“La prima fabbrica dell’insicurezza si chiama prigione” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 19 febbraio 2019 Intervista alla scrittrice Giada Ceri, esperta di questioni carcerarie, in libreria con “La giusta quantità di dolore”. “Quanto sarebbe la giusta quantità di dolore necessaria e sufficiente a compensare il delitto? Quanto equa la retribuzione?”. Questa e altre le domande che, fin dal titolo - “La giusta quantità di dolore” (Edizioni Exorma) - pone e si pone Giada Ceri, da sempre attiva nei progetti del Terzo settore in ambito penitenziario e autrice di romanzi e racconti - quali L’uno. O l’altro (Giano Editore, 2003), Il fascino delle cause perse (Italic Pequod, 2009), Gli imperatori. Sei volti del potere (Melville Edizioni, 2016) -, in un reportage narrativo che indaga spazi e problematiche cardinali dell’universo carcerario, cui nel 2014 aveva già dedicato per la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli la cura del Quaderno È una bella prigione, il mondo. Ma quanto è lunga “la notte” in carcere? Quanto e con quali esiti la violazione del diritto alla riservatezza incide sulla condizione detentiva? La violazione del diritto alla riservatezza - più o meno percepita, più o meno occultata - è un problema che non riguarda soltanto la condizione detentiva. Il carcere tuttavia amplifica certi processi: e dunque, muri che si alzano, porte che si chiudono e un’ossessione securitaria che spavaldamente promette soluzioni facili ed efficaci. La tutela della dignità di ogni persona ancora oggi deve fare i conti con il potere punitivo attribuito allo Stato e “sicurezza” (insieme a “certezza della pena”) è una delle parole più fraintese - quando sono i dati oggettivi a mostrare che più carcere significa meno sicurezza per tutti. La distanza fra reale e percepito si allarga. E, di nuovo, la responsabilità di questo è collettiva: di chi comanda (“governare” non mi pare oggi il verbo adeguato) e di chi si lascia comandare, sorvegliare, illudere e blandire. A suo avviso, l’istituzione delle Rems ha realmente rappresentato un superamento degli OPG? La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - istituzioni totali di contenzione - era una necessità e un dovere e questo è bene ribadirlo, soprattutto adesso. Chiarito questo, è indubbio che ci sono state e ci sono delle criticità nel passaggio alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza: le liste di attesa per l’assegnazione alle Rems, per esempio, alcuni ritardi nel rendere operative le nuove strutture… L’attuazione delle disposizioni di legge non è avvenuta in maniera esaustiva e restano delle lacune, dovute in parte anche al mancato recepimento, da parte dell’attuale Governo, delle proposte elaborate dagli Stati generali dell’esecuzione penale del 2015- 2016. Il pieno ed effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari richiede dunque ancora del lavoro perché le nuove strutture non finiscano per ospitare anche persone con problemi che altrove non si riesce a gestire. Lavoro, dunque, e un’attenzione costante: il momento attuale - non solo sul piano politico ma su quello culturale in senso più ampio - tende fortemente alla regressione e all’involuzione. Registra un avanzamento, per quanto attiene alla situazione italiana, riguardo l’effettiva applicazione di misure alternative al carcere? È evidente che ancora per molti, in Italia, quella di “alternative al carcere” rappresenta un’idea peregrina. Eppure, come sottolineo nel libro, la nostra Costituzione parla di “pene”, usa il plurale, non individua il carcere come perno del sistema e unica risposta possibile ad ogni reato. Infatti la riforma dell’Ordinamento penitenziario nata dal lavoro degli Stati generali disegnava un modello diverso di esecuzione penale; ma i suoi esiti effettivi sono stati piuttosto parziali rispetto all’ampiezza della riflessione e della proposta. Ciò detto: meglio poco che nulla, questo c’è e a partire da questo bisogna andare avanti. Ma è indubbio che, nella sostanza, il carcere oggi continua a costituire la modalità privilegiata di esecuzione della pena in Italia. Tutto sembra tornare a chiudersi: le carceri (come i porti) e la capacità di ragionare in maniera critica, lucida, autonoma senza rinunciare alla propria umanità. Dobbiamo scarcerare le nostre società. Ci può parlare delle criticità oggi riscontrate in termini di assistenza sanitaria in carcere? Fra le criticità più gravi c’è quella che riguarda la salute mentale negli istituti di pena. La riforma dell’Ordinamento penitenziario - quella proposta dal precedente Governo, non quella sopravvissuta sotto il Governo attuale - tentava di affrontare e risolvere tale questione, sia pur non in maniera esaustiva. Ma, lo sappiamo, del lavoro svolto negli anni precedenti poco si è salvato e ad aggravare la situazione esistente oggi nelle carceri italiane c’è il ritorno a livelli allarmanti di sovraffollamento (una condizione che certo non favorisce il mantenimento o il recupero della salute da parte di chi è detenuto, né il lavoro del personale medico, paramedico e penitenziario). Il disagio psichico si addensa, gli atti di autolesionismo e i suicidi aumentano e c’è chi torna a proporre soluzioni di pura edilizia: costruire più carceri. Quando - e non è pura teoria: sono i dati a confermarlo - il punto è che la galera è patogena per sua stessa natura e “salute in carcere” una contraddizione in termini. Per reiterare un quesito presente nel testo, le necessità di carattere affettivo e sessuale dietro le sbarre rappresentano “un diritto o un privilegio”? Ha osservato passi avanti al riguardo? No, almeno per quanto concerne gli adulti. La chiusura su questo punto conferma il carattere afflittivo della pena così come ancora oggi è concepita nel nostro sistema. La vita in carcere dovrebbe essere quanto più possibile simile alla vita fuori dal carcere - un carcere secondo Costituzione, intendo. E la nostra Costituzione parla di senso di umanità e di diritti che è interesse di ognuno rispettare. La lesione dei diritti di un singolo o di un gruppo indebolisce i diritti di tutti. Nel libro, a proposito del linguaggio adottato in prigione, lei evidenzia che “tutto diventa - ino, in carcere”. Il ministero britannico della Giustizia si appresta a varare una significativa riforma delle carceri, introducendo vetri al posto delle sbarre e modificando il lessico. Ritiene che sarebbe auspicabile un modello simile anche in Italia? Circa i vetri antisfondamento in carcere sono state già formulate alcune perplessità. Per esempio: nelle nostre strutture penitenziarie sarebbe possibile installare un sistema di ventilazione affidabile ed efficace? La sostituzione delle sbarre rischia di risolvere un problema creandone altri. A parte questo, e senza trascurare l’importanza che certi apparenti dettagli acquistano nella vita di chi è detenuto, resta il fatto - sostanziale - che la cella è una “camera” nella quale si dovrebbe soltanto pernottare. Una riforma significativa dovrebbe a mio avviso preoccuparsi di ridurre al minimo la necessità del carcere. Quanto al lessico: una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria invitava, nel 2017, ad abbandonare l’uso scritto e orale del linguaggio infantilizzante che caratterizza il mondo delle persone detenute (ma usi analoghi esistono anche in altri contesti). Ora, io sono convinta che la lingua abbia una propria forza rispetto alla realtà (La giusta quantità di dolore trova in questa convinzione il proprio senso), però credo anche che spesso i nomi siano conseguenza delle cose. E dunque: benvenuto tutto ciò che favorisce politiche e atteggiamenti umanamente e costituzionalmente rispettosi, ma la miglior garanzia di questo rispetto sta nella consapevolezza dei diritti che la persona conserva anche quando è detenuta, e nelle scelte coerenti con questa consapevolezza. Lei approfondisce, anche dal lato umano, la figura dell’operatore sociale. Dopo lo stop alle agevolazioni Ires per gli enti non commerciali presente nell’ultima Legge di Bilancio, il governo avanza al riguardo ripensamenti che si concretizzeranno “nel primo provvedimento utile”. Ritiene che attualmente la politica stia riservando la giusta attenzione al Terzo settore? L’aspetto umano è fondamentale nel libro per la semplice ragione che il carcere è un’invenzione dell’uomo, per l’uomo o contro l’uomo a seconda del punto di vista. E le persone che ci lavorano (tutte: dai direttori agli agenti ai volontari etc.) condividono di fatto le stesse condizioni. Riformare l’esecuzione della pena e la giustizia secondo principi anzitutto costituzionali (non continuiamo a ripetere che la nostra Carta è la più bella?) sarebbe un passo avanti per tutti. Quanto alla sua domanda: da tempo la politica ama rivolgersi “al cuore e alla pancia” dei cittadini, più che alla loro testa. Per ripensare bisogna prima aver pensato: una pratica, mi pare, oggi sempre meno diffusa. Sovraffollamento, Bernardini chiede un’operazione-verità di Rita Bernardini* Il Dubbio, 19 febbraio 2019 L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini scrive al ministro della giustizia Alfonso Bonafede per chiedergli un incontro chiarificatore sull’effettiva urgenza del sovraffollamento penitenziario e l’aggiornamento delle schede riguardanti di ogni singolo istituto penitenziario in nome della trasparenza. La lettera contiene anche il preannuncio di una sua iniziativa nonviolenta nel caso non ci siano i chiarimenti richiesti. Egregio Signor Ministro, dopo l’incontro del 4 dicembre 2018 torno a disturbarti, augurandomi che presto il Partito Radicale possa tornare a farti visita. Per quel che riguarda le condizioni di detenzione nelle nostre carceri, infatti, le cose non vanno affatto bene e, purtroppo, miglioramenti non si vedono all’orizzonte. Pur se da posizioni e impostazioni diverse, io credo che su due cose dobbiamo necessariamente essere d’accordo: sulla necessità di rimuovere immediatamente le cause che determinano una condizione di detenzione “illegale” e sulla doverosa inconfutabilità dei dati riguardanti le carceri fornite dal Ministero della Giustizia. Mi riferisco, in particolare, ai dati sul sovraffollamento penitenziario perché da questo derivano tutta una serie di conseguenze sulla vita detentiva che possono determinare la sistematica violazione dei diritti umani, già pesantemente sanzionata nel 2013 con la sentenza “Torreggiani e altri” da parte della Corte Edu. È accaduto che il Presidente del Dap, Francesco Basentini, abbia minimizzato il dato del sovraffollamento in occasione dell’audizione tenuta lo scorso 5 febbraio presso la Commissione Giustizia della Camera dei deputati, arrivando ad affermare che le nostre strutture possono ospitare molti più detenuti di quelli che ci sono oggi (60.125 al 31 gennaio 2018) perché il parametro della capienza regolamentare (50.550 posti) sarebbe quello dei 9 metri quadri a disposizione di ogni detenuto. Ora, segnalo che è lo stesso Tuo Ministero a precisare - sul sito istituzionale- sia che “i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri”, sia che “Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato” il che - tradotto - vuol dire che nella capienza regolamentare sono considerati anche i posti inagibili (quindi inutilizzabili) che ammontano a circa 4.500. Evidenzio inoltre che la popolazione è distribuita in modo non uniforme sul territorio nazionale così che abbiamo istituti come Taranto, Como, Lodi e Latina che ospitano quasi il doppio dei detenuti che potrebbero contenere, e carceri semivuote come Camerino (zero presenze), Arezzo, Alba e Gorizia. Sul sovraffollamento, ti chiedo pertanto un’immediata “operazione verità” perché, come afferma il Presidente della Corte Costituzionale Lattanzi, intervistato recentemente da Radio Radicale proprio sulla situazione delle carceri, “per governare, per decidere, per legiferare, innanzitutto occorre conoscere; conoscere la realtà, non la realtà immaginata, ma la realtà effettiva”. Mi auguro che su questo non sia necessario intraprendere una lotta nonviolenta volta a conoscere la realtà effettiva del sovraffollamento e che, nel giro di pochi giorni, chiarezza sia fatta attraverso il confronto e il dialogo. In attesa di questa “operazione verità” che auspico non vada oltre alcuni giorni, ti comunico anche che le schede riguardanti i singoli istituti penitenziari, che faticosamente eravamo riusciti ad ottenere con il precedente governo, da quando si è insediato il nuovo cioè quello di cui fai parte, non sono state più aggiornate, il che va a scapito di quella “trasparenza” che dovrebbe caratterizzare l’operato di qualsivoglia amministrazione pubblica. Con i più cordiali saluti. *Coordinatrice Presidenza Partito Radicale Il giudice che scopre il carcere: “condanniamo senza sapere cosa sia” di Cristina Bassi e Luca Fazzo Il Giornale, 19 febbraio 2019 Per 17 anni il Gip milanese Giuseppe Gennari ha mandato imputati a San Vittore. Ieri per la prima volta lo ha visitato. Come sono le celle, signor giudice? “Dei buchi maleodoranti di varia umanità accatastata”. Per diciassette anni, il giudice Giuseppe Gennari ha riempito di ospiti San Vittore: condanne, ordinanze di custodia, il lavoro consueto di un giudice penale. Ma come è fatta una cella non lo sapeva. Del carcere conosceva solo le salette disadorne degli interrogatori. Del mondo più in là, oltre il quinto cancello, aveva una idea vaga. E come lui non lo sanno le centinaia di magistrati che in Italia applicano la legge penale. Conoscono a memoria i codici e la giurisprudenza. Ma non immaginano quanti passi è lunga una cella. Ieri mattina, per la prima volta in vita sua, Gennari entra nei raggi di San Vittore. E quando ne esce, dice una cosa semplice: “Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io. Quando emetti una condanna hai una idea astratta, documentale del carcere. Non hai la percezione di cosa significhi in concreto non solo vivere una restrizione, ma viverla in queste condizioni terribili”. Terzo raggio, quinto, sesto. Il giudice tocca con mano i tentativi di rendere vivibile il carcere, i piani sistemati di fresco, le celle dei lavoranti, la minoranza che almeno può dare un ritmo alle giornate. Ma visita anche i buchi neri. Le celle dove stanno ammassati detenuti al sessantacinque per cento stranieri, protagonisti di un turnover frenetico - tre mesi a testa di permanenza media - che rende arduo qualunque progetto di socialità o di formazione. Il reparto dei “protetti”, un carcere dentro il carcere, dove stanno quelli che gli altri detenuti punirebbero: i trans, i violentatori, gli “infami”. Incrocia quelli che qui non dovrebbero neanche starci: i malati di mente che la chiusura dei manicomi giudiziari destinava alle residenze assistite, ma le residenze non ci sono per tutti, e così finiscono in prigione. Al giudice appaiono fantasmi raggomitolati sotto le coperte, o in piedi a battersi il petto e a guardare nel vuoto. Alcuni non hanno il materasso, perché lo farebbero a pezzi e lo mangerebbero. “Non ho mai visto scene così neanche nei reparti psichiatrici degli ospedali dove ho pure messo gente agli arresti”, dice Gennari. Mille detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti: “Ma la presunzione di innocenza - dice Gennari - non vale per tutti allo stesso modo. Per il colletto bianco è un baluardo insuperabile, per il marocchino catturato alla stazione vale zero...”. E i marocchini sono qua, insieme ai gambiani, agli albanesi, ai georgiani, in questa babele di lingue dove spesso nessuno li capisce. Dovrebbero pensarci i cosiddetti mediatori culturali, ma arrivano solo due giorni alla settimana e per una manciata di ore: “Il fatto che non ci sia un trait d’union culturale e linguistico - dice il giudice - è inconcepibile, hai gente che magari è sbarcata tre mesi fa e che non ha neppure gli schemi mentali per capire cos’è una regola, cosa ci si aspetta da loro in questo luogo”. Per garantire a tutti i tre metri quadri di spazio vitale imposti dalla Corte dei diritti dell’uomo, ora le celle sono aperte 12 ore al giorno. La costrizione fisica si allenta, ma in compenso arrivano i furti, le piccole risse, le tensioni tra etnie e tra singoli. Gennari si muove fra le celle, ascolta le proteste eterne di chi spiega di essere qui da tre settimane senza venire interrogato, sente addosso gli sguardi di chi un magistrato qua dentro non lo aveva mai visto. Fa impressione, vero signor giudice? “Sì, fa impressione. Anche perché è chiaro che non serve a niente e chi uscirà sarà esattamente come prima. Serve solo a tranquillizzare chi sta fuori: ma è una tranquillità effimera”. Se i suoi colleghi lo vedessero condannerebbero meno a cuor leggero? “Vedete, quando facevo il giudice preliminare avevo almeno la percezione che ciò che decidevo accadeva subito: ordinavo un arresto, e una persona finiva in carcere. Invece chi fa le sentenze sa che la sua decisione diventerà definitiva anni dopo, dopo altri gradi di giudizio: questo distacca molto dalla concretezza del verdetto. Ma ogni condanna è un seme gettato, poi tutto va avanti per inerzia. Sì, penso che i miei colleghi dovrebbero vedere. Devi vedere la conseguenza delle tue decisioni. Poi magari le prendi lo stesso, ma con un’altra consapevolezza”. Lavoro ai detenuti, sconto contributivo di Antonino Cannioto Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019 Abbattimento fino al 95% per l’attività svolta dentro o fuori le carceri. A quasi 5 anni dall’entrata in vigore delle nuove regole (decreto ministeriale 148/2014), arrivano dall’Inps (circolare 27/2019) le indicazioni per la gestione degli incentivi in favore delle cooperative sociali che impiegano persone detenute o internate negli istituti penitenziari e ammesse al lavoro esterno, nonché a beneficio delle aziende pubbliche o private che, organizzando attività produttive o di servizi all’interno degli istituti penitenziari, impiegano i medesimi soggetti (a fronte di convenzione con l’amministrazione penitenziaria). Lo sgravio è del 95% delle aliquote contributive complessivamente dovute (azienda e lavoratore), con esclusione di alcune componenti espressamente individuate dalla circolare. Il decreto prevede, inoltre, il riconoscimento delle agevolazioni anche per periodi precedenti alla sua emanazione. Più esattamente la percentuale del 95% opera dal 2013 e vale fino a quando non sarà emanato un nuovo provvedimento. Nella Circolare 27/2019 l’Inps precisa che sono agevolate le assunzioni con contratto di lavoro subordinato sia a tempo determinato che indeterminato, incluso il tempo parziale, compresi i rapporti di apprendistato. Semaforo verde anche per il lavoro intermittente e per la somministrazione. Il beneficio spetta per la durata del rapporto e fino a quando i lavoratori si trovano nella condizione di detenuti e internati; inoltre, dal 20 agosto 2013, lo sgravio contributivo spetta anche per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo, a condizione che l’assunzione della persona sia avvenuta mentre questi era ammesso al regime di semilibertà o al lavoro esterno. Laddove i soggetti non abbiano beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno, lo sgravio spetta per i 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo, sempre che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era in regime di restrizione. Il datore deve versare regolarmente i contributi e rispettare le leggi (in materia di lavoro) e i contratti collettivi nazionali nonché quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Con riferimento ai principi sanciti dall’articolo 31, del Dlgs 150/2015, si prevede che gli stessi non debbano essere rispettati ma con un’eccezione: l’invio tardivo della comunicazione di assunzione fa perdere il diritto allo sgravio, fino a che il datore non vi provvede. La facilitazione è compatibile con l’incentivo concesso a chi assume lavoratori in Naspi e con quello per l’assunzione di disabili. Per fruire dello sgravio dal 2019 in poi e quello arretrato (dal 2013 al 2018) si prevede l’invio di una domanda online tramite l’applicazione Diresco, con allegati dei documenti elencati nella circolare. In relazione al contingentamento annuo delle risorse, prima di procedere alla fruizione dell’incentivo si deve attendere l’autorizzazione dell’istituto. La giustizia ci mette lo zampino di Francesco Bei La Stampa, 19 febbraio 2019 Ci risiamo. Una serata al cardiopalmo, con due notizie che ruotano entrambe intorno a decisioni dei giudici e arrivano a pochi minuti di distanza. Di nuovo, dopo Mani Pulite, dopo Berlusconi, dopo Mafia Capitale, una classe politica - da destra a sinistra - appesa ai pubblici ministeri. Vicende totalmente diverse quelle che ieri hanno monopolizzato la giornata, il voto degli iscritti grillini sul “sequestro” di migranti della nave Diciotti, e la presunta bancarotta fraudolenta dei genitori di Renzi, eppure figlie di un tempo che non passa, una stagione in cui la politica continua a essere ancella della magistratura. Ma se l’inchiesta sui Renzi è circoscritta e tocca le ambizioni politiche dell’ex segretario del Pd e la sua influenza sul Congresso, il caso Diciotti è quello potenzialmente più esplosivo, perché coinvolge la maggioranza, i rapporti fra i due alleati di governo e la stessa leadership di Luigi Di Maio nel Movimento Cinque Stelle. Il voto sulla piattaforma Rousseau fornisce alcune indicazioni politiche chiare e ineludibili. La prima riguarda la capacità di Di Maio di imprimere al Movimento una torsione di 180 gradi rispetto all’impostazione manettara delle origini. Non era scontato che finisse così e non è stato certamente un parto indolore. Il capo politico ne esce in parte rafforzato, perché dopo la giornata di ieri la creatura è un po’ più sua e un po’ meno di Grillo. Il giovane leader è impegnato a ristrutturare il Movimento in una cosa totalmente nuova, con nuove regole, nuovi organismi dirigenti e “un’organizzazione centrale” che assomiglia tanto a quelle classiche degli altri partiti, compresa la possibilità di stringere alleanze con altre liste. E quindi formare delle vere coalizioni politiche, per ora limitate alle elezioni amministrative, domani chissà. Ma dall’altra, a causa della decisione pilatesca di Di Maio di scaricare sulla Rete una decisione squisitamente politico-parlamentare, la votazione di ieri sancisce ufficialmente la nascita di una corrente all’interno del Movimento. Una corrente che ha come riferimento politico Roberto Fico, il primo a spendersi perché Salvini non scappasse dal processo, e che grazie a Rousseau oggi si può anche “pesare”. Un peso politico non indifferente, il quaranta per cento degli iscritti, conquistato nonostante i vertici avessero fatto di tutto per spingere i votanti in un’altra direzione. Con la minaccia velata di una caduta del governo, con la spiegazione capziosa della vicenda Diciotti e la scrittura unilaterale di un quesito che suonava come una domanda retorica: preferite una giornata di sole e una gita in barca o finire a faccia in giù in una pozzanghera di fango? Eppure, nonostante tutto, oltre 21 mila iscritti su 52 mila votanti hanno scelto diversamente da come immaginava Di Maio. Il leader ha vinto quello che era anche un referendum sulla sua leadership, ma il prezzo che deve pagare è alto. La seconda indicazione politica riguarda i rapporti interni alla maggioranza. Da oggi la solidarietà interna al patto di governo è un po’ più forte. Se era vero, nonostante le smentite della vigilia, che l’esecutivo avrebbe rischiato grosso se i grillini non avessero votato il salvacondotto per il ministro dell’Interno, allora il corollario è che ora per Salvini sarà un po’ più difficile sganciarsi dall’alleanza. In politica si dice sempre che la riconoscenza sia il sentimento della vigilia, ma certo il capo dei Cinque Stelle e Giuseppe Conte (che molto si è speso per l’immunità al ministro dell’Interno) hanno maturato un bel bonus con il partner del contratto. Che lo spendano sulla Tav o sulla durata della legislatura è secondario, ma il credito c’è ed è esigibile. Nel voto della giunta per le autorizzazioni del Senato che oggi allontanerà Salvini dai suoi giudici c’è infine da trarre un’ultima lezione. Che riguarda la coerenza e la moralità politica di fronte alle scelte dei giudici. I Cinque Stelle, che hanno nel loro statuto il no a qualsiasi immunità ministeriale, oggi in giunta faranno da scudo al ministro dell’Interno. Mentre tra i democratici, che a parole si dicono garantisti, non c’è stato nessun dibattito sulla scelta da compiere e sull’autonomia di una decisione politica - giusta o sbagliata che fosse - presa da un membro del governo. Il Pd voterà contro Salvini, a prescindere. A suggellare il cortocircuito perfetto, il garantismo a corrente alternata, c’è lo scambio di ruoli tra dem e grillini. I primi che fanno i giustizialisti con Salvini, salvo spendersi in solidarietà a Renzi. Mentre i secondi si scoprono curiosamente garantisti con i genitori dell’ex premier nel giorno in cui “graziano” il ministro dell’Interno. Perfetta rappresentazione di una subalternità generale alla magistratura che dalla Prima repubblica ha condizionato pesantemente la Seconda e ora contagia anche la Terza. Quel tic dei politici di fronte alla giustizia di Claudio Tito La Repubblica, 19 febbraio 2019 C’è ormai un riflesso condizionato nella politica italiana: quando un’inchiesta tocca un suo esponente, la giustizia si trasforma. Viene rappresentata secondo connotati diversi. Perde quelli che gli sono assegnati dalla Costituzione e dalle leggi. Non è più semplicemente giustizia, diventa giustizia a orologeria. E quindi ingiusta e ingiustificata. Si tratta di una reazione immediata che scatta in tutti i partiti. L’ultimo che si è fatto prendere da questo fumo è Matteo Renzi. Dinanzi agli arresti domiciliari per i suoi genitori, quel salto logico è stato compiuto in un attimo. Il rispetto per il lavoro dei magistrati, l’impegno ad aspettare le sentenze e a non commentarle, si trasla nel fantasma del complotto. La tempistica assume un carattere preminente. Come se ci fosse un tempo in cui è possibile e corretto emettere dei provvedimenti giudiziari ed uno in cui sarebbe sconsigliabile o inopportuno. Ma in un sistema democratico non esiste e non può esistere un momento prestabilito per un processo o un’indagine. Soprattutto la valutazione di questo “momento” non può essere affidato ad altri soggetti se non agli stessi magistrati. Quale sarebbe stato, altrimenti, il giorno giusto per assumere questa stessa decisione nei confronti dei coniugi Renzi? Quale periodo offre la politica italiana in cui un’inchiesta possa concretamente essere accolta senza retro-pensieri? La risposta è semplice: non esiste. Per fortuna. Chi ha ricoperto incarichi istituzionali di massimo livello non può farsi trascinare in un turbinio di sospetti come questo. Chi ha avuto l’onore di guidare il governo di questo Paese non dovrebbe assumere un atteggiamento istituzionalmente confliggente. L’idea che il suo impegno in politica abbia condizionato e schermato i pm è esattamente la scusa che da troppo tempo e in troppe occasioni è stata usata negli ultimi 25 anni. Non è un caso che Silvio Berlusconi sia corso velocemente in aiuto di Renzi contro i magistrati. Non è un caso che Luigi Di Maio abbia esposto ragioni analoghe per l’inchiesta che riguarda suo padre. Non è un caso che Matteo Salvini abbia fatto ricorso ad argomenti simili per far abortire sul nascere il processo del Tribunale dei Ministri sulla vicenda Diciotti. Perché, purtroppo, esiste un’analogia che accomuna tutte queste vicende. Il rifiuto istintivo di accettare i giudizi e la neutralità di chi indaga. L’ex segretario Pd si comporta come Berlusconi, come Di Maio e come Salvini. Poi, certo, le colpe dei padri non possono mai - soprattutto quando si tratta di colpe giudiziarie - ricadere sui figli. Ma nello stesso tempo non si può non far notare che le presunte fatture false sarebbero state emesse mentre Renzi sedeva a Palazzo Chigi. Esattamente come il padre di Di Maio avrebbe fatto lavorare al nero alcuni suoi impiegati mentre il figlio era stato assunto da un regolare contratto. Non tutto e non sempre può essere “a insaputa” di qualcuno. La rete come scudo in un giorno non di gloria di Massimo Franco Corriere della Sera, 19 febbraio 2019 Quanto è accaduto sembra un tentativo estremo di tenere insieme logiche governative e di piazza; giustizialismo delle origini e conflitto con la magistratura; promesse spropositate e rischio di condannare l’Italia alla recessione. Per come è andata, il Movimento Cinque Stelle non vive un giorno di gloria; semmai di imbarazzo. Dovrà spiegare perché un gruppo dirigente decide di scaricare una decisione politica delicata e controversa sui propri “elettori”: virgolette d’obbligo, visto il numero esiguo e variabile dei votanti, poco più di cinquantamila. È forte il sospetto che lo abbia fatto perché non ha avuto il coraggio di assumere questa responsabilità come gruppo parlamentare, e di rivendicarla in nome di buone ragioni o della realpolitik. E sarà difficile contestare l’accusa di avere addomesticato la votazione; e di avere ottenuto un “verdetto popolare” sulla sorte di Matteo Salvini non tanto dal Movimento e dai suoi numerosi eletti, ma dalla piattaforma privata Rousseau di Davide Casaleggio. I problemi tecnici che hanno fatto rinviare e poi slittare a tarda sera la consultazione sono uno spot involontario alla democrazia parlamentare rispetto a quella diretta. Decantata dal grillismo, quella online ieri è stata ridotta a caricatura per la difficoltà anche solo a connettersi. Si può stare certi che il vicepremier Luigi Di Maio e la maggioranza inneggeranno alla partecipazione democratica: sebbene il sentore di manipolazione sia acuto, e non solo nei paraggi delle opposizioni. Le contorsioni del M5S; le dissociazioni, in parte rientrate, di alcune sindache; e il sarcasmo, attenuato in corsa, di Beppe Grillo, sono segnali di un disagio evidente. E forse un espediente per lavarsi la coscienza di fronte a un esito poco trasparente. L’operazione è poco spiegabile soprattutto ai propri militanti. Per gli altri, il trauma non è così forte. In fondo, è difficile che la responsabilità di tenere bloccati i migranti della nave Diciotti possa essere fatta risalire al solo Matteo Salvini. La decisione è stata avallata da tutto il governo, seppure obtorto collo. Ma per il Movimento il problema va oltre j’accusa di presunto sequestro. Incrocia i malumori verso un “contratto” che conviene al leader leghista, e magari a Di Maio e alla Casaleggio Associati; sempre meno, a dare retta ai sondaggi, al M5S. E pone un dilemma di fondo: se i seguaci grillini possano tollerare che un ministro alleato si difenda “dal” processo, e non “nel” processo, con l’avallo dei loro parlamentari. Significherebbe abbattere uno dei pilastri storici della loro ideologia. È per sottrarsi a questo dilemma che i vertici hanno deciso di consultare la Rete. Potranno sostenere che il “no” all’ autorizzazione a procedere contro Salvini è arrivato da loro; che i capi si sono limitati a ubbidire alla “volontà digitale” collettiva, pronti a sacrificare un pezzo della loro anima manichea sull’altare del barcollante governo giallo-verde. Ma deve essere chiaro che quanto è accaduto ieri, quale che sia il responso, rappresenta il primo vero spartiacque del dopo 4 marzo. Ufficializza un patto di potere così forte e profondo da archiviare tutte le chiacchiere sul cambiamento. Potrebbe essere un passaggio positivo, e segnare la transizione verso la maturità politica. Invece appare il contrario: un tentativo estremo di tenere insieme logiche governative e di piazza; giustizialismo delle origini e conflitto con la magistratura; promesse spropositate e rischio di condannare l’Italia alla recessione. Evitare in questo modo contorto che Salvini sia processato non rafforza nessuno: nemmeno il leader leghista, che inizialmente aveva detto di volere essere rinviato a giudizio. E ripropone l’immagine di un Di Maio subalterno e di un Movimento lacerato. Sembra la certificazione di un accordo spregiudicato. A gestirlo è un’ oligarchia che si fa scudo dei propri elettori, o meglio di una piccolissima frazione, per sfuggire al dovere di scegliere: un precedente che prima o poi le si ritorcerà contro. L’unico aspetto confortante è che lo scambio tra M5S e Lega indica una confusa voglia di stabilità. Dunque rimane difficile pensare che, dopo ieri, le due forze di maggioranza pensino a uno strappo a breve termine per anticipare la fine della legislatura. Ma per breve termine si intendono le prossime settimane. Dopo le Europee di maggio, si rivedrà tutto: anche gli equilibri e le identità del 4 marzo, consegnati di colpo al passato. Così la politica irresponsabile si nasconde dietro al popolo di Alessandro Campi Il Messaggero, 19 febbraio 2019 Gli aderenti alla piattaforma Rousseau si sono dunque espressi: a maggioranza hanno ritenuto che Matteo Salvini non debba essere sottoposto a giudizio per la scelta di aver ritardato lo sbarco dei migranti che si trovavano sulla nave Diciotti. Una scelta che è stata evidentemente giudicata come assunta a difesa di un interesse generale e nel rispetto delle sue competenze di ministro degli interni. Sulle conseguenze politiche di questa decisione, che sembra scacciare il rischio di una crisi di governo, si parlerà a lungo nei prossimi giorni. Ma il punto che merita di essere sottolineato a urne elettroniche appena chiuse è che la votazione di ieri, indipendentemente dal suo risultato, non è stata, come sostenuto dai suoi promotori, un esempio di corretta partecipazione popolare e di vera democrazia, ma il ripetersi dell’equivoco propagandistico-ideologico a partire dal quale il M5S ha costruito la sua immagine come forza che, nel nome di una moralità e di una trasparenza assolute, pretende di perseguire un cambiamento radicale del costume politico e delle regole (inique e obsolete) che governano la politica democratica. L’impressione è che con i grillini, segnatamente con i loro capi politici e ispiratori ideologici, si sia stati sino ad oggi un po’ troppo indulgenti, scambiando la fondatezza delle istanze sociali di cui sul filo del risentimento si sono fatti interpreti con la plausibilità delle loro ricette politico-istituzionali. O, per meglio dire, che ci sia appuntati nel criticarli sugli aspetti più eclatanti ma paradossalmente più marginali del loro modo d’agire e pensare: dall’approssimazione di cui hanno dato spesso prova molti loro rappresentanti nelle istituzioni ai toni esacerbati (quando non aggressivi e minacciosi) utilizzati nei confronti degli avversari. Ciò che non funziona e merita di essere rigettato come autenticamente pericoloso è invece il cuore della loro visione politica: l’idea, non priva di venature gnostico-apocalittiche e tipica più di un movimento religioso-settario che di un partito politico in senso proprio, secondo la quale presto entreremo in una nuova era politica della felicità nella quale, grazie al diffondersi su scala globale delle nuove forme di comunicazione digitale, la sovranità politica del popolo potrà finalmente affermarsi attraverso la sovranità tecnologica della rete. Quella rappresentativo-parlamentare rappresenta, ai loro occhi, la preistoria istituzionale della democrazia. Il suo futuro, per molti versi prossimo, è quello che vedrà i governanti coincidere con i governati: da un lato essi diverranno interscambiabili perché l’accesso di tutti al sapere in ogni possibile forma farà venire meno le relazioni gerarchiche e la necessità di delega; dall’altro i cittadini, potendo essere consultati in tempo reale su ogni possibile argomento, potranno dire in qualunque momento ai loro momentanei portavoce cosa fare e come agire. Peccato solo che la votazione di ieri abbia dimostrato ancora una volta quanto tutto ciò somigli, più che ad avvenire politicamente radioso, ad un potenziale salto nel buio, dopo il quale potremmo ritrovarci all’interno di uno scenario distopico: la tirannia su basi tecnologiche di una minoranza spacciata per una forma di democrazia diretta e assoluta, un potere che si presenta come legittimato dal basso ed espressione della vera volontà popolare che invece viene manipolato e gestito dall’alto. Già i risvolti tecnico-operativi della consultazione di ieri lasciano non pochi dubbi sulla sua effettiva validità: dal ritardo nell’inizio delle operazioni di voto all’impossibilità per molti di accedere alla piattaforma e di esprimere la propria opinione. Nel prossimo futuro si potrà certamente fare sempre meglio dal punto di vista tecnologico. Resta il problema che più si affineranno le procedure di consultazione-comunicazione on line più si porrà il problema di chi le controlla e gestisce. Ci si può fidare di una società privata che peraltro in questo caso esercita informalmente un ruolo politico? Come scacciare il sospetto che la gestione tecnica del processo di voto nasconda in realtà il perseguimento di obiettivi politici? Quali garanzia abbiamo che il risultato finale non sia stato artefatto o aggiustato? E può una minoranza infima, di cui nemmeno si conosce il numero, produrre con le sue scelte conseguenze politiche potenzialmente assai grandi? Se la democrazia ha che fare con la trasparenza delle procedure e con la definizione di regole che siano per quanto possibile pubbliche e condivise qui siamo nel regno dell’opacità. Un’ambiguità, quella grillina, che italianamente sconfina nella furbizia. Come sottrarsi al sospetto che piuttosto che rilevare le opinioni del prossimo si ambisca invece ad orientarle secondo i propri convincimenti e interessi? In questo caso il gioco era persino troppo scoperto. Non c’è bisogno di essere esperti di comunicazione per sapere che il modo con cui un quesito viene formulato può precostituire la risposta o comunque condizionarla. E dunque: chi e con quali finalità ha messo a punto la domanda che gli iscritti alla piattaforma Rousseau si sono trovati dinnanzi? La democrazia rappresentativa tanto biasimata dai grillini è stata inventata non solo per una questione di spazi e numeri: per l’impossibilità cioè di dare simultaneamente voce ad ogni singolo individuo quando una comunità diviene talmente grande da non poter più essere riunita all’interno di una piazza. Essa è nata anche per sottrarre le deliberazioni all’influsso dell’emotività popolare, nella presunzione che una decisione meditata, basata sulla conoscenza della materia sulla quale si è chiamati a pronunciarsi e frutto di una discussione per quanto possibile approfondita sia, per quanto mai perfetta, comunque da preferire ad una che nasca da una volontà puramente irrazionale. I consessi rappresentativi spesso sbagliano, le piazze tumultuose sempre. La democrazia dovrebbe avere a che fare con la corretta informazione e la conoscenza dei dossier. Quanti tra quelli che ieri hanno votato avevano una cognizione anche minima delle carte relative alla richiesta di autorizzazione a procedere avanzata nei confronti di Matteo Salvini dal Tribunale dei ministri di Catania? L’impressione è che quella voluta dai capi del M5S sia stata, nella migliore delle ipotesi, una consultazione interna sulla necessità di continuare o meno l’attuale alleanza di governo con la Lega, o magari un modo per mettere quest’ultima sotto pressione. Si è insomma richiesto un giudizio agli iscritti su un tema diverso da quello esplicitamente indicato. Operazione in sé legittima, ma per giustificarla non c’è alcun bisogno di scomodare i massimi sistemi. Senza contare che questi continui “appelli al popolo”, al di là dell’enfasi retorica che li accompagna, rappresentano per chi li propone un espediente politicamente deresponsabilizzante. Ci si rivolge ai cittadini-elettori (in questo caso agli iscritti nemmeno ad un partito, ma ad una piattaforma informatica) perché evidentemente non si ha la capacità e la forza di decidere come il ruolo ricoperto richiederebbe. Questa non è l’apoteosi della democrazia, ma la sua caricatura: ci si nasconde dietro il verdetto del popolo per mascherare la propria confusione. Il problema è che le distorsioni e inefficienze che oggi caratterizzano la democrazia rappresentativa non sono un argomento sufficiente per dichiararla morta o per volerla abolire. Specie se ciò che rischia di prenderne il posto è una democrazia puramente virtuale e immaginaria, o peggio un’autocrazia che in nome del popolo finisce per opprimerlo. “Troppi rinvii a giudizio”. Parola di pm di Errico Novi Il Dubbio, 19 febbraio 2019 Il togato Cascini ai penalisti: “La cultura dei Gup va cambiata”. “È un dato politico enorme”. Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, parla a due giorni di distanza dall’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti celebrata a Padova, in particolare a proposito della posizione espressa da un autorevole rappresentante della magistratura, Giuseppe Cascini. “Il fatto notevolissimo è che l’Anm abbia scelto di presentare le proprie proposte di riforma del processo solo in accordo con l’avvocatura, ma è anche, nello specifico, in quanto dichiarato a Padova dal consigliere del Csm Cascini sugli attuali limiti dell’udienza preliminare”. Durante il dibattito su “L’irragionevole durata del processo” tenuto nell’ambito dell’evento inaugurale, Cascini ha riconosciuto l’esistenza di “un dato allarmante relativo alle percentuali elevate di assoluzioni” che “impone di rafforzare il momento di controllo sulla utilità del dibattimento”. In pratica si smette di rimuovere l’enorme problema della cultura della giurisdizione che, negli uffici Gip (in cui lavorano anche i Gup) tende a diradarsi per lasciare spazio a una visione assai più prossima a quella dei colleghi inquirenti. Cascini è stato piuttosto netto quando ha avanzato l’ipotesi di una particolare modifica ordinamentale: “Oltre ad ampliare i poteri del giudice dell’udienza preliminare e ad estendere i casi in cui questa si celebra, si potrebbe inserire il Gup nelle sezioni dibattimentali, per fare sì che possa condividere la cultura e il peso del giudizio e farsi maggiormente carico delle disfunzioni derivanti dalla celebrazione di giudizi inutili”. Parole di portata assai significativa, come dice il presidente delle Camere penali. il tavolo della riforma aperto dal guardasigilli Alfonso Bonafede (e proposto proprio dall’avvocatura, in particolare dal presidente del Cnf Andrea Mascherin) viene squadernata infatti la necessità di una vera e propria rivoluzione culturale nella giurisdizione. Un fatto tanto più notevole se si considera che Cascini è un pubblico ministero (prima di essere eletto al Csm per il gruppo di Area ha svolto funzioni di procuratore aggiunto a Roma) e che è stato anche segretario dell’Associazione magistrati. Adesso si tratta di verificare sotto quale forma via Arenula tradurrà in testo legislativo l’ipotesi condivisa da toghe e avvocati. All’inaugurazione Ucpi il consigliere del Csm ha ricordato che “l’assoluzione, a differenza di quanto qualcuno sembra credere, è un esito fisiologico del processo, la cui funzione è proprio nella prova di resistenza della ipotesi di accusa”. Ma ha poi aggiunto che se è così elevato il numero di ipotesi d’accusa incapaci di reggere alla verifica del Tribunale, vuol dire che un gran parte non meritava il rinvio a giudizio. Torna al centro della discussione l’atteggiamento passivo con cui spesso i giudici dell’udienza preliminare verificano le richieste della Procura. “Tra le possibili soluzioni a questa distorsione”, spiega Caiazza al Dubbio, “noi penalisti e l’Anm ragioniamo insieme anche su una proposta di eliminazione dell’udienza preliminare, che sopravvivrebbe solo per la celebrazione dei riti alternativi. Non sarebbe un grave sacrificio, se si considera che, a fronte di quel dato del 50 per cento dei dibattimenti che vengono definiti con un’assoluzione, il gup decide per il rinvio a giudizio in qualcosa come il 97 per cento dei casi”. Ma naturalmente sta tutto in piedi anche un altro percorso, che già lo scorso 14 febbraio è stato discusso al tavolo della riforma con il ministro della Giustizia: “Quella di rafforzare i poteri valutativi del giudice dell’udienza preliminare”, segnala ancora Caiazza, “poteri che ora sono resi angusti da alcune sentenze delle Cassazione. Secondo quelle pronunce, il Gup non può decidere sull’insussistenza dell’elemento soggettivo”. Il limite è ben noto ai penalisti ed è in effetti uno dei principali vizi di funzionamento del processo accusatorio: nelle ordinanze di rinvio a giudizio, il gup non può inoltrarsi in argomentazioni che motivino in profondità la decisione, perché in tal modo, secondo la Suprema corte, anticiperebbe una sentenza che può essere il frutto solo del dibattimento in Tribunale. Ma l’esito paradossale di tale menomazione di poteri è nel fatto che il magistrato è in questo modo quasi costretto a replicare le argomentazioni con cui il pm chiede il processo, laddove è tenuto a costruire un proprio autonomo ragionamento se decide di prosciogliere. Sembra paradossale ma, fanno spesso notare le Camere penali, questo dettaglio diventa devastante combinato con i carichi di lavoro degli uffici Gip-Gup: i giudici dell’udienza preliminare sono fatalmente indotti a preferire il rinvio a giudizio anche per una questione di risparmio di tempo. L’altro aspetto significativo delle frasi di Cascini è, come ricorda Caiazza, quello relativo alla “influenza della cultura del pm nei confronti del giudice, implicitamente additata dal consigliere Csm, nella misura in cui tale influenza si incrocia con la nostra posizione sulla separazione le carriere: la magistratura, Cascini in primis, non la condivide, ma almeno comincia a mostrare disponibilità a ragionare sui presupposti di quell’ipotesi”. Sabato a Padova, all’inaugurazione dell’Ucpi, la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha offerto il proprio autorevole e generoso contributo di riflessione con un intervento sulla “lunghezza del processo” e sulle vittime “dell’ingiusta detenzione: finora”, ha ricordato, “sono 26mila le persone che hanno scontato misure in carcere e che poi sono state assolte in via definitiva”. Sono vittime anche di quel 50 per cento di dibattimenti che potrebbero essere evitati (non tutti, ma una parte sì) con un rafforzamento delle funzioni del Gup. “La presidente del Senato ha mostrato consapevolezza della delicatezza di questi temi”, nota il presidente dell’Ucpi, “sia con le proprie parole che con la scelta, che ci ha onorati, di trattenersi alla nostra inaugurazione per seguirne in prima fila l’intera sessione di lavori”. Sull’urgenza di riportare l’udienza preliminare al disegno della riforma Carotti, cioè a “luogo di verifica effettiva nel merito della sostenibilità dall’accusa”, come dice Cascini, penalisti e magistrati sono d’accordo. E come ha ricordato, sempre all’incontro di Padova, il vicepresidente del Csm David Ermini, “gli interventi sul penale funzionano se sono condivisi da chi è ogni giorno nelle aule di giustizia”. Caro Pd, quando abbandonerai il giustizialismo? di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 19 febbraio 2019 Il Pd diviso su tutto, è unito nel “processare” Salvini. È l’idea, vincente da 25 anni: se non sai come vincere affidati ai magistrati. A questo punto vale la pena di consegnare la Repubblica ai giudici. on può essere altro che una coazione a ripetere, scritta nel Dna. Le diverse anime del Pd hanno finalmente trovato una sintesi nella comune richiesta che sia data l’autorizzazione a procedere contro Salvini. Un partito diviso su tutto, alla ricerca di una identità, incerto sulla piattaforma programmatica per riconquistare il suo elettorato, si unisce nella richiesta compatta che Salvini sia tratto a giudizio. E di qui la monotona litania di affermazioni quali “di fronte alla giustizia non devono esservi privilegi”, “se ha commesso dei reati è giusto che paghi”, “spetta ai magistrati giudicare se sono stati commessi o no dei reati”. La compattezza della richiesta appare direttamente proporzionale alla attuale debolezza della proposta politica del Pd ed alle scarse aspettative di poter ribaltare in sede elettorale la situazione di marginalità. Nel passato la magistratura è stata un alleato prezioso. Prima ha distrutto la Dc ed il Psi, consentendo ad Occhetto di mettere in piedi la gioiosa macchina da guerra. Poi ha consentito di depotenziare e successivamente di neutralizzare Berlusconi. Perché, allora, non ripetere uno schema, che tanto successo ha avuto in passato, per mettere all’angolo anche Salvini? La priorità è far fuori l’avversario, prima ancora che conquistare il consenso. E le istituzioni? La divisione tra i poteri? L’esigenza di contenere il tasso di giustizialismo che sta permeando il paese? Di questo si potrà parlare, tanto nessuno ci crede, quando si sarà di nuovo conquistato il potere. Del resto, che si tratti solo di chiacchiere emerge con chiarezza dalla storia recente. La riforma del diritto penitenziario, che tanto era stata strombazzata come un traguardo di civiltà voluto e conseguito dal Pd, non è entrata in vigore perché proprio il Pd, per meschini calcoli elettorali, per giunta errati, l’ha lasciata decadere. Salvo oggi stracciarsi le vesti per la volontà della nuova maggioranza di non farla entrare in vigore. E che dire della prescrizione? Fa specie sentire oggi i lamenti per la abolizione della prescrizione, con conseguente rischio per i cittadini di restare assoggettati tutta la vita ad un processo penale, quando già la riforma Orlando l’aveva di fatto abolita, attraverso una tale dilatazione dei tempi da rendere molti reati di fatto imprescrittibili. La vicenda di Salvini pone in modo chiaro la questione dei rapporti tra i poteri dello stato. Non si è in presenza di ruberie o di approfittamenti personali. Si è in presenza di una azione politica, che riguarda uno dei temi più controversi di questa epoca, quello della immigrazione. Su cui il dibattito è amplissimo ed estremamente variegato. Basta pensare alle violente critiche anche interne subite dal ministro Minniti, che per primo ha cercato di arginare il fenomeno, oggi invece indicato da tutto il Pd come un esempio. Certo, nulla esclude che reati possano essere commessi anche con atti di natura e sostanza eminentemente politica. Ma l’art. 96 della Costituzione sta proprio lì ad indicare che in questi casi occorre effettuare un bilanciamento degli interessi coinvolti. Bilanciamento che spetta alla politica effettuare. E che, in un caso del genere, deve fare i conti anche con la problematicità dei rapporti con l’Europa in materia di condivisione della immigrazione e con la circostanza che i disgraziati trattenuti sulla Diciotti erano attesi da baraccopoli come quella di S. Ferdinando. Se tale bilanciamento non si fa sul serio, ma è solo uno strumento di crocifissione per l’avversario, tanto vale, nell’ambito delle imminenti riforme costituzionali, abrogare quella norma e mettere esplicitamente i giudici a capo del paese. Ed il punto è questo. La vicenda Salvini, proprio perché riguarda un avversario politico, diventa la cartina di tornasole per giudicare se vi sia doppiezza o no nella fedeltà agli assetti della Repubblica voluti dai Costituenti. Ed il Pd perderà ulteriore credibilità se ricascherà, come sembra, nella strumentalizzazione, cinica, della questione giustizia. Legittima difesa, un mese per la legge di Benedetto Antonelli Il Tempo, 19 febbraio 2019 È cominciato il dibattito alla Camera, poi dovrà tornare al Senato Le vittime di rapine indignate per la condanna di Peveri che ferì un romeno. La Lega vede il traguardo all’orizzonte. È iniziata nell’aula della Camera la discussione generale sulla riforma della legittima difesa. Salvini è sicuro: “A marzo, entro un mese, sarà finalmente legge il sacrosanto diritto alla legittima difesa se qualcuno ci aggredisce in casa o nei nostri negozi”. Il testo, modificato in commissione a seguito di un errore nelle coperture, dovrà tornare al Senato per la terza e ultima lettura. L’esame nel merito si svolgerà solo dopo che l’aula avrà terminato di esaminare la riforma costituzionale che introduce il referendum propositivo, e dopo le votazioni sulle mozioni sulla Tav. Intanto, chi è stato vittima di rapina, ed è finito indagato per aver reagito all’aggressione, esprime tutta la propria indignazione per la condanna di Angelo Peveri a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio. L’imprenditore di Piacenza sparò a due romeni che gli stavano rubando del gasolio, ferendone gravemente uno. I due ladri hanno patteggiato 10 mesi e 20 giorni per tentato furto. Come ha ricordato lo stesso ministro dell’Interno, “dopo quella sera maledetta, il signor Angelo ha subito altri tredici furti di gasolio”. Solidarietà a Peveri è arrivata da Roberto Zancan, gioielliere di Ponte di Nanto, nel vicentino, vittima di una rapina nel 2015 nel corso della quale il benzinaio Graziano Staccino, la cui pompa di benzina era vicina al negozio, sparò e uccise uno dei rapinatori. “Finché i delinquenti restano impuniti succederà sempre. Mi dispiace veramente per Peveri, mi sale una rabbia... -commenta Zancan - Non ho parole, io comunque continuo a lottare. Se non viene modificata la legge sulla legittima difesa sarà sempre così: il delinquente diventa innocente e tu che ti sei difeso diventi il delinquente e vai a finire anche in galera”. La pensa allo stesso modo Franco Birolo, il tabaccaio di Civé di Correzola, in provincia di Padova, che sparò e uccise un moldavo che aveva tentato di rubare nel suo negozio il 26 aprile 2012. Commentando la condanna a Peveri, Birolo non nasconde il suo disgusto per il fatto che la giustizia “faccia passare un calvario ulteriore ai commercianti onesti e perbene. Peveri viveva nell’incubo perché doveva badare giorno e notte ai cantieri -ricorda all’Adnkronos - Non sì può vivere così. Inoltre gli imprenditori onesti non possono essere condannati a risarcire i delinquenti, altrimenti stiamo favorendo questo tipo di delinquenza, al di là della colpa da punto di vista penale. Quando mai una persona che subisce un furto viene risarcita in maniera adeguata?”. In difesa di Peveri, interviene anche Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio nazionale a sostegno delle vittime: “La condanna per tentato omicidio” significa che per i giudici “c’era la volontà di uccidere. È una cosa incredibile e inaccettabile, da quel che so chiamò immediatamente i soccorsi”. Aldrovandi confida molto nella riforma della legge e spera che, in questo modo, si possa arrivare anche “alla revisione del processo” all’imprenditore condannato a 4 anni e fi mesi. Tutto questo non deve più accadere. È l’impegno che la Lega ha preso con il progetto di legge sulla legittima difesa. “Questa riforma è una priorità per il governo e per gli italiani - ha detto ieri il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morro-ne in chiusura del dibattito alla Camera. L’obiettivo è quello di rafforzare le tutele per chi si difende da una aggressione nel proprio domicilio, reagendo alla violenza dei malfattori”. Mentre per il senatore Andrea Ostellari, relatore del disegno di legge, in questo modo si “consente di togliere molte ombre presenti nell’attuale normativa”. E, confermando la previsione di Salvini, promette: “A fine marzo, massimo primi di aprile, rispettando i tempi tecnici, dovremmo portarla a casa”. Arresto genitori Renzi: la finta coop “per guadagnare di più” di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 19 febbraio 2019 E i pagamenti fantasma agli immigrati. “Tutti sanno che la cooperativa è riconducibile alla famiglia dell’ex premier. C’era pure il cognato di Matteo”. Il promemoria a Tiziano: “Per quel contratto devi intervenire sulla Guardia di Finanza di Genova”. I finanzieri da sempre le chiamano “bare”. Sono quelle società, o meglio ancora cooperative, fantasma su cui gli imprenditori più spregiudicati scaricano il costo dei lavoratori, le imposte previdenziali, le tasse e le multe. L’inchiesta della procura di Firenze, che ha portato ai domiciliari i genitori di Matteo Renzi, racconta vita, morte e acrobazie fiscali di almeno tre “bare”. La Delivery Service Italia, la Europe Service e la Marmodiv, che servivano alla Eventi 6 di Tiziano Renzi e Laura Bovoli per avere lavoratori senza dover versare loro i contributi. Le cooperative - L’inchiesta parte da lontano, dal 2009, con la cooperativa Delivery Service Italia di cui Tiziano Renzi e Laura “Lalla” Bovoli, sono stati secondo i pm “amministratori di fatto” fino al 30 giugno 2010. In realtà la Delivery “è stata in regola solo per il primo anno di esercizio”. Nel 2010 è stata sommersa dai debiti. Nel 2011 ha chiuso. La Guardia di Finanza ha ricostruito due “evasioni contributive”, una di 287.131 euro per il 2010 e un’altra di 332.131. Risultano poi multe per violazioni della normativa sul lavoro, dovute “all’accertamento di lavoratori al nero”. Di fronte a una situazione tanto compromessa, la signora Bovoli spiegò in azienda la necessità di aprire un’altra cooperativa “per cercare di guadagnare qualcosa in più”. L’episodio è tutto in una email di Lalla al marito. “L’unica cosa che salvaguarda la coop è andare subito a dare gli stipendi e a far firmare contemporaneamente le dimissioni a tutti. Poi la nuova cooperativa, sommersa dalle consegne di vino e volantini, sarà costretta a riassumerli subito”. Il Metodo Renzi - È lo stesso Tiziano Renzi attraverso un’altra mail inviata alla moglie e al genero Andrea Conticini (coinvolto in un’altra indagine per alcuni fondi versati da associazioni umanitarie alla sua Play Therapy Africa, ndr) a spiegare nel dettaglio il Metodo con il quale la loro cooperativa Eventi 6 faceva utili. L’oggetto della lettera è il “contratto per il 10 per cento a todobien”. Scrive il padre di Matteo Renzi: “Occorre predisporre un contratto che preveda questo compenso in base a un lavoro potenzialmente contestabile, anche se il contratto deve essere apparentemente non punitivo. Chiaramente per i clienti che Eventi 6 passerà come realizzazione alla cooperativa Marmodiv. Contemporaneamente creiamo una nuova cooperativa e la mettiamo pronta. Quando abbiamo preso in mano i lavoratori e abbiamo capito, facciamo il blitz, cambiamo il presidente e chiudiamo Marmodiv per mancanza di lavoro che nel frattempo, dall’oggi al domani, lo dirottiamo alla nuova”. La confessione - C’è anche un imprenditore, Paolo Magherini, che il 31 maggio scorso davanti ai pm fiorentini Christine Von Borries e Luca Turco che gli contestavano l’emissione di modeste fatture, apre il rubinetto e confessa a cosa serviva davvero la Marmodiv. “La Cooperativa era gestita da prestanome… ma tutti nel settore sapevano che era riconducibile alla famiglia Renzi, e in particolare a Tiziano e alla moglie. Poi c’era anche Andrea Conticini. Le fatture che mi avete esibito devo ammettere che sono false: mi fu chiesto di aprire una partita Iva e di emetterle. Mi venivano pagate via bonifico e successivamente io restituivo per intero la somma, in contanti. Questi soldi credo servissero a pagare in nero altri dipendenti. Non ero l’unico a cui era stato chiesto questo favore, ce ne sono molti altri”. Truffati gli immigrati - Tra questi “altri”, secondo l’ordinanza del gip di Firenze, figurano diversi stranieri. Un caso limite, quello di Mohammad Nazir, titolare di una ditta individuale per la spedizione di materiale propagandistico. Ha emesso fatture per circa 40.000 euro, tra il 2016 e il 2017, in favore di Marmodiv. Gli investigatori hanno scoperto che: 1) all’indirizzo della sede della ditta, a Cesano Maderno, c’è un’abitazione; 2) la ditta non ha mai lavorato con la Marmodiv; 3) il signor Mohammed Nazir non risulta all’anagrafe. Ancor più paradossale la storia di Isajiad Amir, titolare di una ditta a Castiglione delle Stiviere. “Disconosco la fattura da 15.000 euro che mi mostrate - ha trasecolato davanti ai finanzieri - valuterò l’opportunità di denunciare chi ha utilizzato il nome della mia impresa per prestazioni che non ho mai effettuato”. “Intervieni sul Comandante” - Nello svolgere un’attività così sofisticata di smistamento commesse che andavano - secondo i magistrati - molto oltre il border line, servivano metodi spicci e anche degli agganci con uomini in divisa. Come si capisce in un documento sequestrato il 5 ottobre del 2017 nella sede della Marmodiv. Il file si chiama “Promemoria Tiz”. Riporta stralci di corrispondenza personale di Tiziano Renzi. “Buongiorno Tiziano”, esordisce il mittente di cui nell’ordinanza non è riportato il nome. “Per poter affidare la commessa all’associata, dovresti poter intervenire sul Comandante della Finanza a Genova, di cui ti ho già fornito il cognome”. È datata 15 novembre 2016. Solo revoca della patente per l’omicidio stradale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019 Oggi e domani la legge sull’omicidio stradale approda alla Corte costituzionale. Nell’udienza pubblica di oggi e nella camera di consiglio di domani, i giudici della Consulta valuteranno la legge 41/16 a quasi tre anni dalla sua entrata in vigore, per rispondere a quattro questioni di legittimità costituzionale. Intanto, la Cassazione continua a chiarirne ulteriori aspetti. La Consulta - La prima questione, sollevata dal Gup di Roma e dal Tribunale di Torino, riguarda il divieto di prevalenza e di equivalenza dell’attenuante per concorso di colpa sulle aggravanti specifiche (alcol, droga e le altre infrazioni stradali che fanno scattare pene più severe). La seconda, sollevata dai Tribunale di Forlì e Torino, è sulla revoca automatica della patente con divieto di conseguirne un’altra per cinque anni. La Cassazione - Intanto la Cassazione ha stabilito che la sanzione amministrativa accessoria a una sentenza di condanna, o patteggiamento, per omicidio stradale o lesioni stradali gravi e gravissime, è solo la revoca della patente di guida, non commisurabile e disposta dal giudice penale. Non va confusa con l’inibizione al conseguimento di una nuova patente, misura inflitta dal prefetto una volta che la sentenza penale è passata in giudicato con durata diversa a seconda della tipologia di reato stradale accertato, in base agli scaglioni previsti dall’articolo 222, comma 3, del Codice della Strada. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 1791/2019. La pronuncia mette alcuni punti fermi sulle conseguenze per la patente di chi causa un incidente con morti o feriti gravi. La Corte prima di tutto esclude - in linea con un suo recente precedente (si veda il Sole 24 Ore del 1° agosto 2018) - che il giudice penale possa scegliere discrezionalmente se applicare, con la sentenza di condanna o patteggiamento, la revoca o la sospensione della patente. Precisazione necessaria perché la riformulazione dell’articolo 222 a opera della legge 41/16 (nota per aver introdotto l’omicidio stradale) in assenza di norme transitorie lasciava ampi margini d’incertezza applicativa. Ora la Cassazione ha definitivamente sancito che, nei casi di omicidio stradale e lesioni stradali gravi o gravissime successivi al 26 marzo 2016 - data di entrata in vigore della legge 41 - la sanzione accessoria è sempre la revoca della patente, che opera anche in caso di concessione della sospensione condizionale della pena e non può subire riduzioni in caso di patteggiamento. Diversamente, per il reato di omicidio colposo commesso prima del 26 marzo 2016 - e per gli altri reati stradali che causano danni a persone, come il divieto di gareggiare in velocità, di cui all’articolo 9 ter, comma 2, del Codice della strada - la sanzione accessoria rimane quella della sospensione della patente fino a quattro anni, diminuibile fino a un terzo in caso di patteggiamento. La Corte, nel contempo, spiega che non è compito del giudice individuare il periodo d’inibizione alla guida, bensì del prefetto del luogo ove è stato commesso il fatto, che - dopo avere ricevuto dalla cancelleria la sentenza penale irrevocabile - emette ordinanza motivata, ricorribile entro 30 giorni al giudice di pace, individuando il periodo di inibizione all’interno delle cornici edittali previste dall’articolo 222. Con la successiva sentenza n. 2618/19, la Cassazione ha poi spiegato che il periodo di prescrizione delle sanzioni accessorie all’accertamento di un reato stradale, è diverso - e ben più lungo - di quello che deriva da una violazione amministrativa del Codice della strada (come un eccesso di velocità). Nel primo caso la prescrizione della sanzione accessoria è pari a quella del reato ed è soggetta agli stessi periodi di interruzione e sospensione. Nel secondo caso è di cinque anni dalla data dell’infrazione. Non è una differenza da poco, se si considera che, oggi, la prescrizione dell’omicidio stradale nei casi più gravi può superare 20 anni e che dal 1° gennaio 2020, quando sarà efficace la modifica in materia di prescrizione introdotta dalla legge 3/19 (cosiddetta spazzacorrotti), si congelerà definitivamente dopo la sentenza di primo grado. In questi casi la revoca della patente, con contestuale inibizione alla guida fino a 30 anni, è una conseguenza praticamente inevitabile, anche se la condanna penale arriva dopo vent’anni dal fatto e nel frattempo l’interessato ha continuato a guidare senza problemi. C’è un’unica eccezione: il termine breve di 5 anni, spiega la Corte, si applica quando il reato si estingue per una causa diversa dalla morte del reo, ad esempio per esito positivo della “messa alla prova”, perché in tali casi è il prefetto che procede all’accertamento della sussistenza delle condizioni per l’applicazione della sanzione accessoria. Ma questi riti alternativi sono preclusi per le ipotesi aggravate di omicidio e lesioni stradali. Le presunzioni legali possono servire come capo d’imputazione per l’indagato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 18 febbraio 2019 n. 7242. I reati tributari non possono basarsi sugli elementi tipici del diritto tributario quali le presunzioni legali. Queste ultime, infatti, secondo quanto si legge nella sentenza 7242/19, previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione di reati previsti dal Dlgs 74/2000, potendo solamente essere fondamento di elementi indiziari, atti a giustificare l’adozione di misure cautelari reali a carico del soggetto interessato. Si tratta di dai di fatto. Si tratta, infatti, di elementi che non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. La Cassazione, pertanto, ha dato ragione al ricorrente che aveva eccepito la contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui sono stati ricondotti a reddito sulla base di una presunzione tipica del diritto tributario, i prelievi di cassa operati dal ricorrente e nelle parte in cui non sono stati considerati provati gli impieghi di essi come costi riferiti al ciclo produttivo dell’impresa. Conclusioni. Da evidenziare che l’imputato è dovuto arrivare in Cassazione per avere ragione a seguito di due sentenza di merito (tribunale di Cosenza e Corte d’appello di Catanzaro) che gli avevano dato torto. La scelta tra giudice di pace e tribunale monocratico di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019 In attesa della Consulta, la legge 41/16 va e torna dalle Sezioni unite della Cassazione. Con la sentenza 40986/2018 le Sezioni unite hanno chiarito che se l’incidente avviene in vigenza delle vecchie pene, mentre la morte dell’investito avviene dopo l’entrata in vigore delle nuove, si applicano le prime perché più favorevoli. Ora dovranno stabilire se per le lesioni stradali gravi e gravissime precedenti al 26 marzo 2016 la competenza rimane del giudice di pace, oppure si trasferisce al tribunale monocratico, come prevede la novella. Il quesito è stato posto dall’ordinanza 1046/2019. Nella sentenza 48249/2017, la Corte aveva concluso per la permanenza della competenza del giudice di pace, dovendosi attribuire alla nuova norma valore sostanziale, in virtù delle pene ben più severe. Ora la stessa sezione ritiene di rimettere la questione alle Sezioni unite, sul presupposto che non esistano ostacoli ad attribuire alla stessa norma doppia natura: di diritto sostanziale, soggetta all’applicazione delle pene più favorevoli in caso di successione di norme nel tempo, e processuale, ai fini della competenza, come tale applicabile ai processi in corso. Concordato preventivo, il mercato di voto è reato proprio del creditore di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2019 Corte d’appello di Trento - Sezione penale - Sentenza 18 luglio 2018 n. 216. La fattispecie di reato di mercato di voto, prevista dall’articolo 233 della legge fallimentare, punisce il creditore e il fallito che si accordino per subordinare nel concordato fallimentare il voto del primo a determinati vantaggi. L’articolo 236 nell’estendere tale reato nell’ambito del concordato preventivo prevede la punibilità per il solo creditore, con la conseguenza che se la proposta di voto proviene dall’imprenditore e il creditore non la accetti, non si configura alcun reato, se non la generale previsione dell’istigazione non punibile ex articolo 115 cp. Questo è quanto emerge dalla sentenza 216/2018 della Corte d’appello di Trento. I fatti - Protagonista della vicenda è un imprenditore, amministratore unico di una srl e consigliere di un’altra società, quest’ultima ammessa a concordato preventivo, il quale proponeva la stipula di un importante contratto di subappalto di opere edilizie all’amministratore di una società creditrice chirografaria del concordato, in cambio del voto favorevole di quest’ultima al concordato. La società creditrice non aderiva però alla proposta e denunciava il comportamento tenuto dall’imprenditore al commissario giudiziale del concordato. Di qui la vicenda finiva dinanzi ai giudici penali, chiamati a verificare la violazione degli articoli 233 e 236 della Lf, che prevedono rispettivamente la fattispecie del mercato di voto e la sua estensione anche nell’ambito del concordato preventivo. Il Tribunale assolveva però l’imputato ritenendo che l’estensione della punibilità delle condotte di mercato di voto nell’ambito del concordato preventivo fosse limitata ai soli creditori, ma non anche all’imprenditore ammesso al concordato, potendo al massimo configurarsi una istigazione non punibile ai sensi dell’articolo 115 cp. La questione finisce così in appello, dove la procura cerca di far cambiare il verdetto sottolineando il fatto che la proposta era proprio diretta a svantaggiare tutti i creditori chirografari, in quanto, laddove accolta, avrebbe comportato l’opponibilità al fallimento di una ipoteca giudiziale di un’altra società creditrice. In sostanza, il reato sarebbe integrato per il solo fatto della proposta, a prescindere dal fatto che essa sia stata o meno accettata. Il mercato di voto - Ciò tuttavia non basta per giungere ad una sentenza di condanna. La Corte d’appello conferma, infatti, l’assoluzione seguendo il ragionamento già effettuato dal giudice di prime cure. Ebbene, il Collegio spiega che la fattispecie di mercato di voto, ex articolo 233 Lf, si configura quando il creditore stipuli col fallito vantaggi a proprio favore per dare il suo voto nel concordato fallimentare, assoggettando a pena entrambi. L’articolo 236 Lf, invece, estende tali previsioni anche al concordato preventivo, escludendo però dall’ambito della punibilità il fallito. In sostanza, chiariscono i giudici, nel primo caso si è in presenza “di un’ipotesi di reato a concorso necessario”; nel secondo caso si è dinanzi ad un reato proprio, “che può essere commesso esclusivamente dal creditore e non dal fallito”. Tale inequivoca previsione non può poi essere superata in via interpretativa, in quanto ciò sarebbe contrario ad una precisa scelta legislativa e “comporterebbe una non consentita estensione dell’area della punibilità”. Padova: progetto scuola al Due Palazzi, centinaia di studenti incontrano i detenuti di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 19 febbraio 2019 È ripartito il progetto scuola all’interno della casa di reclusione Due Palazzi. Anche quest’anno saranno centinaia gli studenti degli istituti superiori padovani che incontreranno i detenuti, entrando in carcere al termine di un percorso fatto di incontri a scuola condotti da operatori del settore. “Si tratta di un progetto importante, che mette in relazione il fuori e il dentro dal carcere” sottolinea l’assessora al sociale Marta Nalin “Il carcere è una realtà del nostro territorio e un progetto come questo costruisce dei collegamenti fatti di relazioni tra i giovani della città e le persone detenute, che raccontano la loro storia e rispondono a domande anche forti e scomode. Lo fanno perché hanno a loro volta intrapreso un percorso di responsabilità. Questo incontro ha un effetto positivo sia sugli studenti che tra i detenuti di prevenzione e consapevolezza”. Il progetto vede coinvolte, tra gli altri, l’associazione Granello di Senape e la redazione della rivista proprio del Due Palazzi, Ristretti Orizzonti. Roma: la sindaca Raggi “premi a chi assume ex detenuti o immigrati” di Simone Pierini Leggo, 19 febbraio 2019 “Dobbiamo costruire una comunità inclusiva e solidale. Nessuno deve rimanere indietro”. La sindaca di Roma Virginia Raggi scende in campo per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di cittadini considerati fragili e, attraverso una Memoria approvata dalla Giunta Capitolina, offre alle aziende una “miglioria”, da valutare in caso di parità di punteggio, nelle gare o appalti di Roma Capitale. La Memoria prevede da parte delle imprese l’impegno all’assunzione di persone con disabilità, di donne vittime di violenza o della tratta, di rifugiati politici, di ex detenuti o ex tossicodipendenti. Persone ad oggi tagliate fuori dal mondo del lavoro e pronte a dare il loro contributo per la città e a intraprendere un percorso di inserimento all’interno della società. Il primo cittadino di Roma cita la Costituzione facendo riferimento all’articolo 2 dove “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e all’articolo 27 dove “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “La Costituzione definisce l’importanza del reinserimento di tutte quelle persone che si trovino in una condizione di svantaggio sociale - dice la sindaca du Facebook - Con questo intento abbiamo voluto prevedere all’interno degli avvisi pubblici o bandi di gara di Roma Capitale una premialità per queste aziende”. “Da un lato - spiega la Raggi - questa misura consentirà di completare il percorso di reinserimento per gli ex detenuti che si sono formati e hanno iniziato a lavorare nel progetto “Mi Riscatto per Roma” portato avanti con il ministero della Giustizia per favorire il lavoro dei detenuti nella cura del verde pubblico e delle strade della nostra città, dando loro una concreta opportunità di lavoro. Dall’altro, abbiamo voluto fortemente dare una nuova opportunità di reinserimento anche ai nostri cittadini più fragili: a coloro che, nel tempo, sono stati esclusi dal mondo del lavoro”. “Una iniziativa che speriamo possa aiutare queste persone a ricominciare a camminare da sole - conclude la sindaca - ad avere un ruolo attivo nella nostra società e a contribuire alla crescita della nostra comunità. Nessuno deve rimanere indietro”. Potenza: la Corte Costituzionale nel carcere il 27 febbraio askanews.it, 19 febbraio 2019 Il Giudice Franco Modugno incontra detenuti e detenute. Mercoledì 27 febbraio, il giudice della Corte costituzionale Franco Modugno incontrerà le detenute e i detenuti della Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza nell’ambito del progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”. Nella “Sala Di Lorenzo” dell’Istituto, dopo una lezione che prenderà spunto dal frammento di Costituzione “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali”, il giudice risponderà alle domande che detenute e detenuti vorranno rivolgergli. Il progetto “Viaggio nelle carceri” è stato deliberato dalla Corte l’8 maggio 2018 e, in continuità con il “Viaggio nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’Istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per diffondere e consolidare la cultura costituzionale. Con la scelta del carcere, la Corte intende anche testimoniare che la “cittadinanza costituzionale” non conosce muri perché la Costituzione “appartiene a tutti”. Il progetto - grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità - prevede un ciclo di incontri tra i giudici e i detenuti in diverse carceri italiane. Il primo si è svolto il 4 ottobre 2018 a Rebibbia Nuovo complesso. Sono seguiti, sempre nel 2018, San Vittore, Nisida minorile, Terni, Genova-Marassi, Lecce femminile. Nel 2019, dopo Sollicciano e Potenza, seguiranno le carceri di Padova, Napoli, Bologna. I giornalisti e i cineoperatori interessati a seguire di persona l’incontro dovranno accreditarsi entro martedì 26 febbraio, alle 17, inviando una e-mail con nome e testata a tutti e due questi indirizzi: ufficio.stampa@cortecostituzionale.it, cc.potenza@giustizia.it. Venezia: stretta sul carcere, parla il Garante “a rischio i progetti di recupero” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 19 febbraio 2019 “E adesso è da non dormire di notte a pensare di dover fare il Garante dei Diritti delle detenute nel carcere della Giudecca”, firmato Sergio Steffenoni, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale per il Comune di Venezia. In pratica colui che per lavoro ha il compito di destreggiarsi tra le regole e il buon senso in modo da rendere più umana la vita all’interno del penitenziario maschile di Santa Maria Maggiore e di quello femminile della Giudecca. Le parole di Steffenoni sono figlie del giro di vite sulla sicurezza all’interno della Giudecca (cancellati i contatti tra agenti e detenute, ridotti i possibili rapporti con l’esterno e vietato pure la tinta ai capelli) imposti dopo l’ispezione voluta dal Ministero della Giustizia per far luce sull’ambiente in cui lavorava l’agente Maria Teresa Sissy Trovato Mazza, morta il 19 gennaio dopo due anni di coma dovuti ad un colpo di pistola esploso mentre si trovava in un ascensore dell’ospedale Civile di Venezia. Per la procura, che indaga contro ignoti per induzione al suicidio, è stata la stessa agente a sparare. Per la famiglia invece la chiave di volta si troverebbe nell’ambiente lavorativo della Giudecca, più volte denunciato dalla stessa Sissy a cui si sono aggiunte testimonianze di ex detenute che parlavano di droga e sesso nei bracci del carcere. “Deve finire questa isteria collettiva che immagina festini di sesso e droga in carcere - continua la lettera - Ammettiamo ci sia stato un bacio tra una detenuta e una agente di custodia, sai che reato! È piuttosto un caso di scarsa professionalità di una a fronte di tante altre agenti che fanno un lavoro così difficile e faticoso. Tutti lo sanno e molto si lamentano le detenute; non c’è modo di essere mai un attimo da sole in carcere, non c’è uno spazio privato, quando una detenuta ha bisogno di piangere, e spesso non resta che piangere, può solo chiedere di andare in chiesa”. Secca la risposta a chi ha buttato là la possibilità di stupefacente in cella. “La droga? Sono state fatte ben 86 perquisizioni con il cane all’anno, una ogni 4 giorni, vengono fatti controlli ematici, perquisizioni personali, è il carcere più controllato d’Europa sempre perché è un carcere modello - replica il dottor Steffenoni - Così tutti si fanno le fantasie e nessuno viene più il giovedì a comperare la verdura che le detenute con Vania faticosamente coltivano nell’orto”. Poi una riflessione sul futuro, che si annuncia cupo. “E adesso come riuscirò a difendere il diritto che tutte possano partecipare alle attività trattamentali? Se ci saranno più sezioni, si faranno anche duplicati di corsi scolastici, di teatro, più turni in biblioteca? E continui spostamenti scortate da agenti, telecamere ovunque? E il diritto al lavoro? Chi va in orto, in cosmetica o in sartoria a lavorare per produrre cose belle che vadano nel mondo a sostituire il malfatto, dovrà rimanere isolata da tutte le altre attività, o dovrà per forza rinunciare al lavoro? E il diritto per le detenute ad essere belle - attacca il garante. O forse per una donna non è un diritto? Maria del Granello di Senape faceva per queste donne piccoli acquisti di prodotti di estetica che il Sopravvitto non vendeva, ma che servivano tanto ad avere una speranza, a non lasciarsi andare al degrado e all’abbandono. Veneziani avete sempre dimostrato un po’ di compassione per le persone ristrette della Giudecca, luogo che appartiene alla vostra città. Non abbandonate gli ultimi, cosa che questa città non ha mai fatto”. E a chiudere la richiesta d’aiuto: “Serve urgentemente un alloggio per le nuove agenti in Giudecca, il Patriarcato potrebbe offrire la sagrestia e alloggio a Santa Fosca?”. Napoli: corso di cuoco per i detenuti, così si favorisce il reinserimento giustizianews24.it, 19 febbraio 2019 Iniziativa dell’Accademia Medeaterannea. Tra i camerieri che lavorano nel nuovo bar del Tribunale di Torino - riaperto dopo lo stop provocato da un’inchiesta che ha evidenziato irregolarità nel precedente appalto - lavorano anche alcuni detenuti ed ex detenuti. Questo grazie ad un progetto di reinserimento e accompagnamento nella società. A Roma già da tempo alcuni detenuti di Rebibbia sono impiegati nei lavori di manutenzione delle strade di Roma nell’ambito del progetto “Mi riscatto”, e pochi giorni fa il sindaco Virginia Raggi ha annunciati “premi a chi assume ex detenuti o rifugiati”. Anche Napoli si è mossa lungo questo solco di favorire il reinserimento dei detenuti: l’Accademia Medeaterannea ha aperto le porte a due detenuti per il nuovo corso Futuro Cuoco - che dura 450 ore - ospitato presso la sede della Mostra d’Oltremare e partito il 12 febbraio scorso. Un’iniziativa che incassato i complimenti del ministero della Giustizia, che ha riconosciuto la valenza dell’iniziativa sottolineando “l’importante opportunità di formazione e avviamento al lavoro” che è stata offerta. L’inserimento dei due detenuti nel corso di formazione è il risultato di un protocollo firmato un anno fa dall’associazione “Il Carcere Possibile Onlus” (guidato dall’avvocato Anna Maria Ziccardi) e l’azienda “Sire”. Un protocollo che si pone come obiettivo quello di creare condizioni reali di reinserimento dei detenuti nel lavoro. “Siamo molto orgogliosi di questa iniziativa perché finalmente si gettano le basi per la partecipazione dei detenuti a occasioni di lavoro altamente formative. Questo corso, nello specifico, dura 450 ore, significa che è un corso di livello. Non solo: questo è un corso che consente ai detenuti che vi partecipano di poter entrare in relazione, in contatto con altri iscritti che non hanno problemi con la giustizia. È dunque un momento di integrazione importantissimo”, commenta l’avvocato Anna Maria Ziccardi de Il Carcere Possibile. Il protocollo firmato un anno fa prevede inoltre anche la possibilità per i detenuti di accedere a degli stage. “La difficoltà di chi ha espiato la pena e torna in libertà è proprio quella di non riuscire ad inserirsi nel mondo del lavoro perché, quasi sempre, non viene data loro possibilità a causa dei loro trascorsi - spiega l’avvocato Ziccardi - Quindi vanno bene tutte le iniziative interne al carcere per far sì che i detenuti comprendano il lavoro della legalità e si avvicinino a degli ambiti lavorativi, ma poi è necessario aiutarli materialmente a trovare un lavoro fuori. È importante non lasciarli da soli in un momento delicatissimo. La centralità di questo progetto è riuscire a dargli un mestiere, ed abbattere così i rischi della recidiva”. Palermo: “Cotti in fragranza”, un brand contro il pregiudizio Corriere della Sera - Buone Notizie, 19 febbraio 2019 È un frollino secco al mandarino tardivo di Ciaculli il biscotto primogenito sfornato da “Cotti in fragranza”, il laboratorio di prodotti da forno creato all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni Malaspina di Palermo. La ricetta è stata creata ad hoc dallo chef pasticciere Giovanni Catalano per la startup innovativa a vocazione sociale. I primi 5 ragazzi impegnati nel progetto hanno voluto chiamarli “Buonicuore”, per far intendere a tutti quello che sanno di poter diventare. Poi sono arrivati i “Parrapicca” al limone e zenzero, i “Coccitacca” al cioccolato di Modica e arancia, i “Mammucci”, cantucci vegani alla mandorla e pistacchio. I numeri dicono che il progetto funziona. Avviata nel 2016, la startup “Cotti in fragranza” ha distribuito lo scorso anno oltre 30 mila pacchi di biscotti in 90 punti vendita. E la startup, nata grazie alla collaborazione dell’Opera Don Calabria con l’Associazione nazionale magistrati e la Fondazione San Zeno, oggi gestita dalla cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus, lo scorso dicembre ha avviato un secondo nucleo operativo che si occupa di catering, stavolta fuori dal carcere, ospitato all’interno di Casa San Francesco - palazzo storico deputato all’accoglienza di persone a rischio di vulnerabilità sociale - per consentire ai ragazzi di continuare a lavorare al progetto anche una volta scontata la loro pena. Mantova: la San Marco insegna a fare l’espresso ai detenuti comunicaffe.it, 19 febbraio 2019 Che il caffè fosse una bevanda che unisce le persone, anche svolgendo un ruolo sociale che invita alla solidarietà, è risaputo. Tanto per fare un esempio, la tradizione napoletana che poi, per fortuna ha coinvolto l’intero Paese, del caffè sospeso. Ma le iniziative di questo tipo non mancano e, infatti, a ridosso del Natale ne riportiamo una particolarmente virtuosa. Protagonisti, i detenuti di Mantova, che hanno potuto rendersi utili proprio grazie all’espresso e all’azienda La San Marco. Che ha messo a disposizione le sue macchine per realizzare un’idea davvero importante. La San Marco porta in carcere la cultura del caffè - L’arte di fare il caffè come possibilità di riscatto. È questa la visione alla base del progetto di sostegno promosso dall’Associazione volontari “Centro Solidarietà Carcere” di Mantova al quale ha recentemente preso parte La San Marco Spa. Storica azienda di Gradisca d’Isonzo (Go) produttrice di macchine da caffè, macinadosatori e altre attrezzature professionali per bar a ristoranti, tra le più conosciute al mondo. Avviato lo scorso mese di ottobre, con una prima edizione - Che ha riscosso grande successo sia da parte degli organizzatori che dei partecipanti, il progetto ha coinvolto 11 detenuti della Casa Circondariale di Mantova. In un corso accelerato di caffetteria suddiviso in tre diverse giornate, per una durata totale di 18 ore. Alla guida del corso, la trainer Renata Zanon - Vincitrice della tappa Espresso Italiano Champion 2018 di Conegliano (TV), che ha accompagnato i partecipanti alla scoperta delle regole d’oro per l’estrazione di un buon caffè espresso. Nonché delle tecniche fondamentali per la creazione di gustosi cappuccini e Latte Art. Al termine delle lezioni, ciascun partecipante è stato sottoposto ad un piccolo esame finale ed ha ottenuto un attestato di frequenza che potrà essere esibito ai fini del reinserimento nel mondo del lavoro. Il progetto, patrocinato dall’Ing. Giuliano Bianchi della Lubiam srl di Mantova - Ha visto l’esclusiva fornitura di un modello automatico 100 Touch La San Marco con il quale alunni e insegnante hanno potuto cimentarsi in entusiasmanti prove pratiche e dimostrazioni. Tra gli sponsor dell’iniziativa, anche la friulana Latte Vivo e la veneta Dersut Caffè. Le quali hanno messo a disposizione dei corsisti latte fresco e profumate miscele di caffè. “Poter far pratica utilizzando una macchina La San Marco ha significato molto per i ragazzi.” - racconta la Zanon. “Il modello utilizzato, infatti, non solo li ha proiettati in una dimensione professionale reale, simile a quella che mi auguro possano trovare una volta usciti dal carcere, ma ha anche permesso loro di comprendere l’importanza di lavorare con una macchina affidabile e sicura, in grado di garantire la massima qualità del prodotto in tazzina”. San Gimignano (Si): Sarti (Sì Toscana) “preoccupato per salute detenuti” controradio.it, 19 febbraio 2019 Preoccupazione “per la gestione complessiva del carcere di San Gimignano (Siena), in particolare dal punto di vista della tutela della salute dei detenuti. La nuova direzione ha adottato metodi che rischiano di aumentare la loro esasperazione e limitazioni che interferiscono in particolare con le cure nel carcere, vedi la possibilità di accesso alle visite specialistiche negli ospedali del Senese”. Lo afferma il consigliere regionale di Sì Toscana a sinistra Paolo Sarti che nei giorni scorsi ha effettuato un sopralluogo nella casa di reclusione. Sarti e il capogruppo di Sì Toscana a sinistra Tommaso Fattori, spiega una nota, annunciano un’interrogazione “per sapere se l’assessore Stefania Saccardi intenda intervenire per migliorare la situazione tesa fra Asl e direzione dell’istituto. “Il personale sanitario, che di per sé sarebbe sufficiente, lavora in condizioni difficilissime - sottolinea Sarti, dovendo rispettare direttive poco conciliabili con le effettive necessità di cura. Le criticità, apprese durante il sopralluogo effettuato di recente, riguarderebbero soprattutto l’interferenza della direzione nel giudizio sui casi meritevoli di invio al pronto soccorso, limitazioni nell’individuazione dei presidi sanitari di riferimento e la carenza di mezzi di trasposto al momento della necessità. Capita continuamente, di conseguenza, che le visite specialistiche slittino di sei mesi in sei mesi, con tempi di attesa che raggiungono i mille giorni”. Per Sarti, “a quanto pare è in atto una sorta di pugno di ferro tra direzione carceraria, detenuti e soggetti ‘esterni’ presenti nella struttura che serve solo a inasprire il clima”. Aversa (Ce): Carlotta Giaquinto lascia la direzione della Casa di reclusione di Nicola Rosselli pupia.tv, 19 febbraio 2019 “Martedì 19 febbraio lascerò la guida della casa di reclusione di Aversa perché ho ricevuto l’incarico di direttore della casa circondariale di Pozzuoli. È stata una esperienza breve, in quanto si è trattato di una reggenza della durata di poco più di un anno, ma è stata particolarmente intensa”. A parlare la dottoressa Carlotta Giaquinto, direttrice del carcere ospitato in quello che è stato lo storico Ospedale psichiatrico giudiziario “Filippo Saporito”. Di fatto ci sarà uno scambio, A Giaquinto, infatti, succederà l’attuale direttrice del carcere di Pozzuoli Stella Scialpi. “Tante - continua Giaquinto - sono state le iniziative che hanno permesso di creare un canale di comunicazione stabile e duraturo tra carcere e territorio e tanti gli enti che sento di ringraziare per la sensibilità dimostrata. In primis, il vescovo di Aversa Angelo Spinillo con la sua Diocesi e la Caritas diretta da don Carmine Schiavone, con cui sono stati realizzati importanti gesti di solidarietà a favore dei ristretti e un protocollo che ha creato un supporto costante ai detenuti più bisognosi. Il sindaco di Aversa Enrico De Cristofaro e l’assessore Marica De Angelis, con cui è stato portato a termine un importante protocollo per il lavoro di pubblica utilità dei detenuti. Desidero inoltre ringraziare la presidente del tribunale Elisabetta Garzo e il procuratore Francesco Greco, la cui presenza rassicurante e la cui sensibilità mi hanno aiutato ad affrontare la gestione dell’istituto”. “Ringrazio la stampa locale - continua Giaquinto - attenta e rispettosa dell’istituzione penitenziaria. Ringrazio i magistrati di sorveglianza ed il Garante regionale che mi hanno sempre mostrato la giusta attenzione. Ringrazio i diversi enti del terzo settore che hanno dato disponibilità e permesso di realizzare i numerosi interventi a favore dei detenuti, primi tra tutti l’attività teatrale, l’attività sportiva, quella culturale con i corsi di filosofia e arte, quella scolastica e quella religiosa. E ringrazio quelle personalità che con grande sensibilità hanno donato il proprio tempo e le proprie doti artistiche ai detenuti e al personale dell’istituto. Spero che ogni singola iniziativa resti in piedi e che continui in maniera crescente l’integrazione con il tessuto sociale che è l’unica arma contro l’indifferenza che genera la devianza e la recidiva”. Nuoro: nominato il Garante dei detenuti, è l’avvocato Giovanna Serra cronachenuoresi.it, 19 febbraio 2019 Dopo un anno e polemiche da parte della Minoranza consiliare, il sindaco di Nuoro, Andrea Soddu ha comunicato, oggi, via decreto la nomina del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Si tratta di Giovanna Serra, avvocatessa nuorese, che per diversi anni ha svolto il ruolo di referente dell’Osservatorio Carcere per la Camera penale di Nuoro. Per la prima volta a Nuoro, il ruolo di Garante viene affidato a una donna. La professionista è stata selezionata da una commissione nominata ad hoc, che ha raccolto le candidature e scelto il profilo più adatto. La Garante Giovanna Serra, appena comunicata la nomina, nel rispetto del ruolo, ha provveduto nell’immediato alla rinuncia dei mandati già conferiti dai suoi assistiti attualmente detenuti a Badu ‘e Carros. “Trasparenza e meritocrazia sono state le linee guida che abbiamo seguito nel rispetto degli obiettivi che questa Amministrazione si è sempre data nella gestione della cosa pubblica, e mettendo in questo caso al primo posto l’interesse dei detenuti. Una scelta che ora ci mette nelle condizioni di operare nel miglior modo possibile” dice il sindaco Soddu. Pisa: due detenuti si laureano in Scienze politiche e delle comunicazioni iltelegrafo.it, 19 febbraio 2019 “Un successo del polo penitenziario”. Due studenti detenuti, reclusi nelle case circondariali Don Bosco di Pisa e Le Sughere di Livorno, hanno concluso nelle scorse settimane il loro percorso accademico triennale. Il primo di loro si è laureato in Scienze politiche con la votazione finale di 100 su 110 discutendo un lavoro di tesi, in ambito storico, sul clima politico a Pisa negli anni ‘60, mentre il secondo si è laureato con 110 e lode in Scienze della comunicazione discutendo brillantemente una tesi sulle implicazioni etiche delle nuove tecnologie comunicative. A renderlo noto è l’università di Pisa e si dichiara pienamente soddisfatto il professore Andrea Borghini, delegato del rettore per il Polo universitario penitenziario Renzo Corticelli di Pisa. “Questi risultati sono il frutto di una collaborazione tra l’Università di Pisa e il mondo penitenziario che negli ultimi anni si è allargata e comprende ora, oltre l’istituto di Pisa, anche quelli di Livorno, Volterra (Pisa), Massa e Porto Azzurro, all’Isola d’Elba”, ha sottolineato Borghini. “Queste lauree rappresentano davvero un importante traguardo ed è il segno che il Polo universitario penitenziario si sta muovendo verso una sempre maggiore diffusione. Mi auguro davvero che ora altri studenti detenuti possano concludere in modo altrettanto proficuo il proprio percorso accademico”. Novara: nel penitenziario concerti e iniziative novaraoggi.it, 19 febbraio 2019 Sono due i progetti che si porranno in atto: “Porte aperte” e “Let’s play”. La casa circondariale di Novara dagli anni Settanta accoglie sia detenuti comuni in attesa di primo giudizio e imputati a regime chiuso, sia detenuti dimittendi a regime aperto. L’attenzione rivolta a questo luogo complesso e delicato ha portato alcune realtà del territorio a progettare con la direzione e l’equipe educativa del carcere attività e azioni dedicate ai carcerati nel loro percorso rieducativo e al sostegno della genitorialità. Molti dei detenuti hanno figli che incontrano in permesso di visita e proprio da questo si evince il bisogno di sostenere gli uomini nel proprio ruolo genitoriale, tutelandolo e permettendo ai figli di condividere esperienze piacevoli con il proprio nucleo famigliare. Il 17 febbraio 2019 l’associazione culturale Rest-Art ha organizzato un concerto di piano solo all’interno del Carcere di Novara con brani Jazz di Chick Corea suonati da Ricciarda Belgiojoso. Concerto a titolo filantropico organizzato in occasione della donazione di un pianoforte al carcere con il contributo di Fondazione Comunità Novarese e la collaborazione di Piano City Milano. In questa occasione le organizzazioni del territorio hanno presentato due progetti in forma congiunta. Il progetto “Porte aperte”, sostenuto dall’Impresa Sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, rivolto ai padri con figli da 0 a 6 anni e il progetto “Let’s play” sostenuto dalla Compagnia di San Paolo rivolto ai padri con figli da 7 a 18 anni e alle loro famiglie. Progetto “Porte Aperte” - Porte Aperte è un progetto prevalentemente rivolto ai genitori e bambini nella fascia di età da 0 a 6 anni, che si trovano in situazioni di difficoltà e inoltre prevede, in un’ottica preventiva, l’attivazione delle famiglie, delle reti sociali e dei servizi educativi territoriali. Focus sull’attività presso la Casa Circondariale di Novara. Questa specifica fase del Progetto intende dar vita ad un percorso di ricostruzione dei legami familiari, attraverso percorso di rielaborazione per i papà e laboratori di gioco che coinvolgono le famiglie favorendo un processo rieducativo ed un progressivo reinserimento dei detenuti nella vita sociale. L’obiettivo delle azioni del progetto a sostegno della genitorialità è quello di incentivare le occasioni di incontro padre/figlio al fine di consolidare il rapporto genitoriale messo a dura prova dalle limitazioni che nascono dallo stato di detenzione del padre e dalle regole vigenti in fase di colloquio. Il progetto prevede la realizzazione di laboratori ludico educativi rivolti ai padri insieme alle loro famiglie da svolgersi sia all’interno del Carcere sia presso lo Spazio Gioco Il Melograno del Comune di Novara. Verso la Beatitudo di Armando Punzo emiliaromagnacreativa.it, 19 febbraio 2019 “Sognare un uomo e imporlo alla realtà: sembra il compito che si è dato la Fortezza per trent’anni”. Le parole con cui il regista, drammaturgo e attore Armando Punzo, prendendo in prestito quelle di Borges, racconta il trentesimo anniversario dalla fondazione della più nota e longeva compagnia di teatro in carcere, hanno il tono apocalittico delle imprese eroiche. Come quando parlava di “trasformare la materia vile in oro” e “fare buchi nella realtà” o “fare come se il mondo dovesse cominciare solo ora”. Lo stesso tono, insomma, degli ultimi spettacoli a cui ci ha abituati il demiurgo, pluripremiato maestro dei nostri giorni, in cui la rappresentazione, i dialoghi, la mimesi del quotidiano, con i suoi limiti e le sue contraddizioni tutte occidentali, saltano completamente per lasciare spazio a mondi immaginifici e visionari che forzano e trasfigurano l’immagine del carcere in cui nascono (quello di Volterra), della prigione fatta di paura e limiti che tutti ci portiamo dentro come umani, ma anche dei teatri che vanno ad abitare con decine di attori, detenuti, ex-detenuti, attrici professioniste, bambini, figuranti perché in scena si materializzi ogni volta un popolo che ne sostituisca un altro, per raccontare un’idealità e darle corpo subito, nel qui e ora del teatro. Quattro anni fa il lavoro Santo Genet si era meritato applausi a scena aperta e standing ovation in una Arena del Sole in overbooking. Adesso la Compagnia della Fortezza torna a Bologna con il nuovo spettacolo, Beatitudo, ispirato appunto all’opera di Borges: un viaggio nel sogno, alla ricerca di una felicità troppo lontana e insieme resa molto vicina dalla concretezza del desiderio. Lo si vedrà sempre all’Arena del Sole il 30 marzo alle 19.30 e il 31 marzo alle 16. Come nel 2015 l’arrivo della compagnia sarà preceduto da una serie di appuntamenti, incontri, lezioni e laboratori, per conoscere più da vicino l’idea che anima il lavoro di Punzo. Bologna, d’altronde, rappresenta una tappa particolarmente importante delle iniziative realizzate in tutta Italia, a cura di Cinzia de Felice, organizzatrice storica della compagnia, in occasione dei trent’anni della Fortezza. Da sempre con la città emiliana la compagnia toscana è idealmente gemellata, a partire da ERT che ha ospitato nei suoi teatri in tutta la regione repliche di molti dei lavori storici, al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, dove generazioni di studenti si sono formati e laureati studiando l’esperienza della Fortezza sotto la guida di docenti, studiosi e ricercatori che fin dall’inizio si sono interessati al lavoro della compagnia, e dove ora è stato avviato un progetto di riordino e valorizzazione dell’Archivio Storico della Compagnia della Fortezza, con il coordinamento scientifico del Dipartimento delle Arti, dove è già stato trasferito l’archivio digitale dei materiali audiovisivi. Proprio nello spazio del Dams Lab dell’Università cominciano gli appuntamenti, nell’ambito de La Soffitta per la Fortezza, un progetto a cura di Cristina Valenti. Il 22 febbraio alle 21, nel Teatro di Piazzetta Pasolini va in scena in anteprima nazionale Il figlio della Tempesta, un concerto-spettacolo di e con Andrea Salvadori, compositore storico della Fortezza, fresco di Premio Ubu per le musiche di scena di Beatitudo, che insieme a Punzo ripercorrerà la storia della compagnia attraverso musiche, parole e immagini. Il 23 febbraio alle 21 nell’auditorium sarà invece proiettato il docufilm Anime Salve realizzato di recente da Domenico Iannaccone nella sua serie de “I dieci comandamenti “andato in onda su Rai 3. Alla presentazione di Marco Cucco, docente di Cinematografia documentaria e alla proiezione seguirà incontro con Iannaccone e Punzo. Tra gli appuntamenti di marzo, invece, un laboratorio, sempre al DAMSLab riservato agli studenti dell’Università di Bologna e la conferenza dottorale “Beatitudo. Da Shakespeare a Borges: percorsi di drammaturgia per la compagnia della Fortezza” in programma il 21 marzo alle 17 al Salone Marescotti di via Barberia 4. Dal 21 al 31 marzo, nel foyer dell’Arena del Sole sarà possibile anche visitare, negli orari di apertura del teatro, #Trentannidifortezza - Una luminosa lontananza, mostra fotografica di Stefano Vaja, in attesa che il 30 e il 31 marzo si alzi finalmente il sipario sull’ultimo ‘sogno’ di Punzo e dei suoi straordinari attori. Luca Coscioni mostrò che dal corpo del malato si arriva al cuore della politica di Emma Bonino Il Manifesto, 19 febbraio 2019 Nel passare degli anni, febbraio ci riporta ricordi indimenticabili, di lotte e anche di successi, per i radicali e per me personalmente. Il 6 febbraio 2009 moriva Eluana Englaro, e sulla sua morte si aprì in Senato un incredibile, infuocato, velenoso e persino volgare dibattito; Luca Coscioni era morto il 20 febbraio 2006, e fu per noi, divenuti da tempo suoi compagni di vita e di lotta, uno shock violento. Io ne fui informata all’aeroporto, ero diretta in Mali per una iniziativa contro le mutilazioni genitali femminili. Pensai, ovviamente, di annullare il volo e tornare indietro, per condividere il dolore con i compagni, e con i genitori di Luca per primi. Ma subito mi venne in mente che proprio Luca non avrebbe apprezzato la mia rinuncia e la delusione che avrei provocato a decine di attiviste coraggiose, che tanto avevano lavorato in Mali per l’iniziativa cui anche io ero stata sollecitata a partecipare. Per il tempo che lo frequentammo, Luca ci aveva insegnato a combattere, forse a piangere ma non a compiangere. Ricordo e ricorderò sempre quando Luca si candidò al Consiglio Generale Radicale, intervenendo inaspettato a una sua seduta (a Chianciano, credo) e parlando con quella voce metallica al computer, che io sentivo per la prima volta e che mi sarebbe diventata così familiare e cara. Luca fu per tutti noi radicali e per me un evento stimolante, che mi forzava a scoprire un mondo - non quello, lontano e generico, della “malattia”, ma quello specifico, corporeo, della persona malata con le sue concrete, quotidiane, assorbenti esigenze. A me e certo a tutti noi radicali quel mondo di crude, reali, sofferenze era del tutto sconosciuto o rimosso. Come succede - credo - alla maggior parte dei “ sani”, così sazi di sé e incoscienti. Incombeva ora, obbligandoci ad occuparci del tema nella sua concretezza e complessità. La forza di Luca, la sua determinazione, lucidità e pazienza mi e ci ha insegnato molto. Luca non chiedeva “comprensione”, “partecipazione” o “commozione”. Ci pose crudamente dinanzi a un problema e a un tema che chiedeva soluzioni specifiche e concrete, da raggiungere attraverso la “politica”, l’esercizio consapevole e nobilitante di una attività troppo spesso circondata di sospetto e di incomprensione in quanto ritenuta vuota ed egoistica. Luca invece ci richiamò proprio alle nostre responsabilità di “politici”, ci chiese di utilizzare tutti i mezzi che quella condizione ci offriva, perché li impiegassimo, in modo razionale, calcolato e determinato. Ci accorgemmo subito che ignorare questa sua richiesta avrebbe ferito a morte i principi che fino a quel momento - con intellettuale chiarezza ma senza reale conoscenza e partecipazione - avevamo innalzato e preso come nostre bandiere. Scoprimmo un universo di problemi, cercammo di decifrarli, comprenderli, affrontarli: “Dal corpo del malato al cuore della politica” fu più di uno slogan, fu un impegno, un comandamento etico. Ne fummo orgogliosi, era una nostra scoperta. Per affermare il diritto al rifiuto delle cure e, in particolare, quello di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita Eluana, la sua famiglia portò avanti una battaglia giudiziaria durata undici anni. Il padre, Beppino Englaro, suo tutore legale, si spese in prima persona affinché venisse garantito alla figlia il diritto a un’esistenza e a una morte “dignitosa”. Il caso giudiziario legato alla sua vicenda ha contribuito a cambiare in Italia la percezione dell’opinione pubblica e la giurisprudenza sul fine vita. Più di otto anni dopo la morte di Eluana Englaro, a dicembre del 2017 è stata approvata dal parlamento italiano una legge sul consenso informato, il fine vita e le disposizioni anticipate di trattamento. La vicenda di Eluana Englaro e l’esperienza politica di Luca Coscioni mi hanno dato un insegnamento molto utile quando è toccato a me di ritrovarmi “malata”. In questi anni di chemio, radioterapie, spossatezze e mobilità limitata, ho pensato spessissimo a Luca, sentendomi fortunata di aver avuto un tale “maestro” di resistenza e coraggio. Il neoschiavismo nelle campagne italiane di Massimo Franchi dirittiglobali.it, 19 febbraio 2019 Agromafie e sfruttamento. Intervista a Francesco Carchedi. Nel complessivo indebolimento del mondo del lavoro prodotto dalla liberalizzazione globale dei mercati e dal turboliberismo, un settore, quello agricolo, mostra ferite ancora più evidenti. Oggi un terzo degli addetti in agricoltura in Italia (400.0000 su 1.200.000) sono stranieri, per lo più desindacalizzati e sottoposti a un intenso sfruttamento perché più facilmente ricattabili dagli imprenditori. Ci sono poi, secondo le stime della Flai-Cgil, 200.000 i lavoratori informali, molti in nero, ancor più ricattati e sottoposti a condizioni inaccettabili. Il caso di Paola Clemente, morta di fatica sui campi nel 2015, ha dimostrato però come anche gli italiani siano pesantemente sfruttati e come a fare caporalato siano anche le agenzie interinali. La legge 199 del 2016 giustamente attribuisce all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Ma quella buona normativa presenta ancora criticità che vanno sanate. Il caporalato è un fenomeno storico, non limitato, come spesso si crede al Sud d’Italia: è presente anche al Nord, così come in altri Paesi europei, dalla Spagna, alla Francia, alla Germania. È dunque necessario guardare al fenomeno con uno sguardo globale, anche perché, ci dice Francesco Carchedi, docente all’Università di Roma e collaboratore dell’Osservatorio Placido Rizzotto sulle agromafie, a esso contribuiscono indirettamente le multinazionali con il land grabbing, un processo neocoloniale di acquisizione delle terre senza il consenso delle comunità che ci abitano, in Africa e non solo; processo che alimenta anche i flussi migratori verso le campagne italiane. Rapporto Diritti Globali: Da studioso sul campo delle dinamiche migratorie e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, qual è stata l’evoluzione del fenomeno in Italia negli ultimi tempi? Francesco Carchedi: La liberalizzazione del mercato a livello globale prodotta dal FMI nel 1997, in Italia si è concretizzata con la legge Biagi del 2003. La legge conteneva norme che hanno sostanzialmente attribuito al versante del mercato un potere enorme. Le implicazioni di questa teoria liberista hanno provocato uno sconquasso interno al mercato del lavoro: gli imprenditori hanno potuto dettare le condizioni ai lavoratori. Nei settori più fragili, come quello agricolo, tutto questo ha avuto conseguenze pesanti: negli ultimi dieci anni ciò ha portato a un processo di sostituzione della manodopera italiana con la classe lavoratrice straniera. Questo per due ordini di ragioni: i braccianti italiani più anziani non sono stati sostituiti dalle generazioni più giovani, mentre la forte disponibilità di migranti ha portato nei campi manodopera desindacalizzata alla mercé degli imprenditori. Si è prodotto un fenomeno di sostituzione: oggi un terzo degli addetti in agricoltura in Italia - 400.0000 su 1.200.000 - sono stranieri. Stime della Flai-Cgil poi misurano in 200.000 i lavoratori informali: in gran parte si tratta di lavoratori in nero. Il processo di liberalizzazione del mercato ha infine deteriorato i servizi pubblici del lavoro. Se prima l’incontro fra domanda e offerta di lavoro avveniva tramite le strutture pubbliche - collocamento, centri per l’impiego - ora molti imprenditori li aggirano usando le agenzie interinali. Si crea un rapporto diretto di natura privatistica che viene ancor di più peggiorato dalla caratteristica tipica del settore agricolo: la richiesta di manodopera ha dei picchi nelle fasi stagionali di raccolta. L’aggiramento è anche delle norme sulla garanzia a un alloggio, prima previsto dai contratti nazionali e dalla tradizione nelle campagne. In questo modo i migranti si riuniscono in agglomerati spontanei abusivi, vere sacche di povertà. Lo sfruttamento è eclatante: gli imprenditori decidono quali migranti prendere, producendo una vera sostituzione etnica rispetto alle comunità che via via si sono sindacalizzate. A metà degli anni Novanta le comunità più rappresentate nelle campagne italiane erano quelle dei tunisini, marocchini e senegalesi. Quando queste si sono sindacalizzate, gli imprenditori hanno scelto la comunità rumena o altre comunità africane. RDG: La legge contro il caporalato (la numero 166 del 2016) ha creato il reato penale punendo anche il datore di lavoro che sfrutta la manodopera. A più di un anno dalla sua introduzione, quale giudizio si può dare della sua applicazione ed efficacia nel contrasto del fenomeno? FC: La situazione di forte sfruttamento, che Flai-Cgil con l’Osservatorio Placido Rizzotto sulle Agromafie hanno denunciato assieme alla Caritas e alla Coldiretti, riguarda una parte consistente del settore agricolo. Circa il 20-25% delle imprese medio-grandi operano in sostanziale sfruttamento della manodopera. Alcune pratiche rasentano la para schiavitù. Il punto di svolta è stata la tragica morte di Paola Clemente nell’estate del 2015: se fino a quel momento l’idea di fondo era che gli sfruttati fossero solo i migranti e a farlo fossero caporali etnici, il caso di Paola Clemente ha ribaltato questo paradigma. La legge vigente fino a quel momento prevedeva nel solo articolo 603 bis la dizione di grave sfruttamento per perseguire il traffico di esseri umani come reato penale. Era quasi impossibile che questo reato venisse contestato agli imprenditori. Per più di dieci anni il sindacato ha contestato questa visione. Il caso di Paola Clemente ha portato il governo dell’epoca a pensare a una modifica della norma del codice penale e a una nuova legge. Nella legge 199 del 2016 sul cosiddetto caporalato viene ribaltata la visione che voleva nel caporale e nel reclutamento l’unico reato penale. Infatti, i caporali non sono tutti aguzzini come tratteggiato precedentemente in un’ottica tutta interna all’etnia di origine dei braccianti. Si trattava di una lettura xenofoba e razzista. Il caso di Paola Clemente ha dimostrato come anche gli italiani fossero sfruttati e che i caporali fossero le agenzie interinali. Con la legge 199 si rimette in capo all’imprenditore la responsabilità dell’ingaggio del caporale e della manodopera. Il caporale è infatti il mandatario dell’imprenditore. Il caporalato è un rapporto economico e produttivo con due attori: l’imprenditore e il reclutatore. A un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge possiamo dire che si tratta di un’ottima normativa, sebbene non manchino criticità e incongruenze. Accanto al sanzionamento dei rapporti di sfruttamento, nella legge c’è anche il tentativo di creare un nuovo modello dei processi produttivi con la creazione dell’Albo delle aziende della rete di qualità. Su quest’ultimo punto vi sono molti ritardi e problemi, soprattutto da parte delle organizzazioni datoriali. RGD: Uno degli aspetti che lei mette più in evidenza è la presenza di veri e propri distretti che dalla Bulgaria si trasferiscono temporaneamente in Italia. A cosa è dovuto questo fenomeno? FC: La Flai-Cgil ha avuto incontri con i sindacati bulgari che hanno denunciato la presenza di organizzazioni malavitose che controllavano braccianti agricoli da mandare nelle campagne italiane. Abbiamo potuto appurare tali denunce analizzando a lungo la presenza di questi gruppi nelle campagne pugliesi e campane. A Borgo Mezzanone in provincia di Foggia e a Mondragone in provincia di Caserta gruppi di etnia rom provenienti dalla città bulgara di Sliven sono diventati un flusso continuo con cambi ogni tre mesi. In totale, ogni anno circa 8.000 persone in questi due paesi occupano le stesse baracche. La malavita rumena è in accordo con quella italiana per sfruttare queste persone. Interi nuclei familiari di bambini vanno al lavoro nelle campagne in condizioni ancora peggiori rispetto a quelle dei migranti provenienti dall’Africa e della stessa Romania. Si tratta di un fenomeno nuovo e assolutamente inedito, soprattutto in queste proporzioni. Gli imprenditori senza scrupoli aumentano nuovamente le condizioni di sfruttamento per ottenere manodopera a un prezzo sempre più basso. RDG: Il ruolo dei cosiddetti caporali etnici è centrale nelle dinamiche di sfruttamento. Ci sono distinzioni tra le varie nazionalità di appartenenza e che ruolo giocano i caporali e gli imprenditori italiani? FC: Il caporale è una figura sociale e produttiva legata in modo organico al datore di lavoro. L’uno senza l’altro non svolgerebbero nessuna funzione sociale e tanto meno produttiva. I caporali coinvolti sono di quattro tipi, distinguibili in base al grado di condivisione e di codecisionalità che stabiliscono o non stabiliscono con le rispettive squadre di braccianti, e con gruppi e sottogruppi di lavoratori che le compongono. Ovvero, quanto margine di decisione - che può essere maggiore o minore oppure addirittura nullo - caratterizza le scelte operative di ingaggio e di svolgimento del lavoro che i medesimi caporali acquisiscono dagli imprenditori di riferimento. Ai diversi tipi di caporali fanno da contraltare altrettanti tipi di aziende. Una prima forma organizzata è costituita da squadre di braccianti che, una volta reclutati dai rispettivi caporali e presentati al datore di lavoro vengono regolarizzati contrattualmente. Il caporale è “un primo tra pari” - rispetto alla squadra che costituisce - e un collaboratore importante relativamente al rapporto che instaura con l’imprenditore. È una persona intraprendente e capace di reclutare, organizzare e proporre le squadre bracciantili. Queste sono reclutate e ingaggiate in un primo momento illegalmente (al di fuori cioè dei canali ufficiali), mentre successivamente i membri che le compongono vengono contrattualizzate e dunque instradati nelle dinamiche contrattuali standard. Il grado di decisionalità tra i tre contraenti è alto: sia nel rapporto tra il caporale i braccianti, sia tra il caporale e gli imprenditori e sia tra questi ultimi e i braccianti. A tale categoria appartiene una fascia predominante delle aziende agricole che occupano personale extra-familiare o che ricorrono esclusivamente a lavoratori salariati (circa i quattro/quinti del totale sopra ricordato). La seconda forma organizzata è quella costituita dalle squadre di lavoro che si aggregano intorno a un caporale che - anch’esso - si configura con un “primo tra pari”, ovvero un caposquadra: una persona intraprendente, con mezzi di trasporto propri o in grado di affittarli, esperto del processo organizzativo correlabile alle diverse fasi della raccolta. Il grado di decisionalità è circolare e basato su principi negoziativi. Sono squadre fidelizzate come le precedenti e le aziende li ingaggiano stagione dopo stagione. Siffatta figura di caporale non è invasiva ma rispettosa delle esigenze della squadra, e i salari sono concordati. Le aziende - e i singoli datori di lavoro - hanno con essi rapporti di reciproca convenienza. La differenza, pur tuttavia, non secondaria, rispetto alla tipicizzazione precedente, è che in questa i rapporti di lavoro rimangono informali, ossia contra legem. All’ingaggio informale non segue una occupazione formale, ma una occupazione altrettanto informale e al nero. Stimiamo che il 60% delle 30.000 aziende citate - pari a 18.000 unità - utilizzi queste figure. La terza forma organizzata è completamente sbilanciata sul carattere meramente decisionale e strettamente dirigista del caporale. In questo caso egli decide tutto, i braccianti da esso coinvolti devono accettare qualsiasi decisione presa. Il regime è fortemente gerarchico. Le decisioni sono unidirezionali - dall’alto verso il basso - e non si discutono mai. Sono nei fatti delle contro-squadre, in contrasto diretto con la prima e con la seconda. Sono il loro opposto, in quanto a esse fortemente concorrenti. Le aziende che usano questi caporali privilegiano i metodi spicci, sleali e cinici: abbassano di molto il prezzo delle commesse, attenendosi rigidamente sulla quota stabilita dal “borsino salariale”. Cosicché il caporale riduce al minimo sopportabile i salari per le rispettive squadre. Sono salari talmente bassi che non riproducono nemmeno la stessa forza lavoro. Sono salari di sussistenza minimale. Per prevenire conflitti viene usata la violenza. L’aggressività, le minacce e la violenza indociliscono i braccianti. Le vertenze sono rare. A questo modello stimiamo aderisca il 30% delle aziende, quasi 9.000 unità. La quarta configurazione organizzativa - anch’essa da considerarsi una contro-squadra (in opposizione alla prima e alla seconda tipologia) - è suddivisibile in due modelli principali: caporali collusi (in modo consapevole o inconsapevole) con organizzazioni criminali - e dunque imprese che non disdegnano tali rapporti - (stimabili al 7%, con 2.100 unità coinvolte) e caporali membri (coscienti o incoscienti) di organizzazioni mafiose (pari al 3% del totale, uguale a 900 unità). L’impresa mafiosa gestisce direttamente la propria manodopera e al contempo può imporla ad altre aziende in affari con essa, oppure imporla con la forza intimidatrice ad altre ancora. Va da sé che può usare contemporaneamente tutte queste modalità. Nella quarta configurazione non siamo in presenza di datori di lavoro ma bensì di pre-datori di lavoro. La struttura messa in opera si configura come gerarchica a forma piramidale, i cui ordini discendono rigidamente dall’alto verso il basso. Sono le più pericolose, poiché attivano, tra le altre cose, un processo che potremmo definire di inversione di sovranità: da quella legale a quella illegale, poiché non contrastate doverosamente. Il “borsino salariale” ne rappresenta la prova principale. Assistiamo al riguardo a una sorta di patologia sociale, ovvero a un accentuato accecamento da parte istituzionale, nonché da parte di significative frange aziendali. Accecamento non significa affatto non vedere, ma di non voler vedere, in quanto si guarda da un’altra parte o vedere poco e in modo superficiale sostenendo al massimo la “teoria delle mele marce” e non facendo nulla per rimuoverle dal cesto. Le differenze di siffatte categorizzazioni di caporali/aziende sono labili, al punto che dalla prima si può ascendere fino alla terza o da quest’ultima discendere alla prima. Oppure restare ancorati al modello prescelto. RDG: Uno dei punti su cui tutti gli studiosi della materia sono concordi è “la necessità dell’accorciamento della filiera agricola” e “il ruolo distorto della Grande distribuzione organizzata” che impone prezzi troppo bassi alla produzione. Sono obiettivi realistici? FC: La cosiddetta filiera di valore dipende dalla tradizione agricola e dal peso delle aziende che insistono su quel territorio. Il processo produttivo agricolo ha cinque distinte fasi: produzione, immagazzinamento, trasporto, confezionamento e commercializzazione. La fase di produzione ha una natura molto diversa dalle altre quattro successive. È quella che utilizza meno i criteri capitalistici e per questo il potere contrattuale dei braccianti è ridotto all’osso. Soprattutto nel settore dell’ortofrutta, quello in cui l’uso di macchinari è meno efficace: le colture di pomodori, fragole, ciliegie e anche uva non rendono possibile l’utilizzo di macchine che darebbero una resa insufficiente perché distruggono troppa quantità di prodotto. La filiera corta sullo stesso territorio sarebbe risolutiva del problema del caporalato. Ma difficilmente sullo stesso territorio si trovano tutte e cinque le fasi della produzione. In special modo al Sud la struttura agro-industriale per il confezionamento e la commercializzazione è assente. Quanto alla grande distribuzione essa frutta la situazione predeterminando prezzi bassi che si riverberano sulla filiera, in particolar modo sulla produzione nei campi: sono una minoranza di aziende - quelle medio-grandi e non quelle a conduzione familiare - a fissare a primavera il costo orario del lavoro. Quasi sempre questo è ben al di sotto del livello fissato dal contratto nazionale - sei euro netti l’ora - e produce lo sfruttamento che si verifica nelle campagne. In questo sistema i caporali sono in pratica l’istituzione del “borsino” dei prezzi fissato dagli imprenditori. Tocca a loro controllare il costo del lavoro e l’efficacia del raccolto. Quando i braccianti si ribellano allora diventano gli aguzzini prima citati con violenza e aggressioni. RGD: Nel resto d’Europa il fenomeno del caporalato è presente? Quali sono le differenze principali? FC: Il fenomeno del caporalato è inteso come limitato al Sud Italia. In realtà è presente anche nelle zone a più intensa produzione agricola, come Mantova, Asti, Alessandria, buona parte del Ferrarese, golfo di Baia Domizia (Caserta). Ma è presente anche in gran parte di Europa: in Spagna nella regione della Andalusia, in Germania nella zona del Magdeburgo, in Francia nella zona vinicola di Bordeaux e in Provenza. Si tratta infatti di un fenomeno storico, esistente da secoli: la migrazione dei braccianti per trovare lavoro e il loro sfruttamento da parte dei latifondisti o agricoltori. La differenza principale è climatica: nel Nord Europa i mesi di raccolta a causa del freddo sono di durata minore sebbene l’uso delle serre li abbia allungati. La maggior diffusione del fenomeno del caporalato in Italia, al Sud in particolare, è dovuta anche alla qualità dei prodotti che è secolarmente alta, ad esempio nel Foggiano e a Rosarno. Qui vi sono le colture fragili - pomodori, fragole, ciliegie, uva - prima citate e i braccianti non possono essere sostituiti dai mezzi meccanici. Quanto alla permanenza dei braccianti, già Giuseppe Di Vittorio negli anni Cinquanta raccontava come a Cerignola durante la raccolta arrivassero 100.000 persone che vivevano le baracche di felci, poi bruciate per concimare i terreni. La maggiore diffusione del caporalato nel Sud Italia è quindi dovuta queste due peculiarità. In più, ad esempio in Calabria, il territorio concentra culture diverse in pochi chilometri - ortofrutta in estate, le arance in autunno - e ciò produce un allungamento dei mesi. Il clima mite permette ai caporali di tenere i braccianti in baracche fatiscenti anche nei mesi autunnali. RGD: Esiste una relazione tra i processi globali di sfruttamento dell’agricoltura in Africa - il cosiddetto land grabbing, la vendita di larghe porzioni di terre senza il consenso delle comunità che ci abitano - e l’immigrazione in Europa? FC: Stiamo assistendo, a ritmi accelerati, a un fenomeno già presente a fine Ottocento con il colonialismo. Leopoldo II, re del Belgio, introduce il meccanismo di appropriarsi di un intero Stato come fece per primo con il Congo. Ciò implicò una privatizzazione: il Congo diventò sostanzialmente una proprietà privata del re. Dopo le decolonizzazioni, negli anni Novanta del Novecento e negli anni Duemila si accelera un nuovo fenomeno: le multinazionali comprano immensi territori degli Stati africani. Ciò è avvenuto in Senegal, in Nigeria, in Costa d’Avorio e in altri Stati. Le multinazionali hanno proposto contratti di investimento agli Stati desiderosi di avere entrate. In questi contratti si determinano ambiti produttivi agricoli. Le convenzioni statali danno benefici enormi alle multinazionali perché essendo di una durata di 30 o 40 anni, consentono loro di ammortizzare l’investimento in pochi anni dopo dei quali il ricavo è assicurato. Cosa avviene invece ai braccianti? Inizialmente i contratti di lavoro proposti sono convenienti: i salari sono più alti di quelli generalmente usati nel Paese. Ma sono bloccati rispetto alla convenzione trenta o quarantennale: non possono essere modificati. Se qualcuno si ribella - e in questi Paesi i sindacati sono molto fragili - le multinazionali hanno la forza di mantenere i salari bassi anche quando si arriva in giudizio: essendo le convenzioni internazionali lo strumento per dirimere la disputa giuridica è un arbitrato internazionale proposto da parte dello Stato per richiedere di modificare la convenzione. Le multinazionali però hanno quasi sempre la meglio grazie a meccanismi che vedono rappresentanti degli Stati e delle multinazionali in numero uguale con un presidente esterno scelto da un Albo, ma facilmente corruttibile. Il land grabbing è quindi un meccanismo talmente potente da non essere possibile scalfirlo. In più, ha conseguenze anche sotto l’aspetto migratorio. Basta pensare a una famiglia tipo africana con molti figli: con un salario medio mensile pari a 40 euro al mese da parte di una multinazionale, il capofamiglia non riesce a sfamare moglie e figli. In questa situazione diventa una scelta strategica da parte della famiglia decidere di far emigrare uno o più figli in cerca di fortuna in Europa. È così che arrivano moltissimi migranti Italia. Dunque, la migrazione è una conseguenza non marginale del processo di land grabbing. *Francesco Carchedi: è docente presso il dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. È stato a lungo consulente del Dipartimento delle Pari opportunità della Presidenza del Consiglio italiano per gli interventi di protezione sociale alle vittime di grave sfruttamento sessuale e lavorativo. Ha coordinato e collabora con l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil per la realizzazione del Rapporto su Agromafie e caporalato. Droghe. Con la proposta di Fontana 6 milioni di consumatori potenziali detenuti di Patrizio Gonnella L’Espresso, 19 febbraio 2019 La forza morale di una posizione politico-culturale è data dalla capacità di avere uno sguardo alto, lucido, non legato a un proprio interesse, seppur esso sia incontestabile. Pier Paolo Pasolini nel 1975 indirizzava una lettera a Marco Pannella (Lettere luterane) nella quale parlava di droghe, di fuga dalla realtà, di stupidità del metodo repressivo, della tragedia che colpiva giovani e famiglie. Erano altri tempi. Erano altri i consumi. Erano altri i ministri. Quello delle droghe è tema che fino a poco tempo fa divideva profondamente le due parti dell’attuale maggioranza. La legalizzazione della cannabis è un argomento rimasto fuori dal contratto. La realtà non può però essere tutta compressa in un contratto. È molto più articolata. A favore della legalizzazione si espresse qualche anno fa il popolo M5S con il voto on-line. Anche il popolo non virtuale si era espresso nel 1992, in un referendum voluto dai radicali, contro gli eccessi di penalizzazione per chi consuma droga per uso personale. Secondo dati statistici recenti circa sei milioni di persone avrebbero consumato in un anno anche una sola volta cannabis o qualche altra sostanza. Il ministro Fontana ha affermato con piglio deciso e tono categorico che la modica quantità va superata, che la droga fa sempre male, che lui starà vicino alle famiglie, che i negozi che vendono cannabis costituiscono un brutto segnale. Dunque il tema non è nei patti di Governo ma esponenti di Governo della Lega ne parlano a iosa, con quella dose (non minima) di superficialità e ideologia che potrebbe portare in galera sei milioni di persone. È questa la conseguenza del suo ragionamento. Per assecondare il ministro Fontana ci vorrebbero 12 mila carceri nuove, ognuna capace di ospitare cinquecento detenuti. Se la dose minima è cancellata tutti i consumatori, anche una tantum, saranno trasformati in spacciatori da incarcerare o malati da curare. Non si capisce in che modo il ministro intenda aiutare le famiglie, visto che la Lega è pure contraria a una riforma penitenziaria che estenda le possibilità di accesso alle misure alternative o investa sulla prevenzione socio-sanitaria. Ci vogliono imporre uno Stato etico, dove non c’è spazio per la libertà individuale, per il principio di responsabilità e per la razionalità politico-economica. Posto che non provo simpatia per chi segue mode, per chi decide di alterare la propria coscienza e rinuncia a trasformare la società, per gli edonisti e i consumisti; posto che non sono mai stato un consumatore, neanche occasionale, penso che un sano pragmatismo nonché il rispetto per le libere scelte individuali dovrebbe spingere verso politiche anti-proibizioniste. Quelle politiche che si stanno diffondendo in tutti gli stati Uniti d’America, nonostante Trump. Isis. L’Europa dice no a Trump: non prendiamo i foreign fighter di Marco Bresolin La Stampa, 19 febbraio 2019 I governi europei hanno respinto la richiesta di Trump, che li aveva spronati a riprendersi i connazionali per processarli, gli oltre 800 foreign fighter europei detenuti in Siria per ora restano dove sono. Gli oltre 800 foreign fighter europei detenuti in Siria per ora restano dove sono. I principali governi Ue hanno infatti respinto al mittente la richiesta di Donald Trump, che li aveva spronati a riprendersi i connazionali per processarli. Assolutamente contrari il Belgio e il Regno Unito, ma anche Germania e Francia hanno chiuso la porta alle richieste di Trump. La motivazione è duplice. C’è innanzitutto una questione diplomatico-formale: le cancellerie europee non hanno apprezzato la richiesta di Washington, vissuta come “un ordine”, e dunque vogliono ribadire che saranno loro a decidere se e quando rimpatriare i combattenti. Poi c’è un problema tecnico-sostanziale: i sistemi giuridici europei rischiano di incepparsi di fronte a soggetti accusati di aver commesso crimini in zone di guerra in altri Paesi. Le prove - raccolte in un altro Stato - potrebbero non reggere le accuse nei tribunali europei, con il rischio di dover rilasciare in libertà nei propri Paesi personalità estremamente pericolose. C’è poi la questione dei “non combattenti”, come le donne o i bambini: anche loro hanno commesso un reato? Se non condannati potrebbero essere rimessi in libertà e costituire una minaccia per la sicurezza nazionale? “Il loro rimpatrio è estremamente difficile da attuare” dice Heiko Maas, ministro degli Esteri di Berlino. I circa 270 tedeschi che si trovano in Siria e Iraq torneranno in Germania “solo quando avremo la certezza di poterli prendere direttamente in custodia per processarli immediatamente”. Ma per farlo servono “informazioni giudiziarie che al momento non sono garantite”. Il portavoce di Angela Merkel, però, non sbarra definitivamente la porta e assicura che Berlino è in contatto con gli Usa e con gli altri governi europei, “in particolare con Francia e Gran Bretagna”, per trovare una soluzione. Ma il “no” che arriva da Londra è secco: “I foreign fighter - dice il portavoce di Theresa May - dovrebbero essere portati davanti alla giustizia nella giurisdizione più appropriata. Ove possibile nella regione in cui i crimini sono stati commessi”. Sulla stessa linea Charles Michel, primo ministro del Belgio, Paese che ha visto partire circa 400 combattenti: 150 sarebbero ancora in Medio Oriente e a questi vanno aggiunti circa 160 minori, molti dei quali nati proprio nelle zone di guerra. Il governo di Bruxelles chiede che venga istituito un tribunale speciale. Anche Parigi ha replicato in modo molto brusco all’invito americano. “In questa fase la Francia non risponderà alle domande di Trump”, dice Nicole Belloubet, ministro della Giustizia. Sono circa 150 i francesi detenuti dalle forze democratiche siriane guidate dai combattenti curdi. “Nemici della nazione”, secondo il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. Ieri la questione è finita sul tavolo dei ministri degli Esteri dell’Ue, riuniti a Bruxelles. Ma come ha precisato l’austriaca Karin Kneissel, “non ci sarà una risposta dell’Unione europea”. Spetterà ai singoli governi decidere cosa fare, anche perché “i Paesi - ha ricordato la ministra - sono coinvolti in modo molto diversi. Alcuni hanno un alto numero di foreign fighter, altri ne hanno meno o addirittura zero”. Inoltre i sistemi giuridici sono differenti tra i Paesi Ue e quindi è difficile definire un approccio comune. Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, si è comunque detta disponibile a dare un supporto agli Stati membri per individuare soluzioni e “coordinare le posizioni”. Sri Lanka. La Farnesina vuole portare a casa Antonio Consalvo, in carcere da 10 mesi di Marco Agrusti Il Gazzettino, 19 febbraio 2019 Il pordenonese era stato trovato con una dose di marijuana. Il ministero degli Esteri è venuto a conoscenza del caso che riguarda il 33enne pordenonese Antonio Consalvo, detenuto nel carcere di Negombo, città affacciata sul mare sulla costa occidentale dello Sri Lanka, dallo scorso aprile. E ora la Farnesina ha attivato i canali diplomatici con il Paese insulare del subcontinente indiano, con l’obiettivo di riportare in Italia Consalvo. Il pordenonese è in carcere perché dieci mesi fa, tornando dalla Thailandia, durante uno scalo a Colombo (capitale dello Sri Lanka) è stato trovato in possesso di una dose di marijuana. L’iniziativa diplomatica è partita da Pordenone. Il sottosegretario all’Ambiente leghista Vannia Gava ha contattato sia la madre del 33enne, Graziella Catania, che l’omologo agli Esteri Guglielmo Picchi. Ora, quindi, della vicenda se ne occupa il governo. “Vogliamo aiutare la madre e il ragazzo - ha detto Gava - e come prima cosa desideriamo mettere in contatto la famiglia con il detenuto. Prendiamo contatti con la Farnesina e iniziamo a capire a che punto è il processo, per poi lavorare al fine di riportare il nostro concittadino in patria”. L’input è arrivato all’entourage del sottosegretario agli Esteri, il leghista Guglielmo Picchi. “Nei prossimi giorni lo incontrerò - ha assicurato Gava - e cercheremo di capire i prossimi passi”. Luca Ciriani, senatore di Fratelli d’Italia, presenterà invece un’interrogazione ai ministri di Esteri e Difesa. Vannia Gava ha contattato anche la madre di Antonio Consalvo: “Le ho chiesto di fornirmi tutti i dettagli della storia, in modo tale da poter agire con in mano la maggior parte delle armi che abbiamo a disposizione”. Graziella Catania, che non ha notizie del figlio ormai da tempo e che non riesce a contattare telefonicamente l’avvocato (si tratta di un legale dello Sri Lanka) da ormai diverse settimane, ha ringraziato Gava per l’interessamento e ora rimane in attesa. “Fortunatamente qualcosa si muove - ha detto la donna - e sono rinfrancata soprattutto dall’interesse suscitato dalla storia che ho voluto raccontare. Rimango cauta, perché ormai da mesi sento che mio figlio dovrebbe uscire dal carcere a breve”. La madre di Consalvo aveva parlato di una detenzione “in condizioni disumane”, con i detenuti costretti ad organizzare dei turni per occupare lo spazio a terra e trovare un posto per dormire. “Suo figlio sarà presto libero, gli amici lo stanno aiutando”. Dopo giorni di silenzio, il segnale che Graziella Catania, mamma di Antonio Consalvo, stava aspettando è arrivato poco dopo le 14, quindi nella serata di Colombo, capitale dello Sri Lanka. La mail è arrivata dall’ufficio consolare dell’ambasciata italiana a Colombo. “Siamo stati a trovare suo figlio in carcere - è il messaggio che ha letto rinfrancata la madre del 33enne pordenonese detenuto a Negombo - e l’abbiamo trovato in buone condizioni fisiche. Il direttore del carcere ha confermato che a breve dovrebbe essere scarcerato, a patto che l’avvocato compia i passi necessari”. Il legale, però, non risponde né alla madre del 33enne, né al personale diplomatico dell’ambasciata. “Continueremo a fare pressione”, hanno proseguito dall’ufficio consolare. Graziella Catania giorni fa aveva spedito al figlio un pacco con alcuni generi alimentari. L’ambasciata ha fatto sapere di aver consegnato il regalo nelle mani del direttore del carcere, che si occuperà di farlo avere ad Antonio Consalvo. “Il ragazzo è assistito regolarmente da alcuni amici - è l’ultimo messaggio arrivato dall’ambasciata - che provvedono a portare in carcere i generi di prima necessità”. Grecia. Da manicomio a hotspot: Leros, l’accoglienza che non c’è piuculture.it, 19 febbraio 2019 Il tema delle migrazioni e dell’accoglienza è complesso e richiede conoscenze e riflessione. Per questo Piuculture dedica spazi appositi per approfondirlo. Uno di questi è stato l’incontro Leros, l’isola degli invisibili. Da ospedale psichiatrico e campo di prigionia a hotspot, organizzato nella Biblioteca europea il 14 febbraio. In questa occasione è stato presentato il libro di Simona Vinci La prima verità, ambientato nell’isola. L’isola greca di Leros - ha detto Amalia Ghisani, presidente di Piuculture, aprendo l’incontro - sembra avere lo stigma dell’esclusione: già base militare italiana durante l’occupazione del Dodecaneso, fu la sede di un manicomio, in cui venivano “deportati” gli internati considerati irrecuperabili, poi di un carcere per detenuti politici durante la dittatura dei colonnelli, infine di un hotspot per migranti. Cosa accade nella psiche delle persone che vivono isolate dal mondo e perdono riferimenti, affetti e legami con la realtà? Su cosa puntare per contrastare una politica sull’immigrazione guidata dal criterio dell’esclusione e del respingimento? Questo il filo che ha attraversato gli interventi dei partecipanti. Leros e la logica della segregazione - Le isole - scrive Simona Vinci nel suo libro La prima verità, Einaudi, - “sono forse i luoghi della terra che più somigliano agli esseri umani: … la loro vita è soggetta a mutamenti che arrivano dall’esterno, imprevedibili e impossibili da evitare”. Ed è questo che accomuna le storie delle persone passate e presenti nell’isola di Leros: malati psichiatrici, detenuti, migranti, ognuno con la sua storia, ognuno con la sua verità. Qui, in quest’isola di dolore, continua ad accadere qualcosa di già vissuto, che al di là delle vicende e dei tempi diversi rimanda a una verità che riguarda tutti: la poesia come possibilità di salvezza (il titolo del libro riecheggia il primo verso di una poesia di Ghiannis Ritsos, che fu detenuto politico a Leros). Per Antonello D’Elia, Psichiatria Democratica, l’archivio che la protagonista del romanzo trova nella sua ricerca di verità è una metafora del lavoro di deistituzionalizzazione avviato dalla riforma di Basaglia per restituire ai corpi le loro storie e farli ridiventare persone. Ma questo lavoro si ripropone anche oggi con i progetti che cercano di contrastare la scelta di rinchiudere migliaia di persone negli hotspot. Oggi a Leros, dopo i trasferimenti nella terraferma, continuano a vivere 1.100 migranti; la logica è sempre la stessa dei vecchi manicomi: deportare, concentrare, segregare. Invece se si vuole davvero gestire l’accoglienza la prospettiva è quella della mediazione, tra persone e tra gruppi, cioè creare situazioni umane in cui favorire l’incontro. I grandi hotspot: una politica disumana e fallimentare - Chiara Peri, Servizio per Rifugiati Centro Astalli, ha auspicato che gli orientamenti democratici dei cittadini possano condizionare le scelte politiche dei governi europei e cambiarle. Perché questo si verifichi è necessario far conoscere gli effetti reali di queste politiche e prospettare alternative. Respingere e tenere lontani dai propri confini i migranti è stata la linea guida dell’attuale strategia europea, attraverso gli accordi Ue-Turchia del 2016 e Italia-Libia del 2017. Ma questa politica, oltre a produrre effetti disumani come documenta un report del JRS, è fallimentare: di 160.000 migranti solo 34.000 in due anni sono stati respinti o distribuiti, e altri continuano ad arrivare. Inoltre, col blocco dei soccorsi i morti in mare e via terra aumentano: 1 persona morta ogni 51 arrivati nel 2018, contro 1 ogni 71 nel 2015. L’alternativa alla politica dei grandi hotspot, come quelli greci o dei lager libici, è quella dell’integrazione e creazione di occasioni di incontro tra persone immigrate e popolazione locale. Bisogna far capire che una politica di apertura non è solo funzionale a esigenze di lavoro e di contrasto al decremento demografico, ma è anche una visione lungimirante del futuro di noi europei, che nell’incontro possiamo aprirci al loro mondo e arricchire il nostro che sta invecchiando. Stati Uniti. Altro che Alcatraz, ecco il supercarcere che attende El Chapo di Federico Rampini La Repubblica, 19 febbraio 2019 È la casa dei “peggiori di tutti”, dove nessuno è mai evaso. Pochi detenuti, molte guardie. Ed è impossibile incontrarsi. Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, un giorno rimpiangerà perfino questi mesi: gli ultimi che sta passando rinchiuso nel 10 South, l’ala di massima sicurezza nel carcere federale di Lower Manhattan. Per non parlare delle due prigioni messicane da cui riuscì a evadere: dove secondo le testimonianze il boss dei narcos era servito e riverito, poteva ordinare aragosta e champagne, o la compagnia di prostitute. Dopo la sua condanna nel tribunale di Brooklyn, “i federali” non rivelano dove sarà trasferito. Aspettano che il giudice emetta la sentenza definitiva il 25 giugno. Poi aspetteranno ancora: fino a quando El Chapo sarà arrivato alla sua nuova destinazione. Probabilmente l’ultima. Perché il suo avvocato difensore Jeffrey Lichtman non ha dubbi: “Finirà al supercarcere di Florence, Colorado. E da là nessuno è mai evaso. È semplicemente impossibile. La questione non esiste”. Nome intero: Supermax Adx. Praticamente in mezzo a un deserto, a due ore di strada da Denver, Colorado. Lo chiamano l’Alcatraz delle Montagne Rocciose, ma dall’isola di Alcatraz qualcuno riuscì a fuggire (sfidando correnti e squali), da lì no. Secondo la definizione attribuita dal New York Times all’ex guardiano Robert Hood che ci lavorò, il Supermax “non è stato disegnato per ospitare esseri umani; tantomeno per rieducarli”. Finito di costruire ai tempi di Bill Clinton, in un’America ben più violenta e pericolosa, terrorizzata dalle figure di capi-gang chiamati Superpredator, quel carcere fu inaugurato nel 1994. Missione: ospitare “the worst of the worst”, i peggiori di tutti, e farli sparire dalla faccia della terra. Ha 400 detenuti e uno staff di guardie molto superiore, “il rapporto guardiani-prigionieri più alto d’America”, ma il numero preciso di poliziotti è top secret come tante cose in questo penitenziario. 23 ore al giorno, i prigionieri le passano in isolamento totale, chiusi dentro celle di 3,5 metri per 2, nudo cemento ma con pareti insonorizzate. Un altro ex guardiano, Allan Kaiser, ha descritto sul Washington Post un paesaggio spettrale: “Sembra vuoto. Il silenzio è totale. Mai due prigionieri si spostano contemporaneamente”. Non s’incrociano, non si vedono, non si parlano. Peccato… Ne avrebbero di cose da raccontarsi. Soprattutto quella “élite del male” che raggruppa i cosiddetti “direct commit”. Perché la popolazione carceraria del Supermax si divide in due categorie. Alcuni sono di passaggio, magari per molti anni, ma in provenienza da altri penitenziari: schiaffati lì dentro come castigo per aver commesso reati o aver tentato di evadere da prigioni “normali”. Poi ci sono i Vip del crimine: quelli che dopo processo e condanna sono stati direttamente spediti nel deserto del Colorado. I “direct commit” hanno avuto il Supermax come prima destinazione, a conferma della loro pericolosità. L’elenco disvela parecchie pagine di storia criminale e terroristica degli Stati Uniti, su più decenni. Nel Supermax ci sono terroristi di destra e jihadisti, capi-gang e boss del narcotraffico. C’è Terry Nichols, complice nel più grave attentato della storia americana prima dell’11 settembre: la strage di Oklahoma City (1995) che fece 168 morti. Ted Kaczynski detto Unabomber, che seminò terrore dal 1978 al 1995 coi suoi pacchi-bomba. Nel gruppo dei jihadisti: uno dei registi del primo attentato al World Trade Center nel 1993; Richard Reid che tentò di farsi esplodere una carica nelle scarpe mentre era in volo nel dicembre 2001 (e grazie al quale da allora tutti ci togliamo le scarpe ai controlli negli aeroporti Usa); il ceceno Dzhokhar Tsarnaev responsabile dell’attacco alla maratona di Boston nel 2013. La lista include capi delle gang di strada a Chicago e Miami; suprematisti bianchi. Un’avvocatessa dello Human Rights Defence Center, Deborah Golden, dopo aver visitato il Supermax ha paragonato le celle a “loculi grandi come una piccola stanza da bagno, con un letto in cemento e sopra un sottile materasso di gommapiuma; una latrina; un lavandino”. Una descrizione dall’interno l’ha fatta Eric Rudolph, autore dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta: “L’ora d’aria la passiamo in una gabbia, dove al massimo riesci a fare qualche movimento di aerobica, respirare aria fresca, non molto di più; da lì non vedi neppure un paesaggio, solo il cielo. Le funzioni religiose si possono seguire solo sul circuito di tv interna”. Tutto organizzato per evitare il contatto umano. Salvo le sette verifiche quotidiane dei guardiani, quando passano a controllare che ciascun prigioniero è al suo posto, vivo. Non servirà a molto che il Chapo sia riuscito ad accumulare un patrimonio di 14 miliardi. Nel Supermax è autorizzato a spendere solo 285 dollari al mese, esclusivamente nello spaccio interno. Il listino prezzi dice che una fetta di pizza al peperone costa 2 dollari e 40 centesimi. Medio Oriente. Da Israele una stretta su fondi dell’Ap per i detenuti L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2019 Scatta la stretta del governo israeliano sui fondi che l’Autorità palestinese (Ap) destina ai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e alle loro famiglie. Il Gabinetto di sicurezza, su proposta del premier Benjamin Netanyahu, ha infatti deciso di applicare la legge, approvata lo scorso anno alla Knesset (il parlamento israeliano), che sottrae dalle tasse raccolte per l’Ap le somme che questa devolve ai detenuti palestinesi: si parla di circa 138 milioni di dollari (123 milioni di curo). “Ufficiali della sicurezza - ha spiegato un comunicato del governo - hanno presentato dati secondo cui nel 2018 l’Ap ha trasferito somme di denaro ai terroristi detenuti in Israele, alle loro famiglie e anche a quelli che sono stati rilasciati. Per questo è stato deciso di congelare lo stesso ammontare di fondi dalle tasse raccolte per conto dell’Ap”. Finora la legge non era stata applicata per vari motivi: tra questi la contrarietà degli stessi apparati di sicurezza israeliani a giudizio dei quali un ulteriore taglio al budget dell’Ap avrebbe danneggiato la cooperazione e destabilizzato la Cisgiordania, già colpita dai tagli dei fondi americani all’Onu. La reazione dei palestinesi, dopo l’annuncio della misura, non si è fatta attendere. “Una dichiarazione di guerra al popolo palestinese” ha detto il primo ministro Rami Hamdallah. “Questa decisione - ha aggiunto Hamdallah - arriva nel contesto della punizione collettiva contro il popolo palestinese”. Il portavoce del presidente palestinese, Mahmoud Abbas, Nabil Abu Rudeina, ha parlato di “un atto di pirateria inaccettabile”, prefigurando “gravi conseguenze”. Pakistan. Caso Sana, il giudice “nessuna prova dell’omicidio” di Fabio Poletti La Stampa, 19 febbraio 2019 Bastano 28 pagine in inglese e altre 7 in urdu per far dire al giudice in Pakistan che non ci sono prove, e nemmeno testimoni, per affermare che Sana Cheema, una 25 enne pakistana cresciuta a Brescia, sia stata ammazzata dalla sua famiglia in Pakistan lo scorso aprile. “A questo riguardo va constatato che il caso preso in esame è senza prove e tutti i fatti e le circostanze discusse non creano un dubbio ragionevole sul caso in esame”. Le motivazioni della sentenza sono state consegnate alla nostra ambasciata di Islamabad e via Farnesina sono arrivate alla Procura di Brescia, che si trova ora in un vicolo cieco anche se formalmente c’è un’inchiesta ancora aperta. Aveva già spiegato il procuratore capo Carlo Nocerino: “Senza un trattato bilaterale con il Pakistan è un po’ difficile intervenire ma ci proveremo”. I familiari della giovane sono accusati di averla uccisa perché rifiutava le nozze combinate. La difesa della famiglia Il padre, la madre e il fratello di Sana, finiti prima in carcere e poi sotto inchiesta in Pakistan, avevano sventolato il certificato medico in cui si parlava di una morte per cause naturali, dovuta ad uno stato di malessere che Sana provava già mentre era in Italia. Chi ha fatto l’autopsia in Pakistan, dopo la riesumazione del corpo, alla fine non si sbilancia più di tanto, suggerendo che se la morte per asfissia di Sana non può essere provata, allora tanto vale escluderla. Affermazione molto in linea con quanto dichiarato dal funzionario di polizia che ha condotto le indagini che hanno portato alla sentenza di assoluzione di tutti gli imputati: “È corretto affermare che nessuno degli abitanti del paese sia comparso davanti a me, durante l’inchiesta, per sostenere che la defunta era stata assassinata dalle persone qui presenti”. Le conclusioni sono chiare. Così come sono chiare le deposizioni fotocopia del padre, della madre e del fratello di Sana, che negano tutte le accuse e giurano che mai e poi mai avrebbero anche solo pensato di fare una cosa simile. Ghulam Mustafa, il padre di Sana, è perentorio: “Sono innocente. È una storia falsa, inventata da gente che voleva solo estorcere del danaro a me e alla mia famiglia. Io stesso le ho acquistato il biglietto per rimandarla in Italia, come suggerito dal suo medico per le condizioni di salute di mia figlia. Non ho mai pensato di ucciderla”. Una sentenza che ha già fatto discutere la comunità pachistana e su cui era intervenuto pure il ministro Matteo Salvini: “Che vergogna! Se questa è la “giustizia islamica” c’è da aver paura”.