Carceri e stranieri in Italia. Il migrante espiatorio di Gabriele Arosio glistatigenerali.com, 17 febbraio 2019 I numeri non fanno la storia ma aiutano a leggerla. Non c’è nessuna correlazione tra i flussi di migranti in vario modo e vario titolo in arrivo in Italia e i flussi di migranti che vanno in carcere. A partire dal 2003 ad oggi il numero di stranieri residenti in Italia è più che triplicato (siamo passati da 1.464.663 a 5.047028). Il numero di stranieri residenti in carcere si è ridotto in percentuale di quasi un terzo (da 17.007 nel 2003, a 19.811 nel 2018). Se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti in media 1,16 finiva in carcere, oggi la quota è di 0,39. Un dato straordinario in termini di sicurezza collettiva e che smentisce ogni allarmismo sul tema. Dal 2008 al 2018 gli stranieri in carcere sono addirittura diminuiti (da 21.562 a 19.811) mentre quelli residenti sono aumentati di due milioni. Includere e offrire opportunità su tempi medio lunghi paga e garantisce sicurezza. La regolarità del soggiorno e dello status legato alla presenza in Italia è assai funzionale alla sicurezza, alla riduzione dei crimini e alla diminuzione del rischio di devianza. Una regolarizzazione generalizzata degli attuali irregolari determinerebbe tra gli stranieri un’ulteriore riduzione del rischio di devianza. La presenza di detenuti nelle carceri non è uniforme nelle prigioni italiane. Vi sono regioni con incidenza sulla presenza carceraria molto elevata e regioni in cui è particolarmente bassa. L’alta incidenza di stranieri è dovuta alla presenza di detenuti in stato di custodia cautelare, una misura adottata con molta più frequenza per gli immigrati (tra i detenuti in attesa di primo giudizio gli stranieri costituiscono in media ben il 37% del totale) mentre man mano che ci si avvicina alla condanna, diminuisce l’incidenza della componente non italiana (gli stranieri diventano il 31,4%). Gli stranieri usufruiscono molto meno delle soluzioni alternative al carcere a causa delle loro minori risorse economiche, linguistiche, legali e sociali. Gli stranieri incidono per il 38,9% tra i detenuti per violazione della legge sugli stupefacenti. È evidente che un provvedimento concreto e pragmatico di depenalizzazione e/o legalizzazione delle droghe, a partire da quelle leggere, ridurrebbe di molto la presenza degli stranieri in carceri. Per sognare un diritto penale che non si asservì mai alle idee xenofobe conviene rileggere papa Francesco: “Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina…Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. Nel 2019 siamo a questo punto? Dati e percentuali sono ricavati da Centro studi e ricerche Idos in partenariato con il Centro Studi Confronti, Dossier Statistico 2018 (progetto sostenuto con i fondi otto per mille della chiesa valdese). Innocenti in cella: indennizzi per 33 milioni. Ma a molti lo Stato nega il risarcimento di Filippo Femia e Nicola Pinna La Stampa, 17 febbraio 2019 Oltre 27mila casi di ingiusta detenzione dal 1992: all’erario sono costati 686 milioni di euro. I penalisti: “Troppi arresti facili, serve più cautela”. Finire in carcere senza aver commesso il reato. Gridare la propria innocenza, per mesi, e non essere creduti. Fino a convincersi, in certi casi, di essere colpevoli. Quello che sembra un delirio kafkiano è una realtà attuale. Non in un Paese lontano retto da un governo autoritario, ma in Italia: ogni anno mille persone sono vittime di ingiusta detenzione. Dal 1992 ad oggi 27.308 innocenti sono finiti in cella. Errori che sono costati alle casse dello Stato 682 milioni di euro di indennizzi. Ma il dramma spesso dimenticato è quello di chi non riesce neppure a ottenere un indennizzo. Anche nel 2018 gli errori commessi dai magistrati sono stati parecchi. E sono costati allo Stato anche tanti soldi. Il ministero della Giustizia per la prima volta ha deciso di non divulgare i dati, ma tutti i risarcimenti rientrano nei capitoli di spesa del Ministero dell’economia. E così si scopre che i casi sono stati 896 e che gli indennizzi per ingiusta detenzione hanno superato i 33, 5 milioni. Gli anni peggiori restano ancora il 2011 (con il maggior numero di casi: 1.718) il 2004 (record di indennizzi: 55 milioni) sono lontani, ma il fenomeno sembra avere ancora dimensioni preoccupanti. Da tempo la Onlus “Errorigiudiziari.com” cataloga e archivia le storie di ingiusta detenzione in un database unico in Italia. “Dopo aver conosciuto le vittime, lo sentiamo come un dovere civico - raccontano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi. Ti rendi conto delle conseguenze devastanti sul piano personale, familiare e professionale per il periodo passato ingiustamente dietro le sbarre”. C’è persino chi stacca il citofono perché il suono rievoca la notte in cui i carabinieri si sono presentati per l’arresto o chi non può stare in casa con porte chiuse, perché tutto riporta alla mente i passaggi da un braccio all’altro del carcere. Le tabelle che raccolgono i dati delle Corti d’appello sono solo la punta dell’iceberg. Perché il numero totale delle ingiuste detenzioni che si verificano ogni anno sono molti di più. Nelle statistiche ci sono solo nomi e cognomi di chi ha avviato un procedimento contro lo Stato e ottenuto un risarcimento. Ma non includono tutti quelli che hanno una sentenza di assoluzione definitiva in tasca e si sono visti respingere la domanda. Quantificarli non è facile, ma secondo le stime di “Errorigiudiziari.com” un terzo dei procedimenti si arena. Un altro capitolo riguarda chi quella domanda non la inoltra nemmeno. “Ottenere il risarcimento è sempre più difficile perché i giudici riescono a far ricadere la colpa dell’errore sulla vittima - denuncia il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza. Se uno si è avvalso della facoltà di non rispondere viene accusato di non aver contribuito a chiarire l’errore. Sembra che i giudici si facciano carico dei problemi di bilancio dello Stato per non dover pagare”. Ma quali sono le cause principali dell’ingiusta detenzione? “In primo luogo le intercettazioni mal interpretate”, sostiene Maimone. Per causare un equivoco basta lo scambio di una consonante in un cognome. “La legge, in teoria, prevede tutte le garanzie per prevenire queste situazioni - spiega il professor Leonardo Filippi, docente di procedura penale all’Università di Cagliari - tutto accade quando si sopravvaluta un indizio o una prova. Gli organi giudiziari spesso si allargano”. Eppure, i provvedimenti della Sezione disciplinare del Csm nei confronti dei magistrati che hanno ordinato arresti illegittimi sono rari. E su questo tema il Parlamento dovrà votare la proposta di legge del senatore di Forza Italia, Enrico Costa: “Prevede che le ordinanze con il risarcimento vengano trasmesse al Ministero della Giustizia e al Procuratore generale della Cassazione per valutare l’avvio del procedimento”. Il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick dice chele misure cautelari affrettate vengono usate “non come estrema ratio ma come prima forma di intervento”. E sembra d’accordo con lui Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, il distretto che guida la classifica per casi di arresti ingiusti. “Questa emergenza sembra quasi non interessare gli addetti ai lavori - ha detto nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario - quasi che le vittime costituiscano un dato fisiologico”. Il messaggio di Lupacchini sembra rivolto ai colleghi, come una specie di denuncia per “l’inadeguata ponderazione degli elementi di prova”. Tradotto: il carcere preventivo va ordinato solo in casi eccezionali. Come funziona Lo Stato stabilisce che nei confronti di chi è vittima di un’ingiusta detenzione deve essere versato un indennizzo. A differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi. L’indennizzo per un singolo giorno passato in carcere ammonta a 235,82 euro, mentre per gli arresti domiciliari è la metà: 117,91 euro. Il limite massimo è stato fissato in 516.450,90 euro, pari a sei anni, il numero massimo di giorni che la legge prevede per la custodia cautelare. Per ottenere l’indennizzo, la vittima deve fare richiesta al ministero della Giustizia e attendere il pronunciamento della Corte d’Appello. Oltre all’indennizzo si può poi chiedere un risarcimento per danno biologico, professionale ecc... derivante dall’ingiusta detenzione. Le mozzarelle di bufala scambiate per droga. Un’odissea durata 7 anni Francesco Raiola è uscito dal carcere due volte: il 12 settembre del 2011, il giorno in cui la porta della cella gli si è chiusa definitivamente alle spalle, e il 15 novembre del 2018, quando è tornato nella stessa caserma in cui era iniziato il suo lungo incubo. Ora indossa di nuovo la divisa dell’Esercito e lo Stato, oltre ad avergli versato un risarcimento, gli ha dovuto restituire anche quei “requisiti morali” che gli erano costati il congedo illimitato. Per tornare alla luce ci sono voluti sette anni e nel frattempo ci sono stati 21 giorni dietro le sbarre e altri 120 di arresti domiciliari a Scafati. Quando si ritrova nel tunnel giudiziario, Francesco ha 30 anni e presta servizio a Barletta. Dalle sue telefonate con amici e commilitoni, carabinieri e procura deducono che faccia parte di una banda di narcotrafficanti. Le intercettazioni causano l’equivoco. Mentre lui parla di un televisore, gli investigatori pensano sia un messaggio in codice per indicare un carico di droga. Una partita, di quelle di calcio, viene scambiata per un scorta di cocaina e persino l’acquisto di alcune mozzarelle di bufala, “ti porto io quella roba”, finisce per appesantire le accuse. Per il magistrato che coordina l’inchiesta su una banda di 70 presunti trafficanti, basta e avanza per ordinare l’arresto. Dalle missioni di pace all’estero all’accusa di essere un narcotrafficante il passo è breve. Ma per ottenere il proscioglimento non c’è neanche bisogno di un processo. L’accusa “perché il fatto non sussiste” cade durante l’udienza preliminare, anche se 4 anni di battaglia hanno lasciato molte tracce. Dopo altri due anni arriva anche il risarcimento per l’ingiusta detenzione (41 mila euro, addirittura il doppio della cifra richiesta), ma la sfida più difficile è quella per il lavoro. Perché all’Esercito non basta un’assoluzione. Giustizia ingiusta e manette facili: ogni anno mille innocenti in carcere di Luca Fazzo Il Giornale, 17 febbraio 2019 La presidente del Senato Casellati: “Vite calpestate, non è più tollerabile”. Finora lo dicevano molti avvocati e qualche coraggioso, isolato giudice. Adesso lo dice la seconda carica dello Stato. E il tema della giustizia ingiusta diventa un caso istituzionale. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati prende la parola in una cerimonia a Padova e denuncia lo scandalo che giorno dopo giorno si consuma nelle aule di tribunale italiane: i mille cittadini innocenti che ogni anno vengono sbattuti in galera per reati che non hanno commesso. Uno ogni otto ore. Dal 1992, quando Mani Pulite elevò i mandati di cattura a simbolo dell’efficienza giudiziaria, ventiseimila uomini e donne sono finiti in carcere sulla base di prove che non esistevano. “Donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà e la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata”, dice la Casellati davanti agli avvocati dell’Unione delle camere penali. È la prima volta che da una carica così alta si sceglie di puntare il dito sulla disinvoltura con cui si utilizzano le manette. “Sono numeri pesanti - ha ammonito la presidente del Senato - che non possono più essere sottovalutati e che ci obbligano a una necessaria riflessione sull’efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale, preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e le loro famiglie”. Sono tragedie, ricorda la Casellati, che non si chiudono con la scarcerazione, perché la vita degli innocenti finiti in carcere non è solo “danneggiata da una cattiva amministrazione della giustizia” ma è “spesso compromessa dalle conseguenze mediatiche di una misura cautelare o di una sentenza di condanna infondate sotto il profilo giuridico ma comunque sufficienti a radicare nella collettività un inestirpabile sentimento di condanna sociale”. La sentenza dei talk show è una sentenza senza appello. A sostegno della sua denuncia, la Casellati cita “l’ultima relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali elaborata dal ministero della Giustizia”. Sono dati che rispecchiano una realtà nota da tempo a chiunque frequenti davvero le aule di giustizia (bisogna ricordare che il presidente del Senato di mestiere fa l’avvocato) ma finora, incredibilmente, considerati tollerabili, come se una simile quota di assoluzioni fosse la fisiologica conseguenza della dialettica tra accusa e difesa. Anche il mese scorso, quando in tutta Italia vennero inaugurati gli anni giudiziari, nelle decine di relazioni degli alti magistrati questa emergenza non veniva citata. Con una sola eccezione: quella di Massimo Terzi, presidente del tribunale di Torino, che si definì “scandalizzato” dal numero di innocenti inghiottiti dal tritacarne giudiziario, “un sistema non conforme ai principi di democrazia”. La denuncia di Terzi sembrava caduta nel vuoto. Invece ora la Casellati rilancia l’allarme con tutta la sua autorevolezza. È vero, dice il presidente del Senato, che “nessun ordinamento può dirsi perfetto e immune da errori sul piano processuale”, e che “errori possono verificarsi anche indipendentemente dalla sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi li commette”. I giudici, cioè, possono sbagliare anche in buona fede. Ma proprio per questo la Casellati difende esplicitamente l’attuale struttura della giustizia penale, i tre gradi di giudizio che oggi molti magistrati vorrebbero limitare in nome dell’efficienza: la possibilità dei ricorsi “esprime la necessità di contenere quanto più possibile il verificarsi di tali anomalie e di garantire che il processo possa giungere alla sua conclusione naturale: l’accertamento della verità”. La Chiesa e il suo ruolo tra i detenuti di Paolo Solombrino linkabile.it, 17 febbraio 2019 Il termine “carcere” indica un luogo in cui sono reclusi individui resi privi di libertà personale, poiché riconosciuti colpevoli di reati, con annessa pena detentiva, oltre a rappresentare una “ punizione coercitiva” che porta all’isolamento del detenuto, oppure alla negazione stessa della propria dignità personale. A sostegno dei carcerati interviene l’azione pastorale nelle carceri, ispirata dai principi evangelici fondamentali per suscitare prassi di misericordia nei confronti delle persone ristrette, oltre ad offrire i loro percorsi di guarigione. Questo il tema principale del libro “La Chiesa in carcere” - il documento di base pastorale nell’ambito del penale e prassi di misericordia (DB), a cura di Carmine Matarazzo, direttore dell’Istituto di Scienze Pastorali della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, pubblicato da Edizioni Dehoniane Bologna (EDB) il 1 ottobre 2018. Il testo analizza il momento di crisi nelle carceri italiane, dal punto di vista di cinque persone impegnate nel recupero sociale dei detenuti, con un unico punto in comune: il DB, presente nel testo in forma integrale. Dopo la presentazione del cardinale Crescenzio Sepe, Matarazzo cita subito le parole di Gesù, che ci invita a far visita anche ai carcerati, portando il lettore ad una riflessione sulla logica dei figli di Dio, riconosciuti tutti sotto l’unica paternità divina, pensiero che sarà la base di un mondo in cui le regole avranno funzione liberatoria e non coercitiva. Secondo il DB il carcere deve essere quindi un luogo di riconciliazione. Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nella carceri italiane, pone l’attenzione su come la Chiesa ascolta i detenuti, fargli capire che la loro condanna non è l’ultima parola sulla loro vita, e che Dio non dimentica, anzi, non “scarta” nessuno. Il cappellano della Chiesa circondariale di Poggioreale, Franco Esposito, assume invece toni più formali, spiegandoci i propositi del DB, che si propone tre obiettivi fondamentali: sostenere la formazione dei credenti impegnati nell’ambito della giustizia penale; favorire il tipo di giustizia insegnatoci da Dio; promuovere strutture segno dell’amicizia di Dio verso le persone giudicate colpevoli. Fondamentale ed esplicativo anche il capitolo del testo a cura del docente e responsabile del “Progetto Carcere” dell’azione Cattolica dell’arcidiocesi di Napoli, Antonio Spagnoli, che ci parla del lato “missionario” del DB, ossia l’offrire ai detenuti un percorso di fede finalizzato al recupero totale del carcerato, ricordandoci di non identificare un uomo guardando solo il male che ha compiuto. A darci più ampie vedute sulla situazione delle strutture penitenziare è infine Samuele Ciambriello, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nella regione Campania, che ci introduce al suo pensiero dando una descrizione della figura del garante regionale nell’ambito delle iniziative della solidarietà sociale. Parla del concetto di “liberare e aiutare a liberarsi”, una cooperazione reciproca tra chiunque abbia a che fare coi detenuti al fine di instaurare una relazione autentica e di ascolto con loro, cosa che non può essere delegata però ad un rappresentante delle forze dell’ordine. Caso Diciotti. L’autodenuncia del governo: indagati anche Conte, Di Maio e Toninelli di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 febbraio 2019 Presto gli atti dalla Procura di Catania al Tribunale dei ministri. Hanno raggiunto lo scopo che forse si prefiggevano quando si sono autodenunciati: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il suo vice Luigi Di Maio e il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli sono indagati per sequestro di persona in concorso con Matteo Salvini. La Procura di Catania ha ricevuto dal Senato le memorie con cui i tre rappresentanti del governo hanno scritto di aver condiviso le scelte del ministro dell’Interno nella gestione del “caso Diciotti”, con la conseguente necessità di iscrivere i loro nomi nel registro degli indagati. Ed entro il termine di due settimane previsto dalla legge trasmetterà i documenti al Tribunale dei ministri (avvisando gli interessati) con le proprie richieste. È molto probabile che il procuratore Carmelo Zuccaro proporrà di archiviare l’accusa, avendo fatto lo stesso per Salvini. Dopodiché per il collegio di tre giudici che ha già chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere contro il responsabile del Viminale, cominceranno a decorrere i 90 giorni entro cui potranno svolgere indagini e dovranno decidere se mandare tutto in archivio o sollecitare il Parlamento a poter processare anche i nuovi indagati. Come hanno già deliberato per Salvini. Per Conte, che non è parlamentare, la decisione spetterebbe al Senato, mentre per i deputati Di Maio e Toninelli toccherebbe alla Camera. Ma dal momento in cui le carte arriveranno al tribunale dei ministri, tutto si farà più incerto rispetto agli “atti dovuti” che si sono susseguiti finora. Perché si aprono diversi possibili scenari. L’indagine a carico dei premier e dei suoi colleghi di governo, infatti, non ferma la procedura avviata per Salvini, sul quale la Giunta per le autorizzazioni dovrebbe pronunciarsi martedì prossimo, e l’aula di palazzo Madama entro il 24 marzo. Questi sono i tempi previsti dalla legge costituzionale che regola i processi ai ministri, e non è prevista una sospensione (sebbene il caso sia senza precedenti) in caso di successive imputazioni connesse. Se dunque il Senato negasse l’autorizzazione a procedere per Salvini, è possibile che questa scelta politica incida sulla decisione dei giudici, nella previsione che il “no” del Parlamento si replicherebbe per gli eventuali correi. Tuttavia non sarebbe una strada obbligata né scontata, giacché le decisioni giudiziarie restano autonome rispetto a quelle politiche. Del resto non è nemmeno certo che i giudici - sia pure convinti che il reato di sequestro di persona dei 177 migranti lasciati per cinque giorni a bordo della Diciotti sia stato commesso - optino per la corresponsabilità penale del premier, del suo vice e del ministro dei Trasporti. Nelle memorie mandate a Catania (come chiesto subito dall’ex magistrato ed ex presidente del Senato Pietro Grasso), nessuno dei tre ha scritto di aver deciso insieme a Salvini di non concedere il permesso di sbarco, cioè l’atto concreto con cui si s’è consumato il presunto sequestro. Conte, Di Maio e Toninelli parlano di condivisione in termini più o meno generici. Il primo affermando che “le determinazioni assunte (da Salvini, ndr) sono riconducibili a una linea di politica sull’immigrazione che ho condiviso con tutti i ministri competenti, in coerenza con il programma di governo”; gli altri due sostenendo che “l’azione del governo e le decisioni del ministro dell’Interno ad esse relative sono da imputarsi collegialmente in capo anche ai sottoscritti”. Sempre in teoria, il tribunale dei ministri potrebbe decidere che non ci sono gli estremi del concorso penale e decidere l’archiviazione anche prima del voto del Senato, delimitando così la decisione politica sul processo al solo Salvini. Ma si tratta di ipotesi, e gli esiti sono imprevedibili. Per adesso c’è solo l’avvio della nuova indagine. Caso Diciotti. I ministri non sono al di sopra della legge di Stefano Passigli Corriere della Sera, 17 febbraio 2019 Caso Diciotti: Salvini potrebbe aver commesso un reato anche se la sua è stata una decisione “politica” e condivisa dall’intero esecutivo. La richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini ha determinato una forte tensione all’interno della maggioranza. Dopo l’iniziale “Processatemi!”, declamato a gran voce dall’interessato con l’invito ai senatori del M5S a votare secondo coscienza, Salvini - per evitare una possibile condanna e la caduta del governo - ha infatti fatto una brusca marcia indietro, affermando che la sua è stata una decisione “politica” e chiedendo la solidarietà dell’alleato di governo e dello stesso premier. La relazione del presidente della Giunta per le Autorizzazioni Gasparri, citando la legge 219 del 1989, sposa la tesi che la decisione di Salvini sia stata una decisione del governo, presa per tutelare “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante”, o comunque “un preminente interesse pubblico”. L’intero impianto della relazione di Gasparri poggia tuttavia su fondamenti giuridici assai dubbi. In primo luogo il fatto che il nostro ordinamento preveda una speciale procedura per i reati ministeriali significa che un ministro non è al di sopra della legge, e che nel corso della sua attività possa commettere un reato. Appellarsi alla natura “politica” del suo agire non è dunque di per sé un elemento dirimente, in particolare quando si consideri che il diritto internazionale prevede il divieto di respingimento di quanti abbiano diritto di accesso al territorio nazionale specie a norma degli articoli 2 e 10 della nostra Costituzione che disciplinano in termini perentori il dovere di solidarietà e il diritto di asilo. Del pari affermare che il ministro ha agito per “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” non elimina il fatto che tale interesse vada bilanciato con altri interessi costituzionalmente rilevanti, quali quelli già ricordati nei suindicati articoli 2 e 10 della Costituzione. Paradossale è inoltre affermare - come fa Gasparri - che il Senato non possa estendere la propria valutazione “alla scelta dei mezzi” con cui il governo persegue un preminente interesse pubblico: se il Parlamento non potesse valutare i “mezzi” utilizzati dall’esecutivo il suo ruolo verrebbe negato alla radice. Analogamente, affermare che comunque si è agito per “un preminente interesse pubblico” non elimina la possibilità che Salvini sia incorso non solo e non tanto in quel reato di sequestro di persona che viene ipotizzato dal Tribunale dei Ministri, quanto in un abuso di potere. La competenza sui porti, e sulle modalità per attraccarvi, è infatti del ministro dei Trasporti Toninelli, e non del ministro dell’Interno competente a regolare le condizioni di accesso al territorio nazionale di quanti però siano già giunti ai suoi confini (nel caso di una nave italiana - come la Diciotti - i migranti erano già sul territorio nazionale, il che rende il respingimento effettuato dal ministro ancor più grave). La richiesta del Tribunale dei Ministri ha indubbi motivi di fondamento, e non deve dunque sorprendere che tutta la maggioranza - e lo stesso premier Conte - si siano affannati ad affermare che la decisione di Salvini era stata una decisione dell’intero governo, e quindi politica, e non individuale. La ragione di questa improvvisa assunzione di collegiale responsabilità è semplice: se Salvini non ha competenza sui porti che è di Toninelli, e se solo dopo lo sbarco la competenza diviene del ministro dell’Interno, il suo impedire un attracco configura un abuso di potere, così come il non rispondere ad una richiesta d’attracco da parte di Toninelli configurerebbe una omissione di atti d’ufficio. Tutto però si sana se vi è stata una decisione collegiale di governo. Ma le decisioni di governo non sono informali e non si possono inventare a posteriori. Il Consiglio dei Ministri è preceduto da un pre-consiglio, ha un preciso ordine del giorno, che in molti casi è prassi sottoporre preventivamente alla conoscenza del presidente della Repubblica, e verbalizza le proprie decisioni. Se una decisione collegiale di governo vi è stata, il governo produca i verbali delle sedute in cui tale decisione è stata assunta, e non solo tardive dichiarazioni di Conte o di questo o quel ministro. Dubito che il governo potrà farlo; in tal caso, i comportamenti di Salvini si configurano come veri e propri diktat all’intero governo e la copertura che ne viene oggi tentata dal premier non dovrebbe avere rilevanza. Se una regolare decisione di governo non c’è stata, anche una tardiva piena copertura politica da parte del premier e dei ministri 5 Stelle non sarebbe sufficiente a far cadere la fondatezza della richiesta di autorizzazione a procedere. Per rendere Salvini non processabile la base dei 5 Stelle dovrà votare sulla piattaforma Rousseau contro la richiesta della magistratura inquirente negando la propria storica posizione in proposito. Ciò nonostante, prevedo che lo farà, anche se con qualche mal di pancia, perché almeno fino alle elezioni europee i due partiti non sembrano pronti a rompere la loro alleanza (salvo ulteriori sconvolgimenti nelle prossime elezioni regionali, o purtroppo drastici avvitamenti dell’economia). Tutte le possibili alternative - cambi di alleanze, scissioni, elezioni anticipate - avverranno dopo. Quanto è certo è che le difficoltà degli italiani non sono finite e che la condotta dei partiti di governo le aggrava. Caso Diciotti. Scabbia, vestiti bruciati, donne da curare. Le verità nascoste di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 17 febbraio 2019 I documenti del ministero della Salute. I tormenti della Grillo e il silenzio dei colleghi in chat. Il no di Di Maio a un intervento umanitario. Documenti riservati e testimonianze raccolte nel ministero della Salute raccontano una storia finora nascosta sul caso Diciotti. La nave della Guardia costiera, con a bordo 177 migranti raccolti il 16 agosto, attracca nel porto di Catania alle 23,49 del 20 agosto. Per i successivi due giorni, recita un report interno, il ministero s’informa “esclusivamente attraverso i media”. A bordo due medici volontari dell’Ordine di Malta. A terra quelli dell’Ufficio sanitario marittimo, che danno “reperibilità H24”, ma a cui è preclusa ogni attività. La mattina del 22 agosto la capitaneria comunica ai medici “l’assenza di novità di carattere sanitario”. E il comandante della Diciotti rassicura: “Situazione tranquilla”. Ma alle 11 lo stesso Kothmeir scende dalla nave, si precipita nel presidio sanitario e chiede di essere visitato “dovendo conferire con il procuratore di Agrigento” Luigi Patronaggio, che sfidando l’assenza di nulla osta sanitario è in arrivo per un’ispezione. Alle 14 la capitaneria dà il nulla osta “per urgenti motivi di indagine”, predisponendo “un percorso protetto” per il procuratore. Per la prima volta, a quasi otto giorni dal naufragio, qualcuno sale a bordo per sincerarsi delle condizioni sanitarie. Non è un medico, ma un magistrato. I migranti vivono giorno e notte all’aperto, dormono per terra, dispongono di 2 water e 2 docce per tutti. Il procuratore minorile di Catania, Caterina Ajello, chiede lo sbarco dei 27 minori non accompagnati. Ferite e malattie Alle 20 la prefettura allerta telefonicamente i medici a terra. In quattro arrivano al molo di Levante, in attesa dell’autorizzazione che Salvini dà via Facebook. Alle 22,40 comincia lo sbarco dei minori: 25 uomini e 2 donne di nazionalità somala ed eritrea, visitati per oltre un’ora. Due hanno ferite da arma da fuoco. Diciotto su 27 “segni e sintomi di scabbia”. All’esito di “un’accurata anamnesi”, i medici registrano che “in nessun caso la durata del viaggio dal Paese di origine risulta inferiore a due mesi”. Sulla banchina, ai malati vengono somministrati i primi farmaci anti scabbia e cambiati gli abiti. Quelli vecchi saranno bruciati in un luogo appartato. Di notte vengono portati nei centri di accoglienza dove si attiva il protocollo per “escludere l’incubazione di malattie infettive”. Per scongiurare un’epidemia, i medici prescrivono anche “la sanificazione della nave e del tratto di banchina” dov’è avvenuto lo sbarco, “nonché dei mezzi utilizzati per il trasporto dei migranti”. I timori maggiori sono per i migranti rimasti a bordo: 75 su 150 “presentano scabbia; cinque in stato avanzato”. Il primo trattamento medico “viene eseguito a bordo”. “Seguiranno aggiornamenti”, recita il rapporto del ministero. La sera del 22 agosto cambia anche il tenore delle comunicazioni tra la ministra della Salute e i suoi collaboratori, ai quali chiede: “Abbiamo mandato ispettori a bordo?”. “No, al momento non risultano necessità di evacuazione”. L’indomani la Grillo parla con Palazzo Chigi. Le dicono di “comunicare che la situazione sanitaria è sotto controllo”. Quindi “nessuna emergenza”. La ministra chiede aggiornamenti periodici. Ne riceve ogni 6/8 ore. “Purtroppo scabbia e pediculosi sono quasi la norma in situazioni così precarie”, le spiegano. Nessuna attività da parte del ministero per altri due giorni, sebbene il 23 il comandante della nave dica a Riccardo Magi, deputato di +Europa salito a bordo: “Siamo già oltre il tempo massimo”. Il 24 i migranti cominciano lo sciopero della fame e della sete. Il presidente dell’Assemblea regionale siciliana Gianfranco Micciché porta a bordo biancheria intima per le donne, “che non si cambiano da due settimane”. Undici gli raccontano di aver subito violenze in Libia. A Roma è un giorno agitato. La Grillo si chiede se aprire un fronte umanitario nel governo. Nella chat dei ministri parla delle donne, vorrebbe farle scendere. Nessuna risposta. Si ferma. “Manca copertura politica”: Di Maio vuole tenere la linea dura. Anche per un comunicato stampa serve l’autorizzazione a Palazzo Chigi. La verità è che “siamo stati scarsamente coinvolti e poco informati dai ministero dell’Interno e delle Infrastrutture”. La Grillo vuole cautelarsi. Ordina alla sua segreteria di raccogliere tutta la documentazione, “perché finora non è chiaro chi ha fatto cosa”. Chiede dello sciopero della fame e se il trattamento antiscabbia sia somministrato a tutti. Assolutamente sì, le dicono, “è fondamentale in situazione di tale promiscuità oltre al cambio abiti e alla disinfestazione dei locali”. Il comandante Kothmeir, che in pubblico spiega che “la condizione dei migranti è più che soddisfacente”, la mattina del 25 chiede riservatamente per iscritto un sopralluogo “in relazione al perdurare della permanenza a bordo e tenuto conto del mutevole quadro meteo”. Teme per la “popolazione ospite” e per l’equipaggio. Si attiva il reparto regionale patologie infettive. Otto tra medici e infermieri salgono a bordo. E scrivono: i migranti 101 e 182 hanno scabbia e sospetta tubercolosi; i migranti 82, 120 e 179 scabbia e sospetta polmonite; il 97 fistola uretrale infettata. “Necessari ulteriori urgenti accertamenti clinici ed esami di laboratorio” che sulla nave “è impossibile eseguire”. Inoltre “viene segnalato il caso di 11 donne, di cui 3 affette da scabbia, per le quali si sospetta una pregressa violenza sessuale” e si chiede di attivare il codice rosa “previo accertamento clinico ostetrico-ginecologico”. Tutte queste “ulteriori operazioni sanitarie”, concludono, “si ritiene debbano essere attivate nel più breve tempo possibile stante l’evolutività delle patologie, la promiscuità attuale e l’eventuale diffusione ai membri dell’equipaggio”. È il primo report sanitario analitico del ministero. A dieci giorni dal soccorso. Viene inviato agli altri ministeri. A questo punto tutti sanno. Il contrammiraglio Sergio Liardo, sentito dalla Procura, mette a verbale: “La situazione a bordo resta sempre precaria e tende ad aggravarsi”. Il comandante della Diciotti allestisce sul ponte tende da campo. Al ministero aumenta la fibrillazione. Da Palazzo Chigi arriva l’ok per un comunicato stampa, mentre il dipartimento prevenzione si attrezza “per lo sbarco dei migranti fragili con trasferimento al reparto infettivologico dell’ospedale Garibaldi”. La Grillo parla con il medico a capo del presidio di Catania. Si attendono “i test di laboratorio per eventuali quarantene a bordo”. Chi sta peggio deve scendere, a costo di fare una forzatura. Nel pomeriggio sbarcano “sei migranti che necessitano di urgenti accertamenti clinici ed esami di laboratorio”. Poi la Grillo viene rassicurata da Palazzo Chigi: la vicenda è in via di soluzione. A mezzanotte il Viminale autorizza lo sbarco. “Abbiamo costantemente assicurato ogni necessaria assistenza ai migranti sempre privilegiando la salvaguardia delle vite umane e della dignità delle persone”. Così il premier Conte in Senato, il 12 settembre. Ma in quei giorni, al ministero della Salute, non ne erano così certi. Non abbassiamo l’età punibile, al posto dei baby-bulli puniamo i loro genitori di Vittorio Feltri Libero, 17 febbraio 2019 Questa storia del bullismo dilagante è stucchevole. Non se ne può più. Anche ai miei tempi i ragazzi violenti o almeno rompiscatole abbondavano. E ovviamente non godevano di buona fama. Ricordo un episodio di quando frequentavo la quinta elementare. Andavo a scuola a piedi. Nevicava. E venni colpito alla tempia da una palla appunto di neve mischiata alla ghiaia. Rimasi intontito per qualche istante. Allorché mi ripresi volsi lo sguardo all’altro lato della strada e vidi due coetanei che ridevano. Attraversai e andai loro incontro. Vidi che uno di essi aveva orecchie grandi. Gliene afferrai una con tutta la forza e lui cadde a terra. Le orecchie sono un punto debole. Una volta che il ragazzino fu atterrato, gli sferrai un calcio nel fianco. Il suo compare spaventato tagliò la corda. Sintetizzo. Qualche giorno dopo incontrai di nuovo quello a cui avevo menato, il quale mi salutò con un sorriso. Diventammo amici. Anche da grandi ci siamo talvolta frequentati senza alcun risentimento, aperitivo, risate, conversazioni. Da quell’episodio ho tratto un insegnamento. Tutti i giovinetti sono inclini al bullismo. E chi ne subisce le angherie deve reagire, altrimenti nella vita sarà sempre succube. Questo per dire che certe aggressioni tra bambini e adolescenti non sono una novità di questi anni. Sono sempre avvenute e non è il caso di fame una tragedia. Ciascuno di noi, anche in tenera età, è obbligato a difendersi da ogni soperchieria e a reagire, a costo di prenderle. Non bisogna mai cedere, la viltà e la paura non pagano. Anzi, ti rendono fragile e predispongono a essere vittima dei prepotenti. Questa lunga premessa per introdurre una riflessione. La Lega nei giorni scorsi ha proposto di abbassare da 14 anni a 12 l’età di coloro che vanno puniti qualora si rendano responsabili di atti intimidatori più o meno eclatanti verso minori o adulti. Non siamo d’accordo. Mettere in galera i bambini è sempre sbagliato. Essi non sanno ciò che fanno e rinchiuderli non serve a metterli in riga. Esagero: andrebbero castigati i genitori che non sono stati capaci di educarli. Le famiglie ormai sono sfasciate. Non sono più capaci di insegnare ai figli come ci si comporta nella società imperfetta in cui viviamo. A tavola non si parla, ciascuno pensa ai fatti propri, i parenti stanno incollati al cellulare, la prole si trastulla al computer, la mamma spadella e sbuffa. Il dialogo è stato abolito. Siamo alla completa incomunicabilità. Ovvio che i fanciulli, trascurati come mosche, crescano malamente e privi di basilari norme etiche. Poi vanno per strada e si comportano quali selvaggi. E evidente che in galera per certi reati non dovrebbero finire i pargoli bensì il padre e la sua sposa distratta, entrambi rei di non aver saputo fare il loro dovere di procreatoti. Mandare dietro le sbarre un dodicenne non ha senso, se non quello di perpetuare un errore imperdonabile: attribuire ai bimbi le colpe delle loro famiglie sciamannate e senza spessore morale. La banda delle toghe sporche di Paolo Biondani L’Espresso, 17 febbraio 2019 Sentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. Una rete di giudici corrotti, da Milano alla Sicilia. Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti, da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa, riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice, di qualunque grado. Al centro dello scandalo ci sono i massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino annullare le elezioni. L’indagine della procura di Roma ha già provocato decine di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi con i soldi all’estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e sentenze svendute in serie, “a pacchetti di dieci”. Con tangenti pagate anche per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la corruzione. L’antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il politico siciliano, secondo l’accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore, un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla l’elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell’ottobre 2014 conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio 2018 come grandi corruttori di magistrati. L’esistenza di una rete strutturata per comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016, in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi, vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, “un elenco di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie”, con nomi di magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi altrui, chiusi in una busta con il nome proprio dí Mazzocchi. Negli stessi mesi Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l’accusa di essersi fatto corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di Mazzocchi, ma anche di - “magistrati di Roma” e “ufficiali della Finanza”. Ma si rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra ricattatoria: l’ex giudice cerca di “controllare questa rete riservata” di magistrati e ufficiali “in debito con lui per i favori ricevuti”. Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue “raccomandazioni” a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e due società immobiliari di famiglia dell’avvocato Calafiore, che progettavano speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza. L’inchiesta riguarda molti verdetti d’oro. Russo è accusato anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi contratti pubblici all’impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio: secondo l’accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore. Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato. A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche, secondo l’accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso. Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo l’ordinanza d’arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l’ex giudice ha versato in banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni. Amara, come avvocato siciliano dell’Eni, è anche l’artefice della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno 88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria ipotizzando un inesistente complotto contro l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell’Eni in Nigeria e Congo. Dopo l’arresto, Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni italiane in Africa. Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla giunta dell’ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato. A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano 300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L’ex ministro Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi nelle sue sentenze siciliane. Tra i legali ora agli arresti c’è un altro illustre avvocato, Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l’imprenditore Alfredo Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un “arbitrato libero” (un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo. Proprio lui, l’ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione. Messaggi offensivi: niente reato se sono reciproci La Stampa, 17 febbraio 2019 Davanti alla Corte di Cassazione cadono definitivamente le accuse nei confronti di una donna, che invece era stata ritenuta colpevole dal Tribunale. Decisiva è la sottolineatura della reciprocità delle offese. Messaggi offensivi a raffica. Sotto accusa una donna, che ha tempestato di messaggi il cellulare di un uomo. A salvarla, però, è il ‘botta e risposta’, cioè il fatto che il destinatario le abbia replicato a tono (Cassazione, sentenza n. 7067/19, sez. I penale). Messaggi. In Tribunale la donna sotto processo viene ritenuta colpevole del reato di “molestia telefonica” per aver “recato disagio a un uomo attraverso reiterati messaggi telefonici di contenuto ingiurioso e minaccioso”. Di conseguenza ella viene condannata alla “pena di 200 euro di ammenda” e a versare “200 euro” a titolo di “risarcimento” alla persona offesa. Scambio. Tuttavia, i Giudici della Cassazione evidenziano un dettaglio non secondario della vicenda: “l’esistenza di uno scambio reciproco di offese” fra la donna e l’uomo. Questo elemento cambia completamente le carte in tavola. Per i Giudici, difatti, bisogna tenere bene a mente che “non è configurabile il reato di molestia o di disturbo alle persone” - previsto dall’art. 660 del codice penale - “allorché vi sia reciprocità delle molestie”, proprio come in questa vicenda. Impossibile, di conseguenza, ritenere punibile il comportamento tenuto dalla donna, concludono i Magistrati. Sanremo (Im): muore suicida agente di Polizia penitenziaria originario della Sardegna Comunicato Sappe, 17 febbraio 2019 Un Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, di 48 anni, originario della Sardegna e in servizio nel carcere di Sanremo, si è tolto la vita questa mattina, sparandosi con la pistola d’ordinanza. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “L’uomo, D.M., aveva appena iniziato il turno di servizio in carcere, alle 8, ma si è poi allontanato e, nei pressi di un cimitero adiacente la struttura detentiva, si è tolto la vita”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano”, commenta. “Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, molto disponibile ed era sempre a disposizione degli altri. Per questo risulta ancora più incomprensibile il suo terribile gesto, tanto più se si pensa che era padre di due figli”. Capece non entra nel merito delle cause che hanno portato l’uomo a togliersi la vita, ma sottolinea come, “pur essendo importante evitare strumentalizzazioni, è fondamentale e necessario comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. Non può essere sottaciuto ma deve anzi seriamente riflettere la constatazione che dal 1997 ad oggi sono stati complessivamente più di 145 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita. Non sappiamo se era percepibile o meno un eventuale disagio che viveva il collega. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta, come per altro il Sappe ha denunciato in un recente convegno sul disagio psichico che si è tenuto nel carcere di Marassi. Al ministro Bonafade ed ai Sottosegretari di Stato Morrone e Ferraresi chiedo un incontro urgente per attivare serie iniziative di contrasto al disagio dei poliziotti penitenziari”. “È luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza, spesso come in Liguria in condizioni di lavoro difficili aggravate dall’endemica carenza di Agenti”, aggiunge Capece. “Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere. E certo è che in Liguria - e segnatamente a Sanremo ed Imperia - poco e nulla è stato fatto per prevenire il disagio lavorativo dei poliziotti penitenziari”. “Il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà”, conclude Capece. “Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria. Non si perde altro prezioso tempo nel non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio che vivono gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria è irresponsabile. Vorrei fare un appello al Ministro Bonafede: se ci sei, batti un colpo”. Napoli: dolore e rabbia ai funerali di Claudio Volpe vocedinapoli.it, 17 febbraio 2019 Il parroco: “Carceri devono rieducare, non essere luoghi di morte”. Si sono celebrati sabato mattina i funerali di Claudio Volpe, l’uomo di 34 anni deceduto domenica scorsa nel carcere di Poggioreale a Napoli per dopo tre giorni di febbre alta. Circa 200 - secondo quanto riportato da Anteprima24.it - le persone radunatesi nella chiesa di Sant’Ignazio a Pianura, periferia occidentale di Napoli, per l’ultimo saluto a “Cioppino”. Commozione e dolore per la prematura scomparsa di un uomo che stava scontando la sua pena in carcere e - secondo le denunce dei familiari e degli altri detenuti - è stato assistito male durante i suoi ultimi giorni di vita. Durante l’omelia il parroco ha ricordato che il carcere deve essere un luogo di rieducazione e reinserimento sociali e non di morte. Presente anche una delegazione dell’associazione degli Ex Detenuti Organizzati Napoli guidati da Pietro Ioia. Ieri la procura della Repubblica di Napoli ha avviato una inchiesta sul decesso di Claudio Volpe iscrivendo nel registro degli indagati cinque medici. Omissione di soccorso il reato ipotizzato. “Claudio aveva un problema di sovrappeso - ha raccontato nei giorni scorsi un familiare -. Già prima di essere arrestato doveva sottoporsi a un intervento. La moglie ha più volte fatto presente questa cosa ma è sempre stato tutto rigettato”. Poi il racconto degli ultimi giorni di vita: “Valentina (la moglie, ndr) lo ha visto giovedì scorso durante il colloquio e stava bene. Poi ha avuto la febbre da venerdì a domenica, quando è morto. I detenuti hanno chiesto più volte l’intervento di un medico. Quando è arrivato, domenica intorno alle 19, lo ha visitato, gli ha fatto un lavaggio e ha detto che doveva prendere solo dei medicinali. Una persona in sovrappeso non può prendere però troppi farmaci. Poi nel giro di due ore Claudio è morto”. Sarà ora l’autopsia a chiarire le cause del decesso accertando eventuali responsabilità. Venezia: carcere meno “aperto”, la protesta degli avvocati Il Gazzettino, 17 febbraio 2019 La Camera penale veneziana è preoccupata di fronte all’annunciato giro di vite sul fronte delle prescrizioni di sicurezza che starebbe per essere varato a seguito dell’ispezione svolta nel carcere femminile della Giudecca da parte di una Commissione ministeriale. Ispezione scaturita dalla morte dell’agente di polizia penitenziaria Maria Teresa Trovato Mazza, detta Sissi. Gli avvocati sono sconcertati di fronte all’ipotizzato possibile abbandono della sorveglianza dinamica all’interno del carcere, nonché alla limitazione dei contatti con l’esterno. “Si rammenta che l’adozione della sorveglianza dinamica, conseguente alla sentenza la Corte Edu ha condannato nel 2013 l’Italia per il trattamento inumano e degradante imposto ai reclusi a cagione delle carceri sovraffollate, ha consentito di migliorare lo stato di detenzione e, soprattutto, di riportare l’Italia a standard di civiltà che dovrebbero essere consoni a tutti gli Stati”, si legge in un comunicato, nel quale viene definita “incomprensibile la ratio di misure che riverberano i loro effetti sulle detenute a fronte di un episodio che giammai è stato ricondotto alle stesse”. Secondo la Procura Sissi si è suicidata in ospedale. I penalisti sottolineano come il carcere femminile di Venezia si sia “sempre distinto come esempio paradigmatico sulla via della attuazione di quel finalismo rieducativo della pena evidenziato dall’art. 27 della Carta costituzionale” e temono che le misure delineate “potrebbero annichilire gli strumenti volti al recupero sociale delle detenute, affliggendo ulteriormente le stesse in maniera ingiustificata”, creando pregiudizi anche alla tanto reclamata sicurezza. In attesa di conoscere più approfonditamente il contenuto della relazione degli ispettori ministeriali la Camera penale veneziana ribadisce di essere al fianco degli operatori penitenziari, istituzionali e volontari, “che operano in maniera quotidiana affinché la privazione della libertà in carcere avvenga nel rispetto delle persone e della loro dignità”. Trani (Bat): i detenuti rifiutano il vitto a causa delle docce guaste Il Messaggero, 17 febbraio 2019 La Federazione sindacale Co.s.p. segnala che nel carcere di Trani circa 250 detenuti di media sicurezza, avrebbero attivato da ieri le procedure di astensione dal vitto come segno di protesta per il cattivo funzionamento delle docce dei reparti. “Un disagio che - precisa una nota del sindacato - si protrae da diversi mesi nonostante le numerose sollecitazioni della polizia penitenziaria. A questa situazione si aggiungono i cattivi odori che da giorni provengono dagli scantinati del penitenziario a causa del probabile cattivo deflusso di acque e che generano condizioni di non facile vivibilità”. “Nel carcere di Trani - scrive il segretario nazionale del Co.s.p. Domenico Mastrulli - si associa una condizione di scarsa qualità di vita dei poliziotti penitenziari stremati da turni di 8 ore che nel solo mese di gennaio hanno accumulato oltre 4mila ore di lavoro straordinario, in violazione delle norme contrattuali”. “Il personale - spiega il segretario Mastrulli - è costretto a coprire più postazioni di servizio con una vigilanza serale di non meno di 100 reclusi per agente. La Federazione sindacale protesta per il grave immobilismo dei vertice regionali dell’amministrazione penitenziaria da sempre latitante nell’offrire risposte sui diritti contrattuali dei dipendenti, e da sempre contestati dal nostro sindacato”. Avellino: la rivolta degli agenti, malati per protesta di Gianni Colucci Il Mattino, 17 febbraio 2019 Pioggia di certificati per malattia, niente mensa: è la protesta della polizia penitenziaria ad Ariano Irpino. Tante le aggressioni dei detenuti. Tre agenti di custodia sequestrati l’estate scorsa da 110 detenuti e liberati con un blitz; 9 agenti finiti in infermeria la settimana scorsa per un’intossicazione mentre tentavano di spegnere l’incendio in una cella. E poi grandi e piccole aggressioni. Il carcere di Ariano Irpino, così, ora si trova con 40 agenti che marcano visita. E trenta detenuti in arrivo. Quel che resta della polizia penitenziaria in servizio, intanto, ha attuato lo sciopero della mensa per richiamare l’attenzione sulla difficile situazione in cui opera. È scontro aperto tra agenti di polizia penitenziaria e direzione del carcere di Ariano. Da ieri quaranta agenti hanno fatto ricorso alla malattia. Da dieci giorni la polizia penitenziaria rifiuta di utilizzare la mensa del carcere, in un’inedita forma di sciopero. Manca un quarto dell’organico che si occupa della custodia di circa 300 detenuti (i turni sono coperti da 30 agenti). Ma tra piccoli e grandi disagi (i cancelli di ingresso pare che si aprano soltanto a spinta) ogni nuovo disservizio mette a rischio l’organizzazione. Ad esempio, manca un servizio di trasferimento dei detenuti verso le aule dei tribunali (vanno chiamati da Avellino i cellulari per i trasferimenti scortati) e ora la notizia che siano in arrivo altri detenuti ha scatenato la protesta degli agenti. La classica goccia che fa traboccare il vaso. Questi e altri problemi fanno parte del dossier redatto in vista del passaggio di testimone tra Gianfranco Marcello, il direttore che tra pochi giorni andrà a dirigere la struttura carceraria di Benevento, e Maria Rosaria Casaburo che proviene dalla casa circondariale di Arienzo e che a breve assumerà l’incarico di direzione. Per Ettore Sommariva, segretario provinciale dell’Osapp, c’è una sola soluzione: incrementare l’organico e tutelare gli agenti di polizia penitenziaria. “Per coprire i turni e sopperire alla carenza di personale, si fa ricorso al lavoro straordinario che, tra l’altro non verrebbe neanche corrisposto nei tempi previsti, ai doppi turni, al rinvio dei riposi e dei congedi”, è la situazione che descrive il segretario regionale dell’Osapp, Vincenzo Palmieri. La tensione è alta, dopo diversi episodi di violenza in cui gli agenti sono stati feriti. Come quello di una ventina di giorni fa, quando nove agenti son rimasti intossicati e sono finiti in ospedale, dopo aver spento l’incendio causato da un detenuto in una cella. Ma solo qualche giorno prima un altro detenuto aveva aggredito un agente. E l’estate scorsa, tra ritrovamenti di mini-telefonini e droga occultata finanche in una confezione di ragù o in quella dello shampoo, si era verificato l’episodio inquietante del sequestro di tre agenti, poi liberati rapidamente dai loro colleghi. I detenuti ritenevano i tre agenti autori del pestaggio di un altro detenuto. Si scoprì successivamente che a originare l’episodio era stato un recluso con problemi psichici. E proprio la mancanza di uno psichiatra nel carcere è stato da tempo uno dei problemi sollevati dalla stessa direzione. Tra visite di parlamentari e ispezioni del provveditore e del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la vita al carcere arianese non appare facile. C’è stato un ricorso anche alla commissione arbitrale regionale, l’organismo di controllo e garanzia della stessa amministrazione che ha emesso precise prescrizioni alla direzione. Una lettera era stata inviata agli agenti che furono sequestrati l’estate scorsa dal ministro Alfonso Bonafede. Sulla vicenda il guardasigilli aveva chiesto al Dap una relazione dettagliata. Il procuratore della Repubblica di Benevento Aldo Policastro aveva aperto un’inchiesta. Il direttore del dipartimento, su disposizione del ministro, si era recato nel carcere per accertarsi personalmente della situazione. E ora Ariano torna a fare paura. Augusta (Sr): Gelardi lascia la direzione del carcere dopo quasi 30 anni di servizio webmarte.tv, 17 febbraio 2019 Antonio Gelardi lascia la direzione della casa di reclusione di Augusta dopo lunghi anni (quasi trenta in totale nel carcere di contrada Piano Ippolito) di intesa attività svolta con impegno e dedizione, fermo restando l’eventualità di futuri provvedimenti diversi del giudice amministrativo a ciò adito. Ieri Antonio Gelardi ha lasciato, dopo un lunghissimo periodo, la direzione della casa reclusione di Augusta a causa della permanenza protratta per più di dieci anni, considerata elenco ostativo da parte dell’amministrazione penitenziaria, fermo restando l’eventualità di futuri provvedimenti diversi del giudice amministrativo a ciò adito. Come lo stesso ha fatto sapere tramite un comunicato stampa, ieri Gelardi ha salutato e ringraziato in primo luogo il personale tutto, del cui operato si è detto orgoglioso, le autorità del territorio e in primo luogo il sindaco Cettina Di Pietro, la giunta e il consiglio comunale, e attraverso di essi la cittadinanza, con la quale si è creato nel corso degli anni uno speciale rapporto. Tantissime sono state le iniziative che grazie alla capacità ed all’impegno del personale tutto sono state realizzate e che hanno visto l’ingresso di migliaia di cittadini, studenti, volontari oltre che di autorità nell’intento di rendere il carcere una casa di vetro e coinvolgere il territorio nell’azione di risocializzazione ispirata all’articolo 27 della Costituzione. “Colgo l’occasione - dichiara l’ex direttore - per ringraziare i dirigenti scolastici, con i quali vi è stata una intensa e proficua collaborazione, i club services, le associazioni di volontariato e del terzo settore, le istituzioni culturali, e, last but not least i cari amici giornalisti che hanno seguito sempre e dato spazio agli eventi realizzati presso la casa di reclusione. Un particolare ricordo va in questo momento all’amatissimo amico giornalista Gianni D’Anna che ci ha lasciato recentemente, ed alla sua famiglia”. La casa di reclusione di Augusta da diversi anni grazie alle iniziative avviate dalla direzione viene considerata una modello per le attività di riabilitazione promosse. In questo carcere ci sono state diverse fasi risocializzanti. Dal 1990 fino al 1997 poiché è stato chiuso il vecchio carcere di Siracusa il penitenziario di contrada Piano Ippolito ha ospitato sia il penale sia il giudiziario. Il carcere nuovo di Siracusa venne aperto nel 1997. In 7 anni il carcere di Augusta ha registrato una notevole presenza di criminalità mafiosa e, quindi, in quel periodo c’erano ostacoli maggiori per tale attività. Dal 2009 al 2010 causa sovraffollamento le attività sono state rallentate. La popolazione detenuta è cresciuta secondo un dato nazionale dovuto a diversi fattori attinenti la normativa penale processuale penale e penitenziaria. Le attività ci sono sempre state, ma è stato dato un fortissimo impulso negli ultimi anni”. Circa 7 anni fa abbiamo cominciato aprendo le sezioni. Da noi c’è in quasi tutto l’istituto un regime aperto. I detenuti circolano liberamente, è stato fatto gradualmente, responsabilizzando i detenuti facendo comprendere loro che si trattasse di un beneficio da meritare giorno dopo giorno. La direzione ha avuto a fianco il personale e i sindacati che hanno agevolato e promosso questo tipo di regime. Gelardi ha iniziato a operare nella casa di reclusione di Augusta dal 1989 in qualità di funzionario che dirigeva l’istituto. Come dirigente ha iniziato la propria attività nel 2006. Pesaro: “Penna libera tutti” scritto a mano e l’arte oltre le sbarre di Sibyl Von Der Schulenburg Il Resto del Carlino, 17 febbraio 2019 Le voci che escono dal carcere m’interessano sempre: ho la sensazione che in qualche modo raccontino la storia della nostra civiltà considerata da un punto di vista diverso. Le ho sentite ieri quelle voci, nell’articolo di Giorgio Guidelli in cui riferisce di alcuni detenuti che, privati dei computer, hanno deciso di scrivere il loro giornale interamente a mano. I detenuti-cronisti che non si sono fermati di fronte alla mancanza degli strumenti del giornalismo moderno, esercitando invece l’arte antica degli scrivani, sono quelli della Casa circondariale villa Fastiggi di Pesaro. “Penna libera tutti”, il periodico scritto a mano, è il frutto della creatività umana, l’elemento che sta alla base del cambiamento psicologico tanto auspicato dal sistema giudiziario, ma di difficile realizzazione nelle carceri. L’istituto di pena è generalmente negletto, rifiutato dalla società, come se fosse un bubbone da tener staccato da tutto il resto, qualcosa di estraneo alla vita urbana, da dimenticare. Questa forma di esclusione, che trova radici nel modo di pensare del cittadino medio, è di ostacolo al recupero sociale dei detenuti, un percorso di rieducazione invece garantito dalla Costituzione. “Al fine di dare visibilità a questo mondo ignorato, dirigo Artisti Dentro Onlus, un’associazione che si pone come tramite tra il dentro e il fuori del muro carcerario, un mediatore che, restando all’esterno, permette alla voce dei detenuti di uscire e diffondersi nella comunità libera. Nel contempo, diventa un mezzo per i cittadini di prendere atto dell’esistenza dei reclusi per causa di giustizia e di verificare che anche chi è stato condannato, non importa per quale reato, è un essere umano capace di provare emozioni e di trasmetterle. Il linguaggio scelto per comunicare attraverso le sbarre è l’arte, uno strumento alla portata di tutti che, nelle varie fasi proposte dai progetti dell’associazione, diventa un mezzo d’inclusione. Per ottenere gli effetti benefici dell’arte, occorre però che tutto il personale dell’istituto di pena si adoperi perché l’occasione artistica si offra ai detenuti, eppure diverse carceri non hanno mai risposto ai nostri bandi. E così, il silenzio di molte strutture penitenziarie “difficili”, come quella di Pesaro, ci racconta che l’indifferenza, l’indolenza e l’incompetenza non producono né creatività, né inclusione ma voragini di solitudine dove prolificano i germi della recidiva e dei suicidi. A questo rischio, la redazione di Villa Fastiggi ha reagito in maniera tanto educata e artistica da costituire un esempio di civiltà libera”. Genova: con “DeeJail” il carcere di Marassi va on air, 7 detenuti speaker alla radio Redattore Sociale, 17 febbraio 2019 Un programma radiofonico ideato e realizzato dai detenuti: si chiama “DeeJail” ed è stato realizzato a Genova. L’idea è di don Roberto Fiscer, ex deejay sulle navi da crociera, parroco della SS. Annunziata del Chiappeto. Dopo aver ottenuto i permessi, ha realizzato un piccolo studio di registrazione. Un programma radiofonico ideato e realizzato dai detenuti: si chiama “DeeJail” ed è stato realizzato a Genova. L’idea è di don Roberto Fiscer, ex deejay sulle navi da crociera, attualmente parroco della SS. Annunziata del Chiappeto, conosciuto in tutta Italia per le sue parodie di canzoni famose con testi cristiani e per essere il fondatore e l’anima di Radio Fra le Note, la prima web radio parrocchiale della diocesi di Genova disponibile tramite App, internet e sul canale 810 del digitale terrestre. Dopo aver ottenuto i permessi necessari, don Fiscer ha realizzato un piccolo studio di registrazione all’interno del carcere di Marassi coinvolgendo una redazione di sette detenuti, italiani e stranieri, giovani e meno giovani. Prima puntata prevista venerdì prossimo sul Festival di Sanremo. “Gesù riabilitava le persone, le aiutava a rialzarsi. Come sacerdote, credo, che la mia missione sia di aiutare quanti sono in difficoltà a rimettersi in piedi”, spiega don Fiscer. “Quello della radio in carcere - ha aggiunto - era un mio sogno da tanto tempo e questa nuova esperienza si affianca a quelle già collaudate da tempo delle trasmissioni dal Gaslini e dall’ospedale San Martino. Dobbiamo, infatti, aiutare le persone a comprendere che, se sono in ospedale, posso avere una malattia, ma non sono la malattia. Se sono in carcere, posso avere sbagliato, ma non sono sbagliato. Posso avere fatto degli errori, ma non sono un errore”. “Troppe volte - ha concluso il sacerdote genovese - il carcere fa notizia solo per gli aspetti negativi, come il sovraffollamento e le rivolte, ma in carcere ci sono anche tante persone che si impegnano: chi va a scuola, chi fa volontariato, chi frequenta i laboratori. Vogliamo far conoscere anche questi aspetti attraverso le voci dei protagonisti”. “La Paranza dei Bambini” poteva aspirare a qualcosa di più alla Berlinale di Paolo Mereghetti Corriere della Sera, 17 febbraio 2019 Il film ha ben affrontato un tema che rischiava di cedere alla spettacolarizzazione della violenza. Ma la giuria egemonizzata dai francesi ha scelto diversamente. Una giuria pilatesca ha chiuso l’era Kosslick con un verdetto francamente incomprensibile: l’Orso d’oro e quello per la miglior regia sono andati a due film chiusi nelle loro pretese d’autore (il franco-israeliano Synonimes e il tedesco Ich war zuhause, aber), francamente incapaci di uscire dai loro limiti autoreferenziali mentre ha dimenticato alcuni dei titoli più interessanti e innovativi, come il macedone Gospodo postoi, imeto i’ e Petrunija o il mongolo Öndög. L’Italia può essere soddisfatta: il premio per la sceneggiatura di La paranza dei bambini riconosce un lavoro non scontato su un tema a rischio, che il film scritto da Roberto Saviano, Maurizio Braucci e dal regista Claudio Giovannesi ha saputo affrontare senza cadere nelle trappole che l’argomento si portava dietro: spettacolarizzazione della violenza e cedimenti melodrammatici. Forse poteva aspirare a qualcosa di più ma ci sarebbe voluta una giuria meno schiava di certi pregiudizi critici e probabilmente meno succube della presidentessa Juliette Binoche che ha riportato in Francia il primo e il secondo premio, quest’ultimo andato a François Ozon e al suo Grace à Dieu, decisamente più meritato. Così come è condivisibile il doppio premio, al miglior attore e alla miglior attrice, andato agli interpreti di So Long, My Son di Wuang Xiaoshuai: marito e moglie alle prese con la morte del proprio figlio e i cambiamenti della società cinese, capaci di attraversare trent’anni di storia e di cronaca senza dare mai l’impressione di una stonatura o di un passo falso. Difficile capire invece anche cosa apra di “nuove prospettive” (questa la motivazione di un Orso d’argento) il film tedesco Systemsprenger di Nora Fingscheidt, centrato su una ragazzina talmente ribelle a ogni tipo di regola da annullare ogni tipo di progressione drammatica. Resta il fatto che la Germania non aveva mai avuto tanti riconoscimenti nelle ultime edizioni del festival e anche per questo Kosslick sarà sostituito l’anno prossimo dall’italiano Carlo Chatrian: probabilmente la giuria ha volto fargli una specie di regalo d’addio. Migranti. I nuovi schiavi condannati all’invisibilità di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 17 febbraio 2019 I fatti sono più che noti, anche se affondano nella melma dell’indifferenza, della noia e del pregiudizio che sommerge buona parte della nostra società: nelle campagne si muore di freddo, di canicola e di esaurimento nei campi, oltre che di fuoco negli incendi dei ripari di fortuna. E si muore di sparizione violenta, come i braccianti polacchi di cui anni fa si sono perse le tracce (se n’era occupato ampiamente il compianto Alessandro Leogrande). Millecinquecento sarebbero i decessi sul lavoro nelle campagne, in sei anni. Braccianti italiani e migranti si schiantano dieci ore al giorno per pochi euro nella raccolta di pomodori e agrumi, vittime del caporalato e di mafie locali e industriali: il settore agricolo, al nord e al sud, campa su un trattamento che secoli fa era riservato solo agli schiavi. In più, gli stranieri si trovano, grazie al decreto sicurezza voluto da Salvini e Di Maio, in una condizione di precarietà che li espone a condizioni di vita sempre peggiori e al ricatto di padroncini e profittatori. Questa è semplicemente la realtà che fa da sfondo all’ennesima morte nell’incendio della baraccopoli di san Ferdinando. La logica dello sfruttamento, che nessuna legge sul caporalato è stata in grado di limitare - anche per l’opposizione della Lega alla sua applicazione - è ovviamente la prima responsabile di queste tragedie. I profitti del settore agroalimentare si basano sulla compressione spasmodica dei salari e sulla durata abnorme della giornata di lavoro. L’illegalità estrema delle condizioni di lavoro è alla base di quello che si può definire come un vero e proprio modo di produzione schiavistico. Ma a questo appartengono anche la gestione dei trasporti dei lavoratori (tra il 4 e il 6 agosto 2018 morirono 16 migranti in due incidenti stradali nel foggiano) e le condizioni di vita nelle baraccopoli. Si muore sul lavoro e si rischia la morte per lavorare. La cultura - chiamiamola così - del governo in carica è del tutto coerente con un sistema di sfruttamento del lavoro che un certo illuminismo riteneva superato da secoli. Da una parte c’è l’elargizione grillina di un “reddito di indigenza”, subordinato a sistemi disciplinari e di controllo degni dell’Inghilterra settecentesca. Dall’altra, la cultura politica leghista, incarnata nel corporativismo della piccola azienda, della famiglia in cui lavoratori e padroni sono sulla stessa barca, è profondamente ostile allo sviluppo di logiche sindacali e rivendicative sanamente conflittuali. Il conflitto materiale sul luogo di lavoro è stato sostituito, nel corso degli ultimi decenni, e con il contributo decisivo del riformismo, da conflitti emotivi, basati sull’esistenza di un nemico simbolico: lo straniero, il migrante, il profugo, il “negro” che preme alle porte. E qui veniamo al luogo in cui tutti questi cambiamenti precipitano: l’umanità marginale, superflua, eccedente, costretta a vivere nelle discariche per sopravvivere con 25 euro al giorno. L’obiettivo politico di Salvini non è, né mai potrà essere, eliminare le basi dello sfruttamento e le condizioni disumane di vita dei migranti impiegati in agricoltura. È eliminare la visibilità loro e dei loro insediamenti, con un duplice profitto: confermarsi come il politico dell’ordine a tutti i costi e rendere ancora più ricattabile l’umanità alla deriva nelle nostre campagne. La chiusura degli Sprar, l’abolizione della protezione umanitaria e la stretta contro gli stranieri devianti hanno come effetto principale la riduzione dei migranti a schiavi potenziali. E qui, si scopre facilmente, tutto si tiene: se l’eliminazione delle Ong dal Mediterraneo, a partire dalla campagna contro i “taxi del mare”, rende invisibili, e quindi accettabili, i naufragi, la ruspa promessa da Salvini contro le baraccopoli rende invisibile l’esistenza dei nuovi schiavi. Tutto si tiene: il nazionalismo esasperato, la xenofobia diffusa alimentata dal discorso politico, l’offa gettata ai poveri in cambio di un po’ di consenso elettorale, la marginalizzazione dei marginali. Finché, si spera, i sostenitori di questo governo cominceranno ad accorgersi del tranello in cui sono caduti. Migranti. Multa di 1.398 euro per chi impiega irregolari: è il costo del rimpatrio La Stampa, 17 febbraio 2019 Lo stabilisce il decreto pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale e firmato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini con i colleghi Bonafede, Tria e Di Maio. L’importo della sanzione è pari al costo medio del rimpatrio. Multa salata in arrivo per i datori di lavoro che impiegano stranieri in posizione irregolare in Italia: sarà di 1.398 euro, pari al costo medio del rimpatrio. Lo prevede un decreto - firmato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, insieme ai colleghi Alfonso Bonafede, Giovanni Tria e Luigi Di Maio - pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale. Il decreto contiene il Regolamento di attuazione della direttiva Ue numero 52 del 2009 che introduce “norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impegnano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. La direttiva europea prevede che le sanzioni inflitte ai datori di lavoro in caso di violazione del divieto di assunzione illegale includano “almeno i costi medi del rimpatrio”. La norma comunitaria rimandava ad un decreto del ministero dell’Interno il compito di stabilire “i criteri per la determinazione e l’aggiornamento del costo medio del rimpatrio cui commisurare la sanzione amministrativa accessoria”. Ed è appunto il Regolamento apparso nella Gazzetta Ufficiale di oggi a fissare i criteri per la determinazione del costo medio del rimpatrio. Nel complesso calcolo si è tenuto conto del totale dei costi sostenuti annualmente per il rimpatrio degli stranieri e del numero dei rimpatri effettivamente eseguiti. La cifra media così ottenuta è poi aumentata del 30% in modo da considerare anche l’incidenza dei costi relativi ai servizi di accompagnamento e scorta degli stranieri da rimandare in Patria. Per il 2018 si ottiene così la cifra di 1.398 euro. I proventi derivanti dall’applicazione della sanzione amministrativa accessoria affluiranno al bilancio dello Stato per essere successivamente riassegnati per una quota del 60% al Fondo rimpatri e per il 40% al Fondo sociale per occupazione e formazione per la realizzazione di interventi di integrazione sociale di immigrati e minori stranieri non accompagnati. Il costo medio del rimpatrio sarà aggiornato entro il 30 gennaio di ogni anno, sulla base degli stessi criteri, con un decreto del capo della Polizia. La nuova sanzione accessoria entrerà in vigore a partire dal prossimo 2 marzo. Droghe. “Anti spaccio”, “Inutile per i giovani”. Torna lo scontro sulla modica quantità di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 17 febbraio 2019 La lotta alla droga e le parole del ministro Fontana. L’attesa per un tavolo nazionale I progetti Nell’intervista al Corriere aveva parlato anche di assistenza alle famiglie e recupero. Il radicale Marco Perduca non risparmia una notazione severa: “Ma che senso ha? Il ministro Lorenzo Fontana sta parlando di riforma delle norme sulla droga con il ministro dell’Interno e non con quello della Giustizia”. Ieri il ministro leghista della Famiglia - con delega alle politiche antidroga - in un’intervista al Corriere ha detto che ha intenzione di rivedere le norme sulla droga, a cominciare dalla modica quantità”, e tra gli operatori del settore si è scatenato un dibattito vivace. Anche tra chi tendenzialmente non è contrario all’ipotesi del ministro Fontana, la proposta ingenera perplessità. Come succede a Giuseppe Mammana, psichiatra e presidente di un’associazione che si occupa di dipendenze patologiche. l’Acudipa. Dice: “Dal punto di vista educativo e contenitivo, abolire il concetto di modica quantità può avere qualche effetto, ma di certo non è risolutivo”. Lorenzo Fontana ha detto che la modica quantità può far pensare ai ragazzi che esiste una dose di droga che non è dannosa, non genera dipendenza... “Non capisco cosa voglia dire, la modica quantità è un concetto penale. E in ogni caso se si vuole fare una revisione della normativa sulla droga deve essere fatta in maniera corale”. Riccardo Gatti è uno psichiatra con lunga esperienza sulle dipendenze: “È giusto pensare di aprire un dibattito sulla revisione delle norme - spiega -, ma non dobbiamo ragionare in termini vecchi, e dobbiamo avere chiaro quale è l’obiettivo”. Anche Antonio Boschino, ribadisce il fatto che il concetto di modica quantità ha una valenza di tipo penale. Lui è il vicepresidente di quella comunità di recupero che si chiama San Patrignano e che con i suoi 1.200 ricoverati ha le dimensioni di una città. Spiega: “Se l’intento di Fontana è dare un colpo allo spaccio qualcosa riesce a ottenere. Qualsiasi poliziotto conosce il metodo usato dagli spacciatori di portarsi dietro la modica quantità e nascondere il grosso della merce altrove, per andare a prendere le dosi volta per volta”. Il discorso cambia se invece si vuole parlare di prevenzione, soprattutto nei riguardi dei più giovani. Aggiunge Boschino: “Cosa si fa se si abolisce la modica quantità? Chiunque venga trovato in possesso anche di una dose molto piccola, cosa deve fare, andare direttamente in galera? Sono contrario. Andrebbe invece considerata l’obbligatorietà della cura e questo anche per persone che hanno più di diciotto anni”. Sono undici anni che in Italia non è convocata la Conferenza nazionale sulla droga, e da più parti si levano voci per far sì che venga indetta al più presto. “Quante altre vite si dovranno spezzare perché i politici si decidano a fare qualcosa?”, si chiede Nicoletta Capriotti, presidente della Pars, una cooperativa sociale che si occupa di tossicodipendenza. Il ministro Fontana si è impegnato a dar vita ad una strategia per mettere a confronto sul tema droga tutte le parti in causa, promettendo metodi innovativi invece di una classica conferenza. Marco Perduca, membro dell’associazione Luca Coscioni, scuote la testa sfiduciato: “Ho letto l’intervista sul Corriere, dalle sue risposte si capisce che il ministro non conosce il fenomeno della droga. O, forse, non lo vuole affrontare nelle sue dimensioni reali, ovvero per come è descritto dalla relazione sulle droghe al Parlamento”. Da sempre i radicali sono in prima linea nella battaglia per la liberalizzazione delle droghe leggere, e questa volta Perduca si preoccupa dei più giovani: “Siamo preoccupati per le affermazioni del ministro, che sono contraddittorie. Dice di non voler punire i giovani, mentre con le sue modifiche accadrebbe esattamente quello”. Noi, le donne del muro col Messico di Valeria Luiselli e Ana Puente Flores La Repubblica, 17 febbraio 2019 Le donne chiedono: “Che ore sono?”, “Siamo ancora ad agosto?”. Altre dicono: “Da quando io e mio figlio siamo rinchiusi qui, ho perso la nozione del tempo”. “Mi hanno separata da mio figlio il 9 giugno. Non so quanti giorni siano passati”. Come in ogni luogo di prigionia, il tempo scorre con un ritmo tutto suo nel South Texas Family Residential Center di Dilley, il più grande centro di detenzione per famiglie migranti negli Stati Uniti. È gestito dall’Ice (Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia per il controllo delle dogane e dell’immigrazione) e dalla CoreCivic, la società privata di servizi penitenziari incaricata dal Governo federale di gestire quasi il 63 per cento delle prigioni per immigrati negli Stati Uniti. È uno dei tanti centri di detenzione per migranti del complesso carcerario-industriale del paese, in rapida espansione. Gli Stati Uniti sono la nazione con la più grande infrastruttura detentiva per immigrati al mondo: ogni anno ospita fra le 380mila e le 442mi1a persone, con una quota letti giornaliera di 34mila immigrati. Il Dilley può ospitare fino a 2.400 persone, tutte donne con bambini, in maggioranza originarie di Honduras, El Salvador e Guatemala. Anche se le leggi stabiliscono che un centro di detenzione per bambini “non deve avere al suo interno strutture restrittive rilevanti”, il Dilley è una prigione, anzi è conosciuto come la baby jail, la prigione dei bambini. Non sono ammessi contatti fisici e nonostante detenuti e guardie sappiano che l’acqua della struttura è contaminata, i volontari non sono autorizzati a offrire bottigliette d’acqua. Anche se ogni storia è diversa, le donne di Dilley hanno una cosa in comune: fuggono da contesti di indicibile violenza nei loro paesi d’origine. Nel prefabbricato adibito a parlatorio, i volontari incontrano le donne per prepararle alla loro eredible fear interview, il colloquio in cui i funzionari che si occupano di concedere l’asilo valuteranno se il loro timore di tornare nel proprio paese sia oggettivo oppure no. È il primo passo per ottenere la protezione legale e lo status di rifugiato. Ogni mattina c’è un fitto via vai di avvocati volontari, tirocinanti e personale del centro che entrano ed escono dal visitation trailer, mentre le detenute e i loro bambini aspettano in fila su un lato dell’entrata. Le guardie della CoreCivic - a volte con pazienza, altre volte con cattiveria - ricordano di stare in fila in silenzio. I bambini che parlano lingue indigene, anche se hanno addosso targhette con scritto “Parlo mixteco” o “Parlo q’eqchi”, ricevono istruzioni in inglese o in spagnolo, e spesso vengono sgridati se non capiscono. Prepararsi alla credible fear interview implica vari passaggi. Lo scopo è capire quale tipo di persecuzione ha subìto una donna, cosa teme se sarà costretta a tornare indietro, se ha mai denunciato la situazione alle autorità, perché non può trasferirsi in un’altra zona del suo stesso paese. Alla domanda “Sei mai stata minacciata o picchiata da qualcuno nel tuo paese?”, le donne rispondono quasi immancabilmente: “Sì”. “Chi ti ha minacciata?”. “Membri della banda MS-13”; “Membri della banda Barrio 18”; “La polizia”; “Mio marito”; “Il mio uomo”; “Il padre dei miei figli”. “Che cosa ti hanno fatto?”. “Mi hanno picchiata”; “Mi ha violentata”; “Diceva che mi avrebbero ammazzata”. “Perché ce l’avevano proprio conte?”. “Perché non cedevo alle sue avance”; “Perché mi rifiutavo di nascondere le armi”; “Perché non ho votato per il partito che mi avevano detto di votare”; “Per il mio aspetto”. Quando una ragazza diciassettenne e sua madre, salvadoregne, arrivano al colloquio, la ragazza dice: “Io non volevo venire qui. Avevo una bella vita e stavo per diplomarmi, ma ora ho perso l’opportunità di prendere il diploma”. “Perché siete partite?”. “Perché alcuni membri della MS-13 hanno minacciato di uccidermi”. “Perché?”. Rimane in silenzio, poi racconta che è stata minacciata di morte perché si è rifiutata di uscire con uno della banda e perché non voleva spacciare per loro. Per certi versi i suoi problemi non sono troppo diversi da quelli di altri diciassettenni - droga, relazioni sentimentali - tranne il fatto che può rimetterci la pelle. Quelli della MS-13 minacciavano di ammazzare lei e la madre se non obbedivano, e tutti sanno che la MS-13 mette in atto le sue minacce. Con sua mamma erano stati espliciti: “Getteremo il corpo di tua figlia in un sacco di plastica”. La maggior parte delle donne detenute a Dilley non sospettava di trovare oltre il confine altre violenze, altre minacce e una detenzione a tempo indefinito. Una dice: “Abbiamo attraversato il fiume; avevamo i vestiti di ricambio ma ci hanno lasciate apposta a gelare in cella. Anche i bambini: si sono presi infezioni agli occhi, raffreddore e diarrea”. E un’altra: “Ciò che vedi nei notiziari è vero. Quando i volontari sono arrivati, avevano cartelli con scritto We love you! Welcome to America! e le lacrime agli occhi. Anche le madri e i bambini sull’autobus sono scoppiati a piangere. Non di gioia, ma perché volontari e manifestanti sembravano preoccupati, e questo ci ha spaventato. Nessuno ci ha detto dove andavamo. Poi ci hanno messi qui, non si sa per quanto”. Oggi, in America, il diritto d’asilo è sotto assedio. E a prescindere dalle motivazioni più profonde per negare a chi lo richiede un procedimento equo, gli effetti immediati delle politiche attuali sono chiari: aumento dei fondi federali per il dipartimento della Sicurezza nazionale, aumento della sorveglianza alle frontiere, aumento dei detenuti e, ancor più rilevante, crescita dei centri di detenzione per immigrati. La detenzione di persone prive di documenti è una delle industrie più redditizie nell’attività di governo degli Stati Uniti. Le circostanze che portano famiglie senza documenti a emigrare, il fatto di definire l’immigrazione una questione di sicurezza invece che di diritti umani, la criminalizzazione degli immigrati e il business dei centri di detenzione si fondono dando vita allo scenario perfetto per questa reclusione di massa. Resta da vedere fino a che punto sia disposta a spingersi questa amministrazione per rafforzare un complesso carcerario-industriale già spaventosamente grande. Dopo ventidue giorni a Dilley, una ragazza dice: “Mi sento in gabbia: c’è sempre qualcuno che ti guarda. Ma è un paradiso rispetto alle gabbie in cui ti mettono all’inizio. Lì dormivamo su materassi imbrattati di cacca, pipì e vomito. Non potevamo neanche lavarci i denti”. Un’altra aggiunge: “Ho detto loro che ero pronta a firmare per la mia espulsione; non sono una criminale, perché devo essere trattata così? Non mi sono mai sentita così amareggiata. Piango ogni notte”. Quando le chiedo se rimpiange di essere venuta qui risponde: “Sì. Preferirei morire con un colpo di pistola nel mio paese che essere uccisa lentamente in questo”.