in carcere e non riesce a capire come mai - nonostante le prove che con grande sacrificio, anche economico, ha prodotto l’avvocato Calantropo - lui sia ancora ritenuto il famigerato trafficante. E di prove che lo scagionerebbero ce ne sono tante, anche se alcune non sono state ammesse dalla Corte. Dal 2016 ad oggi, come spiega l’avvocato, la magistratura di Palermo non sarebbe stata in grado di trovare testimoni che possano rivelare che il rifugiato eritreo sia realmente il noto trafficante Medhanie Yehdego Mered. Eppure è ancora accusato e rinchiuso in carcere (l’istanza di scarcerazione è stata recentemente respinta dal giudice), nonostante le due prove del Dna e la perizia fonica eseguita proprio dal perito del tribunale che ha dichiarato incompatibile la voce del giovane eritreo con quella del vero trafficante. La prima prova che discolperebbe Mered è stata fatta prelevando un campione del Dna al figlio del vero trafficante, Raei Yehdego Mered, che vive in Svezia assieme alla moglie del criminale. Un test che non lascia dubbi: il giovane eritreo non è il padre. Un secondo test del Dna è stato condotto sulla madre dell’indiziato, Meaza Zerai Weldai, che ha viaggiato da Asmara fino a Palermo nell’ottobre 2017 per sottoporsi al test. Le analisi dimostrano che Weldai è la madre del detenuto. Tra Weldai e il vero trafficante non vi è alcuna relazione di parentela. Il primo di questi test è stato però rifiutato dal tribunale di Palermo. L’avvocato Calantropo ha aggiunto: “Il tribunale ha respinto il teste che ha visto il vero trafficante dopo l’arresto del mio cliente”. Su questa vicenda c’era stato anche uno scontro tra procure. Mentre per i pubblici ministeri di Palermo il giovane è il trafficante, per la procura di Roma il ‘ generalè è un altro uomo ed è stato un pentito a rivelarlo. Si tratta di un complice dei trafficanti condannato a dieci anni: Haile Seifu, questo è il suo nome, aveva riconosciuto Mered in tutt’altra persona, l’uomo col crocifisso che era raffigurato sul profilo Facebook della moglie del “generale”. Droghe. Modica quantità e grande repressione di Maurizio Coletti Il Manifesto, 20 febbraio 2019 Con un duetto ben orchestrato, Antonio Polito del Corriere della Sera e Lorenzo Fontana (Ministro alla Famiglia con deleghe sulle politiche antidroga), rompono il silenzio tombale steso da decenni sui temi dei consumi giovanili. A dire il vero, Fontana (oltre alle uscite sul gender, sull’omosessualità, sui diritti civili e sulle famiglie arcobaleno) ha alzato la voce altre volte invocando la mitica “tolleranza zero”, inneggiando ai cani nelle scuole, urlando che la droga “fa schifo”. E Polito ha insistito più volte negli ultimi anni sulle sue posizioni oltranziste circa questi temi. Nulla di nuovo, dunque? Non direi. Intanto, le loro dichiarazioni riaffermano l’esigenza imprescindibile di una risposta globale ai temi legati ai consumi (Fontana insiste su un approccio globale e integrato, seguendo gli orientamenti internazionali; pur se nella stessa intervista richiama i risultati positivi delle “bonifiche ambientali”), mentre Polito afferma l’urgenza della celebrazione di una Conferenza per una “concertazione delle strategie”. Un confronto aperto e civile sulle scelte, sulle strategie che apra la strada ad una stagione nuova di discussione e di scelte da verificare sarebbe auspicabile. Fontana sostiene che ci sarebbero strade differenti dalla Conferenza (una consultazione on line era già stata proposta anni fa; ma ci dovrà pur essere un momento di sintesi collettiva, vero?), attendiamo con curiosità scettica che il Governo chiarisca le sue intenzioni. Alcuni passaggi delle loro affermazioni sono davvero fuorvianti. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che Fontana al fine di segnalare l’importanza di una rinnovata azione vada a visitare San Patrignano. Qualcuno sui social ha notato che, se esiste un approccio vetusto e superato, quello è rappresentato proprio da San Patrignano. Perché il Ministro non va a visitare qualche SerD? Si renderebbe conto direttamente delle devastazioni prodotte dai tagli lineari e dalle politiche miopi che anche questo Governo e le Regioni mettono in atto. Se, come afferma Antonio Polito, i SerD non sono in grado di accogliere un’utenza nuova e diversa da quella classica, perché non si trovano le forme per rinforzarli? Personale, aggiornamento, risorse adeguati. Secondo il punto di vista di Polito, i genitori dei consumatori sono disperati. Non faccio fatica a crederlo e a sottoscriverlo. E propone che “le Comunità” prelevino questi figlioli riottosi a farsi curare, li allontanino dai luoghi rischiosi, facciano passare loro un tempo “educativo” adeguato e li restituiscano alle famiglie belli e nuovi. Con tutta la delicatezza ed il rispetto per la vicenda orribile, dolorosa e sconvolgente di Pamela (per cui mi auguro che il processo in corso faccia chiarezza sui colpevoli e li condanni a pena adeguata), la ragazza risiedeva in una Comunità Terapeutica. Ma, soprattutto, l’idea del giornalista è quella di rispondere ai genitori in crisi prendendo in carico i figli. Per loro, per i padri e le madri, questo sarebbe sufficiente. Senza alcuna idea sul come aiutarli nell’area difficile e complicata della genitorialità, delle emozioni, dei ruoli. Inoltre, si afferma che l’uso (il consumo patologico preferirei) sia una spia di un disagio preesistente. Ottimo! Polito sconfessa l’idea che l’addiction sia una “malattia primaria”! Si mette le mani su uno dei paradigmi più fuorvianti degli ultimi vent’anni. Da un ministro che parla di abolizione della modica quantità non ci aspettiamo nulla di buono se non la galera per i giovani. Sfidiamo quindi il Governo a confrontarsi sul terreno di una indispensabile revisione del DPR 309 del 1990, per cui è depositata in Parlamento una proposta di legge elaborata dalla Società della Ragione, alla Camera da Riccardo Magi con l’atto n. 865 e al Senato da Gianni Pittella con il n. 937. Droghe. La legalizzazione della canapa fa paura e dà alla testa di Franco Corleone L’Espresso, 20 febbraio 2019 La “war on drugs” ha prodotto guasti terribili nei paesi produttori e nei paesi consumatori nel tempo lungo di dominio del proibizionismo imposto come pensiero unico dagli Stati Uniti al mondo intero. Un’ideologia salvifica e moralista, che ha seminato morte e incarcerazione di massa ha spacciato menzogne antiscientifiche comprando ricercatori e divulgatori. Finalmente la costruzione affaristica è crollata e il re si è mostrato nudo. La legalizzazione della canapa è stata approvata in Uruguay, in Canada e in molti Stati degli Usa, dalla California al Colorado. Queste scelte effettuate da Parlamenti liberi e sostenuti da referendum popolari sono fondate su scelte umane contro la criminalizzazione dei giovani e sui risultati della scienza libera e non asservita al potere. Anche in Italia abbiamo conosciuto il peso della svolta reazionaria voluta da Bettino Craxi (il suo più grave errore) e dagli epigoni come Carlo Giovanardi e Gianfranco Fini. Le carceri piene per violazioni minime della legge antidroga (detenzione o piccolo spaccio) e i tribunali intasati per processi alle streghe; le prefetture sommerse da segnalazioni per semplice consumo che dal 1990 hanno colpito più di un milione di persone. Il movimento contro la proibizione e per la riduzione del danno si è battuto con le armi della conoscenza e della cultura. Tanti volumi, saggi, studi e i Libri Bianchi della Società della Ragione e delle altre associazioni impegnate contro lo stigma. Alla fine la cancellazione da parte della Corte Costituzionale della legge Fini-Giovanardi ha segnato una svolta. E ora? Il successo della canapa terapeutica e la prospettiva della legalizzazione suscita reazioni incomprensibili. È bastata la pubblicazione di un libretto di tale Alex Berenson ex reporter e dal 2010 dedito alla fiction, contro la marijuana per fare impazzire tanti insospettabili. Una pagina di Federico Rampini su Repubblica (“Dite che fa male”), Solvia Bencivelli sul Venerdì di Repubblica (“Spiegate ai vostri figli che non è leggera”), Arnaldo Benini sul supplemento di cultura del Sole 24 Ore (“Non fatevi quella canna”). Per non parlare dei pezzi di Antonio Polito sul Corrierone. E poi ci stupiamo delle uscite del ministro antidroga Fontana? Non si può vietare niente, ma si può chiedere a lor signori che cosa hanno letto su questo argomento? Hanno letto il volume fondamentale “Marijuana, i miri e i fatti” di Zimmer e Morgan, pubblicato in Italia da Vallecchi nel 2005? Hanno letto le opere di Giancarlo Arnao (una antologia di scritti intelligenti è Fuori dai denti,Edizioni Menabò del 2002)? Hanno letto le opere dell’illustre scienziato Gian Luigi Gessa? Hanno letto i saggi di Grazia Zuffa e il suo ultimo volume “Droghe e autoregolazione” edito da Ediesse? Mi piacerebbe che prima di scrivere affastellando luoghi comuni qualcuno leggesse il mio saggio pubblicato su Mdd, Medicina delle Dipendenze, nel numero del settembre 2014 intitolato “Canapa tra diritto e salute”. La lezione di Stuart Mill rimane la pietra di paragone per affermare la responsabilità degli individui; non per nulla il suo saggio su La Libertà fu pubblicato dalle edizioni di Piero Gobetti. Afghanistan. Tra i soldati italiani a Herat: “Se ce ne andiamo è la fine” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 febbraio 2019 La missione dei militari del nostro esercito: formare le forze armate afghane. Ogni anno un terzo delle reclute muore (o fugge). Il capannone è gigantesco. Ben visibile a fianco della pista dell’aeroporto. Un intrico di pali e traversine sorreggono centinaia di pannelli di metallo roventi d’estate e gelidi d’inverno. All’interno le luci elettriche illuminano i campi di battaglia simulati, segnati da trincee nel terriccio, dune, avvallamenti, tratturi che riproducono la realtà dei luoghi degli attentati, curve a gomito e canali di scolo dell’acqua dove spesso i talebani e gli altri gruppi della guerriglia pongono mine e trappole esplosive. Nei campi aperti tutto attorno gli istruttori italiani fanno lezione agli afghani sulle tecniche anti-imboscata per i convogli in movimento con il ricorso a cani addestrati e speciali robottini cingolati di fabbricazione canadese che hanno la capacità di disinnescare gli ordigni grazie al loro cannoncino che spara getti d’acqua ad alta pressione. Il tenente colonnello Iorio - “Sono tra i corsi più apprezzati dai comandi afghani. Mine e bombe artigianali risultano la causa maggiore delle loro perdite”, spiega il tenente colonnello Vincenzo Iorio, 42enne di Caserta, che per la Brigata Friuli gestisce le attività addestrative. È alla sua terza volta in Afghanistan dal 2002. Un veterano delle operazioni all’estero, come del resto lo sono tanti tra i circa 800 militari italiani (una cinquantina a Kabul, il resto ad Herat) operanti oggi nel contesto della “Resolute Support”, la missione internazionale composta da 41 contingenti per un massimo di circa 16.000 soldati guidati dagli americani che dal gennaio 2015 hanno cambiato il vecchio mandato Nato-Isaf (il quale dal 2002-3 prevedeva la presenza attiva sul territorio) per trasformarsi in “addestratori e assistenti”. In poche parole: da forza combattente di sostegno al governo ad istruttori chiusi nelle caserme con il compito di formare addestratori afghani. A che punto siamo oggi? Cosa lasceremmo se dovessimo partire nel prossimo futuro, come del resto ha lasciato intendere di recente Donald Trump assieme alla rivelazione dell’esistenza di negoziati aperti tra americani e talebani volti a pacificare il Paese quale promessa per la fine della missione internazionale? La missione - Per una decina di giorni li abbiamo seguiti ed ascoltati questi professionisti dedicati al compito di contribuire a rendere finalmente le forze di sicurezza afghane capaci di stare in piedi da sole in quella che dalla metà del decennio scorso è stata la “provincia italiana dell’Afghanistan”: la regione occidentale al confine con Iran e Turkmenistan. È stato lo stesso generale Salvatore Annigliato, comandate di turno della guarnigione di Campo Arena ad Herat, a sottolineare la validità degli oltre 300 corsi per quasi 3.000 istruttori afghani in più di tre anni. “Da quelli di pronto soccorso, alla formazione dei medici di guerra, alle lezioni di logistica per approntare operazioni militari complesse, sino all’informatica, le tecniche della comunicazione, le strategia anti-guerriglia, la formazione dei convogli, la gestione dei posti di blocco e dei pattugliamenti in aree urbane. A cui si sommano i 45 milioni di euro spesi in 13 anni sino al marzo 2014 dall’organismo militare di assistenza ai civili per costruire strade, acquedotti, il carcere femminile, oltre 100 scuole, aiutare le strutture sanitarie, contribuire all’agricoltura, agli studi universitari compresa una cattedra d’italiano alla facoltà di lingue di Herat che oggi ha oltre 30 iscritti”, racconta. “Per ora tutto continua invariato. Le attività sono regolari. Gli stessi americani e i comandi Nato sostengono che non ci sono ritiri in vista. Ci stiamo preparando per assistere la polizia e la 207esima brigata di stanza a ovest nella preparazione delle elezioni presidenziali pianificate per il 20 luglio, come del resto abbiamo aiutato in occasione di quelle parlamentari che si sono tenute in ottobre. Le direttive sono che lasceremo l’Afghanistan solo quando sarà pacificato”, aggiunge. Eppure, sarebbe cieco non rilevare le enormi difficoltà di una situazione regionale e nazionale di grave e crescente instabilità. I timori - Lo stesso presidente Ashraf Ghani a metà gennaio ha rivelato che circa 45.000 tra poliziotti e militari afghani hanno perso la vita in scontri a fuoco con i talebani e altri gruppi estremisti di vario tipo (tra cui Isis) negli ultimi quattro anni. Da quando gli afghani hanno la totale responsabilità della sicurezza nazionale non passa giorno che non subiscano vittime. Un numero enorme, visto che in totale sono meno di 300.000. Nonostante la censura imposta da due anni dalle autorità centrali, la stampa afghana riporta continuamente di caserme attaccate e devastate dai talebani con il massacro dell’intera guarnigione e la rapina metodica di armi, munizioni e mezzi. I buchi negli organici afghani - A Campo Arena il tenente colonnello dei Carabinieri Corrado Faggioni mostra uno studio interno dei comandi Usa secondo il quale ogni anno tra morti, feriti, renitenti e disertori le forze di sicurezza afghane perdono quasi un terzo degli uomini. Significa che più o meno ogni tre anni il ministero della Difesa a Kabul è costretto a ricostruire da zero i suoi effettivi, inclusi quelli addestrati dalla forza internazionale di cui gli italiani fanno parte. Uno smacco preoccupante. Nell’ufficio di Annigliato è lo stesso comandante militare afghano del settore occidentale, il generale 54enne Noorullah Qadiri, a raccontarci le sue difficoltà: “In meno di 10 mesi ho subito 800 morti e 1.100 feriti. Nello stesso periodo abbiamo ucciso 3.000 talebani e ferito altri 2.000. Ma loro contano ancora almeno 17.000 guerriglieri, 3.000 nella zona di Herat, sono aiutati da potenze straniere con il Pakistan in testa. Hanno armi e ottimi finanziamenti. Ecco perché ringrazio di cuore la comunità internazionale che ci aiuta e soprattutto gli italiani. Però ancora non siamo autosufficienti. Se fossimo lasciati soli rischieremmo di essere sopraffatti”. Con lui cerchiamo di capire cosa si possa fare di più a 18 anni dalla guerra del 2001. Dove abbiamo sbagliato se la situazione è ancora tanto grave? “Dobbiamo migliorare le squadre degli artificieri, continuare gli addestramenti. I talebani hanno ottime tattiche per attaccare i nostri posti di blocco”, replica. La guerriglia - Grave il fatto che molte delle regioni dove stavano le basi avanzate lasciate dagli italiani nel 2014 siano ora in preda alla guerriglia e alle bande criminali. Vale per Farah, come per Shindand, Balah Murghab e tante delle zone montagnose nel Baghdis. Lo testimoniano i circa 250.000 profughi fuggiti proprio da quelle regioni a causa di siccità, della violenza e del freddo invernale che adesso abitano il gigantesco campo di tende alla periferia occidentale di Herat. Non manca un folto numero di rientrati dall’Iran in piena crisi economica. Sono in maggioranza di etnia pashtun e vengono visti dagli Hazara e Tajki locali come un grave elemento di destabilizzazione. In città sono aumentati i furti, si teme che tra loro si nascondano talebani. “Occorre che gli italiani restino. Sono una garanzia per l’ordine interno e di crescita”, dice il 32enne Aduzar Shadaman, proprietario di una nuova pasticceria nel centro. Ha già subito tre rapine in otto mesi e adesso tiene in negozio una guardia armata di Kalashnikov col colpo in canna. Australia. I migranti confinati sulle isole di Silvia Guzzetti Avvenire, 20 febbraio 2019 Richiedenti asilo dipinti come pedofili o assassini che tentano di entrare illegalmente nel Paese. L’Australia, a tre mesi dalle elezioni generali, viene descritta dal premier liberale Scott Morrison e dai suoi ministri di governo come una terra presa d’assalto da migliaia di migranti pericolosi che arrivano via mare dalla vicina Indonesia. La minaccia viene ripresa dalle vignette xenofobe pubblicate sui tabloid popolari e già qualcuno fa paragoni con il muro voluto dal presidente Usa Donald Trump e con la sua politica altrettanto restrittiva nei confronti dei migranti. In realtà, secondo quanto sottolineano molti analisti, la coalizione al governo a Canberra arranca nei sondaggi e, per recuperare terreno, starebbe cercando di trasferire il dibattito politico da temi complessi come sanità e istruzione a dossier più popolari come l’immigrazione. Al momento, sempre secondo gli esperti, il governo è preoccupato da sondaggi allarmanti secondo i quali la coalizione potrebbe essere punita dalle urne. Insomma la campagna elettorale australiana per le elezioni del prossimo maggio è già cominciata ed è chiaro che si giocherà sulla politica migratoria. I deputati hanno deciso di consentire ad alcuni dei mille rifugiati detenuti nei centri offshore dell’isola di Manus nella Papua Nuova Guinea e sullo Stato insulare di Nauru di recarsi in Australia per cure mediche. Il premier Morrison, liberale, ha risposto sottolineando che la nuova misura incoraggerà i trafficanti di esseri umani e si è detto costretto a correre ai ripari con la riapertura, già stabilita, di un altro controverso centro di detenzione migranti sull’Isola di Natale, che era stato chiuso nei mesi scorsi dopo le polemiche sul modo in cui venivano trattate le persone ospitate. E dal 2013 che l’Australia manda i richiedenti asilo che arrivano a bordo di imbarcazioni nei due centri della Papua Nuova Guinea. In passato i profughi venivano inviati sull’Isola di Natale, territorio australiano nell’Oceano Indiano a circa 2.600 chilometri dall’Australia e 300 a sud dell’Indonesia. Con la nuova legislazione, approvata questa settimana, sarà sufficiente la richiesta di almeno due medici perché alcuni dei mille rifugiati di Manus e Nauru possano arrivare in Australia a ricevere le cure delle quali hanno bisogno. La sconfitta è stata particolarmente scottante per il governo australiano perché si è trattato della prima volta, in almeno dieci anni, in cui l’esecutivo è stato battuto su un voto relativo ad un suo provvedimento legislativo nella Camera dei Rappresentanti. Il premier Morrison ha subito escluso la possibilità che la legge potesse essere applicata soltanto a coloro che si trovavano già nei centri di detenzione e ha accusato l’opposizione di tentare di “indebolire e compromettere i nostri confini”. L’Australia, nelle parole del ministro per l’Immigrazione David Coleman, rischia di tornare a un passato molto oscuro, quando migliaia di richiedenti asilo arrivavano in Indonesia e poi pagavano trafficanti che li portassero sulle coste del Paese via mare. I deputati dell’opposizione hanno risposto accusando il governo di fare del terrorismo psicologico e sottolineando che la concessione di cure mediche riguardava soltanto i profughi detenuti nei campi del Pacifico. Anche se l’opposizione laburista, con la decisione di questi giorni di consentire ai profughi detenuti nei centri di Nauru e Manus di arrivare in Australia per ricevere cure mediche, sembra ora aver ammorbidito la propria linea sulle politiche migratorie, in passato sia la maggioranza che l’opposizione hanno usato il pugno di ferro verso chi richiedeva asilo. Ha cominciato nel 2011 il premier liberale John Howard rifiutando a una nave norvegese il permesso di sbarcare i naufraghi che aveva raccolto in mare. Secondo le nuove leggi da lui stesso fatte approvare, tutti i migranti dovevano essere inviati e detenuti sulle isole di Manus e Nauru. Una scelta che all’epoca era stata duramente criticata dalle associazioni umanitarie come Amnesty International. Un anno dopo la premier laburista Julia Gillard rispolverò il piano di Howard annunciando che i richiedenti asilo dovevano attendere anni prima di stabilirsi in Australia. Nel 2013 il laburista Kevin Rudd decise non solo che i richiedenti asilo dovevano essere inviati in Papua Nuova Guinea ma che, se la loro domanda fosse stata accolta, dovevano stabilirsi in quel Paese anziché in Australia. Ora, nelle intenzioni dell’attuale governo uscente, la nuova stretta sui migranti. Che però dovrà passare al vaglio degli elettori.