Arriva Skype per favorire i rapporti con i familiari di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2019 I pc si potranno utilizzare anche per programmi didattici e progetti formativi. Videochiamate tramite Skype per facilitare le relazioni familiari dei detenuti e garantire le loro esigenze affettive: è quanto prevede una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che, dopo aver valutato l’esperienza dei progetti-pilota avviati in alcuni istituti, ha deciso di estendere su larga scala l’installazione e l’utilizzo della piattaforma di telecomunicazioni. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ha commentato così al Dubbio: “Con questa iniziativa dimostriamo di star lavorando concretamente al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Oltre ai colloqui con i propri familiari, i pc potranno essere utilizzati per l’installazione di ulteriori programmi di tipo didattico anche per progetti educativi e formativi. Tutto ciò allo scopo di perseguire una priorità: riempire il tempo libero dei detenuti negli istituti. È soprattutto attraverso questo passaggio gestionale che miglioriamo le condizioni di vita dei detenuti, perché se li lasciamo anche semplicemente passeggiare con le celle aperte, senza fargli fare nulla, alla fine creiamo una situazione di alienazione, lì dove è importante invece occupare il tempo di queste persone anche in attività ricreative”. Come prevede la normativa non tutti i detenuti tuttavia potranno beneficiare di questa possibilità. Accanto alla finalità affettiva risulta fondamentale, infatti, che tutto si svolga nella massima sicurezza, spiega il comunicato del ministero della Giustizia. Grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche e di Internet, i detenuti potranno avere contatti più agevoli con figli, genitori o coniugi, alleggerendo il peso di spostamenti, attese e incontri all’interno delle strutture penitenziarie. A beneficiarne saranno, in particolare, i bambini che hanno genitori in carcere, con i quali potranno avere contatti audio- visivi rimanendo in casa. Come spiegano dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria “dal punto di vista giuridico, la videochiamata viene equiparata ai colloqui, anche per quanto riguarda autorizzazioni, durata e controlli. I detenuti, in linea generale, potranno fare fino a sei video-colloqui al mese per la durata massima di un’ora. Per quelli in attesa di giudizio sarà necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria”. Nei prossimi giorni la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati invierà 400 pc portatili ai Provveditorati Regionali che, a loro volta, li distribuiranno agli istituti penitenziari dell’ambito territoriale di competenza, in numero di 2 pc a istituto. Prima di essere ammessi a effettuare le videochiamate ai familiari, i detenuti devono presentare richiesta indicando l’indirizzo mail da contattare e allegando copia del certificato che attesta la relazione di convivenza o il grado di parentela. Il familiare o il convivente destinatario della chiamata deve, invece, assicurare (tramite autocertificazione) che parteciperanno al collegamento esclusivamente i soggetti indicati nella richiesta e autorizzati. Per il collegamento i detenuti verranno accompagnati in appositi locali degli istituti dove avranno a disposizione postazioni informatiche abilitate. Per assicurare, accanto alla riservatezza, anche condizioni di completa sicurezza, i colloqui si svolgeranno sempre sotto il controllo visivo del personale della Polizia Penitenziaria che da postazione remota potrà visualizzare le immagini che appaiono sul monitor del computer in dotazione al detenuto. Storia di Julius, che è “marcito in galera” di Diego Bianchi Il Venerdì di Repubblica, 1 febbraio 2019 Sono nigeriano del Biafra, ho 57 anni e sono qui da 40. Però non ho la cittadinanza italiana perché la mia è una storia un po’ complicata”. Sorride amaro Julius mentre mi parla della sua vita che definire “complicata” è un eufemismo. Lo fa per cortesia, voglia di condivisione, speranza di essere utile e rivincita con se stesso. Ci incontriamo alla Stazione Termini, a Roma, di sera. Piove e fa freddo. “Ho bazzicato questo posto per tanto tempo; venivo a spacciare l’eroina”. Julius non usa giri di parole. In Italia ci è arrivato a 17 anni con una borsa di studio. Si diploma a Padova ma, dopo un anno di Università a Venezia, si ritrova senza soldi a causa di un colpo di Stato nel suo Paese. E addio al finanziamento previsto. Julius, però, ha un permesso di soggiorno: inizia a subaffittare casa a connazionali poco raccomandabili finendo coinvolto in un arresto senza prove a carico. “Siete neri, siete tutti uguali”, gli dicono quando lo prendono. Dopo appena tre mesi nel carcere di Regina Coeli Julius diventa eroinomane per colpa di un connazionale. Riconosciuto innocente, dopo altri tre mesi è libero, ma la dipendenza dall’eroina lo arruola nella mafia nigeriana dello spaccio su scala nazionale. “Ora si parla tanto di mafia nigeriana, ma è un fenomeno che esiste dalla fine degli anni 80. Senza la mafia italiana, quella nigeriana non esisterebbe. Tra l’altro i miei clienti erano soprattutto italiani. Di loro mi fidavo di più e poi mi pagavano”. Mentre entra ed esce di galera per un totale di 14 anni di reclusione, Julius si innamora di una donna italiana (che lo lascerà per disperazione dopo aver tentato invano di strapparlo alla droga) dalla quale ha una figlia, oggi ventiduenne, che sta per laurearsi ma non vuole più vederlo. Julius parla di sé eroinomane e spacciatore come fosse roba di un secolo fa. Ricorda quando nel 2003 incontra la Fondazione Villa Maraini che gli cambia la vita. “Mi hanno trattato come un figlio”, dice sottolineando la rarità della cosa. Lavora come cuoco, è volontario per la Croce Rossa e fa advocacy spiegando ai giovani che oggi stanno commettendo i suoi errori come non ne valga la pena. Julius conosce fin troppo bene la realtà del carcere. È lì che ha cominciato davvero a marcire. Lì ha conosciuto la droga. Quando gli chiedo cosa prova ascoltando le parole di ministri e politici che auspicano che un condannato marcisca in galera, Julius si emoziona. “Chi dice così non sa cos’è la vita”, risponde cercando le parole più dure e pacate che trova. Il “cambiamento”, visto dal fondo di una cella di Adriano Sofri Il Foglio, 1 febbraio 2019 Consegnato al Papa il libro con le migliaia di firme dei detenuti che aderirono al digiuno per l’amnistia in occasione del Giubileo dei carcerati. Mercoledì Rita Bernardini, con Alessio Falconio e Massimiliano Coccia, ha finalmente consegnato al Papa Francesco il libro rilegato con le firme dei detenuti che aderirono al digiuno per l’amnistia in occasione del Giubileo dei carcerati, 2016. Circa ventimila le firme, circa dieci chili il volume (“Tascabile”, si è complimentato il Papa). Il libro ha un frontespizio di Vincino con Pannella-Cristoforo che porta sulle spalle il Papa che inalbera il cartello “Amnistia”. Mi rallegro per l’incontro. Il ritardo con cui è avvenuto fa ricordare chi non c’è più, e permette ai vivi di apprezzare il “cambiamento” che si è consumato e si consuma, se lo si misuri dal fondo di una cella. Il naufragio. I diritti e l’alibi della sicurezza di Armando Spataro* La Repubblica, 1 febbraio 2019 La sicurezza, sbandierata come priorità assoluta, costituisce ormai un brand da diffondere a scopo pubblicitario. Fu così ai tempi della war on terror, che - come spiegò Bauman - consentì di introdurre negli Stati Uniti ed altrove (ma non in Italia), in nome del contrasto del terrorismo, norme e prassi in qualche modo limitanti i diritti dei cittadini ma da loro tollerate. E così avviene adesso in Italia per fronteggiare i problemi del fenomeno migratorio: la soluzione ideale è diventata, in nome appunto della sicurezza, quella di non far arrivare migranti in cerca di protezione o, se già accolti, di sbarazzarsene nel maggior numero possibile. Una logica, purtroppo ormai propria anche di altri Stati europei, che si tenta di rafforzare con affermazioni allarmanti: le Ong vengono accusate di complicità o tolleranza nei confronti dei trafficanti di essere umani, al fenomeno migratorio si addebitano rischi di proliferazione del terrorismo, del traffico di armi, di stupefacenti, petroli e opere d’arte. Spunta fuori la notizia di fonte ignota secondo cui, a bordo della “Diciotti”, potevano esserci terroristi. E i centri accoglienza diventano strumenti di illeciti guadagni, se non - addirittura - obiettivi di strategie mafiose. Ma le cose stanno proprio così? La risposta è “no”, con una preliminare osservazione: criminali e reati possono purtroppo annidarsi dovunque, anche nelle istituzioni e persino in quelle preposte a perseguirli. Ed i responsabili, quando scoperti sulla base di prove sicure, vanno ovviamente perseguiti con la durezza necessaria. Ma è ingiusto attribuire ai migranti le colpe degli scafisti che li sfruttano - così confondendo vittime e colpevoli - e alle Ong una sorta di “concorso esterno”. La balla dei terroristi sui barconi è addirittura clamorosa ed è stata ormai disattesa anche nel resto d’Europa: si può immaginare che chi vuole uccidere e farsi esplodere accetti di morire nel Mediterraneo, avendo peraltro la possibilità di servirsi di mezzi e percorsi più sicuri? Sono in corso inchieste in Italia su tali ipotesi (una a Napoli e l’altra a Palermo) e in attesa della loro definizione può solo dirsi che riguardano poche persone. A Milano, fu provata la falsità dell’accusa a un giovane marocchino immigrato di avere partecipato alla strage del Bardo del 2015, mentre il tunisino Anis Amri, autore della strage di Berlino del dicembre 2016, risultò radicalizzato in Italia ben dopo il suo arrivo e comunque scollegato da contesti associativi. Quanto ai traffici illeciti, non vi è prova nel contesto italiano di movimentazioni di petrolio, armi ed opere d’arte ad opera di scafisti. La tratta di persone, i traffici di stupefacenti e le attività di associazioni criminali a ciò finalizzate sono invece reati da sempre efficacemente perseguiti dalle procure italiane competenti, ma gli imputati non sono certo coloro che, sfruttati, viaggiano verso una speranza di vita. E comandanti ed equipaggi delle navi delle Ong, quando salvano i migranti che affollano i gommoni, non sono certo concorrenti nel reato di immigrazione illegale (per sua natura nascosta) addebitabile agli scafisti: come può esserlo chi si rivolge agli stati costieri per approdare nei porti sicuri in nome di convenzioni e principi internazionali? E venendo alla gestione dei centri di accoglienza, i problemi non riguardano solo i criminali che tentano di lucrare sulle loro meritevoli attività, ma anche la necessità che il trattamento riservato a chi vi è ospitato sia dignitoso e mai degradante, come potrebbe essere quello di migranti forzosamente ammassati in condizioni da “prigione amministrativa”. In definitiva, si lasci indagare chi ha l’obbligo di farlo, senza ingiustificata enfatizzazione del tema della sicurezza, che non vince sui diritti fondamentali e deve essere assicurata dai competenti organi amministrativi, senza intrusioni di campo e sollecitazioni improprie ad altri poteri costituzionali. Salvo che non ci si voglia conformare anche in Italia alla teoria dell’”esecutivo unificato”, ben illustrata nel film “Vice - L’uomo nell’ombra” di Adam McKay sulla storia di un potente vice presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney: una teoria secondo cui il governo può stabilire procedure senza tener conto degli altri poteri. In fondo già qualcuno in Italia ebbe a dire non molti anni fa che l’essere legittimati dal voto a governare pone gli eletti in condizione di insindacabilità da parte dell’ordine giudiziario i cui componenti sono semplici vincitori di un concorso! Una visione del potere che da noi spesso ritorna. *Procuratore capo presso il Tribunale di Torino Ripensare le comunità per sconfiggere le paure di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 1 febbraio 2019 Serve una rinascita della passione civile e solo la ricostruzione di aggregazioni, che affrontino la solitudine, porterà a una coscienza più positiva dell’altro. Il politologo Yascha Mounk ha ben colto la sensazione di tanti in questi anni: “per quasi un secolo la democrazia liberale è stato un sistema politico predominante in buona parte del mondo. Oggi quell’era potrebbe essere agli sgoccioli”. C’è una crisi transnazionale della democrazia liberale dal Brasile alle Filippine, passando per l’Europa. Non un contagio politico-ideologico, come fu il marxismo, ma un cambiamento che viene dalla trasformazione umana e antropologica della globalizzazione nell’ultimo quarto di secolo. Qui sta il passaggio decisivo: le ricadute della globalizzazione sulla donna e l’uomo contemporanei. Su di esse abbiamo poco riflettuto, anche perché spesso le nostre categorie sono rimaste al passato; invece è avvenuta una rivoluzione antropologica globale. La politica è cambiata, perché le persone sono cambiate. Gli sconfinati orizzonti globali hanno suscitato grande paura, e le persone non si sentono più protette dall’arrivo dei lontani, dai vicini estraniatisi, dalla fragilità dell’economia, dalla violenza. Mircea Eliade parlava di “paura della storia”. Altro che “fine della storia”. La teorizzava Fukuyama nel 1992 - all’inizio della globalizzazione - con La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui prevedeva la vittoria generale dei principi liberali. Invece per l’uomo comune oggi c’è un eccesso di storia. Si pensi ai migranti, divenuti volto dell’insicurezza: la storia di paesi lontani si riversa “invasiva” nel mio paese. C’è paura della storia in società che invecchiano, dove la gente è sola. La città globale è sempre più realtà di molte solitudini, mentre comunità e famiglia si sfrangiano. Luigi Zoja parla di “morte del prossimo”, creatrice di solitudine. Prima dell’era globale, anche le periferie erano abitate da legami, partiti, sindacati, comunità. Una galassia di corpi intermedi che legavano alle istituzioni e alla politica. Questo si è dissolto. Restano, in Italia, la rete della Chiesa e la scuola. La diffusa solitudine è una profonda sofferenza che esprime un bisogno d’identificazione in qualcuno, che rappresenti e rassicuri. Dalla paura dei soli viene l’ansia di controllare il proprio spazio, mettendolo in sicurezza. Si comincia con la domanda di una politica interna di più sicurezza, anche se i nostri paesi non sono così insicuri. La domanda di sicurezza è stampata sulle porte e le inferriate delle case, nelle gated cities del Sud del mondo; ma anche nella familiarità con l’uso personale delle armi. La paura della storia chiede una politica estera che rafforzi le frontiere. Tale politica, seppure usa un linguaggio nazionalista, ha solo in parte a che fare con i vecchi nazionalismi, che rappresentavano più passioni vitali che paure. Nelle vene della società circola rabbia, trovando interpreti politici capaci di rinfocolarla. C’è rabbia in tanti io, nutriti dal fascino del vittimismo, figlio di una società educata dal consumismo all’insoddisfazione e all’assenza del limite. Pankaj Mishra parla dell’età della rabbia. L’assassinio del sindaco di Danzica, simbolo della rinascita cittadina, esprime l’estremismo di questa rabbia. Tanto varia da paese a paese. Ma colpisce lo sfondo antropologico simile: i sentimenti di persone sole, che non si ritrovano nelle mediazioni istituzionali o le disprezzano. Queste, più che socializzarsi, si verticalizzano ritrovandosi in un leader, magari forte, che affronta le elezioni con spirito da referendum su di lui e la sua politica. È il referendum di tutti i giorni. Quando si riflette sulla risposta politica a tutto questo, non si deve dimenticare che ci si misura con forti cambiamenti antropologici e non con contingenze. Si può far muro alla breve: è la politica dei castori che fanno la diga per fermare la corrente - dice Raphäel Glucksmann. Ma il vero lavoro è sul lungo periodo. Su questo ci interroghiamo poco, ma è decisivo per invertire la rotta. Il primo aspetto è la cultura. Il rapporto tra politica e cultura (e culture popolari) - come fu nella Repubblica dei Partiti - non tornerà più. È avvenuta una deculturazione di massa (che investe pure millenarie religioni, creando i fondamentalismi). L’Italia è in fondo alla classifica europea dei laureati, solo dopo la Romania. Bisogna investire della cultura per arginare lo spaesamento dei cittadini in un mondo complesso. Ma c’è un aspetto ancor più decisivo: solo la ricostruzione di reti e aggregazioni, che affrontino la solitudine, potrà ridurre le paure e portare a una coscienza più positiva dell’altro. Si tratta della rinascita della città comunitariamente vissuta (e questa ha un ruolo importante nel mondo globale); lo sviluppo del “noi” nei mondi contesi tra rabbia e paura. I populismi non hanno simpatia per i residui corpi intermedi, come si vede dalla diffidenza in Italia verso il volontariato sociale, arrivando a prevedere per esso l’aumento della tassazione. Solo la Lega, con intelligenza della “liquidità contemporanea”, sposa la rete sul territorio con la presenza molto attiva sul web e una leadership pronunciata. Bisogna contornare le istituzioni democratiche con società, città, periferie, ambienti popolati da reti. Per questo ci vuole una rinascita di passione civile che spinga molti a mischiarsi alla società, creando e rinnovando corpi sociali, con un investimento generoso e di lungo periodo. Bauman, alla fine della vita, era convinto che bisognava ripopolare la società globale di reti comunitarie. Mi sembra che tematiche simili siano riecheggiate nel messaggio del presidente Mattarella a fine anno sul decisivo passaggio di sentirsi “comunità” e “pensarsi dentro un futuro comune”. Se non si lavora sul tessuto umano disastrato della società, sono inevitabili gli smottamenti nel senso della travolgente corrente globale. Fra politica e giustizia: verso il finale di partita? di Sergio Lorusso La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 febbraio 2019 “In Senato chiederò se siamo ormai in una Repubblica giudiziaria”: è quanto ha affermato il vicepremier e Ministro dell’Interno Matteo Salvini in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera martedì scorso con la quale ha capovolto la sua posizione rispetto al caso Diciotti, chiedendo ai colleghi senatori di rigettare la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti presentata dal Tribunale dei ministri. E ieri sera ha parlato di “invasione di campo”. Il cerchio sembra chiudersi politicamente, in maniera paradossale, venticinque anni dopo. Fu proprio la Lega (Nord) di Umberto Bossi, nel 1993, ad avviare in Parlamento la stagione del giustizialismo che caratterizzò la l’ultimo scorcio della prima Repubblica - ed il consequenziale scontro tra poteri-con il famoso cappio agitato in aula a Montecitorio dall’on. Luca Leoni Orsenigo in piena Tangentopoli, per protesta nei confronti della consuetudine dei due rami del Parlamento di negare l’autorizzazione a procedere allora prevista dall’art. 68 comma 2 Cost. anche per l’avvio di un processo penale, facendo scattare l’immunità per deputati e senatori. Oggi, dopo che la seconda Repubblica è stata caratterizzata da una conflittualità permanente tra magistratura e politica che ha contribuito (per una vicenda giudiziaria di carattere personale e non legata ad episodi corruttivi, nella quale ha avuto un peso non secondario la dimensione etica) in maniera significativa alla caduta di Silvio Berlusconi, condizionando, in parte, anche il governo Renzi grazie al caso banche agitato dalle opposizioni e, in particolare dai Cinque Stelle, la terza Repubblica inaugurata lo scorso anno al grido di “fuori i corrotti, fuori la Casta e stop ai privilegi” si trova di nuovo a farei conti con un caso giudiziario che coinvolge un membro del Parlamento, ministro e vicepresidente del Consiglio. Certo, in questo caso, il comportamento che si addebita a Salvini non mira a realizzare un vantaggio patrimoniale, anche perché, se così fosse, l’articolato iter previsto dalla Carta fondamentale e dalla legge costituzionale di attuazione (1. cost. 16 gennaio 1989, n. 1) non sarebbe neanche iniziato, rispondendo i ministri dei reati comuni nelle stesse modalità previste per ogni cittadino. Si tratta, per l’appunto, di un reato ministeriale - anche se si traduce in una fattispecie di estrema gravità, il sequestro di persona, per il quale è prevista una pena cospicua - compiuto nell’esercizio delle proprie funzioni, rispetto al quale le norme vigenti richiedono, perché si possa procedere, che l’accusato non abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico. È questo il punto nodale della questione, è questo il quesito al quale i senatori dovranno rispondere. Va detto che si tratta di valutazione tutt’altro che agevole, per i margini di discrezionalità che - escludendo casi lampanti che possano risolversi de visu - inevitabilmente comporta. Lo dimostra proprio l’iter giudiziario della vicenda alquanto inusuale, pur se pienamente consentito dal codice di rito, con una richiesta di archiviazione dell’organo dell’accusa a fronte della quale è intervenuta la valutazione di opposto tenore del Tribunale dei ministri. Accade, ma non di frequente. Ad ogni modo, qualora il Senato dovesse dare l’ok alla richiesta formulata dal Tribunale dei ministri, è più probabile che il processo si concluda con un’assoluzione trattandosi di una contestazione debole. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da giurista qual è, ha correttamente rilevato che non siamo di fronte ad un problema d’immunità. Tuttavia, uscendo dal dato meramente tecnico-giuridico, è anche vero che tale normativa mira a creare un (legittimo) “scudo” in ordine all’operato dei ministri e che non è da tutti i giuristi condivisa: c’è chi ha parlato di un “fossile legale”, peraltro risalente ai tempi in cui l’attuale codice di procedura penale non era stato ancora varato. Ciò detto, per tornare al piano politico, le scelte operate dall’attuale partito di maggioranza relativa in merito alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini rischiano di condurre, oltre che ad una crisi (se non ad un disfacimento) del Movimento Cinque Stelle-che del giustizialismo e della lotta ai privilegi della Casta ha fatto una bandiera (non più tardi del 2017 invocavano la cancellazione dell’immunità parlamentare, eccezion fatta per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle proprie funzioni), non già al consolidamento di quella che il giurista statunitense Robert Bork ha definito “giuristocrazia” (si tratta, invero, di un fenomeno non circoscritto al nostro Paese ma di portata globale, pur se con diverse sfaccettature, ma alla sua débâcle). Quale, infatti, tra le forze politiche della maggioranza e dell’opposizione potrebbe più indossare l’abito del censore e del moralizzatore? Tutte, prima o poi, hanno invocato schermi e scudi per difendere le loro posizioni, un po’ come i protagonisti de La fattoria degli animali di George Orwell, che una volta arrivati al potere trasformano il loro settimo comandamento “tutti gli animali sono uguali” nel più vantaggioso “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Con buona pace del più attuale “uno vale uno”. Ecco perché, più realisticamente, il titolo della prossima rappresentazione della politica italiana potrebbe essere: “Repubblica giudiziaria ultimo atto”. David Ermini: “Magistrati eletti dal popolo? Che follia” di Giacomo Losi Il Dubbio, 1 febbraio 2019 il vicepresidente del Csm contro “i tentativi di delegittimazione delle toghe” da parte della politica: “rispettare gli equilibri previsti dalla costituzione”. “È un tentativo di delegittimazione quando si dice che un giudice non è eletto dal popolo. Non lo è perché la Costituzione, a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza, fa sì che i magistrati non siano eletti da nessuno e non debbano cercare il consenso popolare”. Parole del vicepresidente del Csm, David Ermini, il quale interviene nei giorni caldissimi dello scontro tra il ministro dell’Interno, Matteo Salvini e un pezzo di magistratura. Ovviamente il pezzo che indaga su di lui in relazione alla vicenda della nave Diciotti, e che rischia di mandarlo a processo con l’accusa, pesantissima, di sequestro di persona. Del resto Salvini ha più volte sottolineato che lui è stato eletto dal popolo mentre i giudici no. Come dire: cari pm, se volete far politica dovete passare per il voto popolare. E già nel 2017, dal palco di Pontida, luogo fondativo del mito leghista, Salvini aveva promesso: “La Lega al governo proporrà un progetto di legge per avere giudici eletti direttamente dal popolo”. Ma molti costituzionalisti avevano immediatamente smontato l’ipotesi di una legge del genere. Una legge ordinaria, infatti, non potrebbe rendere la carica di magistrato elettiva. Per farlo sarebbero necessarie modifiche della nostra Costituzione e, naturalmente, dell’ordinamento giudiziario attuale. L’articolo 106 della Costituzione stabilisce che “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”, e che (articolo 107) “i magistrati sono inamovibili”. Le due norme servono a garantire l’elevata professionalità del giudice, che appunto deve passare un concorso pubblico che ne certifichi la competenza, e la sua libertà da condizionamenti esterni. Un giudice che fosse eletto, senza un vaglio tanto stringente delle sue capacità giuridiche, potrebbe rivelarsi incompetente. Allo stesso modo un giudice, anche eletto all’interno di una categoria di persone ritenute competenti (ad esempio, i laureati in legge, o anche laureati che abbiano passato un apposito concorso), potrebbe piegare il proprio giudizio alla convenienza elettorale qualora dovesse ottenere la rielezione. Questo avrebbe oltretutto delle ricadute sull’omogeneità dell’amministrazione della giustizia (i giudici tenderebbero ad assecondare le priorità percepite, e non necessariamente reali, dei propri elettori) e sulla sua qualità. Una riforma costituzionale, che sarebbe inevitabile, richiederebbe d’altro canto tempi più lunghi e un elevato grado di consenso tra le forze politiche (almeno una maggioranza semplice sia alla Camera che al Senato) oltre che nella popolazione. Fatto sta che nello scontro tra poteri il vicepresidente Ermini prende decisamente le difese delle toghe e ribadisce: “Ogni istituzione non deve delegittimare l’altra, se rimaniamo nella divisione dei poteri che sta nella Costituzione non c’è nessuno scontro - assicura. Noi abbiamo una Costituzione perfetta nei suoi equilibri, non ha senso delegittimare un’istituzione nei confronti di un’altra. Se andiamo avanti all’unisono, ognuno nelle sue competenze, la Costituzione ne esce rafforzata”. I magistrati, ribadisce il vicepresidente del Csm, “non sono condizionabili dalla ricerca del consenso ed emettono le sentenze in nome del popolo, non secondo la volontà del popolo, danno al cittadino garanzia di riserbo, competenza equilibrio ma non sono sacerdoti della volontà popolare”. Poi “se i giudici sbagliano nell’esercizio della giurisdizione ci sono tre gradi di giudizio, per altre condotte la magistratura ha dimostrato di essere molto severa nel giudizio e di avere anticorpi molto forti”. Baby gang Como, quei 17 ragazzi terribili e i genitori che li difendono di Anna Campaniello Corriere della Sera, 1 febbraio 2019 Hanno dai 14 ai 17 anni, vengono da famiglie problematiche, vanno male a scuola e avevano formato un “branco” che con le sue incursioni terrorizzava i negozianti del centro e i coetanei. “Non si rendono conto dei reati”. A un ragazzino terrorizzato, oltre ai dieci euro che aveva in tasca, hanno portato via pure le scarpe. Da altri coetanei rapinati di smartphone e auricolari hanno preteso anche bibite e panini appena comprati al fast-food. “Sbirri di m.., non ci fate paura. Tanto tra mezz’ora siamo fuori, vi possiamo anche ammazzare”, ripetevano a poliziotti e carabinieri che, nella loro estate di follia, in più occasioni li hanno fermati, identificati e denunciati. Prima di riconsegnarli ai genitori che, “minimizzavano e li difendevano, nella migliore delle ipotesi”. Rapine, estorsioni, furti, danneggiamenti, lesioni. In tutto, sono 38 gli episodi contestati ai diciassette componenti di una baby gang di ragazzini comaschi che, da giugno a ottobre, ha seminato il panico in città, in un’escalation di violenza che ha portato il tribunale dei minori di Milano a emettere un’ordinanza restrittiva, eseguita all’alba di ieri. Cinque giovanissimi sono in carcere, 7 in comunità e 5 si sono visti notificare l’obbligo di permanenza in abitazione. L’ultimo componente della banda ha meno di 14 anni e non è imputabile. L’accusa per tutti è di rapina, estorsione, furto aggravato, ricettazione, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Gli indagati hanno dai 14 ai 17 anni, mentre due sono diventati maggiorenni in queste settimane, dodici sono italiani e cinque di famiglie di origine straniera. Per il procuratore della Repubblica dei minori Ciro Cascone avevano “comportamenti antisociali, distruttivi verso le cose, deturpanti verso l’ambiente, umilianti e prevaricanti verso le persone, specialmente quelle più deboli, oppositivi e insofferenti nei confronti dell’’autorità”. “Le famiglie non si sono rese conto della gravità del comportamento dei loro figli e di cosa stavano facendo, nonostante i continui affidamenti dei ragazzini quando venivano fermati e denunciati - evidenzia il questore di Como, Giuseppe De Angelis -. I contesti familiari hanno influito sull’educazione dei minori e portato a questa degenerazione dei comportamenti veramente preoccupante, non solo per la frequenza e gravità degli atti, ma anche per la capacità catalizzatrice e aggregativa di altri ragazzini”. Tra il 23 agosto e il primo settembre sono dieci gli episodi contestati alla banda. In una sola giornata, i ragazzini sono arrivati a compiere fino a tre raid. “Passavano dalle rapine ai coetanei sugli autobus ai colpi nei negozi - spiega il tenente colonnello Donato Di Gioia, vicecomandante provinciale dei carabinieri. Entravano in massa per creare confusione e poi rubare abiti e generi alimentari”. I ragazzini si davano appuntamento in centro a Como e il capoluogo era il loro terreno d’azione privilegiato, anche se hanno colpito in alcuni casi fuori città. Si spostavano con bici e motorini in gran parte risultati rubati. In un fine settimana d’estate, sapendo che una coetanea era fuori città con i genitori, la banda ha devastato l’appartamento della ragazza. Oltre a rubare oggetti di valore e vestiti, i ragazzini hanno distrutto arredi ed elettrodomestici e sono arrivati a urinare in camera da letto. Dopo il colpo hanno postato le foto con gli abiti rubati sui social. “Erano sprezzanti nei confronti degli operatori delle forze dell’ordine e certi di restare impuniti, come ripetevano quando venivano fermati, quando minacciavano e insultavano gli agenti”, conferma il questore. Gli agenti della squadra mobile della questura di Como, agli ordini di Sergio Papulino, e i carabinieri del reparto operativo, comandati dal tenente colonnello Andrea Ilari hanno lavorato per settimane per dare un nome e un volto a tutti i componenti della baby gang. Nel mese di novembre, a Milano, i fascicoli sui singoli episodi sono stati unificati e affidati a un solo magistrato. In poche settimane la svolta nelle indagini e l’ordinanza restrittiva per i 17 ragazzini. “Sono sempre stati certi di restare impuntiti - hanno riferito gli investigatori, ma quando ci siamo presentati a casa loro con l’ordinanza hanno cambiato atteggiamento. Non hanno obiettato nulla, diversamente dai loro genitori, che ancora si sono mostrati increduli e sorpresi”. “Il provvedimento - auspica il procuratore Cascone -, è stato valutato anche come l’avvio di un percorso di responsabilizzazione, di rieducazione e recupero sociale”. Caso Cardito. Odiosità chiama odio e muove a pena infinita di Ferdinando Camon Avvenire, 1 febbraio 2019 La cronaca dei grandi delitti segue sempre la stessa evoluzione: comincia dall’esplosione del fatto, raccontato con brutalità, prosegue con la reazione del pubblico, carica di drammaticità, si conclude, quando va bene, con il pentimento del colpevole. Di questa sequenza la fase più importante e rivelativa è la reazione del pubblico, la caterva d’insulti, minacce e malauguri che si sfoga su Facebook. L’ultimo grande delitto della nostra cronaca è quello del patrigno che ha ammazzato a calci, pugni e colpi di bastone il figlioletto di 7 anni (qualche giornale dice di 6) della sua compagna, e ferito gravemente la sorellina, di un anno più grande. Lasciamo stare i motivi, non ci sono motivi che possano giustificare, e neanche spiegare, una violenza del genere. La reazione dei lettori è stata prevedibile, concorde, crudele. “Sei un’immondizia” diceva il primo messaggio. Qui scrivo in italiano, ma il testo era in dialetto napoletano. “In carcere ti faranno la festa”, diceva l’ultimo, cioè “ti ammazzeranno di botte”. E non è la prima volta che il carcere è visto come un luogo di giustizia, non nel senso che è giusto condannare al carcere, ma nel senso che il carcere sa cosa fare dei condannati odiosi. I vecchi carcerati sono i giudici e i giustizieri dei nuovi carcerati, e a modo loro fanno una giustizia più giusta dei tribunali. Questo pensa tanta gente. Questo pensano quelli che hanno reagito alla notizia dell’uccisione a calci e bastonate del bambino di 6 o 7 anni, ad opera del patrigno, che è ancora un ragazzo, perché ha solo 24 anni. In questa fase, nello scatenamento sui media, Facebook in testa, del bisogno di giustizia da parte dei lettori, si realizza quella che Aristotele chiamava “catarsi”: lo sfogo dei sentimenti che la notizia ha caricato nella massa. La catarsi ha un effetto positivo, perché sfogando i sentimenti purifica coloro che se li portavano dentro. Quei sentimenti sono naturali. Il colpevole di assassinio se li merita. Ha commesso un orrore. In effetti, questo omicidio del bambino, e il quasi omicidio della sorellina, hanno qualcosa di disumano. Sono crimini “lunghi”. Chi li ha compiuti, ci ha messo ore. E poi ha perso altre ore senza portare aiuto, andando in farmacia, comprando pomate inutili. Ma se fa questo, se è capace di reggere tutto questo, il colpevole chi è, cos’è, com’è? Che vita fa? È padre di una bambina, ha mai letto una riga sulla paternità? Ha un briciolo di sospetto su cos’è? Vive ponendosi qualche domanda o vive lasciandosi esistere, come una pietra, come un arbusto? Tre bambini piccoli in una casa sono tre miniere di giochi, invenzioni, scherzi. Se n’è mai accorto, quest’uomo? “Ci picchia sempre” dice la bambina ricoverata, alla polizia che la interroga. Ha pensieri cattivi un uomo di 24 anni che picchia i bambini che si trova in casa, o semplicemente non è in grado di pensare? Chi si augura che in prigione gli spacchino la testa prova odio. Ma c’è un altro sentimento più immediato che suscita il delitto di questo 24enne, ed è un’infinita, inconsolabile pena. Quest’uomo era cieco perché viveva nel buio. Scioperi in serie degli avvocati, respinto il ricorso dei giudici di Angela Pederiva Il Gazzettino, 1 febbraio 2019 La Consulta: infondati i dubbi di legittimità sulle troppe astensioni che rinviano i processi. Nello scontro tra toghe, la Consulta dà torto ai giudici e ragione agli avvocati. In estrema sintesi è questo il senso della sentenza, depositata ieri, con cui sono state dichiarate in parte inammissibili e in parte non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’Appello di Venezia, nei confronti della legge del 1990 che disciplina il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. In un distretto già appesantito dalla grave carenza di personale, com’è stato recentemente confermato anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario, la seconda sezione penale aveva posto il problema della modulazione delle astensioni da parte dei legali, che nell’anno in questione rischiavano di far perdere il 35% dei giorni lavorativi e dunque di ingolfare la macchina. La vicenda - In quell’inizio di 2017 l’Unione delle Camere Penali Italiane avevano già indetto quattro scioperi (dal 20 al 24 marzo, dal 10 al 14 aprile, dal 2 al 5 maggio, dal 22 al 25 maggio) e ne avevano deliberato un quinto (dal 12 al 16 giugno) contro la riforma del processo penale, in corso di discussione in quel periodo. Il perdurante stato di agitazione aveva così ripetutamente comportato numerosi rinvii delle udienze, fra cui quelle del procedimento davanti al presidente Carlo Citterio e ai consiglieri Antonella Galli e Piera De Stefani, relativo ad un nomade ritenuto il capo di una banda specializzata in furti e rapine nel Nordest. L’ordinanza - Di fronte all’ennesimo slittamento del processo, la Corte aveva sospeso il giudizio ed emesso l’ordinanza che rimetteva il caso alla Consulta, chiedendole di valutare se gli scioperi proclamati di volta in volta, senza previsioni temporali certe fra l’uno e l’altro, fossero rispettosi della Costituzione, pur essendo formalmente legittimi. Ebbene secondo i giudici romani la “rete di protezione”, costituita dalle norme e dal possibile intervento della Commissione di garanzia e del potere pubblico, assicura il giusto bilanciamento “tra il diritto degli avvocati di astensione collettiva e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti”. Cannabis light, la Cassazione cambia idea: lecito anche fumarla pianetagiustizia.it, 1 febbraio 2019 Secondo la Suprema Corte se è permessa e promossa dalla legge la coltivazione di canapa con una percentuale di principio attivo Thc inferiore allo 0,6%, allora è consentita anche la sua vendita. La produzione della cannabis light è lecita, per cui lo è anche la sua vendita, non solo per usi alimentari o cosmetici. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 4920 della Sesta penale, spiegando che la liceità della vendita è “un corollario logico-giuridico” della liceità della coltivazione, permessa e promossa dalla legge 242 del 2016. La Corte ha annullato un sequestro preventivo a carico di un giovane di Civitanova Marche spiegando che, anche se la legge cita espressamente usi alimentari e cosmetici, il riferimento “non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati”, come il fumo. In precedenza la stessa Cassazione aveva dato un’interpretazione diversa nel caso di un sequestro a Forlì, ragione per la quale è facile immaginare che la questione finirà poi all’attenzione delle Sezioni Unite. Nell’ultima decisione, la Cassazione spiega che la legge considera lo 0,6% la percentuale di Thc al di sotto della quale la sostanza non è considerata “come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti”. Una interpretazione più restrittiva, ad avviso dei giudici, “trascura che è nella natura dell’attività economica che i prodotti della filiera agroindustriale della canapa siano commercializzati” e che, in assenza di indicazioni precise, “non emergono particolari ragioni per assumere che il loro commercio al dettaglio debba incontrare limiti che non risultano posti al commercio all’ingrosso”. Sardegna: regionali, lettera aperta ai candidati “impegno per detenuti e futuro carceri” sardiniapost.it, 1 febbraio 2019 “Aprire una vertenza con lo Stato per garantire il totale rispetto dei diritti dei cittadini privati della libertà e di chi lavora all’interno del sistema penitenziario isolano, a partire dai direttori”. È scritto in una lettera aperta della presidente di “Socialismo Diritti Riforme”, Maria Grazia Caligaris, indirizzata ai candidati alla carica di governatore alle elezioni del prossimo 24 febbraio. “Si tratta di un argomento di notevole peso nella vita di migliaia di cittadini, e scarsamente tenuto in considerazione nel dibattito politico-elettorale” afferma Caligaris che sollecita il futuro presidente della Regione affinché “chieda con forza al ministro della Giustizia e al premier Giuseppe Conte che ciascun istituto penitenziario sardo possa disporre di un direttore in pianta stabile e di un vice direttore”. Attualmente, ricorda, “ci sono tre direttori con doppi e tripli incarichi”. In numero “gravemente” insufficiente, denuncia la responsabile dell’associazione, anche gli agenti di polizia penitenziaria, tanto che “negli ultimi mesi quotidianamente le diverse sigle sindacali hanno segnalato continue tensioni all’interno degli istituti con atti lesivi verso gli agenti in servizio e di autolesionismo da parte dei detenuti”. In generale, conclude Caligaris, “un sistema penitenziario efficiente e rispettoso della Costituzione, delle leggi e delle circolari può offrire a tanti giovani laureati sardi occasioni di lavoro e a chi ha sbagliato e alla sua famiglia speranze di riscatto”. Roma: a rischio la cooperativa “29 giugno”, senza lavoro centinaia di ex detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2019 Travolta da “Mafia capitale”, oggi si decide la messa in liquidazione. La cooperativa “29 giugno”, nata trentadue anni fa per il reinserimento sociale dei detenuti, rischia di finire in liquidazione. Oggi è convocata un’assemblea straordinaria dei soci della cooperativa sociale per proporre, appunto, la messa in liquidazione volontaria dell’attività. Perché? Bisogna fare un passo indietro e partire da quando, dopo gli arresti per “Mafia capitale”, la cooperativa è stata commissariata. In quel momento gli stessi lavoratori, circa 1300 impiegati dal gruppo della “29 giugno”, si misero in allarme temendo per la propria sorte. Ci avevano visto giusto. Quando a gennaio del 2018 si è insediato il nuovo consiglio di amministrazione, si è ritrovato a fronteggiare una situazione complessa, con una perdita altissima ereditata dai commissari precedenti e un contenzioso milionario con l’Ama in merito alla raccolta differenziata. Una situazione che si è ripercossa non solo ai lavoratori, ma anche sulla qualità del servizio e, in effetti, il problema dei rifiuti nella Capitale è oggetto di numerose polemiche. Sulla gestione dei rifiuti, la vicenda è la seguente. Secondo gli inquirenti dell’inchiesta “Mafia capitale”, i prezzi garantiti per la differenziata sarebbero stati appositamente gonfiati (turbativa d’asta) e, proprio per questo, nel 2015 fu indetta una nuova gara d’appalto fissando un prezzo decisamente più basso. La gara fu vinta dalla “29 giugno”, ma - visto i soldi del tutto insufficienti - per garantire il servizio è stato cambiato il contratto ai lavoratori, il quale ha comportato, di fatto, una riduzione considerevole dello stipendio. Alla fine è accaduto che la stessa cooperativa gestita dagli amministratori giudiziari ha intentato una causa all’Ama proprio perché avevano previsto prezzi remunerativi insufficienti. Il contenzioso della “29 giugno” nei confronti dell’Ama tra il 2015 ed il 2018 è arrivato ad oltre 24 milioni di euro, ma nel contempo l’Ama ha risposto imputando 40 milioni di penalità per l’insufficiente esecuzione del servizio. Ma è solo uno dei problemi del fatturato che dal 2014 al 2017 risulta calato di oltre il 20 percento, compresa la riduzione del patrimonio di ben 14,5 milioni. Uno è quello della mancata riscossione dei crediti maturati dalle commesse per la gestione dei centri di accoglienza straordinaria degli immigrati e Roma Capitale per l’emergenza alloggiativa degli sgomberi in via delle Acacie e all’ ex Hertz Anagnina. Tale mancata riscossione è dovuta dal fatto che si ritenne che il ricavato fosse frutto del malaffare. Vale la pena ricordare la telefonata - una delle più famose dell’intera inchiesta di “Mafia Capitale” che fece Salvatore Buzzi ad una sua collaboratrice: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. Ma davvero era numerativo per il gruppo delle cooperative legate alla “29 giugno”, in particolare la Eriches 29 messa poi in liquidazione? Si dice che avrebbe chiuso i battenti perché, con le leggi del nuovo governo, non si guadagna più. In realtà, esattamente ai tempi della telefonata di Buzzi, ciò non risultò poi così remunerativo. Il Dubbio ha potuto visionare le convenzioni tra la Eriches del gruppo “29 giugno” e Roma Capitale per la gestione dello Sprar. Cosa si evince? In realtà Roma Capitale non pagava 35 euro di rimborsi garantiti, ma 28 euro con l’iva inclusa al 4 per cento. Accadde che dal giugno 2013 - quando era iniziata l’accoglienza con convenzioni firmate ad € 35,00 pro die/ pro capite, una lunga serie di ripensamenti e marce indietro portarono Roma Capitale ad applicare il cofinanziamento di 7 euro. Cosa ha significato? Un ricavo basso, tanto da comportare difficoltà nella gestione, visto che ovviamente bisognava garantire il servizio, compreso il rispetto del contratto di lavoro degli operatori. Almeno dalla visione di queste convenzioni, ci si potrebbe domandare se davvero gli immigrati rendevano più della droga. Ma ritorniamo alla gestione del gruppo “29 giugno” da parte dei commissari. Altro aspetto che emerge dai bilanci sono l’aumento dei costi del personale e dei servizi di consulenza tecnica e legale a fronte di una riduzione del fatturato. A questo si aggiungono i debiti con i fornitori, soprattutto dei mezzi per la raccolta rifiuti: in meno di tre anni vengono maturati debiti, tanto da dover dare a loro come garanzia una proprietà della cooperativa. Sono tante le ragioni che hanno comportato al nuovo consiglio di amministrazione di proporre all’assemblea un immediato avvio dell’attività in liquidazione. Un problema, quello delle attività commissariate dalla magistratura, che non riguarda solamente la “29 giugno”. Le imprese commissariate dalle procure, o confiscate in via preventiva, hanno creato, di fatto, una specie di Tribunale spa che, ad oggi, risulta avere più dipendenti di una grossa azienda italiana. I manager nominati dai giudici spesso però non hanno dato grande prova di sapere amministrare le aziende sequestrate, che molte volte sono fallite lasciando per strada i lavoratori. La stessa sorte toccherà ai lavoratori della “29 giugno”? La maggior parte sono ex detenuti che attraverso il lavoro si sono riabilitati e finalmente hanno trovato la via onesta per sopravvivere. Che cosa accadrà se finiranno per strada, visto che tanti di loro hanno famiglia? Nell’attesa della sentenza della Cassazione hanno deciso di rompere il silenzio alcuni coinvolti in “Mafia capitale”, convinti della loro estraneità con la mafia: Claudio Bolla, che faceva parte dell’amministrazione, e Carlo Guarany, ex vicepresidente della cooperativa, che assieme ad altri stanno creando un comitato con l’intento di evitare il consolidarsi di un “precedente” giudiziario che a detta loro ritengono “pericoloso per la società e per la democrazia del Paese”. Ciò che contestano è l’assunto giudiziario che considera mafiosa la cooperativa “29 giugno”, pur essendo quest’ultima una realtà non certo importante anche nei numeri, priva di controllo del territorio e di armi, e comunque oggi completamente smantellata con gli arresti dei suoi esponenti. Secondo i promotori verrebbero “minati i principi democratici e costituzionali”, su cui si fonda il Paese, perché in futuro si darebbe agli inquirenti la possibilità di contestare il 416 bis anche in altri ambiti, come ad esempio le associazioni che si occupano di lotte per la casa passando ai casi di scontri fra le tifoserie ultras. Carlo Guarany, a proposito della probabile chiusura della “29 giugno”, denuncia a Il Dubbio che si tratta di “una fine che pare proprio voluta sin dall’inizio: tutto sembra tornare, ogni azione, ogni passo, ogni mossa, sin dal giorno degli arresti e dell’esplosione della vicenda “Mafia capitale”, un sasso che, fatto artificiosamente rotolare, è diventato una valanga, è diventato mafia”. Continua l’ex vicepresidente della cooperativa: “Al netto degli errori commessi, sul piano penale (non l’accusa assurda di mafia che tutti gli imputati rifiutano.), sul piano sociale - imprenditoriale - politico, financo sul piano umano, la “29 giugno” rimane un’esperienza straordinaria dal punto di vista imprenditoriale, sociale ed umano. Nata dentro il carcere di Rebibbia, nel corso degli anni ha consentito l’inserimento nel mondo del lavoro, il recupero della dignità di cittadini, di centinaia di detenuti, giovani tossicodipendenti e disabili fisici e psichici”. Infine Guarany conclude con una stilettata ai politici che frequentavano la cooperativa: “Quanti operatori sociali, assistenti, educatori, psicologi, potrebbero testimoniare che quando c’era da collocare l’incollocabile, quello che nessuno voleva, si rivolgevano alla “29 giugno”, ma ora sono ancora tutti nascosti, un po’ vigliacchi, un po’ impauriti (Non certo dai “mafiosi”), non hanno il coraggio di raccontare una parte della verità. Quasi come i politici che fino al giorno prima degli arresti portavano la “29 giugno” in palmo di mano e che sotto elezioni facevano la fila per elemosinare voti, posti di lavoro e finanziamenti. Dopo gli arresti: “Chi li conosce?!”. Rimini: i detenuti sgomitano per lavorare, il cuoco prende più di mille euro di Andrea Rossini Corriere della Romagna, 1 febbraio 2019 Gli agenti di Polizia penitenziaria storcono il naso per la disparità di trattamento, ma la realtà è diversa. A confrontare la busta paga mensile il detenuto che svolge il compito di cuoco in carcere, per l’amministrazione carceraria a beneficio degli altri detenuti, prende più di un agente della polizia penitenziaria: poco meno di 1.200 euro netti. Eppure, nonostante qualche divisa, alle prese con carenze di organico e sovraffollamento, mastichi amaro si tratta di un paragone fuorviante. Di certo, gli “ospiti” dei Casetti, così come quelli di altre carceri italiane, da poco più di un anno a questa parte sgomitano per essere ammessi agli impieghi interni. L’improvvisa voglia di lavorare nasce dal fatto che l’Italia, nell’autunno 2017, si è vista costretta a rivalutare quei compensi, fermi da un quarto di secolo, per adeguarli agli standard esterni come sancito più volte dalle corti europee e dagli stessi giudici del lavoro nazionali. Nei giorni scorsi due nordafricani, detenuti a Rimini, hanno ingoiato delle pile come gesto di protesta: reputavano di essere stati ingiustamente penalizzati nella graduatoria di ammissione al lavoro. Proprio per evitare problemi, infatti, si dà vita, anche dentro le mura della casa circondariale, a una sorta di “centro per l’impiego” che regola, sulla base di criteri oggettivi (che vanno dal tempo di permanenza al numero dei figli da mantenere) la distribuzione degli incarichi. Il lavoro per i detenuti è diritto riconosciuto per legge ed è doveroso prevedere un compenso equo per la prestazione svolta. Dopo gli adeguamenti di cui si è detto, il posto più ambito è quello di cuoco: sei ore al giorno (un riposo settimanale, ferie e tredicesima) per uno stipendio che sfiora i 1.200 euro (turn over trimestrale). Tutti gli altri, dai porta-vitto agli addetti alle pulizie, hanno compensi che vanno dai 400 a 550 euro. C’è da tenere presente però che, proprio per allargare la platea, i venti posti occupabili ai Casetti (con turn-over mensile) vengono generalmente ripartiti tra 35-37 detenuti alla volta (complessivamente sono 160) con un impegno da due o tre ore giornaliere ciascuno. Nessuno si arricchisce, quindi, e tutt’al più i “definitivi” hanno almeno la possibilità di provvedere alle spese di “mantenimento” (vitto e alloggio in carcere si pagano 112 euro al mese). Venezia: il padre di Sissy “l’inchiesta? poteva essere avviata prima” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 1 febbraio 2019 Una lettera delle Associazioni di volontariato: “Dalla Giudecca rapporto positivo con la città”. “Finalmente avremo la verità. Sento che è la volta buona, sento lo Stato vicino adesso. Ma solo adesso”. Salvatore Trovato Mazza, il papà di Maria Teresa, per tutti Sissy, l’agente di polizia penitenziaria morta il 12 gennaio scorso dopo due anni di coma dovuti a un colpo esploso l’1 novembre 2016 in un ascensore del reparto di Pediatria dell’ospedale Civile di Venezia, tira un sospiro di sollievo dopo la notizia dell’avvio di un’indagine interna al carcere femminile della Giudecca da parte del Ministero della Giustizia, “per fare luce sulla vicenda”, come annunciato in un’intervista al Gazzettino dal sottosegretario alla Giustizia, il pentastellato Vittorio Ferraresi. Nelle parole di Salvatore però non c’è solo la gioia per la certezza dell’inchiesta interna “che dovrà dare risultati entro febbraio”, ha spiegato il sottosegretario Ferraresi, ma anche un alone di velata rabbia sul perché tutto questo non si sia fatto prima. “Fortunatamente il ministro Bonafede e il sottosegretario Ferraresi si stanno impegnando. Perché però si è dovuto aspettare loro, perché non si è fatto tutto prima - ha commentato ieri il padre dell’agente di polizia penitenziaria in servizio alla Giudecca - Lo Stato, che adesso mi sta vicino, aveva il compito di dirmi la verità su quanto successo a mia figlia, che quando è morta stava lavorando per lo Stato”. Per Salvatore, per la sua famiglia, “le assurdità non mancano. Ho sempre raccontato quello che mia figlia mi aveva detto e che aveva scritto nelle lettere. Ci sono anomalie dal punto di vista nostro, i magistrati non ci hanno mai sentito. Non so se ci siano responsabilità dentro il carcere, ma credo sia giusto che mi vengano a dire che cosa sia successo. Io lo dico chiaro, non sto cercando nulla, solo la verità. L’indagine l’avevo chiesta dall’inizio, ora lo Stato c’è e mi ha rassicurato. Tutti insieme dobbiamo capire: dalla direttrice Gabriella Straffi in giù”. E intanto oggi i consulenti nominati dal sostituto procuratore Elisabetta Spigarelli inizieranno le perizie sul computer e sulla pistola dell’agente. La notizia dell’indagine interna al carcere della Giudecca disposta dal dicastero della Giustizia, ha dato la stura ad una serie di commenti. “Alla Giudecca si è saputo costruire un fecondo rapporto con la città” recita una lettera firmata dalle associazioni Fondamenta delle Convertite, Il Granello di Senape, Closer, Il Cerchio, Rio Terà dei Pensieri. “Questi percorsi hanno portato un generale miglioramento delle condizioni strutturali degli ambienti ma i vari laboratori sono esempi concreti di un modello gestionale esemplare. Troppi ignorano gli esiti straordinari di questi percorsi”, conclude la lettera aperta. La scelta del sottosegretario è vista di buon occhio dal Sindacato della polizia penitenziaria per bocca del presidente Alessandro De Pasquale che, insieme ad un altro sindacato, il Sinappe, ha più volte chiesto di far luce su questo caso “ancora pieno di lati oscuri”. Questo mentre il Comitato civico Sissy la Calabria è con te si dice stupito della lettera scritta dall’ex direttrice del carcere della Giudecca in cui spiegava di aver incontrato Sissy: “Non ci sembra che la direttrice si sia adoperata per scoprire che cosa sia successo”. Campobasso: interviene il Dap “quell’agente è da deplorare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2019 Detenuto tenta un’evasione, viene bloccato ma uno dei tre agenti usa modi violenti. Apprezzamenti da parte del Garante e dell’associazione Antigone per l’immediato interessamento alla vicenda di Francesco Basentini e per la censura del deprecabile comportamento. Scende dall’automezzo della Polizia penitenziaria che lo aveva riportato in carcere dopo una visita medica all’ospedale, riesce a divincolarsi e a eludere il controllo degli agenti per poi fuggire in strada mentre il cancello di accesso alla struttura si stava chiudendo. A pochi metri dal cancello viene però subito prontamente bloccato da tre agenti della polizia penitenziario. Oramai era si era fermato, ma uno dei tre agenti lo percuote, scarrella la sua pistola di ordinanza e la punta sulle tempie. Gli altri agenti però lo fermano, cercano di calmarlo. Un episodio che probabilmente sarebbe rimasto nell’ombra se non fosse stato ripreso da un anonimo tramite lo smartphone e caricato in rete. È accaduto nel primo pomeriggio di mercoledì a Campobasso, nel Molise. Non si è fatta attendere la denuncia del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria tramite le parole del capo Francesco Basentini. “Non sono assolutamente ammissibili atteggiamenti di quel tipo, soprattutto perché - spiega il capo del Dap il soggetto in questione, una volta arresosi, era ormai nella piena disponibilità dei tre agenti ritratti nel video, pronti a immobilizzarlo con le manette”. Basentini poi prosegue: “Ringrazio l’agente che è intervenuto con determinazione e fermezza per riprendere l’atteggiamento deplorevole del suo collega”, e conclude: “Nei confronti di quest’ultimo, svolti gli accertamenti necessari, saranno immediatamente presi i provvedimenti del caso”. Il Garante nazionale delle persone private della libertà stigmatizza l’accaduto e sottolinea: “La posizione assunta dall’Amministrazione in questa occasione lascia capire che nessun messaggio di impunità sarà dato nei confronti di chi abbia commesso comportamenti violenti o lesivi della dignità delle persone, una volta che queste siano private della loro libertà personale. Ciò a tutela della grande maggioranza del personale di Polizia che agisce nel pieno rispetto delle regole e dei propri doveri, come nel caso dell’agente che ieri è intervenuto per fermare chi agiva con violenza”. Interviene anche il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo. “Siamo contro ogni forma di violenza. Questo è un episodio che va stigmatizzato - afferma il sindacalista- ma che evidentemente è riconducibile allo stress a cui vanno incontro gli agenti. Sarà l’amministrazione penitenziaria a valutare eventuali iniziative, che andremo sicuramente a contrastare in quanto tutti i giorni all’interno delle carceri siamo costretti a subire violenze inaudite. Tutto questo - aggiunge - senza voler giustificare altre violenze”. A stigmatizzare l’episodio è anche Patrizio Gonnella di Antigone. “Apprezziamo l’iniziativa del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che prontamente ha avviato gli accertamenti necessari sul fatto e un’eventuale azione disciplinare nei confronti dell’agente della polizia penitenziaria coinvolto”. In particolar modo interviene Antigone della regione Molise che approfitta per ricordare le criticità della struttura di carceraria di Campobasso sottolineando che, con l’aggiunta della mancanza di spazi minimi di risocializzazione, “determinano continue tensioni che possono sfociare, come accade spesso in episodi drammatici”. Ma aggiunge anche che tale episodio contrasta con un clima di più esteso controllo “umano” ampiamente gestito all’interno del carcere di Campobasso, nel quale anche Antigone “quotidianamente in corretta sinergia con la direzione della struttura di detenzione, un proficuo lavoro di monitoraggio sulle condizioni e sui diritti dei detenuti”. Rossano (Cs): Unical, inaugurato l’anno accademico al Polo penitenziario di Martina Forciniti ecodellojonio.it, 1 febbraio 2019 Inaugurato nel Carcere di Rossano l’anno accademico del Polo universitario penitenziario dell’ Unical. Un nuovo percorso di studio voluto fortemente dal rettore Gino Mirocle Crisci. “Questa è una giornata simbolo - ha detto Crisci - che identifica la fine di un percorso e l’inizio di uno nuovo. Finisce la fase delle iniziative spot e parte la fase strutturata. Con la nascita del Pup, onoriamo quella che è la terza missione, uno dei punti fondamentali dei nostri compiti istituzionali e formativi, ovvero essere sul territorio per aiutare a costruire un tessuto culturale diverso. Per questo ringrazio in maniera particolare il professor Piero Fan-tozzi che è stato il motore di questa iniziativa”. “Per gli studenti detenuti non si tratta soltanto - ha detto ancora il rettore - di avere un riscatto sociale, ma si tratta di una sfida con se stessi. Studiare in carcere richiede soprattutto motivazione e una grande forza di volontà. Insisterò - ha promesso in conclusione Crisci - con gli altri rettori calabresi affinché un Polo simile sia fondato anche nelle loro università”. Sono in tutto 16 i detenuti, divisi tra i carceri di Rossano, Paola e Castrovillari, che si sono iscritti ai corsi di laurea dell’Unical, di cui sei in questo anno accademico, con scelte che si concentrano maggiormente nei corsi di laurea del settore politico, sociale, economico, umanistico.”Si tratta - ha detto ancora il rettore - di riscoprire nel detenuto una persona al di là del suo reato. Una persona che ha il diritto di avere una possibilità di migliorarsi e di essere reinserito nella società, dopo aver scontato la sua pena”. Un pensiero condiviso da tutti gli intervenuti; tra i quali Franca Garreffa, responsabile didattico del Polo Universitario Penitenziario; Giuseppe Carrà, direttore Casa di reclusione di Rossano; e ancora Piero Fantozzi, delegato del rettore al Polo universitario penitenziario; Francesco Raniolo, direttore Dipartimento Scienze politiche e sociali, Francesco Garritano, direttore Dipartimento Studi umanistici, Pina De Martino, dirigente scolastico Iis Majorana di Rossano, Tina Iannuzzi, dirigente Centro provinciale istruzione adulti di Cosenza e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Massimo Parisi. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si terranno incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni; sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti-detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è infine prevista la presenza di tutor; ossia studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o al dottorato. Nel corso della mattinata sono intervenuti anche alcuni degli studenti del Polo Universitario Penitenziario. Gli intermezzi musicali sono stati affidati alle intense voci e alle chitarre di Daniele Moraca e Sasà Calabrese. Ravenna: in biblioteca un incontro su detenuti e giustizia ravennatoday.it, 1 febbraio 2019 Sabato 2 febbraio alle 11 nella sala Codazzi della biblioteca “Fabrizio Trisi” di Lugo si parla di detenzione e giustizia nell’incontro dal titolo “L’uomo non è il suo errore. Da una giustizia punitiva ad una rieducativa”. L’iniziativa sarà introdotta dal sindaco di Lugo Davide Ranalli. Durante l’appuntamento interverrà Chiara Prisco, laureanda nata e cresciuta a Lugo che prossimamente partirà per il Camerun. Resterà per un anno a Bafoussam, girando per cinque carceri e sperimentando la vita di chi sta dietro le sbarre. “Sono reduce - spiega Chiara Prisco - da una formazione generale tenuta dal mio ente, l’associazione Papa Giovanni XXIII, sulla non violenza, diritti umani e tanto altro perché in Camerun rappresenteremo le forze non armate dell’Onu, i cosiddetti Caschi Bianchi”. Rovigo: danze e karaoke in carcere con i “volontari invisibili” Il Gazzettino, 1 febbraio 2019 Festa alla Casa circondariale organizzata dall’associazione “La Tenda” di Lendinara. Un’ottantina gli invitati e tra queste autorità politiche, civili e delle forze dell’ordine. “Siamo una realtà che opera sul disagio sociale e ogni due mesi organizziamo questo tipo di incontri, rivolti ai volontari che operano distintamente e a livello istituzionale - ha ricordato il responsabile de La Tenda, don Vanni Manzin. Per questo motivo sono stati invitati medici, magistrati, forze dell’ordine e il prefetto, persone che io amo definire come volontari invisibili”. Lo spazio che ha ospitato la cena a buffet con balli di gruppo, karaoke e musica, è stata la palestra della polizia penitenziaria all’interno del carcere rodigino. “Siamo ripartiti dal carcere anche perché questo sarà l’ultimo anno del direttore Paolo Malato - ha aggiunto don Manzin. Grazie al Gruppo Balli Risorgimentali di Lendinara, si è ballato con costumi d’epoca. È stata una serata in cui il carcere si è aperto al mondo esterno. La prossima iniziativa verrà programmata per le feste pasquali”. Erano presenti il prefetto Maddalena De Luca, il comandante provinciale dei carabinieri Antonio Rizzi, il tenente colonnello della Guardia di Finanza, Roberto Atzori, il capo di Gabinetto, Giuseppe Dirodi, i sindaci di Trecenta e Villamarzana, Antonio Laruccia e Claudio Vittorino Gabrielli oltre al vicesindaco di Lendinara, Federico Amal. Tutti si sono prestati all’invito del Gruppo Balli Risorgimentali danzando con gli altri. Hanno diretto il karaoke Paolo Nicoli e Monica Cavasso con il presentatore Franco Spoladori. Torino: il musical in carcere, l’esibizione del Borgo Santa Barbara argatocn.it, 1 febbraio 2019 Il progetto educativo coordinato da Claudio Montagna, per conto di “Teatro e Società”, vedrà coinvolti circa 30 detenuti e detenute della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” del quartiere Le Vallette. Un’iniziativa educativa a collegare Alba e Torino, con il Borgo Santa Barbara impegnato presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, meglio nota come carcere del quartiere Le Vallette: il progetto, coordinato da Claudio Montagna per conto di “Teatro e Società”, vedrà coinvolti circa 30 detenuti e detenute, oltre ai figuranti in costume del Borgo albese. “Oggi, 1° febbraio, porteremo tra le mura del carcere il musical che abbiamo ideato e scritto, riguardante l’indigestione e morte di Lionello d’Anversa, già messo in scena durante la rievocazione storica di Alba dello scorso 7 ottobre”, spiega Maurizio Bussi, vicepresidente del Borgo Santa Barbara. “Rispetto al musical inscenato in occasione della Fiera del Tartufo, con quasi 90 persone coinvolte, proporremo una riadattamento in forma ridotta, con una trentina di persone, adeguandoci agli spazi a disposizione - gli fa eco Manuela Sandri, responsabile di sfilata del Borgo. Sarà una prima volta, per noi, riproponendo fuori casa il nostro spettacolo. L’intenzione, tuttavia, è quella di individuare nuove date, portando il musical anche nelle piazze e in altri contesti”. “Dopo la nostra esibizione - conclude Bussi a proposito di domani - assisteremo alle prove dello spettacolo che il gruppo di detenuti e detenute sta allestendo. Seguirà quindi un dibattito sulle possibilità espressive che il teatro offre, sui contenuti dei due spettacoli, sugli stili e sui linguaggi, in un’ottica di scambio che ci auguriamo essere fruttuosa”. Il diritto dei bambini a vivere in un mondo senza violenza di Rosalba Miceli La Stampa, 1 febbraio 2019 “È faticoso frequentare i bambini. Avete ragione. Poi aggiungete: perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. Ora avete torto. Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli” (Janusz Korczak, poeta, medico, pedagogo). In Italia gli abusi e i maltrattamenti sui minori rappresentano un fenomeno diffuso e in continua espansione, accentuato dalla fragilità economica e sociale che espone un numero sempre maggiore di nuclei familiari. Sono quasi 6 milioni, tra bambini e adulti, le persone che nel nostro Paese sono o sono state vittime di maltrattamenti durante l’infanzia. È uno dei dati che emerge dall’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia, uno studio statistico-quantitativo elaborato da Cesvi (un’organizzazione umanitaria italiana laica e indipendente) e validato da un comitato di esperti, presentato nel giugno 2018, nell’ambito della campagna di sensibilizzazione #LiberiTutti. Costruito a partire dall’analisi dei fattori di rischio e dei servizi di ogni regione, l’Indice rappresenta un’indagine applicata tanto alle potenziali vittime che agli adulti potenzialmente maltrattanti. Evidenziando le forti disparità nel contrasto e nella prevenzione del fenomeno tra il Nord e il Sud del Paese (con le regioni del Sud in fondo alla classifica e la Campania fanalino di coda), la ricerca mette in luce una maggiore incidenza del maltrattamento intra-familiare. I bambini e le bambine sono infatti maltrattati soprattutto nell’ambiente che più di tutti dovrebbe garantire loro sicurezza e protezione. In tali condizioni, il maltrattamento sui bambini è la conseguenza ultima di una situazione di disagio che coinvolge le figure genitoriali e il contesto familiare, ambientale e sociale nel quale i bambini vivono e crescono. “Il problema della mancanza di un piano organico di rilevazione precoce del fenomeno e di prevenzione, la crisi del welfare e le carenze organizzative dei servizi di tutela, incidono sulla presa in carico e sui sistemi efficaci di protezione, come conferma una ricerca sulle potenzialità di risposta, che è ancora difforme nel nostro paese. Infatti, non in tutte le regioni italiane abbiamo la stessa situazione, con una grave disparità per i bambini maltrattati ad essere presi in carico e curati, e quindi disattendendo ai loro diritti di avere uguali possibilità. Ci auspichiamo che l’anno che è appena cominciato, in cui festeggeremo i 30 anni dell’approvazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza trovi il nostro paese più preparato a fronteggiare il diritto a vivere in un mondo senza violenza” puntualizzano Gloria Soavi e Rossana Carbone, del Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia) nell’articolo “Violenza sui bambini e le bambine: a che punto siamo?” pubblicato l’11 gennaio 2019 sul sito del Cismai. L’inadeguatezza attuale del sistema ad evidenziare i fattori di rischio e a riconoscere i segnali si evidenzia drammaticamente quando ci si trova davanti a fatti di cronaca che scuotono le coscienze. Il più recente riguarda il piccolo Giuseppe, il bambino di sette anni, morto domenica 27 gennaio a Cardito, nel Napoletano, in conseguenza delle violenti percosse del compagno della madre, Tony Essobti Badre, un uomo di 24 anni nato in Italia da padre tunisino. Anche la sorellina Noemi, di otto anni, ha subito la furia dell’uomo, ma è sopravvissuta al pestaggio, pur con il volto devastato da lividi e ferite e la psiche ferita dall’aggressione feroce. L’uomo è accusato di omicidio volontario aggravato da futili motivi e tentato omicidio aggravato, mentre la posizione della madre è ancora al vaglio degli inquirenti. È lecito porsi alcune domande: in quel nucleo familiare erano presenti fattori di rischio? Prova ad elencarli Don Maurizio Patriciello in un articolo su Avvenire dal titolo: Napoli. Bimbo di 7 anni picchiato fino alla morte, orrore che poteva essere evitato? (28 gennaio 2019). Prima di tutto la povertà. La famiglia è povera? Forse la colpa è della povertà. Ma c’è anche dell’altro. L’assassino non è il padre dei bambini, ma il compagno della mamma. E poi l’uomo ha un cognome arabo. C’entra qualcosa? Tuttavia, per quanto suggestive, nessuna delle possibili motivazioni della tragedia si presta ad essere abbracciata completamente. Domande che rimandano ad altre domande. Le violenze perpetrate sui bambini dal compagno della donna erano continuative ed intense? Qual era il ruolo della madre nel prevenirle e/o ostacolarle? Anche lei aveva subito violenza? Se presenti, gli episodi di violenza domestica erano noti ad altre persone o erano stati occultati? Piano piano, come in puzzle, mettendo insieme le testimonianze di quanti avevano avuto contatti con la famiglia, gli investigatori che indagano sulla vicenda alla ricerca delle responsabilità, aggiungono nuovi particolari alla storia ancora confusa di quel nucleo familiare. Questo lavoro di ricostruzione paziente e doloroso, simile, per certi versi, ad un’autopsia psicologica della violenza e della distruttività, potrà forse squarciare il mistero della violenza e offrire spunti concreti per la prevenzione del fenomeno. Quell’orrore poteva essere evitato? Migranti. “Le Ong creano uno stato di pericolo”, così il Viminale vuole bloccarle di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 febbraio 2019 Il ministro dell’Interno chiederà il blocco navale delle imbarcazioni con a bordo i migranti, ritenute “offensive perché recano pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato”. Si ipotizza anche l’uso di pattugliatori. Le imbarcazioni straniere che entrano nelle acque italiane con i migranti a bordo sono “offensive perché recano pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato”. È in base a questo principio che il ministro dell’Interno Matteo Salvini disporrà il “blocco navale”. L’obiettivo l’ha ribadito ieri: “Sigillare le acque territoriali ai mezzi sgraditi come quelli delle Ong”. Ma per raggiungerlo ordinerà veri e propri respingimenti in mare. Dunque bisognerà verificare se la misura possa davvero essere applicata, anche perché sarà necessario emanare un’ordinanza preventiva che dichiari lo “stato di pericolo”. E non è escluso - come del resto è già accaduto per il decreto Sicurezza - che questo provochi nuove polemiche all’interno del governo. Soltanto dopo arriverà il provvedimento vero e proprio sul quale il responsabile delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha già assicurato di voler collaborare, pur consapevole che una parte del Movimento 5 Stelle continua a essere contraria alla politica del vicepremier leghista. Nelle intenzioni del ministro dell’Interno c’è l’emanazione di un decreto, ma su questo si dovrà confrontare anche con il Quirinale per l’eventuale controfirma e soprattutto per stabilire se esistano realmente i criteri di necessità e urgenza previsti per una misura di questo tipo. La convenzione Onu - La strada percorsa in queste ore dai tecnici del Viminale passa per la Convenzione Onu sui diritti della navigazione che fu firmata nel dicembre 1982 a Montego Bay, in Giamaica, da 155 Stati. Sarà utilizzato l’articolo 19 che stabilisce quando il passaggio delle navi è “inoffensivo” e quando invece può essere impedito. Secondo quel testo il passaggio è “pregiudizievole se la nave è impegnata in attività di minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero”. Salvini intende contestarlo alle organizzazioni non governative impegnate nel soccorso degli stranieri in mare combinandolo con un altro articolo, il 17, della stessa convenzione. In particolare la norma “vieta il passaggio in caso di carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero e ogni altra attività che non sia in rapporto diretto con il passaggio”. I mezzi - La procedura che il ministro vuole applicare prevede anche lo schieramento dei mezzi nel Mediterraneo. In particolare si prevedrà che dovranno essere utilizzati i pattugliatori qualora ci fosse una nave in acque internazionali che punta verso l’Italia, proprio come accaduto per la Sea Watch. E se riuscisse comunque a forzare il blocco, dovranno essere le motovedette della guardia costiera a scortarla fuori dai confini. In sostanza non sarà più consentito stare in rada in attesa del “porto sicuro” come è accaduto in questi giorni quando l’imbarcazione della Ong con 47 stranieri a bordo è rimasta alla fonda di fronte a Siracusa e poi è stata dirottata verso Catania. Il codice penale - Nonostante le insistenze del titolare dell’Interno, i magistrati di Siracusa non hanno ritenuto ci fosse alcuna violazione di legge nel comportamento del comandante e dell’equipaggio della Sea Watch. Nel provvedimento Salvini vuole dunque inserire una specifica norma che preveda l’applicazione dell’articolo 650 del codice penale che punisce l’inosservanza di un provvedimento dell’autorità per equipaggi e gestori dell Ong che non dovessero rispettare l’interdizione ad entrare nelle acque italiane. E così applicare quei “sigilli” in mare annunciati da Salvini. Migranti. S’è gettato sotto il treno perché non aveva più la protezione umanitaria di Simona Musco Il Dubbio, 1 febbraio 2019 La tragica fine di un ragazzo nigeriano. L’ultima parola detta ai ragazzi con cui aveva condiviso due anni e mezzo di vita è stata “scusa”. Non ha aggiunto altro Jerry Prince prima di buttarsi sotto un treno lunedì scorso, a soli 25 anni, devastato da quel rifiuto di concedergli il permesso di soggiorno per motivi umanitari, non più previsto dal decreto sicurezza. Ha preferito la morte piuttosto che tornare nel suo Paese, la Nigeria, che aveva lasciato nel 2016, approdando in Sicilia su un barcone, con la speranza di cambiare vita. Aveva una laurea in chimica e studiava per convalidare anche in Italia quel titolo che aveva conseguito nel suo Paese. L’aveva trovata, alla fine, a Genova quella vita, 1300 chilometri distante dal punto in cui quel barcone lo aveva lasciato. Ma non è bastato a farlo sentire al sicuro. Il primo a dare notizia della sua morte è stato monsignor Giacomo Martino, responsabile della Migrantes di Genova, in un messaggio inviato alla chat dei propri parrocchiani. Un messaggio che doveva Per paura delle strumentalizzazioni, del pericolo che qualcuno potesse utilizzare la morte di Jerry per far propaganda. E rimane in silenzio, a poche ore dal funerale, deciso a raccontare nel luogo giusto la storia di Jerry. “Domani (oggi, ndr) al funerale dirò chi era Prince e tenterò di rendergli il giusto onore”, dice laconico al Dubbio. Ma a parlare per lui è stato quel messaggio indirizzato alla comunità parrocchiale, che ha superato i limiti del sagrato, rimbalzando sui social e raggiungendo, in poco tempo, tutto lo Stivale. “Erano parole di dolore e di sofferenza personale rimanere privato, limitato al gruppo ristretto dei fedeli della sua chiesa, che rapidamente, però, ha preso a circolare sui social. La scelta di Jerry è stata una scelta disperata, dettata dall’incapacità di accettare quel diniego, arrivato il 17 dicembre scorso, che lo avrebbe costretto a ripartire, a portare il nastro indietro di quasi tre anni. Quel no ancorato alla realtà con carta bollata ha spezzato quel sorriso contagioso, diventato virale dopo la sua morte e catturato da una foto che lo vede stringere al petto il libro di chimica, regalatogli dai volontari della cooperativa che lo ha accolto. Don Giacomo, il prete più volte minacciato per aver aperto la chiesa ai migranti, questa storia non avrebbe voluto raccontarla. confidate a degli amici - afferma don Giacomo - Avevo scelto di non parlare di Prince Jerry per rispettare il dolore della sua morte e desolazione. Vi sono indagini giudiziarie che stanno stabilendo esattamente i fatti ed eventuali responsabilità. Non desidero in nessun modo che questo ragazzo e la sua triste storia vengano strumentalizzate per discorsi diversi da quelli di compassione per una vita stroncata e di un lungo sogno interrotto”. Toccherà a lui, oggi, celebrare il funerale del ragazzo, nella Chiesa dell’Annunziata, “dove, come cristiano, lo saluteremo affidando il suo sogno al Dio che sogna con noi, al Dio che rende reali i nostri sogni così come farà con quelli di Prince, per sempre”. Il giovane sarà seppellito nel cimitero di Coronata, a Genova, dove il parroco ha invitato tutti ad essere presenti, come “segno dell’ultimo abbraccio terreno a questa vita così desolata”. I suoi sogni e le sue speranze, ha aggiunto don Giacomo, “sono finite sotto quel treno”. Jerry era nato a Benin City e faceva il volontario in diverse associazioni di aiuto ai migranti e senzatetto di Genova, con i ragazzi delle Scuole della Pace e per iniziative come lo Staccapanni della Caritas. Aveva avuto tre borse lavoro ed era stato accompagnatore e volontario per la scuola della pace a Sant’Egidio. Era seguito dalla Comunità Migrantes di Coronata ed ospitato nel centro di accoglienza di Multedo. Mercoledì la polizia di Tortona, dove è avvenuta la tragedia, ha contattato don Giacomo, avvisandolo che su quei binari, forse, c’era uno dei suoi ragazzi. È toccato a lui riconoscerlo. Un ragazzo speciale e straordinario, dice ora il parroco, un giovane sensibile e colto, che amava studiare. Non scappava dalla guerra, ma da un avvenire che vedeva fatto di povertà e miseria, senza prospettive. Lo cercava in Italia, come ha spiegato davanti ad una commissione prefettizia alla quale è toccato analizzare il suo caso. Lì, seduto di fronte ai giudici del suo destino, è arrivato con in mano quel libro di chimica in lingua inglese che rappresentava il suo passaporto per il futuro. Ha chiesto di poter restare sfruttando il suo italiano fluente, che aveva affinato in di due anni e mezzo di integrazione. Ma per quella commissione la sua richiesta era irricevibile. Fino allo scorso anno, prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza, il suo caso sarebbe stato, con molta probabilità, risolto con un permesso di soggiorno per motivi umanitari e una stretta di mano. Ma oggi, per lui, le porte erano chiuse. Dopo il diniego, Jerry aveva smesso di sorridere, di parlare. I suoi amici lo cercavano da qualche giorno ed erano riusciti a parlare con lui proprio poco prima della tragedia, per ricordargli di un appuntamento. Una telefonata in cui il chimico ha pronunciato soltanto quella parola, “scusa”, che forse i suoi interlocutori hanno sottovalutato. E così al pranzo nella casa della Migrantes, dove lo aspettavano lunedì, non si è mai presentato. Nessuno aveva capito che quella voce rotta voleva dire addio. La morte di Jerry è stato lo spunto per l’ennesima polemica politica. Proprio quella che don Giacomo, sottraendosi ai giornalisti, voleva evitare, ma che è apparsa inevitabile, rendendo il caso di questo giovane un emblema. “Apprendiamo con sgomento la notizia della tragica morte di un giovane migrante nigeriano che lottava per trovare un futuro migliore - commenta la Cgil Genova. Rispetto e tristezza sono le emozioni che ci travolgono, ma un pensiero alla responsabilità morale di questa morte è inevitabile. Si tratta della puntuale conseguenza di un decreto sicurezza inumano che ha annullato la possibilità di richiedere e ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari - ha affermato la segreteria della Camera del lavoro di Genova, annunciando la presenza ai funerali - Un decreto che la Camera del Lavoro di Genova non smetterà mai di contrastare”. Albania. Adottato il modello italiano del 41bis per i detenuti più pericolosi albanianews.it, 1 febbraio 2019 Sulle tracce del modello italiano, da mercoledì entrerà in vigore ufficialmente la detenzione-isolamento per membri di organizzazioni criminali. Circa 270 condannati come membri di rete criminali in Albania, subiranno una nuova misura di detenzione-isolamento che renderà loro impossibilitati di comunicare con il mondo esterno. Questo nuovo regime - che ufficialmente entrerà in vigore mercoledì - fa parte dei temi discussi in una conferenza speciale organizzata dal ministero della giustizia albanese assieme alla procura antimafia italiana, la quale fornirà assistenza per l’attuazione delle nuove misure. Quest’innovazione, infatti, si basa proprio sul modello italiano e prevede che i detenuti siano tenuti in isolamento e sotto una supervisione speciale per un certo periodo di tempo. Il capo dell’antimafia italiana, Federico Cafiero de Raho, ha dichiarato che una misura del genere porterà all’indebolimento delle reti criminali e al contempo servirà come una dimostrazione di cambiamento per i cittadini, i quali potrebbero iniziare a fidarsi di più delle loro istituzioni. “Interrompere il contatto tra i boss delle organizzazioni criminali e le loro persone fuori dal carcere, così come seguire le tracce di denaro “sporco”, rappresentano le formule più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata. Entrambe queste misure sono essenziali per l’Albania” - ha affermato Cafiero de Raho. Il capo dell’antimafia, inoltre, ha spiegato che i gruppi albanesi sono specializzati nel traffico di narcotraffici, garantendo grandi quantità di denaro che - secondo molti studi - vengono reinvestiti principalmente nel Paese delle Aquile. “Senza un’azione efficace per prevenire le attività illegali, il rischio che l’economia del Paese possa essere intaccata è enorme. Pertanto, l’adozione di misure preventive è essenziale.” - ha dichiarato il capo della delegazione UE a Tirana, Luigi Soreca, il quale ha evidenziato come risultati concreti nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione siano una priorità chiave per l’apertura dei negoziati ufficiali di adesione con l’Unione Europea. “Le recenti operazioni di polizia hanno portato ad arresti significativi. È giunto il momento di consolidare questi risultati con sentenze e pene che rappresenteranno passi in avanti chiari nella lotta contro la criminalità organizzata e la corruzione.” - ha concluso Soreca. Venezuela. Liberata l’attivista italiana arrestata durante le manifestazioni di Marco Mensurati La Repubblica, 1 febbraio 2019 Laura Gallo era stata fermata il 23 gennaio insieme ad altre 31 persone. Scarcerati con le anche 19 minorenni. Laura Gallo, l’attivista italo venezuelana arrestata il 23 gennaio scorso durante le manifestazioni in Venezuela, è stata liberata dall’autorità giudiziaria di Yaracuy a trecento chilometri di distanza da Caracas. A confermare la notizia l’ambasciatore italiano a Caracas Silvio Mignano che ha seguito la vicenda sin dalle prime ore, rimanendo sempre in stretto contatto con il figlio Gabriel Gallo, avvocato e noto dirigente del partito d’opposizione Voluntad Popular. La signora Gallo era stata arrestata insieme ad altre 31 persone - tra cui 11 ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni - durante una retata governativa proprio la sera in cui Juan Guaidó aveva comunicato pubblicamente di aver assunto l’incarico di presidente della Repubblica ad interim, aprendo così l’attuale crisi. Nei giorni successivi il tribunale aveva proposto al console onorario Maria Teresa Lo Pilato, incaricata dall’ambasciata di seguire personalmente gli sviluppi del caso, di concedere alla donna e agli altri arrestati (tutti accusati, tra l’altro, di associazione per delinquere e terrorismo) la libertà su cauzione. Ma la procura, che aveva chiesto condanne fino a vent’anni di carcere si era opposta, portando il caso davanti al tribunale d’appello. Pochi minuti fa, in una udienza particolarmente sbrigativa, il giudice ha disposto la liberazione immediata della donna che, stavolta in assenza di opposizione da parte della procura, è stata scarcerata. “Ancora non conosciamo esattamente il contenuto della decisione - ha commentato il figlio - Adesso portiamo mamma a casa. Nei prossimi giorni vedremo i documenti e cercheremo di capire se la decisione è definitiva, come pare, o provvisoria”. Insieme alla donna sono state scarcerati altri 19 minorenni, compresi gli undici arrestati nella stessa retata. Medio Oriente. Padri in piazza e figli dietro le sbarre Amira Hass Internazionale, 1 febbraio 2019 Oggi 480 palestinesi si trovano in quella che gli israeliani chiamano detenzione amministrativa. Senza processo, senza sapere di cosa sono accusati, senza prove. Non si lascia sfuggire una manifestazione e ha partecipato anche a quella che si è svolta il 22 gennaio nel centro di Ramallah: è un palestinese sui settant’anni con un berretto bianco in testa e capelli che un tempo devono essere stati rossi. Quel giorno aveva una kefiah rossa al collo, gli occhi pieni di lacrime e le labbra che tremavano. Teneva in mano un cartello con la foto del figlio Rami, un detenuto amministrativo nelle carceri israeliane. La fotografia mostrava un ragazzo giovane. Ma era una foto vecchia, molto probabilmente scattata prima che fosse processato e condannato all’inizio della seconda intifada per aver fatto parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e per aver fabbricato una bomba piazzata su un autobus a Gerusalemme e rimasta inesplosa. Oggi Rami ha trentanove anni. Dopo il suo rilascio nel 2014 è stato incarcerato di nuovo senza processo solo perché un ufficiale dell’esercito israeliano ha stabilito che rappresenta “un pericolo” e perché alcuni ufficiali dei servizi di sicurezza dello Shin Bet hanno bisbigliato qualcosa all’orecchio di un giudice militare che si è affrettato a confermare l’ordine di detenzione. Come Rami, oggi altri 480 palestinesi si trovano in quella che gli israeliani chiamano detenzione amministrativa. Senza processo, senza il diritto di sapere di cosa sono accusati, senz a prove. È una condizione opprimente, che non ha una fine certa: per la maggior parte dei detenuti viene infatti prolungata più volte. Il 22 gennaio il vecchio è arrivato a Ramallah, in piazza Al Manara, insieme ai genitori di altri prigionieri palestinesi, anche loro con la fotografia dei figli in mano. In passato alcune di queste persone sono state processate per azioni contro l’occupazione e sono finite in carcere. La paura per i propri figli, però, è sempre più grande della paura per se stessi. Lo stesso giorno le forze scelte dell’ Israel prison service hanno fatto irruzione nelle celle della prigione di Ofer, che dista meno di sette chilometri dal luogo della manifestazione. Irruzioni simili c’erano già state il 20 gennaio a Ofer e in altre due prigioni. Le autorità dicono di aver confiscato del materiale scritto e non meglio precisati “strumenti di combattimento”, dei cellulari (a differenza dei prigionieri per reati comuni, i detenuti politici palestinesi non hanno accesso ai telefoni pubblici e per questo cercano di procurarsi dei cellulari, spesso grazie anche alle guardie carcerarie che chiudono un occhio). Secondo i palestinesi, invece, il motivo di queste violente irruzioni e del generale inasprimento delle condizioni riservate ai prigionieri palestinesi è il desiderio del ministro della sicurezza israeliano Gilad Erdan d’ingraziarsi i membri del partito nazionalista del Likud in vista delle elezioni di aprile. L’Israel prison service ha pubblicato immagini e filmati delle forze speciali che irrompono in una delle ali della prigione di Ofer dove sono detenuti 1.200 palestinesi. Gli agenti sono armati di fucili e manganelli, hanno il volto nascosto da maschere a gas, indossano divise nere e grigie e sono accompagnati da cani addestrati. Basterebbe questo a provocare un infarto ai genitori dei prigionieri, che ancora non sanno quanto di vero ci sia nelle notizie riportate dai mezzi d’informazione palestinesi: più di cento feriti trai detenuti, fratture causate dai colpi ricevuti, uso di gas lacrimogeno, gas al peperoncino e proiettili di gomma, tra venti e venticinque detenuti ricoverati in ospedale ma poi riportati dentro. A cosa bisogna credere? Alcuni avvocati hanno incontrato i prigionieri che si trovavano nei blocchi in cui gli agenti non hanno fatto irruzione. Tutti hanno avuto problemi respiratori a causa del gas lacrimogeno, ma non hanno confermato gli altri dettagli perché non erano in contatto con i detenuti dell’ala dove sono entrate le forze speciali. In seguito un avvocato ha scritto su Facebook che non c’è stata alcuna sparatoria. L’avvocato non ha parlato di fratture, ma ha scritto che la maggior parte dei prigionieri ricoverati ha avuto difficoltà respiratorie. Dovranno passare alcuni giorni prima che si chiariscano tutti i particolari e nel frattempo le loro famiglie sono sempre più angosciate. Alla manifestazione di Ramallah hanno aderito poche decine di persone. La speranza dei promotori, tra cui spiccano il partito Al Fatah, Hamas e le organizzazioni di sinistra, era quella di spronare il pubblico palestinese a manifestare solidarietà con i prigionieri, che oggi sono circa 5.500. Si dice che almeno una o due persone in ogni famiglia palestinese siano finite in carcere per essersi opposte all’occupazione. Nonostante questo, in pochi si sono uniti ai manifestanti. I passanti li guardavano con un misto di tristezza e straniamento, oppure tiravano dritto senza neanche guardarli. Hanno preferito approfittare dell’ultimo giorno di vacanza dalla scuola per fare acquisti con i figli. Cina. La settimana dei processi al dissenso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 febbraio 2019 Questa è una settimana nera per i diritti umani in Cina, e non è ancora finita. In due processi sono stati comminati nove anni e mezzo di carcere a due prigionieri di coscienza. Lunedì 28 il tribunale di Tianjin ha condannato l’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang a quattro anni e mezzo per “istigazione a sovvertire i poteri dello stato”. Wang Quanzhang (nella foto con la moglie e il figlio) era rimasto l’ultimo degli oltre 250 avvocati e attivisti per i diritti umani arrestati nel 2015 ad attendere un verdetto. La condanna di Wang Quanzhang è arrivata dopo oltre tre anni di detenzione preventiva. Dal giorno dell’arresto, il 3 agosto 2015, al luglio 2018 la famiglia non aveva più avuto sue notizie. Prima dell’arresto, Wang Quanzhang aveva preso le difese di esponenti del Movimento dei nuovi cittadini, un’organizzazione di base per la trasparenza e la fine della corruzione, e si era occupato di libertà religiosa. Martedì 29 il tribunale di Suizhou ha condannato Liu Feiyue, fondatore del sito Osservatorio sui diritti civili e sui mezzi di sussistenza” (msguancha.com), a cinque anni di carcere sempre per “istigazione”. Il sito documentava le violazioni subite dalle comunità locali, soprattutto quelle espropriate dei loro terreni, e promuoveva appelli per il rilascio di difensori dei diritti umani in prigione. Liu Feiyue era stato arrestato il 23 dicembre 2016 e aveva potuto incontrare un avvocato solo il 25 maggio 2017. Con uno stillicidio di arresti, processi e condanne, che vanno avanti da oltre tre anni senza fare grande notizia, la Cina sta portando avanti il suo obiettivo: mettere a tacere qualsiasi voce critica. Pakistan. Indette manifestazioni contro la definitiva assoluzione di Asia Bibi L’Osservatore Romano, 1 febbraio 2019 Gli estremisti islamici non hanno accettato il verdetto della Corte suprema pakistana che ha definitivamente confermato la sentenza di assoluzione per Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010, poi assolta e rilasciata lo scorso ottobre. Gli estremisti sunniti del partito radicale Tehreek e Labbaik Pakistan (Tlp) hanno infatti indetto per il prossimo fine settimana una serie di manifestazioni di protesta in tutto il Pakistan contro la decisione della Corte suprema. Mohammad Shafiq Amini, il leader del Tlp, ha fatto appello ai lavoratori del settore dei trasporti perché blocchino la circolazione e si uniscano alle proteste. Dal giorno dell’assoluzione, il 31 ottobre, i sostenitori del partito hanno bloccato il paese per alcuni giorni, chiedendo la revoca della decisione della Corte suprema e l’immediata condanna a morte per impiccagione di Asia Bibi. Martedì scorso, la stessa Corte suprema ha respinto la petizione che chiedeva la revisione dell’assoluzione della donna. Un verdetto definitivo, che non lascia spazio a ulteriori tentativi di sostituire al diritto le istanze degli imam più oltranzisti. Dal 29 gennaio, Asia Bibi - che ha comunque scontato otto anni di carcere solo sulla base di una poco dettagliata accusa di avere insultato l’islam durante una discussione per strada - vive sotto protezione con il marito. L’Unione europea, si legge in un comunicato da Bruxelles, si aspetta che “il governo del Pakistan continui a prendere le misure necessarie per garantirne la sicurezza”.