Giustizia e ritardi, lo stravagante processo penale oppresso dal garantismo formale di Massimo Krogh Il Mattino, 18 febbraio 2019 Mi riferisco all’articolo sulla giustizia lumaca (“Giudici lenti...”, pubblicato su “Il Mattino” del 15 febbraio), dove si commenta il deposito delle motivazioni di una sentenza dopo circa due anni dalla pronuncia; il caso del ferimento di un avvocato, gambizzato dall’imputato per avere svolto la funzione di legale della parte civile. Un fatto molto grave, che avrebbe imposto una pronta risposta piuttosto che anni d’attesa. Il Presidente del Tribunale di Napoli ha chiarito, in una intervista resa a questo quotidiano, che il ritardo del deposito dipese da problemi di salute dell’estensore della sentenza, oltre che dalla complessità del processo che era di natura indiziaria, precisando che non vi erano le condizioni per poter sostituire la collega designata per la redazione della sentenza e assicurando che la vicenda avrà il percorso di valutazione che la legge prevede. L’intervista del Presidente fornisce una spiegazione chiara ed obiettiva, sicché non sembra il caso di drammatizzare l’evento specifico. Ciò che, peraltro, resta un dramma è in generale la durata senza fine del processo, per la quale l’Italia è stata censurata in passato dalla Corte di Strasburgo. L’insopportabile lunghezza dei processi sia civili che penali è un cancro da cui il Paese non riesce a guarire. Nei progetti di riforma della giustizia, nulla di concreto si vede sul tema. Il problema è molto delicato quanto al settore penale, poiché la snellezza e brevità del processo non sempre risulta compatibile con le garanzie spettanti all’accusato; ma in effetti, la rapidità dovrebbe essere essa stessa la prima garanzia. Vi è qui il nodo da sciogliere che da sempre resta insoluto. La causa prima di tanti ritardi sta in un eccesso di burocrazia che tarpa le ali. Si pensi al regime delle notificazioni, se non tornano tempestivamente gli avvisi di ricevimento (con la posta che abbiamo) si rinvia e si ricomincia da capo. La pubblica amministrazione, nel caos degli atti e dei passaggi di carte che normativamente l’affliggono, spesso non riesce a risolvere i problemi del cittadino, il quale, esasperato, si rivolge al pubblico ministero nella speranza di un approdo punitivo e pertanto attivo. La conseguenza è l’intasamento dello spazio penale, nell’equivoco ormai corrente che il confine tra il bene e il male sia affidato all’ufficio del pubblico ministero. Ciò, ovviamente, nuoce al funzionamento del servizio giudiziario e vengono meno gli investimenti, giacché chi investe pretende la garanzia giudiziaria; il risultato è che scade la possibilità di fare programmi per il futuro. Verosimilmente, il punto dolente sta nel potere eccessivo dell’accusa, che domina la fase delle indagini con mezzi molto maggiori rispetto al difensore. In questa fase, stante l’unicità di carriera giudici/pm, la parità delle parti davanti a un giudice terzo diventano parole; cui la normativa prova a rimediare con una serie infinita di possibili reclami che trasformano una giustizia prevista in linea orizzontale in un percorso verticistico. In realtà, si sviluppa una catena che va avanti e indietro ritardando le soluzioni e lasciando il cittadino senza risposte. Detto questo, non si va avanti se non cresce la cultura del servizio giudiziario, tanto importante nella cultura della democrazia da divenire “potere” nel linguaggio comune. Un potere che impedisce alla democrazia di divenire oligarchia. Bisogna aggiungere che sarebbe ingiusto considerare i giudici responsabili della durata del processo, essi sono le prime vittime di un sistema giudiziario costruito dal legislatore nel gravissimo equivoco di introdurre il rito processuale accusatorio mantenendo in vita tutte le colonne del rito inquisitorio, quali l’unicità di carriera giudici/pm, il libero convincimento del giudice, la scala di tre gradi di giudizio, la prova morale anziché processuale della verità, l’obbligatorietà dell’azione penale, il rito contumaciale, praticamente il contrario del rito processuale introdotto. In definitiva, è nato un processo penale stravagante e oppresso da un garantismo formale che ne sopprime l’efficienza. La giustizia dei Cinque Stelle affidata alla piazza web di Antonio Polito Corriere della Sera, 18 febbraio 2019 Di Maio ha delegato la decisione sull’autorizzazione a procedere alla piattaforma Rousseau. C’è un solo precedente storico, e allora la folla dette la risposta sbagliata. Doveva essere, più o meno, il 6 aprile del 33 dopo Cristo. Un giovedì sera. Il precedente più celebre in cui il potere politico si sia rivolto a una piazza per chiederle di emettere un verdetto giudiziario. Quella volta finì male: la gente diede la risposta sbagliata. Naturalmente sarebbe improprio ogni paragone tra Matteo Salvini e ciascuno dei due imputati del tempo: il ministro dell’Interno non è, con tutta evidenza, né un Cristo né un Barabba. Più calzante invece potrebbe apparire una similitudine tra Luigi Di Maio e Ponzio Pilato. E non solo per l’ovvia considerazione che il leader, come il prefetto romano della Giudea, intende lavarsi le mani della sua responsabilità politica rivolgendosi alla folla, nel nostro caso alla platea degli iscritti alla piattaforma Rousseau. Ma anche perché, proprio come nel caso di Pilato con Gesù, Di Maio parteggia per l’imputato però non ha il coraggio di dirlo chiaro e tondo, e spera che qualcuno gli tolga le castagne dal fuoco tra le 10 e le 19 di oggi, con un click. Se infatti si legge il quesito posto dai vertici del Movimento alla base, un corpo mistico di qualche decina di migliaia di “registrati”, è chiaro che si deve votare no. Cioè, sì. Perché la domanda è posta in modo tale che se vuoi salvare Salvini devi dire sì, non al processo, ma al fatto che il ministro si è mosso nell’interesse pubblico. Mentre se lo vuoi mandare a processo, devi votare no, non si è mosso nell’interesse pubblico. Un contorcimento che ricorda da vicino il 2,4% di deficit che diventa 2,04% per ingannare il pubblico, e che ha fatto ridere perfino un comico come Beppe Grillo, che l’ha definito una cosa a metà tra il Comma 22 e la sindrome di Procuste, qualsiasi cosa significhi. Ma è lo spiegone che precede la domanda a suggerire la risposta giusta auspicata dai leader: quella dei 137 migranti sulla Diciotti (in realtà erano 177, sarà un errore di stampa) era solo un “ritardo”, non un sequestro, mentre il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio non trovavano qualche Paese europeo in cui spedirli. E Salvini non ha agito per “tornaconto privato” ma “nell’esercizio delle sue funzioni”. E questa è la prima volta che la magistratura chiede al Parlamento una cosa del genere, eccetera eccetera. Insomma: Di Maio e i suoi vogliono salvare Salvini, perché vogliono salvare il governo e se stessi. E questo è un obiettivo legittimo, e perfino logico. Ma se quello che dicono è vero, ed in linea di massima lo è (salvo sbagliare il nome della “giunta per le immunità”, che forse suonava male per chi ha scritto nel programma elettorale che avrebbe votato sempre contro ogni immunità, e dunque è stata trasformata in “giunta per le autorizzazioni”), allora non si capisce perché i Cinque Stelle chiedano a Rousseau ciò che già sanno. E d’altra parte, se vogliono invece evitare di prendere una posizione politica su un caso che in effetti è giudiziario, non si capisce perché non si affidino alla coscienza dei parlamentari che hanno designato nella giunta suddetta, e che nella fattispecie dovrebbero agire come giudici, senza farsi condizionare da nessuna valutazione di carattere extragiudiziario. Qui infatti la democrazia diretta non c’entra niente. Non si tratta di votare su una proposta di legge o sulla scelta di un candidato. Si tratta di mandare a processo, oppure no, un ministro; di decidere se il potere giudiziario può sindacare una scelta del potere esecutivo, di cui tra l’altro hanno dichiarato di condividere la responsabilità sia il premier Conte che Di Maio e Toninelli; di valutare se l’interesse pubblico perseguito da Salvini era o non era “preminente” rispetto ad altre norme e ad altri diritti. Materia delicatissima e opinabile. Che già se sei un commissario della giunta e hai letto due volte tutte le carte è difficile decidere, figurati se sei un iscritto a Rousseau e se il voto che stai per esprimere, secondo una sentenza del Garante della privacy del 2018, non ha neanche le garanzie dell’anonimato, e la sicurezza da ogni manipolazione è più che dubbia. La piattaforma Rousseau, che era stata concepita come una piattaforma Robespierre, viene per la prima volta chiamata a bocciare la ghigliottina e a far trionfare la ragion di Stato. Ma nascondersi dietro al popolo non è meno sbagliato di aizzarlo. Senza contare il rischio che arrivi la risposta sbagliata. Come abbiamo visto, è già successo. Nel tracollo della politica trionfano solo i cavilli di Carlo Nordio Il Messaggero, 18 febbraio 2019 Come avevamo ampiamente previsto, le dichiarazioni del capo del governo e dei ministri Toninelli e Di Maio di aver gestito collegialmente l’affare Diciotti hanno determinato la trasmissione degli atti alla Procura di Catania e la loro probabile iscrizione (non ufficialmente confermata) nel registro degli indagati. Gli scenari che ora si presentano sono i seguenti. Cercherò di descriverli nel modo più asettico e lineare. Primo scenario. La Giunta domani propone che si neghi l’autorizzazione al processo, e il Senato vota in conformità (tralasciamo l’ipotesi metafisica che i grillini votino per il no in giunta e per il sì in aula, c’è un limite anche alla schizofrenia). Salvini si salva, ma la Procura di Catania non si ferma, perché non può archiviare da sola, ma deve chiederlo al Tribunale dei Ministri. A questo punto si profilano due ipotesi: a) Anche il Tribunale archivia, e tutto finisce. b) Il Tribunale, che non è vincolato alla decisione del Senato su Salvini, decide come aveva fatto la volta precedente, e manda gli atti per l’autorizzazione a procedere: a Montecitorio, per i due deputati ministri, e al Senato per il presidente Conte, che non è parlamentare. Quindi avremo due nuove giunte, due nuove istruttorie e, se nel frattempo (saremo ormai a Maggio-Giugno) le cose non saranno cambiate, un nuovo diniego al processo. Se invece, per un ennesimo caso di dissociazione dei pentastellati, l’autorizzazione fosse concessa, avremmo un processo a Conte, a Di Maio e a Toninelli senza Salvini: ovvero ai “complici” senza l’autore materiale. Poiché peraltro, sempre in teoria, le due Camere potrebbero decidere l’una difformemente dall’altra, potremmo avere un processo a Conte senza Toninelli e Di Maio, oppure a questi ultimi senza Conte. Secondo scenario. La Giunta prima e il Senato poi concedono l’autorizzazione, e Salvini va a processo. Il Tribunale dei Ministri di Catania fa quello che ha fatto con Salvini e manda gli atti rispettivamente alla Camera e al Senato. Qui si presentano altre tre ipotesi: a)Il Senato e la Camera negano l’autorizzazione, e va a giudizio solo Salvini. Nel frattempo, com’è ovvio, è caduto il governo e forse la legislatura. b) Il Senato e la Camera la concedono, e tutti e quattro vengono processati. c) Il Senato la concede per Conte, la Camera la nega per i due Ministri: vanno a giudizio Conte e Salvini. d) Il Senato la nega per Conte, la Camera la concede per i due ministri: vanno a giudizio Salvini, Di Maio e Toninelli. Terzo scenario. Il Tribunale dei Ministri decide di approfondire la posizione di Conte, Di Maio e Toninelli. Il Tribunale potrebbe infatti concludere che ci fu una semplice adesione “post factum”, cioè un semplice assenso a una decisione autonoma di Salvini, e quindi i tre non sono imputabili. Da cosa potrebbe dipendere questa decisione? Essenzialmente dall’atteggiamento di Conte. Se confermerà che il diniego di sbarco fu concertato e collegiale, subirà la stessa sorte di Salvini. Se invece dirà che si conformò a un provvedimento già adottato dal suo ministro potrebbe anche cavarsela. Dovrebbe invocare il detto attribuito a Ledru-Rollin: “Je suis leur chef, il faut bien que je les suive”: poiché sono il loro capo, bisogna che io li segua. Ma, a parte il fatto che così Conte dovrebbe smentire sé stesso, sarebbe politicamente un suicidio, perché suonerebbe come un acquiescenza supina a Salvini, che sgretolerebbe la propria immagine e l’intera coalizione. Descritti questi tre scenari e le loro possibili varianti, per amor di completezza aggiungo che non sarebbe affatto finita, perché bisognerebbe ricostruire la filiera di comando attraverso la quale Salvini avrebbe trasmesso l’ordine criminoso, al fine di individuare gli altri concorrenti nel reato. Da ultima, ma non ultima, andrebbe valutata la posizione del Pm di Agrigento che, dopo aver contestato un sequestro di persona non ha disposto subito, com’era suo potere e dovere, la liberazione dei sequestrati. L’esausto lettore, annichilito da questo gioco dell’oca, si domanderà se questa ingarbugliata matassa possa essere dipanata oggi, tramite l’interpello dei militanti della piattaforma Rousseau, con la risposta a un quesito ambiguo quanto la posizione dei loro capipartito. E soprattutto se valesse la pena di creare un simile pasticcio, per una questione squisitamente politica. Speriamo che se lo domandino anche i Parlamentari. Autonomia, riforma costituzionale mascherata di Mauro Calise Il Messaggero, 18 febbraio 2019 Come previsto, la questione delle autonomie si è trasformata in un ginepraio, e rischia - per usare una metafora più appropriata - di diventare un Vietnam. La posta in gioco non è grossa, è enorme. E si divide in due piatti. Il primo, nobilissimo, riguarda l’efficienza amministrativa. Le regioni del Nord rivendicano di saper fare meglio da sé. E ha fatto bene il governatore De Luca a rispondere che, su questo piano, la Campania accetta volentieri la sfida. C’è da augurarsi che le altre regioni del Sud lo seguano a ruota, così da sgombrare il campo dall’equivoco che qui siamo ancora in Borbonia. Poi, però, c’è il secondo piatto. Quanto costerà l’operazione, e chi paga? Qui le lingue si imbrogliano. I presidenti di regione nordisti dicono che si farà tutto a saldo zero. Ma ci credono solo loro. Le analisi più accreditate sostengono che il Sud ci rimetterà. Il conto - forse - non arriverà subito, ma poi diventerà salatissimo. E, al danno, si aggiungerà la beffa. Come ha notato giustamente il governatore della Calabria Oliviero, su quali spese e parametri si misurerà il dare e avere? Per esempio, gli investimenti per l’Alta velocità in Emilia sono costati cinque miliardi, in Calabria non hanno speso un euro. Questo ci azzecca con l’autonomia? O si userà, alla Totò, la formula di “chi ha avuto ha avuto ha avuto...”? Col che arriviamo al nodo politico, che sta venendo bruscamente al pettine. I Cinque Stelle hanno frenato. Certo, l’autonomia fa parte del contratto di governo, ma - come in quasi tutte le voci dell’accordo - il diavolo si nasconde nel dettaglio. E qui i dettagli sono tantissimi. Si comprende che Di Maio e soci vogliano vederci chiaro, considerato che i loro voti sono in larga maggioranza al Sud. Che succede se, in un paio d’anni, gli elettori meridionali dovessero accorgersi che per un piatto di lenticchie - il reddito di cittadinanza elargito col contagocce - con la scusa dell’autonomia si sono fatti sfilare dalla tasca un bel gruzzolo di servizi essenziali? Qui non si tratterebbe più di una flessione nei consensi, ma rischierebbe di aprirsi una voragine. La realtà è che l’intera questione sta diventando un harakiri politico. Non solo per i partiti di governo, ma per tutto il paese. L’idea che si potesse rilanciare dalla finestra delle trattative bilaterali un federalismo spintissimo che era stato sonoramente bocciato nel referendum costituzionale del 2006 si è rivelata una pessima idea. Ancor più per il tentativo di realizzarla quasi alla chetichella, con una trattativa spezzatino e mettendo il Parlamento in un angolo. Per uscire da questa impasse, ed evitare che lo scontro prenda una piega esplosiva, c’è una sola strada. Fermare le bocce, e convocare intorno a un tavolo tutte le Regioni. Del Nord, del Sud e del Centro. È quello che sarebbe successo se fosse andata in porto la riforma del Senato proposta da Renzi che, tra tanti difetti, aveva il pregio di prendere di petto il nodo su cui rischia di spaccarsi l’Italia. Con le risorse statali che diventano, di anno in anno, più scarse, c’è bisogno di una sede istituzionale autorevole, non espressione diretta dei partiti, che funga da camera di compensazione. Scelte così impegnative per la tenuta del paese, e della integrità nazionale, non possono essere lasciate al tira e molla di qualche tavolo ufficioso. Quali che siano le decisioni, devono avvenire nel segno della massima trasparenza. E del massimo coinvolgimento di coloro che saranno tenuti a risponderne, di fronte ai propri elettori. E visto che se si aggiunge a qualcuno si toglie inevitabilmente a qualcun altro - questo anche i bambini lo capiscono - è indispensabile che le regioni del Sud siano tutte coinvolte in qualsiasi patto il governo intenda siglare. Perché non di un accordo di governo si tratta, ma di un nuovo patto costituzionale. Lo ha detto fuori dai denti il presidente della commissione Affari costituzionali, il grillino Giuseppe Brescia: “Siamo di fronte a una riforma costituzionale mascherata”. Nell’interesse dell’Italia, c’è una sola soluzione: giù la maschera. Riti tribali, droga ed estorsioni, la mappa della mafia nigeriana di Fabio Tonacci La Repubblica, 18 febbraio 2019 Da Nord a Sud i clan stanno occupando le città con violenza e omertà, allarme della Polizia. La cerimonia di affiliazione fatta con un pestaggio che serve a far sgorgare lacrime e sangue. Regione per regione, città per città, indica il radicamento dei Cult, le confraternite nate nei campus nigeriani a partire dagli anni Cinquanta e diventate il brodo di coltura della più violenta e tribale criminalità organizzata straniera nel nostro Paese. È la cronaca di un conflitto in potenza, questa mappa. I Black Axe contro gli Eiye, gli Eiye contro i Maphite, i Vikings contro tutti: oggi si pestano tra di loro (talvolta a colpi di machete) per conquistare brandelli di territorio lasciati liberi dalle mafie italiane e occuparli con il racket della prostituzione, spaccio di eroina e marijuana, estorsioni. Domani potrebbe diventare una guerra tra bande. E ora leggete il racconto del Rituale, la cerimonia di affiliazione degli Eiye che si svolge in lerci scantinati, anche in Italia. Il candidato viene spogliato e buttato a terra, viene preso a calci e pugni dai confratelli sotto lo sguardo del santone, gli viene spalmato del peperoncino sulla testa e sulla faccia. Poi gli tagliano la pelle con un rasoio, mescolano il suo sangue e le sue lacrime, lo eleggono a “uno di loro”. Ce n’è abbastanza per capire che l’Italia, più di altri Paesi europei, ha un problema, e grosso, con la mafia nigeriana. La mappa è costruita mettendo insieme gli esiti delle indagini delle procure, i resoconti che emergono dalla stampa locale, le relazioni della Direzione investigativa antimafia. Castel Volturno e Palermo (quartiere Ballarò) sono le capitali del Sud, in mano ai Black Axe, ma le confraternite cultiste si stanno espandendo soprattutto nei terreni vergini del Centro-Nord: Torino, Bologna, Ferrara, Mestre. A Cagliari, anche. Impossibile contarne con precisione gli affiliati, ma secondo gli analisti della Polizia siamo sull’ordine di diverse migliaia. La Supreme Eiye Confraternity rimane comunque la più numerosa. Lo scorso dicembre a Torino sono stati arrestati 15 cultisti Eiye per associazione mafiosa, tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, droga; a novembre altri 27 nigeriani della cellula Calypso Nest, legata alla Eiye, sono finiti in carcere a Cagliari; a luglio 35 arresti tra Padova, Treviso, Venezia e Verona; a giugno 43 arresti (non solo nigeriani) tra Trento, Verona, Ferrara e Vicenza. E ancora: 4 Viking arrestati a Ferrara a ottobre dopo il tentato omicidio di un rivale degli Eiye per il controllo di una piazza di spaccio; 19 nigeriani fermati a Catania per mafia, rapina, e violenza sessuale di gruppo su due donne nel Centro migranti di Bari. Va detto che non si può, e non si deve, sovrapporre il perimetro dei Cult a quello della mafia nigeriana. Per la legge non bastano le cerimonie di affiliazione brutali e costose (un mese fa in un appartamento a Roma un nigeriano di 22 anni è stato pestato a morte durante il Rituale, per il quale aveva pagato 150 euro), le formule woodoo, il linguaggio in codice, i berretti identitari (neri per i Black Axe fondati a Benin City in un campus universitario nel 1976, blu per gli Eiye, verdi per i Maphite, gli unici a vietare l’ingresso alle donne) per assimilarli a Cosa Nostra o alla Camorra. Non tutti i cultisti sono criminali, insomma. Anche se l’unica sentenza della Cassazione in materia (5 maggio 2010) ha consegnato i Black Axe al ritratto della mafiosità più chiara: “Pongono in essere atti vessatori nei confronti della comunità nigeriana, intimidendo i connazionali sino a conseguirne obbedienza e omertà”, “ogni nigeriano sa dell’esistenza di tali gruppi e ne teme la violenza”, “il sodalizio mantiene un carattere segreto”, “commissionano violenze in patria ai danni dei parenti di chi li denuncia”. E il polso di questo allarmante fermento si tasta anche nelle carceri italiane: il numero dei detenuti nigeriani è raddoppiato dal 2007 al 2018 (da 679 a 1.467). “Quando si parla di infiltrazioni della mafia nigeriana nelle nostre province - spiega Alessandro Giuliano, direttore del Servizio centrale operativo della Polizia - quel che vale oggi non è detto che valga anche domani: siamo di fronte a gruppi criminali molto mobili, che non hanno problemi a spostarsi di città in città. Un fenomeno da trattare in modo sistematico, e così facciamo”. Non è un caso, dunque, che dal 2017 lo Sco abbia messo in cima alle priorità della lotta alla criminalità organizzata straniera proprio quella nigeriana, e il Viminale abbia inviato un suo dirigente in Nigeria come ufficiale di collegamento. I Cult sulle coste libiche Al momento non ci sono solide evidenze investigative di alleanze, contatti o contrasti, tra i cult e le mafie italiane. Qualche boss siciliano si è accorto di loro (ci sono delle intercettazioni a Palermo) ma poca roba. Finora le cosche hanno lasciato pacificamente ai nigeriani la prostituzione, il piccolo spaccio di eroina, la tratta. Proprio per questo cultisti hanno colonizzato anche la Libia, posizionandosi negli snodi delle rotte dell’immigrazione: reclutano giovani donne nigeriane a Tripoli, organizzano il trasferimento via mare in Italia, poi le obbligano a prostituirsi. La mafia dell’ultra violenza, la mafia dei riti magici e del machete, fa soldi anche così. “Lo Stato deve dirmi perché hanno massacrato il mio Stefano” di Myrta Merlino Corriere della Sera, 18 febbraio 2019 L’incontro con Rita Cucchi: “Prima hanno ammazzato lui, poi hanno provato a fare lo stesso con noi”. “Sono stata una buona madre, rifarei tutto”. “Prima hanno ammazzato lui, poi l’hanno insultato da morto e poi hanno provato a fare lo stesso con noi, la sua famiglia”. Questa ricostruzione scarna e definitiva mi arriva addosso come un ceffone alla fine di un pomeriggio freddo, lungo e commovente trascorso a casa di Rita Cucchi. La mamma di Stefano. Roma, Tor Pignattara, un quartiere grigio e difficile, ma non più di tanti altri, una palazzina qualunque, un pianerottolo al quarto piano, luci fioche, una casa normale e poi quella stanza. “Tutto è rimasto come l’ultima sera in cui Stefano si è seduto lì sul quel divano”. Rita, piccola, curata, sorridente, con quegli occhi trasparenti e sinceri che mi conquistano all’istante, mi mostra ogni oggetto, ogni particolare. “Questa è la borsa della palestra così come l’aveva riportata a casa quel pomeriggio di ottobre di 9 anni fa, i suoi guantoni, quanto li amava, la sciarpa della Lazio, il suo pupazzo bianco, i suoi (pochi) libri. Non ho voluto toccare niente”. Troppe domande senza risposta - Ed è lì, in quella stanza, avvolte da un dolore palpabile, che mi metto all’ascolto di questa donna riservata, che in questi interminabili 9 anni è sempre restata in disparte seguendo la figlia Ilaria nella sua battaglia ostinata, senza mai raccontare la sua versione. Ha deciso forse di curare così il suo dolore perché, come diceva De Andrè, una storia da non raccontare, una storia da dimenticare è una storia sbagliata. E in questa storia ha sbagliato lo Stato non ha sbagliato lei, non ha sbagliato suo figlio. Anzi no! “Stefano ha sbagliato. E io sapevo che avrebbe dovuto pagare per i suoi errori. Quella notte quando lo portarono via ammanettato dicendomi che la mattina dopo sarebbe tornato a casa, mio marito ed io pensammo fosse giusto che pagasse per ciò che aveva fatto. Ma puoi pagare con la vita il possesso di qualche grammo di droga? Perché? Noi ci siamo fidati dello Stato. Perché lo Stato ci ha fatto questo?”. La storia di questa mamma è una storia di “perché” e di “pregiudizi”. Perché che la trafiggono giorno e notte come una lama affilata. “E io giuro che non mi fermerò fino all’ultimo perché”. Omertà e dinieghi - È la sequenza incredibile dei perché che mi lascia senza fiato. “I carabinieri la sera dell’arresto mi hanno detto di non preoccuparmi, che Stefano sarebbe tornato a casa il giorno successivo. Dopotutto era stato fermato con poca droga, dissero. E invece è stato rinviato a giudizio. Perché? La mattina dopo il rinvio a giudizio siamo andati a Regina Coeli, in carcere, volevo portargli la borsa con qualche cambio, ma non ce l’hanno fatto vedere. Perché? La sera dopo l’arresto ci chiamano dicendoci che era ricoverato al Pertini, corriamo, ingenuamente chiediamo “possiamo vederlo?”. Rispondono “no, assolutamente. Tornate lunedì”. Perché? Lunedì siamo lì presto, ma dopo neanche 5 minuti scende una poliziotta talmente agitata che sbaglia pure il documento di mio marito e dice che purtroppo ai medici non è arrivato il permesso di poter parlare con noi. Perché? Mi dissero addirittura che mio figlio era tranquillo. Ma intanto al telefono qualcuno diceva che Stefano stava male, che aveva bisogno di un’ambulanza e si augurava che morisse “li mortacci sua”. Perché? A Stefano non è stata fatta la foto segnaletica, anche se è obbligatoria. Perché? Quando ci hanno detto che Stefano era morto siamo corsi a Medicina legale, volevano che autorizzassimo l’autopsia prima di vederlo. Perché? Lì abbiamo puntato i piedi. Quando siamo entrati il corpo di Stefano era circondato da vetri fissi e tutti poliziotti intorno. E lì ho capito il perché: Stefano era stato massacrato, come potevano rimandarlo a casa?”. Umiliati e offesi - Perché che diventano dubbi spaventosi e piano piano si trasformano in certezze indicibili. Perché che investono me come madre, prima ancora che come giornalista. E ci investono tutti come cittadini ostaggio di una vergogna di Stato. Poi ci sono i pregiudizi, quelli che come una cappa nera hanno tentato di far sparire Rita, suo marito e sua figlia. “Hanno detto che avevamo abbandonato Stefano. Hanno scritto che io, quando i carabinieri ci hanno suggerito di contattare un avvocato di fiducia, ho risposto: non spendo soldi per quel delinquente. Mai, te lo giuro, mai, neanche nei peggiori momenti di mio figlio con la droga ho detto o pensato una cosa del genere. Sono stata una buona mamma...”, è costretta a dirmi questa donna dignitosa. Quella foto - Mi mostra un articolo del Giornale del 30 gennaio 2016. Titolo: “La madre di Cucchi: “mio figlio? Un delinquente”. E per la prima volta in quegli occhi chiari compare un’ombra di rabbia lucida. “Io piansi, piansi tanto quando lo lessi. Non potevo crederci”. E poi la domanda che tutti ci siamo fatti almeno una volta: perché i genitori sono stati così arrendevoli, perché non hanno fatto i matti per riuscire a vederlo? Anche su questo mi risponde paziente ma ferma. “Ti assicuro che se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Con la forza non ottieni nulla. Sono loro che comandano e se non vogliono fartelo vedere, non te lo fanno vedere. Solo all’obitorio abbiamo puntato i piedi. E abbiamo visto l’orrore disegnato sul suo volto. E lì abbiamo fatto quella foto. Quella foto che io, da madre, non volevo rendere pubblica, non volevo mostrare mio figlio così... Ma senza quella foto nessuno ci avrebbe creduto mai”. Quella foto che da sola è riuscita a sgretolare il muro dell’omertà e quello dei pregiudizi, quella foto che s’impone alle nostre pigre coscienze e che nelle mani tremanti di Rita continua a chiedere una risposta a tutti i perché. Fino all’ultimo. Elezione di domicilio non è violata se non sono comunicati estremi del procedimento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 11 gennaio 2019 n. 1208. È da escludere che l’elezione di domicilio possa ritenersi violata per il solo fatto che all’indagato non siano stati comunicati, al momento dell’elezione, gli estremi del procedimento penale a suo carico né gli siano state contestate le norme asseritamente violate. La Corte di Cassazione, con la sentenza 11 gennaio 2019 n. 1208, si è impegnata nel ricostruire il significato e il contenuto della dichiarazione e dell’elezione di domicilio. Nel ribadirsi, in proposito, che la dichiarazione di domicilio è una manifestazione di scienza, che consiste nell’indicazione del luogo di abitazione o di abituale esercizio dell’attività professionale, sicché l’imputato comunica una situazione reale, indicando il luogo dove effettivamente abita o lavora, mentre l’elezione di domicilio è invece una manifestazione di volontà, che consiste nella scelta di un luogo e di una persona presso la quale l’indagato o l’imputato intende ricevere le notificazioni, la Cassazione ha escluso che la dichiarazione e l’elezione di domicilio abbiano anche una funzione di contestazione delle norme che si assumono violate o di comunicazione degli estremi del procedimento penale a carico, costituendo esclusivamente atti preordinati all’effettuazione delle notificazioni. Infatti, si è argomentato, l’articolo 161 del Cpp non prevede che il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nell’invitare l’indagato o l’imputato a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni, gli comunichino gli estremi del procedimento penale che lo riguarda e, ancor meno, le norme che si assumono violate: tanto è vero che la dichiarazione e l’elezione di domicilio dispiegano i propri effetti anche in relazione ad altri reati, oggetto di contestazione successivamente alla dichiarazione o all’elezione. La legge processuale penale, conclude il giudice di legittimità, prevede che i dati relativi al procedimento e ai reati che ne costituiscono l’oggetto vengano comunicati con l’informazione di garanzia ex articolo 369 del Cpp, che costituisce atto ben distinto dalla dichiarazione o dall’elezione di domicilio, sebbene l’invito ex articolo 161 del Cpp possa essere anche formulato con la predetta informazione di garanzia. L’indagato potrà poi venire a conoscenza degli estremi del procedimento penale a suo carico mediante una richiesta ex articolo 335 del Cpp, tranne che l’iscrizione non riguardi uno dei reati di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), del Cpp. È una disciplina che conferma il fatto che si tratta di strumenti processuali completamente diversi dalla dichiarazione o dall’elezione di domicilio. In termini, di recente, sezione III, 6 aprile 2017, Proc. Rep. Trib. Bologna in proc. Maderegger, dove si è affermato che il verbale di elezione o dichiarazione di domicilio deve avere come suo contenuto essenziale l’avvertimento al soggetto richiesto che questi, come indagato o imputato, “ha l’obbligo comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore”, senza alcun riferimento invece all’articolo di legge in cui è prevista la fattispecie di reato e alla descrizione del fatto contestato e senza quindi la necessità, in caso di persona alloglotta, di tradurre la norma violata e la descrizione del fatto, dovendosi limitare, in tal caso, la traduzione al suddetto avvertimento: è quindi abnorme, perché determina una stasi irrimediabile del procedimento, il provvedimento con cui il tribunale abbia erroneamente dichiarata la nullità del verbale di elezione/dichiarazione di domicilio (e di tutti gli atti conseguenti, compreso il decreto di rinvio a giudizio) sull’inesatto presupposto che questo, riguardando un imputato alloglotta, dovesse contenere anche la traduzione della norma violata e della descrizione del fatto contestato, e, per l’effetto disposta la restituzione degli atti al giudice dell’udienza preliminare. Anche in caso di “aberratio criminis” può configurarsi il reato continuato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2019 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 28 gennaio 2019 n. 4119. Non vi è ragione per negare la configurabilità dell’unitarietà del disegno criminoso che fonda la disciplina del reato continuato, allorché uno dei reati facenti parte dell’ideazione e programmazione unitaria abbia avuto un esito aberrante rispetto all’originaria determinazione delittuosa, in quanto per un mero errore esecutivo l’evento voluto dall’agente si sia verificato in danno di una persona diversa da quella alla quale era rivolta l’offesa: tale evenienza non muta, infatti, i termini dell’accertamento dell’elemento psicologico richiesto per l’integrazione della continuazione, che deve riguardare la riconducibilità a una comune e unitaria risoluzione criminosa del fatto-reato così come in origine programmato, il cui contenuto volitivo, attuativo di quella risoluzione, rimane uguale e non subisce alcuna modifica per il solo fatto che l’oggetto materiale della condotta è accidentalmente caduto su una persona diversa. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 28 gennaio 2019 n. 4119. La Corte per giungere alle conclusioni di cui in massima è partita dal rilievo che l’aberratio ictus, prevista dall’articolo 82 del codice penale, che si verifica quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per altra causa, l’offesa - tipica della fattispecie criminosa - è cagionata a una persona diversa da quella alla quale era diretta, postula la completa estraneità dell’errore, nel quale è incorso l’agente, al momento ideativo e volitivo del reato, e dunque alla relativa determinazione delittuosa, in quanto l’errore incide esclusivamente sull’oggetto materiale della condotta, la quale, invece di ledere il bene - interesse della persona nei cui confronti l’offesa era diretta (e voluta), lede il medesimo bene di una persona diversa. Per l’effetto, ha ulteriormente argomentato la Cassazione, l’accertamento dell’elemento psicologico del reato deve essere effettuato con riferimento alla persona nei cui confronti l’offesa era diretta (e non a quella effettivamente lesa) e, quindi, il dolo deve sussistere esclusivamente (operando altrimenti il differente istituto del concorso di reati) nei riguardi della vittima programmata dell’azione delittuosa, avendosi poi, per una sorta di fictio iuris, la translatio del medesimo elemento psichico nei confronti della diversa persona concretamente offesa. Parimenti, l’aggravante della premeditazione è compatibile con il reato commesso in danno di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta; così come analogamente compatibile è, in materia, il concorso morale, nell’omicidio della persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, del soggetto che non ha materialmente eseguito l’azione delittuosa nel corso della quale si è verificata l’aberratio, in quanto l’errore esecutivo non ha alcuna incidenza sull’elemento soggettivo del partecipe morale essendosi comunque realizzata l’azione concordata con l’autore materiale, il cui esito aberrante è privo di rilevanza ai fini della qualificazione del reato sotto il profilo oggettivo e soggettivo. Da queste premesse, la Cassazione ha concluso, nei termini sopra riportati, per la compatibilità dell’istituto della continuazione anche in caso di aberratio ictus, valorizzando in proposito l’esigenza dell’apprezzamento della comune e unitaria risoluzione criminosa, a prescindere dagli esiti derivati, per errore in una delle vicende incriminate. Revisione sentenza penale: ricorso straordinario esteso al condannato agli effetti civili Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2019 Impugnazioni penali - Revisione - Estinzione del reato per prescrizione o per amnistia - Condanna al risarcimento dei danni a favore della parte civile - Istanza di revisione - Ammissibilità. È ammissibile, anche agli effetti penali, la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) che, decidendo ai sensi dell’art. 578 c.p.p. anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento del danno (od alle restituzioni) in favore della parte civile. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 7 febbraio 2019 n. 6141. Processo penale - Impugnazioni - Revisione - Sentenza di estinzione del reato per prescrizione che conferma le statuizioni civili - Assoggettabilità a revisione - Esclusione. Non è suscettibile di revisione la sentenza di estinzione del reato per prescrizione dalla quale consegua la sola conferma delle statuizioni civili. (In motivazione la Corte ha chiarito che la revisione può riguardare solo una sentenza di condanna, che, ai sensi dell’art. 6 Cedu, deve intendersi ogni provvedimento con il quale il giudice, al di là del nomen iuris, nella sostanza, infligga una sanzione che abbia comunque natura punitiva e deterrente, e non meramente riparatoria o preventiva, come è invece per la condanna al risarcimento del danno, avente solo natura riparatoria). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 28 novembre 2017 n. 53678. Revisione penale - Sentenza di condanna dell’imputato - Sanzione penale e/o punitiva - Sanzione civilistica - Inammissibilità - Legittimazione. Ai fini della revisione penale, va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con cui viene inflitta una sanzione strettamente penale ma anche quello che contenga nella sostanza una sanzione latamente penale e, dunque, di carattere punitivo e deterrente. Sono pertanto esclusi dalla categoria in esame tutti i provvedimenti emessi dal giudice penale dai quali conseguano effetti meramente riparatori e/o preventivi, in quanto tali conseguenze, non rientrando nell’ambito delle sanzione punitive, si pongono al di fuori del perimetro squisitamente penale. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 28 novembre 2017 n. 53678. Impugnazioni - Revisione - In genere - Sentenza di estinzione del reato per prescrizione con conferma delle statuizioni civili - Assoggettabilità a revisione - Esclusione. Le sentenze che dichiarano la prescrizione non sono assoggettabili a revisione, neppure quando la Corte d’Appello o la Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione, abbiano confermato le statuizioni civili, condannando l’imputato al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile, perché anche in tal caso non si ha una condanna penale. Il giudizio di revisione non è infatti suscettibile di estensione a casi non previsti e, in generale, rappresenta una soluzione dell’ordinamento penale avente come obiettivo l’eliminazione di una condanna ingiusta attraverso un giudizio che deve essere di proscioglimento. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 19 gennaio 2017 n. 2656. Impugnazioni - Revisione - Sentenza di estinzione del reato per prescrizione con conferma delle statuizioni civili - Assoggettabilità a revisione - Possibilità. È ammissibile la richiesta di revisione proposta avverso la pronuncia del giudice d’appello che, nel dichiarare l’estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, confermi, in applicazione dell’art. 578 c.p.p., la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 8 novembre 2016 n. 46707. Taranto: detenuto 78enne si impicca in carcere Il Messaggero, 18 febbraio 2019 È stato trovato impiccato nella sua cella del carcere di Taranto poche ore fa Michele Spagnuolo. Con una corda rudimentale stretta al collo. Così è stato rinvenuto il 78enne, originario del Tarantino, ma che risiedeva da molti anni a Trepuzzi insieme alla moglie, Teresa Russo, 57enne originaria di Novoli, che lo scorso 16 luglio uccise con 41 coltellate nella loro abitazione al civico 8 di via Generale Papadia. Fu lui stesso, con i biglietto lasciato presso la locale caserma dei carabinieri, a spiegare la tragedia che si era consumata nella sua casa, e poi rintracciato presso la stazione ferrovia, a confessarlo nella dopo essere stato ascoltato per ore dai carabinieri e dal magistrato. Dopo 9 giorni di carcere a Borgo San Nicola gli furono concessi i domiciliari a casa del fratello, a Talsano. Da quella abitazione si allontanò il 20 novembre dello scorso anno, e per più essere rintracciato dopo poche ore e ricondotto in carcere. Processato per l’evasione patteggio 6 mesi di reclusione. Ora detenuto in carcere attendeva solo il processo per l’omicidio della moglie. Difeso dall’avvocato Antonio Savoia, Michele Spagnuolo aveva scelto il rito abbreviato. Si sarebbe dovuto presentare dal giudice il 20 marzo prossimo. Napoli: “aggredito da un agente per aver denunciato un pestaggio in carcere” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 18 febbraio 2019 L’esposto in Procura di uno psicologo: “Contro di me pesanti insulti e persino minacce di morte”. Minacce, insulti, intimidazioni. E persino un’aggressione fisica, accompagnata da un ultimo sinistro messaggio di morte. Non c’è pace in quell’inferno in terra chiamato Poggioreale. Tornano a riaccendersi i riflettori sul carcere più sovraffollato d’Europa, ed è una brutta, bruttissima storia quella sulla quale indagano i pubblici ministeri della Procura di Napoli: già, perché stavolta a denunciare presunti gravissimi abusi da parte di alcuni agenti della Polizia Penitenziaria non sono i detenuti ma un medico. I fatti risalgono alle giornate del 27 e 28 giugno scorso. Prima di ricostruirli è obbligatoria una premessa: al di là di ciò che accerterà l’indagine affidata al sostituto procuratore Giuliano va detto che la stragrande maggioranza del personale in servizio nelle carceri napoletane (e italiane) è composto da persone che svolgono con abnegazione e professionalità il loro lavoro. Ciò premesso, sarà la magistratura inquirente partenopea a decidere se come denunciato in questo caso dalla vittima - ci sia anche qualche mela marcia. A sporgere denuncia è stato uno psicologo in servizio nella casa circondariale di Poggioreale. Ed ecco il suo racconto, come emerge dagli atti dell’esposto querela. “Il 27 giugno 2018 ero di turno presso il presidio “Nuovi Giunti” ho effettuato un colloquio con un detenuto accusato di stalking: mi mostrò macchie di sangue ancora fresco sul volto e sulle mani, riferendomi che dopo la visita medica aveva avuto un diverbio con il personale di custodia ed era stato picchiato, senza possibilità di difendersi”. A quel punto lo psicologo si reca dal medico di turno per accertarsi se, durante la visita, fossero presenti quelle lesioni: e il sanitario nega la circostanza. A quel punto lo psicologo prende carta e penna e inizia a scrivere una relazione sull’accaduto; ed ecco comparire un agente della Polizia Penitenziaria (il cui nome è contenuto nella denuncia): “Mi chiese cosa stessi scrivendo precisando che non dovevo riportare che il recluso era stato picchiato. Gli spiegai che non potevo non riferire la versione del detenuto, e che comunque avrei fatto una relazione tutelando il personale e gli agenti in servizio; a quel punto il mio interlocutore - alzando sempre più i toni - mi minacciò dicendo che se non avessi modificato il rapporto “avrei finito di campare” e che lui mi avrebbe “fatto la guerra in tutti i modi”. Non è finita. Perché dopo un’oretta lo psicologo trova la stessa guardia con in mano la cartella del detenuto e gli intima: “Sto aspettando che fai le modifiche che ti ho chiesto, altrimenti stasera non esci vivo da qui”. Naturalmente il medico si rifiuta, anche perché lo stesso recluso gli ha anticipato che avrebbe raccontato il presunto pestaggio al magistrato che di lì a qualche giorno lo avrebbe interrogato. Ma l’agente insiste: pretende che l’esperto strappi addirittura la sua relazione: “Se non lo fai ti vengo a prendere anche fuori dal carcere e farò attorno a te e ai tuoi colleghi terra bruciata”. Parole gravissime. Dalle parole ai fatti. Si arriva così al giorno successivo: quando, sempre all’interno di Poggioreale, l’agente in questione incrocia di nuovo il medico: “Verso le 19 - racconta la vittima - mi reco al padiglione Milano e un altro agente mi riferisce che non potevo incontrare il detenuto che mi aveva raccontato delle violenze subite. Poco dopo, al padiglione Roma, altri agenti mi informano che - su ordine dello stesso poliziotto - non avrei potuto avere colloqui più con altri reclusi”. Ed eccolo riapparire: “Quell’uomo ricomparve, mi iniziò a seguire ed io, per sentirmi più sicuro, mi fermai sotto le scale che portano alla sala colloqui con gli avvocati e dove ci sono le macchinette per le bevande; presi una bottiglia d’acqua e a quel punto l’agente, dopo avermela strappata dalle mani, offendendomi con epiteti si scagliò contro di me schiacciandomi ripetutamente contro il distributore automatico del caffè facendomi urtare più volte la testa e bagnandomi completamente con l’acqua della bottiglia che avevo in mano”. Sarà la magistratura a scrivere l’ultima parola su questa inquietantissima vicenda. La vittima - assistita dall’avvocato Gennaro De Falco - è già stata ascoltata dal pubblico ministero, al quale ha confermato i fatti come esposti in denuncia. E, intanto, ieri sera all’esterno del carcere di Poggioreale una sessantina di persone hanno manifestato pacificamente con una fiaccolata per ricordare Claudio Volpe, il 33enne di Pianura morto in carcere otto giorni fa in circostanze ancora da chiarire. “Mio nipote - dichiara la zia al Mattino - non è morto perché aggredito da qualcuno, ma per un caso di malasanità all’interno del carcere. Ancora oggi non sappiamo quale sia il referto: sappiamo solo che dopo un malore è stato curato con la tachipirina, come se avesse solo la febbre”. La salma è stata sequestrata dalla magistratura in attesa dell’autopsia. Torino: omicidio-suicidio agenti penitenziari, il caso in Parlamento giornalelavoce.it, 18 febbraio 2019 Finisce in Parlamento il caso dell’omicidio-suicidio, nel dicembre 2013, di due poliziotti penitenziari nel carcere di Torino. Dopo che la quarta sezione civile del tribunale di Torino ha condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire per oltre 870mila euro la famiglia di Giampaolo Melis, l’ispettore ucciso a colpi di pistola dall’assistente capo Giuseppe Capitano che poi si è tolto la vita, il deputato di Fratelli d’Italia Ciro Maschio ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Nel documento, l’onorevole Maschio ricorda che la causa dell’omicidio- suicidio viene attribuita dalla sentenza che dispone il risarcimento “all’onnipresente e opprimente clima di tensione, disparità, disorganizzazione e confusione all’interno del luogo di lavoro”. E sostiene che “a seguito di detto episodio sarebbero emersi numerosi altri casi di grave disagio sul posto di lavoro, pare spesso attribuiti alla cattiva gestione dell’apparato amministrativo”. Maschio cita, in particolare, il caso di un commissario capo “coinvolto in una serie di indagini per atti incompatibili con la sua professione e per le posizioni di responsabilità ricoperte”. Per questo motivo, interroga il ministro Bonafede “se sia a conoscenza di questi fatti e quali interventi intenda adottare per migliorare le condizioni degli agenti di polizia penitenziaria”. Venezia: conseguenze dell’ispezione nel carcere femminile della Giudecca di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2019 Sui giornali di questi giorni si riportano le decisioni seguite ad un’ispezione in carcere: da quanto si legge, viene cancellata la “sorveglianza dinamica”, cioè il contatto diretto tra agenti e detenute. Come nei film americani: qualsiasi scambio solo umano deve cessare. La prima cosa che a me viene in mente è il ruolo di “consigliere oneste” che molte volte ho visto ricoprire dalle agenti nei confronti delle detenute, quando queste parlavano di sé. Si vede che questa forma di “rieducazione” semplice e diretta è considerata disdicevole. Certo, rapporti troppo stretti non vanno bene, ma è quel “troppo” che va visto, caso per caso. Si dice anche che le detenute che lavorano in lavanderia e nell’orto dovranno dormire in reparti appositi... ma perché mai? Non è buona cosa educare al lavoro le detenute o almeno tenerle occupate in attività utili? E non è buona cosa che imparino un mestiere per avere qualche lontana probabilità di esercitarlo a fine pena? Si dice anche che le detenute non potranno rivolgersi alla cooperativa “Granello di senape” per acquisti esterni. Ancora la domanda che sorge spontanea è: “Ma che male c’è?”: la Cooperativa si è adoperata solo per rendere la vita delle recluse un po’ meno dura, non può di certo essere accusata di avere portato dentro qualcosa che non poteva entrare o di avere speculato sugli acquisti esterni. Infine la chicca: vietata la tintura per i capelli. Durante il progetto regionale “Essere madri in carcere”, che anni fa abbiamo attuato, uno psicoterapeuta esperto e stimato, professore allo Iusve, facendo supervisione ai nostri psicologi, si è dilungato molto sull’azione antidepressiva che la cura del proprio aspetto ha sulle persone istituzionalizzate. Quale logica vieta la cura della propria chioma in giovani donne? Se ci sono stati comportamenti sbagliati, bisogna correggerli; ma non per questo bisogna distruggere il tanto di buono che è stato fatto. Piuttosto bisognerebbe avviare nuove attività utili, soprattutto per prevenire la devianza dei soggetti più giovani che vivono in carcere (nell’Icam ci sono i bambini). Ma la situazione dell’Icam, dopo la ripresa degli accordi nel Tavolo Interistituzionale dovrebbe migliorare, per quanto dipende dall’Associazione “La gabbianella”. È vantaggio dell’intera società se gli istituti di pena funzionano e se chi ci vive non ne esce inasprito. Nel mondo esterno, non viene vietata la circolazione delle macchine, perché ci sono gli incidenti stradali. Così nel carcere: chi fa qualcosa di sbagliato - ammesso che questo qualcosa esista - ne risponda, ma gli altri/e non devono vivere peggio per questo. *Presidente dell’Associazione “La gabbianella” Varese: una direttrice per i Miogni La Prealpina, 18 febbraio 2019 Carla Santandrea al posto di Giancarlo Mongelli che guiderà il carcere di Bollate. Oggi, lunedì 18 febbraio, entra infatti in servizio un nuovo capo della casa circondariale, una donna che ha maturato lunga esperienza poiché si occupa di carceri da 25 anni: Carla Santandrea. La nuova direttrice ha già salutato gli agenti e il personale amministrativo nel corso di un passaggio di consegne avvenuto un paio di giorni fa e ora si troverà a lavorare per un carcere relativamente piccolo ma con grandi problemi strutturali, di volta in volta saliti alla ribalta della cronaca. La nuova direttrice saprà di certo come affrontare la situazione: lascia dopo sette anni la casa circondariale di Como e prima del carcere lariano aveva lavorato negli istituti di Busto Arsizio, poi a San Vittore, come direttore aggiunto e quindi al Bassone. E proprio a Como ha avviato diversi progetti educativi. In riva al Lario invece si insedierà il vicedirettore del carcere di Bollate Fabrizio Rinaldi, mentre il direttore uscente varesino, Mongelli, prenderà il posto proprio di Rinaldi a Bollate. Non saranno pochi i problemi collegati alla struttura vecchia e con una manutenzione spesso condotta solo dai detenuti, che la nuova responsabile della casa circondariale si troverà ad affrontare. Un cambio di passo, quello della struttura di via Felicita Morandi, che sicuramente verrà accolto con fiducia anche dagli agenti della Polizia penitenziaria e dal personale amministrativo. Avellino: gli infermieri delle carceri verranno stabilizzati di Antonello Plati Il Mattino, 18 febbraio 2019 Svolta nell’assistenza sanitaria in carcere: è stato, infatti, riconosciuto come “lavoro subordinato” quello svolto nei penitenziari di Avellino e provincia da trenta paramedici che assicurano ai detenuti i livelli essenziali di assistenza (Lea). Si tratta di infermieri, fisioterapisti e operatori sociosanitari (Oss) che da oltre 10 anni sono impegnati nelle case circondariali di Bellizzi, Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi e Lauro e ai quali sono somministrate forme atipiche di contratto, la maggior parte inquadrati come liberi professionisti con partita Iva, “Una vittoria dei lavoratori”, dice Licia Morsa, segretario generale della Funzione pubblica Cgil. “Dopo una lunga battaglia sindacale - ricorda Morsa - abbiamo ottenuto l’avvio di un’attività ispettiva all’interno delle carceri, il cui esito, giunto pochi giorni fa, ha determinato l’individuazione di rapporti di lavoro subordinati per tutto 11 personale impegnato con partita Iva che presta servizio nei 4 istituti penitenziari della provincia di Avellino. Quello svolto dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro”. Dunque, l’iter è stato piuttosto lungo e solo grazie alla mediazione del prefetto è stato possibile portare a termine la trattativa con esito positivo. Spiega Morsa: “Sono state necessarie diverse convocazioni in prefettura per convincere il direttore generale dell’Asl di Avellino, Maria Morgante, ad accettare il confronto con le parti sociali”. Management e sindacati si incontreranno entro il prossimo 15 marzo per concludere la concertazione sull’organizzazione del servizio di medicina penitenziaria. “Tra qualche giorno - rivendica il segretario generale della Fp Cgil - il nostro grido di allarme compie un anno. Ci siamo immediatamente schierati al fianco di lavoratori precari, dimenticati da tutti, che svolgono un delicato servizio per conto dell’Asl. Fino a questo momento, erano sempre state ignorate le reiterate richieste inoltrate alla direzione generale di via Degli Imbimbo”. Poi la svolta che nel giro di un mese dovrebbe portare alla risoluzione. “Questi lavoratori - sostiene la sindacalista - rientrano nella procedura di stabilizzazione già avviata dall’Asl ai sensi della legge Madia. Tuttavia, nell’ultimo provvedimento adottato, l’azienda incomprensibilmente li lascia fuori”. Per questi e altri motivi la vertenza continuerà. “Risulta, infatti, incomprensibile - dice ancora Morsa - il motivo della gravissima carenza di organico e l’abbattimento della spesa nel comparto: anche su questo pretenderemo spiegazioni dall’Asl che a seguito di un decreto del commissario ad acta alla Sanità ha il compito di gestire i fondi”. La situazione più grave è quella di Lauro dove “presso l’istituto a custodia attenuata per madri, che dovrebbe ospitare fino a 35 detenute con bambini fino a 6 anni di età, risulta in servizio una sola unità che, ovviamente, non può ricoprire tutti i turni e assicurare i servizi essenziali nelle 24 ore”. Cagliari: il sottosegretario alla Giustizia Morrone visita il carcere di Uta Ansa, 18 febbraio 2019 Proseguono le visite nelle carceri italiane programmate dal sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone che tra sabato 16 e domenica 17 febbraio ha visitato la Casa circondariale di Cagliari-Uta Ettore Scalas, accolto dal provveditore vicario Pier Luigi Farci, dal direttore Marco Porcu e dal commissario Barbara Caria, e la Casa di reclusione Salvatore Soru di Oristano, accompagnato dal provveditore vicario e direttore Farci e dal commissario Salvatore Cadeddu. Si tratta di strutture sostanzialmente nuove, il carcere di Oristano è stato aperto nell’ottobre 2012, “ben organizzate e ben gestite”. Per quanto riguarda la capienza, nella Casa circondariale cagliaritana sono presenti 574 detenuti, di cui 143 stranieri, su un totale di 561 posti, mentre nel carcere di Oristano sono 250 i detenuti presenti, di cui 40 stranieri, rispetto alla capienza pari a 265. Ascoli: cuccioli, detenuti e telecamere, nel carcere una troupe de “L’Arca di Noè” vivereascoli.it, 18 febbraio 2019 Una troupe del programma televisivo di Canale 5 “L’arca di Noè”, condotto da Maria Luisa Cocozza, ha realizzato un servizio nel supercarcere di Ascoli Piceno. Protagonisti: detenuti e cuccioli del corso di Pet Therapy diretto da Chezia Carlini. Lo speciale, che andrà in onda domenica 8 febbraio all’interno del programma, dopo il Tg5 delle 13, è stato ambientato in parte nella sala conferenze della casa circondariale e in parte nel campo di calcio dell’istituto. Al microfono del giornalista Alessio Fusco, l’insegnante Chezia Carlini, che due anni fa ha portato per la prima volta nel carcere di Marino del Tronto il corso con i cuccioli, la sua collaboratrice, Valentina Irmici, proprietaria del Collie che partecipa alle lezioni, e i detenuti del giudiziario che seguono la Pet Therapy. Davanti alle telecamere, insieme al Collie, anche un cucciolo di coniglio. Le insegnanti hanno spiegato come si svolgono lezioni e quali risultati si ottengono dal contatto tra gli animali e i detenuti impegnati a confrontarsi con regole da rispettare e da trasmettere. Mentre i ragazzi del circondariale hanno raccontato l’esperienza soffermandosi sulle emozioni e sul calore che i cuccioli sono in grado di offrire. Il servizio è stato realizzato grazie alla disponibilità della direttrice dell’istituto, Lucia Di Feliciantonio, del corpo di Polizia Penitenziaria e alla collaborazione di Teresa Valiani, direttrice di Io e Caino, il giornale dell’istituto. Malala e le giovani rifugiate: “Le nostre vite in fuga dall’odio” di Ida Bozzi Corriere della Sera, 18 febbraio 2019 “Siamo tutti profughi” in libreria per Garzanti e in edicola con il “Corriere della Sera”. Nel 2012, Malala Yousafzai fu ridotta in fin di vita solo perché voleva andare a scuola, in Pakistan, “fucilata” sul pullman scolastico dai talebani, per i quali incarnava un’impensabile ribellione: una donna che studia. Sopravvissuta, Premio Nobel per la pace nel 2014, oggi ventunenne, continua a difendere le donne che fuggono da persecuzioni e guerre: a loro dà voce nel suo libro Siamo tutti profughi (scritto con Liz Welch, traduzione di Sara Caraffini, Giuseppe Maugeri, Chiara Ujka, pp. 165, in libreria per Garzanti e in edicola con il “Corriere della Sera” a e 12,90 più il costo del quotidiano), e lo fa per un motivo semplice: “Rimango sempre molto colpita - scrive Malala - quando la gente considera la pace come qualcosa di scontato”. Anche le ragazze di cui Malala raccoglie le testimonianze nel volume hanno creduto che la guerra sarebbe rimasta lontana, che i talebani sarebbero stati fermati nel Paese vicino, che il dolore non avrebbe colpito la loro vita. Invece accade. La guerra distrugge le case e smembra le famiglie, come racconta nel libro Zaynab, ragazza yemenita divisa dalla sorella durante la fuga. La persecuzione colpisce Farah, cui nel 1972 viene tolta la cittadinanza ugandese dal regime di Idi Amin, perché la famiglia appartiene a una minoranza: 150 mila persone scovate casa per casa, cacciate all’improvviso sotto la minaccia dei fucili. Sono impensabili le storie di queste donne: sfollate, rifugiate, dell’età di Malala o più giovani, in Siria o nello Yemen della guerra, nel Myanmar, in Guatemala (in appendice ci sono i numeri del fenomeno). Appartengono a diverse religioni - musulmane, cattoliche, avventiste - e sono costrette dalla violenza, dalle bombe, o anche solo dalla condizione femminile, a corse disperate attraverso il mondo. “Non ho scelto io di fuggire”, spiegano. E si chiedono: “Perché è successo? È questa la nostra vita, adesso?”. Sono atti di resilienza e di lotta: le donne devono continuare a combattere per la loro dignità anche dopo, nei campi profughi, quando la pace sembra ritrovata. Lo racconta Muzoon, siriana che Malala incontra in un campo: ma anche convincere una ragazza a rifiutare un matrimonio combinato tra le baracche, e a pretendere di studiare, è una piccola vittoria della speranza. L’odio cresce dentro il populismo di Massimiliano Panarari La Stampa, 18 febbraio 2019 Nell’aggressione ad Alain Finkielkraut si è consumato - un ulteriore punto di non ritorno per i gilet gialli. Gli insulti e il brutale attacco al filosofo lungo le strade di Parigi risultavano assai mal posti e improvvidi pure dal punto di vista politico, dal momento che l’aggredito è stato uno dei pochi che, all’interno del mondo intellettuale francese, ha dichiarato da subito di comprendere parecchie delle rimostranze e doléances dei gilets jaunes. E, quindi, in tutta evidenza, l’“odio assoluto” che ha avvertito nelle grida dei facinorosi in casacca gialla, pronti a passare alla violenza fisica, è quello nei confronti dell’ebreo, “il male assoluto, da additare ed estirpare per il “bene delle masse”, come ha scritto ieri Maurizio Molinari. Un circuito che parte dall’esclusione simbolica dalla comunità, ovvero dal “popolo”, il cui “tribunale” improvvisato si pronuncia istantaneamente additando il nemico da processare e punire: nella fattispecie Finkielkraut, che, agli occhi degli esagitati assalitori, alla colpa dell’origine ebraica cumulava anche quella di essere un accademico di Francia (ossia un componente della tanto detestata élite). E, dunque, un esemplare capro espiatorio (come aveva argomentato un altro membro dell’Académie française, René Girard) per l’estremismo di certi settori dell’odierno spirito dei tempi antipolitico e anti-establishment. Assistiamo così a quello che si configura come una specie di eterno ritorno delle tendenze di protesta del ceto medio, il soggetto sociale che sta anche al centro della rivolta neopopulista dei nostri anni. L’antisemitismo e la giudeofobia, a un certo momento, hanno sempre fatto la loro comparsa in questo tipo di mobilitazioni e malcontenti dal tardo Ottocento in poi. Ma, oggi, c’è una novità rilevante, perché è appunto la prima volta dal secondo dopoguerra che l’odio antiebraico fa capolino in un movimento di contestazione della classe media in Occidente. A ben guardare, non è casuale che avvenga proprio in Francia, dove l’antisemitismo - spesso intrecciato all’anti-Illuminismo - possiede una tradizione di lungo periodo, alimentata dall’estrema destra antiparlamentare dalla metà del XIX secolo in avanti, e da alcune frange della sinistra massimalista novecentesca. La leadership dell’arcipelago dei gilets gialli - peraltro piuttosto acefalo, e reclamante a ogni piè sospinto una generica forma di “democrazia diretta” - si trova, quindi, adesso di fronte a un bivio decisivo. Dal quale dipende a tutti gli effetti la sua credibilità come rappresentante di una protesta che, per quanto dura e accesa, sappia restare nell’alveo della strumentazione democratica (quando, per giunta, vari episodi inaccettabili l’hanno già oltrepassato). Se la finalità è quella di mantenere alta la tensione nel Paese e di massimizzare il numero dei partecipanti ai cortei - magari costruendo anche una carriera politica per un po’ di capi e capetti - tale movimento continuerà a fare da costellazione che attrae, accanto alle legittime proteste di molti cittadini, ogni tendenza rabbiosa e “contro” le istituzioni. Da cui le infiltrazioni acclarate dell’estrema destra, e la collera anche islamista delle banlieue che dall’antimacronismo passano, per l’appunto, all’antisemitismo. Oppure la sua leadership sceglierà (finalmente) di compiere un atto di responsabilità, isolando i violenti e le fazioni estremiste e nichiliste, e selezionando le istanze e le persone che vuole rappresentare. Un ragionamento che vale, al di qua delle Alpi, anche per il Movimento 5 Stelle, primo partito di governo italiano, che aveva avviato un’interlocuzione con uno dei raggruppamenti più sediziosi e insurrezionali della nebulosa dei giubbotti gialli. Questo non può più essere il tempo dell’ambiguità; e, perciò, colpisce e preoccupa assai l’assordante silenzio al riguardo dei vertici pentastellati. Migranti. Il Papa si fa fotografare con la spilletta “Apriamo i porti” La Stampa, 18 febbraio 2019 “Apriamo i porti”. È la scritta sulla spilletta che Papa Francesco tiene in mano mentre alla sua destra il sacerdote che quella spilletta gli aveva mostrato scatta un selfie. A postare la foto su Facebook è don Nandino Capovilla, parroco a Marghera (Venezia). Lo scatto è stato ripreso ieri, in occasione dell’incontro sul tema migrazioni, titolo “Liberi dalla paura”, promosso e organizzato dalla Fondazione Migrantes della Cei, dalla Caritas Italiana e dal Centro Astalli da venerdì 15 a oggi a Sacrofano e a cui Bergoglio ha partecipato nella prima parte. “Ha visto la spilletta che tenevo in mano e gliene ho spiegato il significato - scrive il sacerdote - Così Francesco l’ha presa e si è fatto scattare una foto tenendola in mano”. Alle spalle dei due un addetto alla sicurezza del Pontefice. Don Nandino riferisce inoltre che il Papa “ha chiesto di tenere per sé quella (spilletta, ndr) con cui ci ha regalato l’emozione di questa foto”. Don Capovilla è figura nota nella zona di Mestre, è infatti in prima linea con la sua parrocchia in numerose iniziative d’accoglienza, sia per italiani che stranieri. “Non dimentichiamo - dice il sacerdote - che mentre l’attenzione viene spostata sul mare, c’è chi fa finta di non vedere l’altra rotta, quella balcanica, che passa proprio attraverso i nostri territori e ci impegna nel dare assistenza ai tanti profughi che continuano ad arrivare”. Una settimana fa la rete solidale di cui don Capovilla è uno degli animatori ha manifestato nel centro di Venezia con oltre tremila persone che hanno voluto esprimere il loro “no” ad ogni forma di odio e discriminazione. “Le parole del Papa - racconta il sacerdote veneto - sono per noi un grande incoraggiamento”. Il riferimento è a parole come “Di fronte alle cattiverie e alle brutture del nostro tempo, anche noi, come il popolo d’Israele, siamo tentati di abbandonare il nostro sogno di libertà. Proviamo legittima paura di fronte a situazioni che ci sembrano senza via d’uscita”, dette da Bergoglio durante l’omelia della Messa celebrata venerdì pomeriggio a Sacrofano, per l’apertura del Meeting. L’esortazione è quella a “guardare oltre le avversità del momento, a superare la paura - ha aggiunto Papa Francesco - e riporre piena fiducia nell’azione salvifica e misteriosa del Signore”. Droghe. A quindici anni la prima dose di eroina di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 18 febbraio 2019 I dati di San Patrignano: ingressi in comunità in aumento dell’8,8%. Sempre di più le giovanissime. Alice aveva 16 anni quando lo scorso ottobre è morta a causa di un’overdose da “eroina gialla” in un bagno della stazione di Udine. Adele, sua coetanea, è stata stroncata da una dose letale di ecstasy a Genova. Due tragedie tutt’altro che isolate. A lanciare l’allarme droga tra gli adolescenti è San Patrignano, la comunità di recupero riminese che in oltre40 anni ha accolto oltre 26 mila tossicodipendenti e che oggi ne ospita 1.300. Secondo gli ultimi dati del suo Osservatorio, l’età media del primo consumo di stupefacenti è scesa a 15 anni. Per un ragazzo sudue, addirittura, avviene entro i 14 anni. E in media appena compiuti i 18 anni arriva il primo contatto con la cocaina (un consumatore su due) e con l’eroina (uno su quattro). I nuovi ingressi a “Sanpa”, in totale, sono aumentati dell’8,8 per cento dal 2015 e si è passati dai 468 ai 509 del censimento nel 2017: 424 ragazzi (83,3%) e 85 ragazze (16,7%). Però se si guardano i dati sui minorenni il divario fra i generi sostanzialmente si annulla: 15 ragazze (fra cui due 14enni) e 18 ragazzi. Fra le dipendenze primarie c’è un balzo della cocaina (dal 44% del 2015 oggi è al 55%), poi l’eroina (32%) e la cannabis (3%). “A cambiare fra i ragazzini è la velocità con cui si passa dalla cannabis a cocaina o eroina - spiega Antonio Boschini, vicepresidente e responsabile terapeutico della struttura romagnola. Mentre in passato il “salto” arrivava con la maggiore età, adesso accade già intorno ai 15 anni e siamo molto preoccupati”. A San Patrignano ogni giorno arrivano richieste da parte di persone in difficoltà. “L’aumento maggiore arriva proprio dagli under 18 e non riusciamo più ad accogliere tutti - continua Boschini - tanto che stiamo ipotizzando di aprire un terzo centro a loro dedicato. Fino a qualche anno fa ce li affidavano nella maggior parte dei casi a scopo “preventivo” per via di disturbi comportamentali o perché vittime di disagio sociale. Ora arrivano sempre più minori con problemi di eroina e cocaina, specialmente ragazze tra i 16-17 anni che magari hanno già contratto l’epatite. Sembra di affrontare di nuovo la piaga dell’eroina degli anni Settanta”. I motivi? “È difficile generalizzare ma i principali sono la fragilità delle famiglie e le conseguenze di una “cultura” dello sballo - dice Boschini - che fa sembrare ai giovani attraente assumere stupefacenti”. Crisi della famiglia confermata dal dato che fra i nuovi entrati cresce il numero di quanti hanno figli (da 68 a 90) e oltre il 26 per cento ha invece almeno un genitore con una dipendenza. “Io ci sono caduto in seconda media. Fare il falegname mi sta salvando” Ha compiuto da poco 18 anni. Per i servizi sociali della giustizia minorile avrebbe potuto far rientro a casa a Genova da qualche mese, lasciandosi alle spalle due anni e mezzo trascorsi a San Patrignano per disintossicarsi e riannodare i fili della sua vita. Il suo percorso si è compiuto. “Non ci ho pensato un attimo ad andare via proprio ora che sto anche per diplomarmi in Servizi socio-sanitari”, dice Fabio, nome di fantasia che cela la sua identità. Eppure per lui non è stato facile. “Non dimenticherò mai quel 19 agosto 2016 quando sono entrato qui, ricorda: è stato un trauma staccarmi dalla famiglia dove ho sempre vissuto con mia mamma e le mie due sorelle per ritrovarmi a vivere con 16 miei coetanei”. Fabio ha iniziato fumando cannabis a 12 anni. “Andavo alle medie e avevo problemi familiari. Non voglio alibi, ma ero frustrato perché vedevo mia mamma attaccata alla bottiglia. Un giorno ho avvicinato amici di amici che fumavano spinelli e ho provato a fare un tiro”. L’escalation è stata immediata. “Sono passato quasi subito alla cocaina, ho iniziato a non studiare più e mi sono allontanato dagli amici di sempre che non usavano queste sostanze. In terza media mi hanno bocciato”. Un cambio di frequentazioni che ha portato altre conseguenze. “Chi si drogava per me era diventato improvvisamente figo. Sbagliando, ho iniziato a pensare che la droga mi dava sicurezze, al punto di credere di essere tanto più forte di lei da non prendere il vizio”. Invece, tutto precipita. “Una sera ho visto mia mamma con la solita bottiglia in mano e gliel’ho strappata con forza; lei ha chiamato i carabinieri. Quando sono arrivati non si sono accorti che ero drogato e hanno segnalato ai servizi sociali solo lei. Così hanno stabilito che non potessi più vivere con lei. Poi, però, davanti al giudice mia madre ha raccontato tutto e mi sono ritrovato a Sanpa per disintossicarmi: è stata la mia salvezza”. Dopo l’impatto iniziale tutto è andato in discesa. “Non vedi l’illuminazione da un giorno all’altro, ma è un processo lento in cui capisci che hai sbagliato”. L’aiuto non arriva solo dagli educatori. “Per me è stato fondamentale un veterano che mi seguiva. Poi ho iniziato a lavorare nella falegnameria: ho imparato ad avere regole e ritmi sani. Infine, dopo otto mesi sono tornato sui banchi di scuola”. Una rinascita. “Mi sono riavvicinato ai miei genitori che, malgrado separati, hanno fatto un percorso parallelo con l’associazione dei genitori e ogni tre mesi ci vedevamo. Da poco sono persino tornato per qualche giorno a casa. Senza mio padre che mi spronava non ce l’avrei mai fatta”. Le speranze ora sono tante. “Dopo il diploma, voglio studiare cinema a Milano. Ora attribuisco meno peso a quello che la gente pensa di me, sono padrone delle mie scelte”. “Riprendete gli 800 guerrieri Isis altrimenti dovremmo liberarli” di Federico Rampini La Repubblica, 18 febbraio 2019 Il ricatto di Trump agli europei. Notte insonne per Donald Trump tra sabato e domenica, ma gli incubi sono per gli altri. “Europei, riprendetevi gli oltre 800 combattenti Isis che abbiamo catturato in Siria, e processateli”, intima il tweet presidenziale che piomba sul Vecchio continente alle prime luci dell’alba. Seguono altri tweet dello stesso tenore. “È ora che altri si facciano avanti; si sobbarchino il lavoro che sono perfettamente in grado di fare”. Trump commenta così le ultime notizie dal fronte siriano: l’Isis, detto anche Stato islamico quando aveva la folle ambizione di ricostruire un Grande Califfato in tutto il Medio Oriente (e arrivò a controllare un territorio vasto quanto l’Inghilterra, con 10 milioni di abitanti), è ormai agli sgoccioli. “È sul punto di cadere”, conferma il presidente americano: in Siria gli ultimi jihadisti sarebbero ormai asserragliati in un’area di soli 700 metri quadrati, almeno secondo la versione delle Forze Democratiche Siriane che hanno combattuto l’Isis con l’appoggio americano. Ma proprio perché la vittoria è alle porte, Trump è deciso a mantenere la promessa fatta ai suoi elettori, sul ritiro totale e veloce delle sue truppe. Di conseguenza si pone il dilemma: che fare dei prigionieri? Continuare a detenerli lì costringerebbe a prolungare una presenza di soldati americani in funzione di carcerieri, cosa che Trump non ha intenzione di fare. “L’alternativa non è positiva, saremmo costretti a rilasciarli”, twitta ancora il presidente, per ribadire che tocca agli europei farsene carico. Anche perché non pochi di quei jihadisti all’origine erano (e sono tuttora) cittadini europei, o residenti Ue: è il noto fenomeno dei “combattenti stranieri”, che all’apice del prestigio e della forza militare dell’Isis spinse alcuni immigrati islamici residenti in Europa a partire in Siria per prendere le armi e combattere nel nome del Grande Califfato. Non a caso i tweet notturni di Trump seguono di poco la notizia che un’adolescente con cittadinanza britannica, Shamima Begum, ha chiesto di poter tornare a Londra dopo aver partorito. La Begum partì per la Siria quindicenne, oggi ha 19 anni, dice di “non avere rimpianti” su quello che ha fatto, ma chiede di tornare nel suo paese d’origine. Proprio da Londra è arrivata la prima reazione a caldo, dopo i tweet di Trump: per nulla positiva. Il ministro dell’Interno Sajid Javid ha ricordato che “esistono leggi severe per impedire che tornino nel Regno Unito persone che rappresentano una grave minaccia; prevedono il ritiro della cittadinanza e il divieto d’ingresso. Una nuova normativa anti-terrorismo, approvata questa settimana, ci consente di designare come un reato l’aver viaggiato in certe regioni”. A sottolineare la consueta divisione tra europei, è di tenore opposto la reazione da Berlino. Dove invece il ministero degli Interni fa sapere che “tutti i cittadini tedeschi hanno il diritto di tornare in Germania, inclusi quelli che hanno combattuto per l’Isis”. Si stima che dal 2013 più di mille persone abbiano lasciato la Germania per andare a combattere “a fianco di gruppi terroristici in Siria o in Iraq”, secondo lo stesso ministero, che ricorda di avere diversi programmi per la loro “de-radicalizzazione” in caso di rientro. L’ultimatum lanciato agli europei perché si prendano i loro jihadisti e li processino, è una delle tante ricadute della decisione di ritirare le ultime truppe americane - circa duemila soldati - dalla Siria. Annunciata prima di Natale, quella decisione ha scatenato forti resistenze anzitutto negli Stati Uniti. Ad opporsi per primi furono i vertici militari americani, preoccupati di abbandonare un avamposto in Medio Oriente, in un’area dove già è dominante l’influenza della Russia e di altre potenze regionali nemiche o poco affidabili: Iran, Turchia. In seguito allo scontro col Pentagono si dimise da segretario alla Difesa, il generale James Mattis, in aperto dissenso con Trump. Dall’estero ci fu anche l’accusa agli americani di abbandonare al proprio destino gli alleati curdi, preziosi nella lotta all’Isis. Trump ha sempre ribattuto che lui mantiene le promesse elettorali; che l’America non deve più essere il gendarme mondiale; che la missione era sconfiggere l’Isis e questo obiettivo è ormai raggiunto. “Mio figlio da 10 mesi in galera nello Sri Lanka e non si sa nulla di lui” di Susanna Salvador Il Gazzettino, 18 febbraio 2019 L’unica certezza è che Antonio Consalvo, trentatreenne pordenonese, si trova in carcere in Sri Lanka, dallo scorso aprile, dopo essere stato arrestato perché aveva con sé della marijuana. Rinchiuso in uno stanzone con un’altra ottantina di detenuti nella capitale Colombo, senza alcun contatto con l’esterno, tantomeno con i parenti. A fare da tramite tra lui e il resto del mondo è un avvocato del posto, al quale lo stesso Antonio ha affidato l’incarico di difensore. “È lui a portargli da mangiare - racconta la mamma del 33enne, Graziella Catania -, perché il carcere non fornisce il cibo ai detenuti. I pasti se li devono pagare”. Ed è proprio la mamma a lanciare un appello affinché le autorità italiane - dall’Ambasciata alla Farnesina - si interessino all’accaduto in modo più pressante. “Sono dieci mesi che aspetta il processo - racconta la donna: ogni mercoledì lo chiamano per l’udienza, gli confermano lo stato di fermo e lo rimandano in cella senza aver fatto nulla”. Una situazione drammatica, viste anche le condizioni nelle quale è costretto a vivere il pordenonese. “Devono dormire a turno, perché lo spazio è minimo per ottanta persone e non possono stendersi a terra tutte insieme. Le condizioni igieniche non sono ovviamente delle migliori, tanto che durante la detenzione ha contratto un’infezione. La sola idea di quello che potrebbe capitargli mi fa venire i brividi. E non potergli parlare, non sapere come sta è come vivere un incubo. Da giorni non ho sue notizie”. Antonio Consalvo aveva trascorso qualche mese in Tailandia, Paese che ama e che conosce abbastanza bene e dove, come aveva detto alla sorella, aveva trovato un lavoro. Lo scorso aprile la decisione di rientrare in Italia, a Pordenone: l’aereo fa scalo a Colombo ed è proprio nell’aeroporto della capitale dello Sri Lanka che il pordenonese viene sottoposto a un controllo e la Polizia locale gli trova addosso della marijuana. Poca cosa, secondo la madre, praticamente poco più di quella che in Italia sarebbe considerata dose a uso personale e quindi senza nessuna ripercussione in ambito penale. Ma nello Sri Lanka la lotta alla droga passa anche per leggi (e pene) severissime, compresa la pena di morte in caso di grandi quantità di sostanze stupefacenti. Fortunatamente questo non è il caso di Antonio, che comunque è stato arrestato e rinchiuso in una cella con decine di altri detenuti, nessuno dei quali italiano, costretto a vivere in condizioni che di umano non hanno nulla. Graziella Catania ha appreso dell’arresto del figlio dall’ex marito e subito dopo ha contattato l’ambasciata italiana in Sri Lanka. Ed è grazie alle mail inviatele dai funzionari che è riuscita a sapere dove era il figlio e perché era stato arrestato. Poche notizie, certo, ma quanto bastava per tranquillizzare almeno un poco una madre che si trova a migliaia di chilometri di distanza dal figlio, rinchiuso nel carcere di un Paese straniero. Da un po’ di tempo, però, anche questo canale si è spento. Graziella ha allora contattato l’avvocato del figlio, servendosi di un programma di traduzione simultanea perché devono comunicare in inglese, lingua che la donna non conosce. E da qualche giorno non riesce nemmeno ad avere un collegamento con il legale, la qual cosa l’ha gettata nel panico. La Farnesina, dal canto suo, ha risposto che l’unica cosa che può fare è quella di mantenere i contatti con l’Ambasciata. Una spirale dalla quale la donna non riesce a uscire e che la costringe a vivere in una sorta di incubo quotidiano. “Chiedo solo di sapere come sta mio figlio, perché non è stato ancora processato, quando potrà tornare a casa. Ma non so a chi chiederlo, cosa fare ancora per avere sue notizie. È mio figlio, sono sua madre. Non posso non sapere nulla di lui”.