“Buttare la chiave” non paga, la sicurezza si ottiene con le misure alternative La Repubblica, 16 febbraio 2019 “Il Governo investa in percorsi che coinvolgano le vittime di reati e le comunità locali”. Pensare di affrontare una questione complessa come quella della giustizia penale con un demagogico “chiudiamoli tutti in galera e buttiamo la chiave” significa non fare i conti con i tanti, gravi limiti del carcere e con un dato di fatto incontrovertibile: le misure alternative alla detenzione e i percorsi di accompagnamento all’uscita dal carcere producono un abbassamento della recidiva dal 70% a meno del 20%. È così che Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), ha aperto il convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”, organizzato in collaborazione con il Coordinamento Italiano Case Alloggio/Aids (Cica). Un detenuto su 4 finita la pena non sa dove andare. Il dato incontrovertibile è che un detenuto su quattro, terminata la pena, non sa dove andare. Insomma, più carcere non significa più sicurezza, semmai il contrario, è stato sottolineato più volte nel corso del convegno. E la giustizia riparativa - un modello che mette al centro non solo l’autore del reato, ma anche la vittima e la comunità coinvolta nel reato - è un riferimento fondamentale per costruire nuove pratiche di giustizia che sappiano davvero farsi carico della sofferenza che i reati producono, abbassare la conflittualità sociale e prevenire nuovi illeciti. Le pratiche della giustizia riparativa. L’incontro è stato l’evento finale del progetto “La pena oltre il carcere”, l’iniziativa finanziata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e realizzata dal Cnca, in partenariato con Cica, che si è proposta di conoscere e sperimentare esperienze innovative nell’ambito delle pratiche di giustizia riparativa nelle organizzazioni associate ai due coordinamenti, al fine di favorire il recupero sociale di detenuti, ex detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria sia adulti sia minori. Cambiare paradigma. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dei condannati e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, che si preoccupa solo di punire il reo con il carcere e la vergogna. In cella per droga è il 30% dei detenuti. “L’interesse per la giustizia riparativa”, ha spiegato il presidente del Cnca, “non è certo casuale. Nell’ultimo decennio le nostre organizzazioni hanno incontrato sempre più la realtà del carcere, impegnandosi in percorsi di messa alla prova dei minorenni, ma anche per contenere i danni di leggi carcerogene come la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione: nel 1990 i detenuti erano 36.300, nel 2018 ben 60 mila, a cui vanno aggiunte le persone in misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messa alla prova, che erano, al 30 novembre 2018, quasi altrettante (54.682); il 30% dei detenuti nelle carceri italiane è punito per violazione della legislazione sulle droghe, contro il 15% della media europea. Reati economici: 04%, la media Ue 10 volte superiore. Per i reati economico-finanziari sono nelle carceri italiane lo 0,4% dei detenuti, contro una media europea dieci volte superiore; in Germania il numero di detenuti per reati in materia di droghe è pressoché pari a quello dei detenuti per reati economico-finanziari. L’incubo del sovraffollamento. Nello stesso periodo di tempo è scoppiata la questione carcere: un sovraffollamento talmente grave da determinare una sentenza di condanna del nostro Paese da parte della Corte europea per i diritti umani. Un’onta che rischia di ripetersi presto: al 30 novembre 2018, si trovavano in carcere 60mila detenuti, 10 mila in più rispetto ai posti disponibili. Le condizioni di vita nei penitenziari sono spesso insostenibili. Nel 2018 sono morte in carcere 148 persone. Di esse, ben 67 per suicidio. E nei penitenziari italiani sono rinchiuse 45 madri con 55 bambini, anch’essi, di fatto, detenuti”. “Il carcere come extrema ratio”. “Dobbiamo cambiare paradigma”, ha affermato De Facci. “Il carcere va inteso come extrema ratio. La giustizia riparativa è un approccio che non chiama in causa solo il livello giuridico, ma il contesto sociale e, dunque, il sistema delle politiche sociali senza il quale non è possibile realizzare percorsi efficaci per ridurre i reati e le cause che li generano. Noi pensiamo che le nostre comunità locali debbano imparare a riparare piuttosto che a “buttare via ciò che si è rotto”. “L’aspetto culturale è cruciale”, ha confermato Paolo Meli, presidente del Cica. “Le nostre comunità di accoglienza ospitano persone sieropositive e malate di Aids, alcune con problemi di carattere penale. Nel loro caso, allo stigma dell’Aids si unisce quello della detenzione. Ciò genera anche autostigma e ulteriore chiusura in sé con la conseguente rinuncia a investire in un futuro possibile e diverso. L’approccio della giustizia riparativa può aiutare ad affrontare questo triplo stigma che rischia di essere letale per gli individui e per la collettività, e per il quale sono necessarie anche azioni continuative di informazione, sensibilizzazione e formazione.” Proposte per una giustizia riparativa. “La giustizia riparativa sta muovendo i primi passi nel nostro paese”, ha notato ancora De Facci, “Il progetto La pena oltre il carcere - a cui hanno dato un contributo determinante e assai competente sia la Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova sia il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia - è stato l’occasione per le nostre organizzazioni aderenti, per tanti operatori del terzo settore e delle istituzioni pubbliche coinvolti in diversi appuntamenti di scambio e conoscenza in questi mesi, di cominciare a ragionare insieme su questo approccio”. Un confronto da cui sono emerse diverse proposte - riprendere la riflessione istituzionale aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale, che avevano dedicato un approfondimento specifico al tema della giustizia riparativa e della giustizia di comunità. È auspicabile che il Governo in carica, contrariamente ai segnali mandati finora, comprenda l’importanza di un tale lavoro e proceda nella stessa direzione; - destinare finanziamenti adeguati per implementare interventi di giustizia riparativa e misure alternative al carcere. Al momento, gli stanziamenti sono del tutto insufficienti; - costruire sui territori luoghi di collaborazione inter-istituzionale e con tutti i soggetti del terzo settore e della comunità locale interessati, spazi che siano in grado di coordinare l’attività dei diversi attori. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha realizzato una rete istituzionale di referenti regionali per la giustizia riparativa, che costituisce un primo passo nella giusta direzione; - implementare iniziative di formazione - d’intesa con le strutture del Ministero della Giustizia competenti - per formare operatori in grado di svolgere in modo professionale il ruolo di mediatori-facilitatori dei processi di giustizia riparativa; - nell’ambito della giustizia minorile è essenziale che accanto alla messa alla prova - una misura sperimentata con successo da 30 anni esatti - siano attivati percorsi più squisitamente connessi al modello della giustizia riparativa; nel campo della giustizia riferita agli adulti, va evitato che la messa alla prova - introdotta nell’ordinamento per i maggiorenni solo tre anni fa - sia utilizzata solo in una logica di riduzione delle presenze in carcere. Un modello per valutare l’impatto sociale. Il convegno è stato l’occasione anche per presentare il modello di valutazione dell’impatto sociale, messo a punto dal Cnca in collaborazione con Luigi Corvo, docente di Imprenditoria sociale e innovazione presso il Dipartimento di Management e Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata. Il modello è stato impiegato per valutare la ricaduta sociale degli interventi realizzati in favore di detenuti e persone soggette a provvedimenti dell’autorità giudiziaria dalle organizzazioni coinvolte nel progetto “La pena oltre il carcere”. “È il contributo del Cnca al dibattito sul tema”, ha spiegato De Facci. “Siamo convinti che l’impatto sociale non sia solo un elemento per esercitare funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo delle attività del terzo settore, ma un elemento costitutivo della definizione di impresa sociale. E riteniamo che non sia importante solo cosa fai, ma anche chi sei e come fai le cose”. Carceri: nuove tecnologie per contrastare la radicalizzazione di Marina Caneva gnewsonline.it, 16 febbraio 2019 L’applicazione al contesto penitenziario di nuove tecnologie di alto livello per sperimentare prassi innovative e modelli di management in linea con l’evoluzione tecnologica è il tema che ha animato la giornata di lavori organizzata dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, in collaborazione con la Fondazione Agenfor International, sotto l’egida dei progetti europei J-Safe e Mindb4Act. Grazie al progetto J-Safe è stato ideato un Laboratorio Sperimentale (Elpef - Experimental Lab of Penitentiary Forensics) che si propone di elaborare soluzioni che vanno dall’utilizzo di tecnologie all’avanguardia al servizio della sicurezza per l’uso più efficiente delle risorse umane e l’agevolazione delle risposte alle esigenze intramurarie della popolazione detenuta, alla sperimentazione di nuove prassi relative al trattamento penitenziario. Con il progetto si vuole contribuire a favorire il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione Europea in materia di contrasto alla radicalizzazione violenta tra la popolazione detenuta, nonché di fornire agli operatori della sicurezza strumenti innovativi di identificazione del fenomeno e di elaborare strategie predittive, in un’ottica di individuazione di modelli operativi estendibili a vari Stati europei. Diversi i soggetti coinvolti nella tavola rotonda al fine di costruire una rete di cooperazione: rappresentanti delle Aziende Leonardo, Italdron, Msab, Tecoms, Segno, Normau Technology, Austech; dell’associazione culturale Lab4Int, del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Padova, del Comando della Polizia Locale di Rovigo, del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni Friuli Venezia Giulia con competenze specifiche sul cybercrime, del responsabile e del vice responsabile del Nucleo Investigativo Regionale della Polizia Penitenziaria, oltre a esperti di analisi e falso documentale dei Comandi della Polizia Locale di Venezia e Rovigo. Durante la giornata i partecipanti si sono confrontati in merito all’elaborazione congiunta di prototipi di utilizzo della domotica penitenziaria per la movimentazione e sorveglianza dei detenuti, sistemi di traduzione automatica e di protezione anti-droni, laboratori forensi mobili, sistemi a chiosco per la fornitura di dati ai detenuti, sistemi sicuri e controllabili di comunicazioni verso l’esterno, gestione integrata dei dati oggi distribuiti su varie piattaforme nazionali ed internazionali, formazione e addestramento degli operatori attraverso modelli di realtà aumentata. A 12 anni alla sbarra. La Lega: “Non sono più i bambini di un tempo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2019 Pronta la legge che abbassa l’età della punibilità. La Lega ha depositato una proposta di legge - firmata da tutti i deputati del Carroccio in Commissione Giustizia alla Camera - nella quale si prevede, tra le altre misure, l’abbassamento del limite dell’imputabilità dei minori da 14 a 12 anni. Inoltre la Lega suggerisce, nel testo, di escludere le premialità previste per i reati compiuti dai minori se c’è l’aggravante dell’associazione. “Un minore di 12 anni di oggi - spiega uno dei firmatari del progetto di legge - è diverso rispetto a quello di qualche anno fa. Bisogna aggiornare il codice e considerare la realtà”. La legge targata Lega contro le baby gang, sarà incardinata a breve ed è stata richiesta anche la firma del Movimento 5 stelle. Teoricamente non dovrebbero esserci problemi per i 5Stelle, perché nel loro programma elettorale originario, precisamente nel capitolo dedicato alla giustizia, i grillini hanno proposto nero su bianco proprio l’abbassamento della soglia di punibilità a 12 anni “visto l’aumento della capacità - si legge nel testo - e della maturità dei ragazzini che alle volte commettono consapevolmente reati molto gravi”. Ieri mattina, sia il presidente della Camera Roberto Fico intervenendo a Napoli ad un convegno sulla giustizia minorile promosso dalla Cisl, che il questore Antonio De Iesu, hanno affrontato proprio la questione delle baby gang spiegando che la priorità è la prevenzione, mettendo l’accento sul ruolo degli assistenti sociali e sulla lotta alla dispersione scolastica come strumenti per riuscire a recuperare i ragazzini influenzati da valori negativi. “Siamo sempre allo stesso punto - ha dichiarato Fico - dobbiamo combattere la dispersione scolastica, dobbiamo far sì che tutti i nostri figli, che sono i figli di questa città e non solo, possano andare a scuola a tempo pieno, ci devono essere luoghi dove ci sia davvero un esercito di assistenti sociali, di operatori del sociale, dove le scuole sono aperte, in collaborazione con i Comuni, con le municipalità, con le associazioni, con le parrocchie, con tutte quelle attività che fanno sì che il quartiere diventi formativo e sicuro. Sennò - ha proseguito la terza carica dello Stato - ci ritroveremo sempre allo stesso modo, quello che accadeva 30 anni fa accade 30 anni dopo, ovvero una rigenerazione di una cultura micro criminale, una cultura camorristica all’interno dei nostri territori. Noi dobbiamo spezzare definitivamente questa catena e lo possono fare solo le istituzioni e la politica con un impegno serio”. Anche il Questore Antonio De Iesu ritiene necessario un tipo di intervento sociale e culturale per riuscire a contrastare la deriva della criminalità minorile e fermare l’arruolamento dei minori da parte della criminalità organizzata. “Dopo i gravissimi fatti che hanno caratterizzato Napoli nell’ultimo anno abbiamo dato delle risposte forti”, ha ricordato il questore citando i casi di aggressioni da parte di baby gang a coetanei, ma per De Iesu “bisogna capire perché succede questo e perché c’è tanta crudeltà, violenza e capacità di interpretare i valori etici della convivenza civile da parte di minorenni”. Ma quindi, fino ad oggi, un minore di 14 anni che commette un reato la fa, come si suole dire, franca? Assolutamente no. Il minore di anni 14 non è, finora, imputabile penalmente. Tuttavia se viene riconosciuto socialmente pericoloso possono essere previste delle misure di sicurezza che non costituiscono una pena e quindi si applica l’istituto della libertà vigilata o il ricovero in riformatorio. Prima del compimento di tale età, è possibile sottoporre il bambino o ragazzino al cosiddetto processo di sicurezza, finalizzato all’applicazione di una misura di sicurezza, vale a dire una misura applicata dal giudice minorile che è limitativa della libertà personale e che può essere di due tipi: libertà vigilata e collocamento in comunità. Resta il fatto che un bambino di 12 anni, non può essere liquidato come delinquente se commette un reato, ma il più delle volte è una vittima. Un servizio di Sky TG24, l’altro ieri, ha fatto un servizio dove ha svelato come i pusher utilizzano i bambini come vettori della droga. I cosiddetti baby boss non sono altro che minori adescati dalla criminalità organizzata (come la camorra) per fungere da “pony express” della droga o altro. La risposta per questi minori deve essere proprio il carcere? L’esercizio della grazia non sopporta forzature di Francesco Ognibene Avvenire, 16 febbraio 2019 Il presidente della Repubblica può concedere grazia”. Nel sobrio elenco dei poteri assegnati al capo dello Stato - indire elezioni, promulgare leggi, comandare le Forze armate, presiedere il Csm - all’undicesimo comma dell’articolo 87 la Costituzione colloca anche la facoltà di aprire la cella ai detenuti. Il linguaggio dei padri costituenti è volutamente asciutto: non va oltre le esatte parole citate. Dunque, il provvedimento “clemenziale” che “estingue, in tutto o in parte, la pena inflitta con sentenza irrevocabile” - come spiega il sito del Quirinale nella sezione esplicativa dedicata alla Carta - non dipende da condizioni particolari, né va giustificata in alcun modo, o ricondotta a criteri che la collochino in un certo contesto: si tratta, appunto, di una “grazia” che il Presidente concede quando ravvisa a suo insindacabile giudizio che il provvedimento sia opportuno o necessario. Le parole hanno un loro preciso significato, anche quando sono così poche, come in questo caso. Strattonare la Costituzione o il presidente della Repubblica per fargli dire quel che non dicono è un esercizio scorretto e strumentale, una pratica che andrebbe risparmiata ai simboli dell’unità nazionale. Ma ieri c’è chi non ha resistito e, dopo che il Colle nella serata di giovedì ha comunicato che il capo dello Stato aveva firmato tre “atti di clemenza individuale”, si è aperto il gioco non già delle legittime interpretazioni ma dei malcelati ammiccamenti e delle allusioni tra le righe, il che è pure peggio. I graziati sono infatti tre anziani - come fa notare con garbo il comunicato annotando le date di nascita: 1930, 1931 e 1941, con un residuo di pena da espiare di pochi anni (un massimo di 5 e 8 mesi), in “precarie condizioni di salute”, con i “pareri favorevoli espressi dalle autorità giudiziarie”, e condannati per delitti “maturati” in “eccezionali circostanze”. In carcere i tre sono finiti infatti per aver ucciso il figlio tossicodipendente o - in due casi - le mogli affette da Alzheimer. Così le “circostanze eccezionali” a qualcuno devono essere suonate come un’ammissione che dare la morte possa essere giustificabile in casi particolari, attribuendo questa recondita intenzione nientemeno che a Sergio Mattarella. Un’operazione più che ambigua in giorni nei quali la Camera sta esaminando inquietanti proposte di legge dal sapore eutanasico. Alle parole si lasci il loro significato, specie quando sono tanto calibrate. Imparando dal Colle che i cittadini vanno serviti, non ingannati. Pordenone: processo per la morte di Stefano Borriello, Antigone ammessa parte civile di Andrea Oleandri* ilfriuli.it, 16 febbraio 2019 Durante la prima udienza dibattimentale che si è tenuta il 30 gennaio il Giudice del Tribunale di Pordenone ha ammesso Antigone - rappresentata dall’Avvocato Simona Filippi - quale parte civile nel processo per la morte di Stefano Borriello, deceduto nel carcere di Pordenone il 7 agosto 2015, a soli 29 anni, nel quale imputato è il medico del carcere friulano. “Fin dai primi mesi successivi alla morte del ragazzo Antigone, attraverso il proprio Difensore civico, come accaduto anche in altre occasioni, ha seguito l’intera vicenda” dichiara Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione. “Le incongruenze sulla morte di Stefano Borriello - come ricorda Simona Filippi, già difensore civico di Antigone e avvocato che sta seguendo il processo - erano molte, cosa che ci spinse l’8 aprile 2016 a presentare un esposto davanti alla Procura della Repubblica di Pordenone e poi a seguire la fase delle indagini, con apposite perizie realizzate da medici incaricati dalla nostra associazione, sino ad opporci alla richiesta di archiviazione. È proprio questa attività - conclude l’avvocato Filippi - che ci ha spinto a presentarci come parte civile”. “Questo processo - precisa Patrizio Gonnella - pone il tema del rispetto del diritto alla salute che è connesso al diritto alla vita. Noi siamo nel processo non perché vogliamo capri espiatori ma per stare dalla parte di chi cerca giustizia. Inoltre si tratta di un caso che pone in modo paradigmatico il tema del trattamento medico e della necessità di pensare a più elevato livelli di assistenza psico-fisica nelle carceri”. Di seguito una breve cronistoria sul caso Borriello. L’8 aprile del 2016 l’associazione ha presentato un esposto davanti alla Procura della Repubblica di Pordenone per denunciare diverse incongruenze sulla morte del giovane. Secondo la comunicazione di decesso sottoscritta dal Direttore, alle 20.15, Stefano veniva notato da un agente di polizia penitenziaria all’interno della sua cella (la n.2) mentre perdeva i sensi e cadeva a terra; veniva trasportato d’urgenza al Pronto soccorso dell’Ospedale di Pordenone ove veniva constatato il decesso. Secondo la Dott.ssa Zecca - il medico che per Antigone ha redatto apposita consulenza sulle cause del decesso - il giovane è morto per una banale polmonite in quanto i medici non hanno posto in essere neanche i minimi accertamenti per capire da cosa erano determinati la febbre alta e i dolori che lo stesso lamentava. Le indagini preliminari si sono sviluppate in due fasi con esito analogo ossia la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero. Nella prima fase, il consulente della Procura, pur dando atto che Stefano è deceduto per broncopolmonite da “acquisizione di batteri comuni ambientali generici” e che la stessa “è stata contratta circa una settimana prima del decesso” e pur dando atto che il giorno precedente il decesso - il 6 agosto - era opportuno un “approfondimento clinico/diagnostico/strumentale” e che i dati della “semeiotica toracica” rilevabili mediante percussione e auscultazione “avrebbero potuto rilevare dati anomali” per cui sarebbe stato necessario eseguire esame radiologico, tuttavia, concludeva il consulente, un trattamento antibiotico non avrebbe potuto evitare il decesso del giovane. Come si poteva sostenere che una “banale” broncopolmonite, anche se diagnosticata in ritardo, non potesse essere curata? Questo dubbio è stato condiviso anche dal Giudice delle indagini preliminari il quale, a seguito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, avanzata dalla madre del giovane, ha ritenuto necessario disporre una integrazione delle indagini preliminari. Era il 28 settembre 2016. In questa seconda fase delle indagini, il Pubblico ministero, dopo aver disposto una integrazione della consulenza medica, il 17 luglio 2017, avanzava una seconda richiesta di archiviazione con motivazioni ancora più farraginose delle precedenti in quanto il Consulente della Procura motiva ampiamente e senza mezzi termini sulle molteplici e gravi omissioni poste in essere dal medico di reparto: “Nel diario clinico redatto in data 6 agosto 2015 nessun riferimento viene fatto al rilevamento di parametri vitali e/o all’esecuzione di un esame obiettivo toracico. Tali manovre, semplici e di facile esecuzione, erano indispensabili alla luce della sintomatologia, componendo in capisaldi elementari di ogni prestazione medica: anamnesi accurata ed esame obiettivo.” Antigone presenta formale atto di opposizione alla richiesta di archiviazione che verrà discussa all’udienza del 18 dicembre 2017: secondo il consulente specialista in malattie infettive nominato dall’associazione, una visita del paziente anche il giorno prima del decesso avrebbe permesso di iniziare una terapia che avrebbe aumentato notevolmente le possibilità di sopravvivenza del giovane. All’esito dell’udienza, il Giudice disponeva provvedimento di imputazione coatta che portava il Pubblico ministero alla formulazione del capo di imputazione per omicidio colposo nei confronti del medico del carcere. L’8 maggio 2018 si è tenuta l’udienza preliminare dinanzi al Giudice che si è conclusa con il rinvio a giudizio del medico. Il 30 gennaio 2019 si è tenuta invece la prima udienza dibattimentale durante la quale Antigone ha presentato la sua richiesta di ammissione quale parte civile, cui sia la difesa dell’imputato che il Pubblico Ministero si sono opposti. Tuttavia il Giudice ha accettato questa costituzione sostenendone la legittimità. Lo stesso Giudice, durante questa udienza, ha chiarito di voler dare una priorità a questo processo convocando una nuova seconda udienza per il giorno 10 maggio dove verranno sentiti dieci dei testi della pubblica accusa (medici e compagni di cella di Stefano). *Ufficio Stampa Associazione Antigone Foggia: uccise la compagna, 48enne trovato morto in carcere di Pasquale Sorrentino Il Mattino, 16 febbraio 2019 È morto nel carcere di Foggia Gimmino Chirichella arrestato per l’omicidio della compagna, Violeta Senchiu, avvenuto a Sala Consilina lo scorso novembre. Chirichella, 48 anni, è morto per un presunto arresto cardiaco. Fu arrestato la notte successiva al decesso di Violeta, arsa viva in casa con l’accusa di omicidio premeditato. Anche lui rimase ferito e ustionato a causa delle fiamme. Ieri mattina il decesso. Venezia: “Michael è pieno di lividi”, ma non doveva stare in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2019 Detenuto a Santa Maria Maggiore, 19 anni, le sue condotte sono influenzate da problemi psichiatrici. la magistratura dovrà accertare che cosa sia accaduto dopo l’intervento degli agenti che hanno cercato di immobilizzarlo visto il suo stato di evidente agitazione. “Vai subito da Michael, perché mio marito lo aveva sentito gridare come un maiale!”. È la moglie di in detenuto che, appena ha visto la madre di Michael, un ragazzo di 19 anni, le ha detto di entrare subito a parlargli. Sì, perché non essendosi presentato al tribunale di sorveglianza (era arrivato un fax dicendo che era molto agitato), la madre subito si è recata in carcere per vedere come stava. Racconta a Il Dubbio che gli agenti penitenziari non volevano farglielo incontrare: le hanno detto che aveva avuto dei problemi e non riusciva a scendere alla saletta dei colloqui. Lei allora ha fatto il colloquio con l’altro figlio, anche lui detenuto, e nell’incontrare la madre è scoppiato a piangere, dicendole: “Lo hanno picchiato, mi hanno riferito che l’hanno gonfiato di botte”. A quel punto la madre ha insistito nel voler vedere Michael e ci è riuscita. “L’ho visto con gli occhi neri, naso fratturato, tutto gonfio e pieno di lividi”. Il figlio le ha detto che non ce la fa più, che sente le voci, che vede le ossa dappertutto. Michael infatti ha dei problemi psichiatrici, una invalidità civile riconosciuta al 100 per cento. Una storia complicata alle spalle. Michael Sico Gasmi, da minorenne, aveva fatto parte di una cosiddetta baby gang, ma si scoprì che le sue condotte erano influenzate da un problema psichiatrico, confermato anche dal Centro di Igiene Mentale per Minori. Mentre era ai domiciliari con il braccialetto elettronico è sopraggiunta una condanna per aver compiuto, da maggiorenne, una rapina (più che altro, osserva il suo difensore che conosce bene le carte del processo, considerata tale dal codice più che per la reale pericolosità del fatto). A questa si è aggiunto anche il cumulo di pena per i reati commessi da minorenne. Quindi, divenuto definitivo, Michael è entrato nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, per scontare una pena superiore ai 4 anni. È chiaramente incompatibile con il carcere, ma non è stato dichiarato incapace di intendere e volere dal punto di vista penale e quindi non gli è rimasto che rimanere recluso, senza misure alternative come i centri specializzati per trattare la sua patologia. Durante la carcerazione Michael era agitato, era diventato ingestibile, riferisce il suo difensore, a Il Dubbio, e potenzialmente pericoloso per sé e nei confronti di altri detenuti. A quel punto lo hanno collocato in un’altra cella, da solo, racconta l’avvocata Stefania Pattarello del Foro di Venezia, dove hanno dovuto togliergli anche le lenzuola e lasciargli quelle di carta, perché aveva già tentato di soffocarsi. È stato raccontato all’avvocata che il giovane avrebbe smontato tutta la branda e con un pezzo di questa avrebbe cominciato a battere contro il blindo, urlando che si sentiva soffocare, di non farcela più. A quel punto sono intervenuti gli agenti penitenziari per immobilizzarlo. Non sappiamo cosa sia accaduto. È stato picchiato, oppure i lividi sono stati causati dal suo stato di agitazione? Questo sarà la magistratura ad accertarlo. L’avvocata Stefania Pattarello è andata ieri al carcere per capire l’accaduto. Non ha potuto vedere Michael, perché nel frattempo è stato trasferito al carcere di Verona dove c’è l’unico “reparto di osservazione psichiatrica” nella regione veneta, specializzato per svolgere l’osservazione delle malattie mentali dei detenuti e valutarne la compatibilità con il carcere. “Questa è l’unica buona notizia - spiega a Il Dubbio l’avvocata, perché lì potranno finalmente fare una diagnosi per accertare se è un infermo mentale anche dal punto di vista penale”. Pattarello spiega che purtroppo, dal punto di vista penale, non è considerato incompatibile e quindi il carcere stesso si è trovato a gestire una situazione senza strumenti adeguati. “La stessa direttrice - sottolinea l’avvocata - si dice dispiaciuta per il fatto che un ragazzo di 19 anni si trovasse in questa situazione, nonostante i solleciti che hanno fatto alle autorità preposte”. L’avvocata aggiunge che l’unica certezza è che ci sia stata una omissione, ovvero qualcuno doveva intervenire per disporre una misura diversa dalla detenzione. Per quanto riguarda se ci sia stato un pestaggio, questo non è possibile, per ora, accertarlo. Tutti gli agenti e operatori testimoniano che non è stato picchiato, ma solo immobilizzato. La madre però, che ha potuto veder il figlio, dice che non è possibile che si sia procurato da solo tutti quei lividi. L’unica certezza però è che una responsabilità c’è, ovvero che non è stata fatta una diagnosi che accertasse la sua infermità mentale. Ora è nel “reparto di osservazione psichiatrica” del carcere di Verona, dove finalmente i sanitari potranno verificare la sua situazione medica. Ma rimane aperta la lacuna dal punto di vista legislativo. Ad oggi, la malattia fisica non è equiparata a quella psichica. Ciò determina il fatto che il carcere, di fatto, è considerato compatibile nei confronti di chi, compatibile non lo è affatto. Soprattutto un giovanissimo di 19 anni che dovrebbe essere curato, invece che segregato in una struttura non adeguata dove gli agenti penitenziari non possono essere in grado di gestirlo. Da qui, le degenerazioni che possono sfociare in situazioni drammatiche. Il caso è stato segnalato al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e anche a Rita Bernardini del Partito Radicale che prontamente si è attivata scrivendo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Venezia: caso Sissy, ispettori in carcere e giro di vite sulla sicurezza di Nicola Munaro Il Gazzettino, 16 febbraio 2019 Al momento è una bozza, ma tanto basta per rovesciare di 360 gradi l’impostazione e il modo di vivere all’interno del carcere femminile di Venezia, alla Giudecca. Perché quello che verrà imposto a giorni dalla Commissione incaricata dal Ministero della Giustizia di portare a termine un’ispezione all’interno del penitenziario femminile di Venezia, è un notevole giro di vite. Niente più commistioni tra agenti e detenute, niente più acquisti di merce dall’esterno - se non attraverso una ditta approvata dal Ministero - addio, perfino, alla tinta ai capelli. Eccole le linee guida frutto dell’ispezione voluta dal Ministero della Giustizia per fare luce sulla vicenda di Maria Teresa Trovato Mazza, l’agente di polizia penitenziaria - chiamata dagli amici Sissy - morta a 29 anni il 12 gennaio scorso, dopo due anni di coma dovuti a un colpo esploso l’1 novembre 2016 in un ascensore del reparto di Pediatria dell’ospedale Civile di Venezia. L’ispezione portata avanti tra martedì e giovedì scorsi da una commissione di cinque membri, aveva il compito di ricostruire l’ambiente della Giudecca, più volte denunciato dalla stessa agente all’allora direttrice Gabriella Straffi attraverso alcune lettere in cui si parlava di “fatti gravi che riguardano le mie colleghe” raccolti da lei attraverso le confessioni di “molte detenute”. Forse droga, forse rapporti fin troppo forti tra detenute e agenti. Sospetti e dubbi La stretta - Fatto sta che adesso cambierà tutto. Sono quattro i maxi-punti che attraverso “consigli o prescrizioni” per la futura gestione del penitenziario della Giudecca, riassumono l’esito della visita della Commissione ministeriale. Tra i punti salienti, per i commissari, c’è la cancellazione della “sorveglianza dinamica”, cioè del fatto che gli agenti possano camminare in mezzo alle detenute negli spazi di socialità. D’ora in poi alla Giudecca il comportamento delle carcerate si dovrà controllare attraverso le telecamere di sicurezza. Il tutto sarà visionato dagli agenti di polizia penitenziaria in una sorta di control room, da cui uscire solo in caso di emergenze. Per sedare delle risse, ad esempio. È, questo, il provvedimento principe prescritto dalla Commissione, che poi si è spinta a regolamentare anche le differenze tra quante lavorano all’esterno e nelle vicinanze delle mura di cinta del carcere, da chi non esce mai o presta servizio in cucina. Due stili di vita che da adesso non si incroceranno più, nemmeno di notte. Chi è impiegata nella lavanderia e nell’orto del carcere - e potrebbe venire in contatto con il mondo esterno - dovrà dormire in un reparto apposta (da trovare, ndr). Trattamento identico a chi lavora all’esterno del carcere e già dorme nella zona cosiddetta dei semiliberi, secondo quanto previsto dal regolamento carcerario per il lavoro esterno. L’obiettivo? Azzerare il più possibile i contatti tra l’esterno e l’interno della Giudecca. Anche per questo è stata tolta alle detenute la possibilità di rivolgersi alla cooperativa Granello di Senape per gli acquisti all’esterno. Chi vorrà qualcosa in più rispetto all’ordinario, dovrà chiederlo alla ditta di Sopravvitto che ha vinto il bando di servizio anche per il carcere maschile di Venezia. Semaforo rosso, poi, alla tintura dei capelli: lo impone l’unico regolamento nazionale sulle carceri e deve essere rispettato da tutti senza differenze tra uomini e donne. La polemica - “Erano accordi da lungo sperimentati per rendere la vita di queste donne il più decente possibile - commenta Sergio Steffenoni, garante dei detenuti del Comune di Venezia, per i penitenziari di Santa Maria Maggiore e della Giudecca - Sono contrariato poi dal fatto che cinque maschi siano stati mandati in un carcere femminile perché non riescono a comprendere la differenza dei due tipi di detenzione. Anche l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva chiesto che ci fosse diversità di trattamenti. Forse a qualcuno dava fastidio che la Giudecca fosse un esempio. Questa commissione ha posto muri dove c’erano ponti”. Torino: i detenuti servono il caffè ad avvocati e giudici nel bar del tribunale di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2019 “Il caffè qui, le birre a Saluzzo e il pane ad Alessandria - spiega Marco Ferrero, presidente della cooperativa - Questo bar è una filiera che comincia nelle carceri e termina in tribunale”. Gomis: “Tra 9 mesi sarò libero, vorrei continuare a lavorare”. Ma la coop lancia l’allarme: “Temiamo che con il dl Salvini i detenuti extracomunitari a fine pena siano espulsi vanificando il loro percorso di reinserimento”. Dalla mattina fino al primo pomeriggio Gilles e Godfrey servono caffè, brioches e panini ad avvocati, magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine e chi passa per il bar del Palazzo di giustizia. Poi, finita la giornata, tornano a scontare la pena a cui sono stati condannati. Gilles Gomis e Godfrey Ukaegbu sono due dei detenuti ed ex detenuti che ogni giorno si alternano dietro il bancone della “Caffetteria del tribunale”, aperta a novembre a Torino. A lungo il bar del tribunale era rimasto chiuso. La ditta vincitrice dell’appalto non riusciva a pagare l’affitto al Comune di Torino. Indagando, la Guardia di finanza aveva scoperto che la società non aveva le carte in regola e per questa ragione a giugno comincerà il processo a dieci persone per turbativa d’asta e altri reati. Poi nell’autunno 2017 la sindaca Chiara Appendino, insieme al procuratore generale Francesco Saluzzo e all’allora presidente della Corte d’appello Arturo Soprano, avevano firmato un’intesa per una gara d’appalto riservata alle cooperative sociali finalizzate al reinserimento dei detenuti. Il bando è stato vinto da un’associazione temporanea di imprese composta da Liberamensa, presieduta da Pietro Parente, e dal Consorzio Abele Lavoro in partenariato con la Cooperativa Pausa Caffé. La prima, Liberamensa, ha un laboratorio di cucina all’interno del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino dove i detenuti possono imparare a cucinare e a fare il pane. In passato gestivano anche un ristorante all’interno della struttura e una panetteria a Torino. Pausa Caffè, invece, fornisce alcuni prodotti: “Noi facciamo il caffè nel carcere di Torino, le birre a Saluzzo e il pane ad Alessandria - spiega Marco Ferrero, presidente della cooperativa - Questo bar è una filiera che comincia negli istituti di pena e termina qui in tribunale offrendo un’occasione di reinserimento”. “Qui si riesce a vedere quello che in tutti questi anni non si è riuscito a vedere - aggiunge Emilia Luisolo, dipendente di Liberamensa - Non ci sono soltanto i detenuti che vediamo qui, ma anche quelli che in carcere lavorano per preparare i pasti, il pane, il caffè”. “Prima non sapevo fare niente - spiega Gomis, 22enne originario del Gabon - Ero arrivato a Torino lasciando mia madre a Parigi, ho raggiunto degli amici. Non lo sapevo, ma spacciavano e ho cominciato anche io. Sono stato alcuni mesi al carcere minorile, poi sono scappato da una comunità fino a quando sono stato arrestato di nuovo, ma ero maggiorenne”. In carcere viene subito in contatto con Liberamensa e il vicepresidente, Andrea Bennati, lo prende sotto la sua protezione: “Ho imparato a fare i caffè e a fare i panini. La cooperativa ha fatto tanto per me, gliene sono grato. Mi spiace che molti detenuti non abbiano questa opportunità”. Tra nove mesi tornerà a essere un uomo libero: “Vorrei continuare a lavorare”. Questo è anche il desiderio di Ukaegbu, 44enne nigeriano che sta finendo di scontare una condanna per spaccio ottenuta molti anni fa. “Al carcere di Saluzzo ho cominciato a lavorare nel birrificio. Dopo un anno e sei mesi sapevo fare la birra. Poi mi hanno offerto di trasferirmi a Torino per lavorare qui. Gestisco la sala, scaldo i panini, consiglio le birre”. A lui restano otto mesi per terminare di scontare la pena: “Se il contratto continua vorrei proseguire e lavorare per mantenere la mia famiglia”. Giovedì nel bar è stata inaugurata una mostra di opere realizzate dai detenuti e ispirate ai reperti del Museo Egizio. In questa occasione le autorità hanno anche dato il loro “benvenuto” al bar riaperto da quattro mesi: “La nostra costituzione afferma che la pena deve arrivare al reinserimento del condannato e il lavoro è una buona occasione”, ha detto il presidente della Corte d’appello Edoardo Barelli Innocenti. “Ho avuto occasione di incontrare i detenuti e le detenute - ha dichiarato la sindaca - Mi colpisce che la cosa che più gli spaventa è la paura di cosa accadrà dopo la pena. La sconfitta nasce quando una persona ha pagato e si sente respinta. Progetti come questi sono fondamentali: se le lasciamo sole perdiamo tutti”. Un grande interrogativo, però, resta sul futuro di molti: “Temiamo che con il dl Salvini i detenuti extracomunitari a fine pena siano espulsi vanificando il loro percorso di reinserimento”, commenta Marco Ressa di Pausa Caffè. Roma: i detenuti de “L’Isola Solidale” cucinano e servono i pasti ai senza tetto agensir.it, 16 febbraio 2019 Questa sera alle 20:45, in via della Conciliazione a Roma (altezza sala stampa della Santa Sede), i detenuti dell’Isola Solidale insieme ai volontari dell’Opera Divin Redentore distribuiranno i pasti alle numerose persone senza fissa dimora che vivono nelle vicinanze della basilica di San Pietro. Verranno serviti 40 pasti che prevedono: pasta al pomodoro, pollo, verdura e dolci. Tutto fatto in casa dai detenuti dell’Isola Solidale che si sono mobilitati per questa nuova esperienza. Due di loro hanno avuto un permesso speciale dal magistrato e saranno a via della Conciliazione per distribuire i pasti insieme agli altri volontari, mentre gli altri detenuti si occuperanno della cucina, dello sporzionamento dei pasti e del loro confezionamento. Questa nuova iniziativa segue quella dello scorso 23 gennaio, che aveva visto protagonisti sempre gli ospiti dell’Isola Solidale (una struttura che da oltre 50 anni accoglie detenuti grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che decisero di offrire l’accoglienza notturna ad almeno due persone senza tetto della Capitale, soprattutto della zona dell’Ardeatina. “È questa un’ulteriore esperienza di integrazione per i nostri ospiti- spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - che hanno sempre voluto mettersi in gioco per sostenere chi si trova in difficoltà”. “A questa prima uscita - aggiunge Pinna - ne seguiranno altre, almeno una volta al mese, sempre in collaborazione con i volontari dell’opera Divin Redentore che ringrazio per la disponibilità”. Pesaro: detenuti “amanuensi” per il giornale del carcere di Roberto Mazzoli Avvenire, 16 febbraio 2019 Da 8 anni compilano un mensile, che esce con il settimanale interdiocesano; ma ora hanno i computer bloccati per un problema burocratico e hanno deciso di scrivere il nuovo numero completamente a mano. Questo numero esce in forma pre-Gutenberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili, non per cifra stilistica vintage, oggi molto di moda, ma perché in redazione non abbiamo più i computer”. Inizia così l’editoriale di “Penna Libera Tutti” di febbraio, mensile realizzato nel carcere di Pesaro e pubblicato come inserto del settimanale interdiocesano “Il Nuovo Amico”. Questa volta i lettori si troveranno in mano pagine scritte a penna dai detenuti che compongono la redazione: dieci della sezione maschile e 4 di quella femminile. “Si tratta di una forma di protesta pacifica - spiegano - nata unicamente con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e poter riprendere al più presto il nostro lavoro di redattori che, in quasi 8 anni, non si è mai fermato”. I computer sono stati sequestrati a novembre in seguito a un’ispezione di routine in cui è stata riscontrata la manomissione di una password. “Manomissione fatta in buona fede - si legge nell’editoriale - nel tentativo di correggere delle anomalie che si verificavano nel software”. Ma non cercano attenuanti i detenuti, che capiscono come la misura sia dettata da opportune verifiche di sicurezza. “E comprensibile - scrivono - che nel posto in cui siamo e con l’accessoria burocrazia complicata e poco veloce, gli interventi possano non essere snelli, ma di fatto sono passati tre mesi”. Un’attesa infinita per chi, dietro le sbarre, perde la dimensione stessa del tempo. Si tratta di quattro computer di seconda mano, donati dal buon cuore della gente che, negli anni, ha voluto contribuire all’allestimento delle postazioni giornalistiche. “Noi a questo lavoro in redazione teniamo moltissimo - spiegano - e ci impegniamo con grande serietà perché ad ogni uscita del nostro piccolo giornale abbiamo l’opportunità di costruire un ponte di libertà verso l’esterno”. Nel 2016 attraverso questa fragile strada di carta un detenuto di Pesaro ha potuto consegnare “Penna Libera Tutti” nelle mani di Papa Francesco in occasione del Giubileo della Misericordia. Lo ha fatto a nome dell’intera casa circondariale, 200 ospiti e altrettanti addetti ai lavori. Inoltre da anni la redazione si è aperta alle scuole del territorio per un percorso di legalità con gli studenti. “I ragazzi - spiegano i detenuti - aspettano di poterci leggere ogni mese per lavorare in classe con i loro insegnanti e preparare gli incontri all’interno del penitenziario”. Comunque l’attenzione suscitata da questa edizione “manuale” non si sta facendo attendere. La notizia infatti è stata ripresa dalla stampa locale e nazionale ed è circolata nelle sedi istituzionali del territorio e nelle scuole che ne hanno colto il messaggio pacifico e intelligente. Anche Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia e direttrice di “Ristretti Orizzonti” di Padova, rivista carceraria tra le più importanti d’Italia, ha espresso il suo apprezzamento: “Si tratta di un’idea geniale, perché così dal carcere si può far capire che si può protestare in modo non violento e quindi ancora più significativo, e anche perché si può richiamare l’attenzione sull’importanza che hanno questi giornali, che raccontano un mondo altrimenti sconosciuto o conosciuto spesso malamente attraverso la cronaca nera e la tv”. Torino: i Garanti dei detenuti per la prevenzione della radicalizzazione violenta di Massimiliano Quirico comune.torino.it, 16 febbraio 2019 “Il carcere è un luogo che fa parte della città e può e deve essere anche un luogo di studio e formazione per favorire la re-integrazione nella società”. Con queste parole la vicepresidente del Consiglio Comunale di Torino, Viviana Ferrero, ha aperto a Palazzo Civico i lavori del seminario formativo “Fair - Fighting against inmates radicalisation” rivolto ai garanti dei detenuti di tutta Italia, per prevenire la radicalizzazione violenta in carcere. La vicepresidente Viviana Ferrero ha portato il saluto della Città. “È un progetto europeo promosso dalla Fondazione Nuovo villaggio del fanciullo di Ravenna - come ha spiegato Stefania Mariano, responsabile del fund raising dell’iniziativa - che si sviluppa su due anni, con un budget da un milione di euro e coinvolge 9 partner di 8 Paesi”. Come ha raccontato Luca Guglielminetti, facilitatore del progetto, è un’opportunità concreta per prevenire la radicalizzazione violenta, che nasce da una riflessione sviluppata due anni fa con la garante torinese dei detenuti, Monica Cristina Gallo, e che ha già visto interventi a Torino, Forlì e Firenze, con il coinvolgimento di personale volontario, esterno all’amministrazione carceraria, ma che lavora con detenuti e detenute. Sono inoltre stati sensibilizzati 50 imam di tutta Italia e i cappellani di Torino. “Siamo onorati di partecipare a queste due giornate torinesi di formazione sulla radicalizzazione - ha affermato Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino. È utile per avere strumenti a garanzia dei diritti fondamentali di chi si trova in carcere: è il passo più importante per fare un’efficace opera di prevenzione”. “In Comune - ha ricordato - è inoltre già attivo un Tavolo sulla radicalizzazione ed è stato firmato un protocollo per favorire il culto, anche nel carcere minorile. “I recenti efferati attentati terroristici - ha dichiarato il garante piemontese dei detenuti Bruno Mellano - hanno acceso un faro sul modo di fare cultura nelle carceri. Si è risposto subito in modo emergenziale, ma ora occorrono riflessioni più meditate per costruire una rete di attenzione e intervento e presa in carico di un potenziale pericolo”. Luca Guglielminetti ha quindi illustrato le modalità operative dell’attività di formazione in programma il 15 e il 16 febbraio presso il Municipio di Torino, rivolta a tutti i garanti d’Italia: un fatto unico in Europa sul tema della radicalizzazione. Monza: il comune regala mille euro di libri al carcere monzatoday.it, 16 febbraio 2019 Ci sono i best seller, come “Lazarus” di Lars Kepler o “La spada dell’impero” di Simon Scarrow, le grandi inchieste come “Il patto sporco” di Nino Di Matteo e Saverio Lodato e lo sport con “Zanetti. Leggenda dell’Inter”. Sono settantotto, per un costo di mille euro, i libri acquistati dal Comune di Monza e donati alla Biblioteca del Carcere di via San Quirico. Un progetto che nasce dalla Convenzione tra il Comune e la Casa Circondariale di Monza, firmata lo scorso 23 novembre, per promuovere lo sviluppo del servizio bibliotecario carcerario. “Obiettivo della Convenzione - spiega l’Assessore ai Sistemi Bibliotecari Pier Franco Maffè - è far scoprire come il carcere è un ambiente che presenta delle difficoltà, ma può essere anche un luogo dove si crea e si diffonde cultura, rompendo in questo modo facili pregiudizi e preconcetti”. Lo scopo è la promozione della lettura favorendo quanto più possibile l’accesso dei detenuti ai volumi della Biblioteca della Casa circondariale, “potenziata” dall’arrivo di nuovi volumi. La Biblioteca del Carcere monzese conta un patrimonio di oltre dieci mila titoli e due mila prestiti annuali. L’assessore guarda oltre l’acquisto dei libri: “Con la Convenzione vogliamo sostenere l’attività della Biblioteca della Casa circondariale perché diventi un volano per dare vita a un continuo scambio tra il carcere e l’esterno, mettendo così in contatto e in dialogo mondi diversi: il volontariato, il Sistema Bibliotecario e i detenuti”. Partnership a tre: comune, carcere e volontariato - Con il documento dello scorso novembre, che ha una durata di cinque anni, è stato istituito un rapporto organico tra i sistemi bibliotecari della Città di Monza e la Biblioteca interna alla Casa Circondariale di Monza, gestita dai volontari dell’associazione “La biblioteca è una bella storia” che garantiscono l’apertura della biblioteca del carcere per più di venti ore settimanali. In particolare il Comune di Monza si impegna a fornire un supporto di conoscenze e competenze per l’apprendimento di tecniche elementari di gestione di una biblioteca di base e a garantire il servizio di prestito interbibliotecario con le biblioteche del sistema BrianzaBiblioteche, oltre ad aggiornare e incrementare il patrimonio librario e documentario della biblioteca di via San Quirico, sulla base dei suggerimenti di chi utilizza la biblioteca raccolti dai volontari de “La biblioteca è una bella storia”. I nuovi libri - Tra i nuovi libri entrati in carcere, oltre a romanzi ci sono i classici della letteratura in lingue straniere: inglese, francese, spagnolo e tedesco. Ma anche russo, cinese e arabo. E ancora manuali, libri sportivi e di psicologia, testi e dizionari per imparare la lingua italiana di particolare interesse per l’utenza carceraria straniera. Ferrara: “Eat Original” arriva anche nel carcere di via Arginone estense.com, 16 febbraio 2019 Ulteriore tassello della collaborazione tra Coldiretti e Casa circondariale, che anche grazie al lavoro di Avis Ferrara. Alla presenza del vice presidente di Coldiretti Ferrara, Gianni Paganini, in rappresentanza dell’organizzazione agricola, e del presidente di Avis Ferrara, Sergio Mazzini, stamattina presso la casa circondariale di Ferrara si è svolta la consegna del materiale per la raccolta delle firme della petizione europea “Eat Original”, promossa da Coldiretti e da altre associazioni europee per l’obbligatorietà dell’origine in etichetta, cui anche il personale in forza alla casa circondariale di Ferrara collaborerà. I dirigenti e le forze della polizia penitenziaria della Casa circondariale di Ferrara hanno aderito alla raccolta firme per la legge europea sull’origine in etichetta per tutti gli alimenti, dando seguito alla collaborazione con Coldiretti Ferrara ed Avis. Si tratta di un ulteriore tassello della collaborazione tra Coldiretti e Casa circondariale, che anche grazie al lavoro di Avis Ferrara, si sta concretizzando in iniziative di comune interesse, come è stato nel caso delle zucche del “Galeorto”, coltivate all’interno degli spazi verdi della struttura di Via Arginone ed in parte omaggiate ai donatori di sangue della città nel periodo natalizio. Savona: “Il Corno di Olifante”, l’omaggio dei detenuti di Rebibbia a Paolo Borsellino di Graziano De Valle savonanews.it, 16 febbraio 2019 “Il Corno di Olifante”, dedicato alla figura del magistrato Paolo Borsellino, approda a Cairo Montenotte. La rappresentazione teatrale messa in scena dalla Compagnia Stabile Assai di Rebibbia, si terrà il prossimo 15 marzo presso il Teatro Comunale “Osvaldo Chebello”. Nei giorni scorsi, la giunta comunale guidata dal primo cittadino Paolo Lambertini ha deliberato l’indirizzo per concedere l’utilizzo gratuito del Teatro cairese situato in piazza della Vittoria. Fondata nel 1982, la Compagnia Teatro Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma è un gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano. Si serve dell’attività teatrale come strumento di socializzazione e riadattamento ed è formata da detenuti e carcerati semi-liberi che fruiscono di misure premiali, oltre che da operatori carcerari e musicisti professionisti. I testi degli spettacoli sono inediti, scritti con la collaborazione di tutti i detenuti. Il magistrato Paolo Borsellino rimase ucciso per mano di Cosa Nostra il 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo. Con lui persero la vita anche i cinque uomini della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. I piccoli come anello debole dei drammi della marginalità di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 febbraio 2019 “Nelle famiglie disagiate la conflittualità è in crescita”. Lo scrittore Affinati: vanno salvati uno per uno. Sono figli d’una miseria di ritorno. Giuseppe, 7 anni, ammazzato a bastonate perché aveva “rotto la sponda del letto”, abitava nel devastato hinterland napoletano di Cardito. Sono prigionieri nel vuoto delle nostre periferie. Andrea, 8 anni, sopravviveva in una roulotte di nomadi a Carmagnola, vicino Torino, quando l’hanno buttato via come una scarpa vecchia e lui, vagando sulla Provinciale 129, ha detto ai vigili sbalorditi “la mia mamma non mi vuole più”. Sono vittime di una ferocia così assoluta da apparirci nuova (poiché la ferocia è memoria che tendiamo a rimuovere). La piccola di Genzano ora in ospedale veniva pestata spesso dall’uomo di sua madre nella stamberga di via San Carlino, ai Castelli: a 22 mesi, dava noia perché piangeva. È forte, ammettiamolo, la tentazione di fare del sociologismo davanti a un simile filotto di orrori. E forse non è nemmeno così fuorviante. Floriana Lo Bianco, da psicoterapeuta a lungo impegnata coi minori, lo sa per esperienza: “Fino a un anno e mezzo fa, nel weekend, si chiudevano alcune case famiglia perché i ragazzi tornavano nelle famiglie d’origine. Ora non rientra più nessuno, il 90 per cento sta sotto tutela del Tribunale dei minori, la conflittualità è molto maggiore. Se si interviene di più con l’articolo 403 del codice, togliendo i figli alle famiglie, è perché la condizione delle famiglie è sempre più devastata: la maggior parte vive in situazioni periferiche, Tor Bella Monaca, San Basilio… la crisi le travolge, si taglia sul sociale, i contrasti scoppiano, i bambini sono l’anello debole”. I bambini sono anche la cartina di tornasole della salute di una società. E, da noi, un milione e 300 mila minori sono in povertà assoluta, ricorda Save the Children. Erano oltre 21 mila gli ospiti di comunità e case famiglia a fine 2015, quasi il 58 per cento su provvedimento dell’autorità giudiziaria, a indicare uno strappo traumatico (molto più frequente negli ultimi tempi, come abbiamo visto, secondo gli operatori). I dati non sono freschi e questo è un altro problema tutto nostro. “L’Italia è priva di un sistema di rilevazione sulle violenze all’infanzia”, dice la garante per i minori Filomena Albano: “Ed è grave”. Così grave che le Nazioni Unite ci hanno spedito 14 pagine “raccomandandoci” la creazione di una banca dati e un lavoro di prevenzione, finora assai scarso (il sommerso, quando si parla di questo tipo di violenza, è diffuso). Siccome siamo un Paese che litiga su tutto, è sbucata negli ultimi anni una controtendenza secondo cui sarebbero troppi i minori (si dice 30 mila) sottratti alle famiglie: “rapimenti di Stato”, giustificati col “reato di povertà”, sostiene qualche sito complottista; i Cinque Stelle prima di andare al governo sembravano recepire anche questo filone dolente e avevano messo a punto un disegno di legge volto a limitare gli interventi della magistratura. La Albano ricorda logicamente che in uno Stato di diritto c’è il Tribunale dei minori e ci sono i gradi di ricorso: spazio per complotti, poco. In realtà la povertà non è certo un reato ma è assai probabilmente una precondizione e una molla. Lo psicanalista Massimo Ammaniti vede come denominatore comune di questi drammi di cronaca precarietà, inadeguatezza, disoccupazione: “Nelle zone del disagio è più difficile capire quale sia il bene e quale il male, rabbia e violenza prendono un unico colore”. L’indistinto grigio dei falansteri dove un’architettura ideologica ha pensato di comprimere i sogni e la quotidianità di migliaia di persone. Eraldo Affinati, scrittore ed educatore, parte da un presupposto più esoterico: “Esiste un fondo antropologico di malvagità nell’uomo, me ne sono convinto studiando Auschwitz e scrivendo poi “Campo di sangue”. Affinati coglie, certo correttamente, il “ghigno di questa malvagità” anche nella “cosiddetta borghesia avanzata” e nulla impedisce che i Parioli siano teatro di ferocia domestica quanto Tor Sapienza. Tuttavia anche lui ammette che in condizione di marginalità la natura malvagia viene fuori con più forza. Bizzarro periodo. A cercare ragioni economiche delle devianze si rischia di passare per giustificazionisti: in tempi di ritorno di Satana nel discorso pubblico, chi è cattivo, cattivo dev’esser nato. Ma la storia racconta altro. Nei periodi convulsi, cadono i deboli. “I vecchi svaniscono, semplicemente abbandonati. I bambini li abbiamo sotto gli occhi”, dice il sociologo Domenico De Masi. I bambini pagano per primi la sperequazione di ogni sconvolgimento della storia, Dickens l’ha raccontato nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale. “I bambini puoi salvarli solo uno per uno”, medita Affinati. Andrea, il piccolo rom rifiutato dalla mamma, ora vive in una casa protetta delle suore di Torino, ha cominciato a andare a scuola, pensa che i compagni siano la sua nuova famiglia. Uno per uno, si può. “Droghe, assisteremo le famiglie e va rivista la modica quantità” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 16 febbraio 2019 Il ministro Fontana: non c’è un livello ammissibile di uso degli stupefacenti e la modica quantità è un aiuto agli spacciatori. La canapa legale? Non dà un messaggio positivo. “L’idea è quella di ripensare profondamente il sistema della prevenzione e dell’assistenza. E dall’altra parte, rivedere le norme in quelle parti come la “modica quantità”: da un lato fa pensare che ci sia una quantità ammissibile, dall’altra impedisce di togliere gli spacciatori dalle strade”. Lorenzo Fontana ha appena letto il fondo di Antonio Polito sulla nuova emergenza droga: “È importante - osserva il ministro per la Famiglia - che la questione torni al centro dopo che per anni è sembrato che fosse superata. Il mio primo atto pubblico è stata una visita a San Patrignano. Ci ho incontrato persone cresciute al Saval, il mio quartiere di Verona”. Ministro, quali sono le caratteristiche del fenomeno? “Le droghe sono più facilmente accessibili e meno costose e sono cambiate le modalità di utilizzo. A eroina e cocaina si affiancano nuove sostanze reperibili sul web, droghe sintetiche pericolosissime che si tendono a mescolare e assumere con grandi quantità di alcool. Ma anche la cannabis è un problema diverso dal passato”. In che modo? “Ha causato un grande aumento delle richieste di trattamento presso i Serd, degli accessi ai pronto soccorso per intossicazione acuta, dei ricoveri nelle Comunità a causa della forte concentrazione del principio attivo contenuto”. La risposta sul territorio non è debole e inadeguata ai nuovi consumi? “Sul territorio i servizi sono molto differenziati, dipendono dalle diverse politiche regionali. Ma è vero che da parte degli operatori, delle comunità e del volontariato, mi segnalano gravi difficoltà e carenze di risorse”. Al di là dell’impegno degli operatori, i Serd non sono oramai inadeguati a rispondere alla sfida? “Gli orientamenti scientifici e organizzativi internazionali ci dicono che occorre un approccio globale e integrato. I Serd quindi devono essere aggiornati per affrontare tutte le varie forme di dipendenza. Sono proprio le neuroscienze a dirci che c’è una base comune nelle dipendenze, che anzi spesso coesistono”. Separare i ragazzini dall’ambiente in cui si drogano è una sfida che lo Stato è in grado di accettare? “Lo Stato ha il dovere di accettare la sfida alla droga, a chi la diffonde o ne predica un uso libero. Gli adolescenti vanno tutelati anche con “bonifiche ambientali” dei luoghi che mettono a rischio la loro vita, la loro dignità, il loro futuro. Credo che anche i sindaci non possano sottrarsi ad attivare interventi efficaci e risolutivi per non lasciare zone franche in mano agli spacciatori. E certo dobbiamo sostenere le famiglie anche attivando misure che permettano di contenere e inserire questi ragazzi, chiaramente a soli fini di recupero e non punitivi, in percorsi terapeutici non rinunciabili”. Come fare con i genitori che si ritrovano soli di fronte a un problema colossale? “Il Dipartimento sta già lavorando per trovare soluzioni concrete per questo enorme problema che mi viene continuamente segnalato sia dalle famiglie che dagli operatori. L’idea è quella di percorsi del tutto nuovi per accompagnare le famiglie”. Lei pensa di superare la modica quantità? “Certo. Ci stiamo lavorando con il ministro Salvini. Non possiamo pensare che si formi una riserva nella mente dei ragazzi secondo cui un pochino sia ammissibile drogarsi. In più, la modica quantità è un aiuto prezioso per gli spacciatori che difficilmente si fanno trovare con quantità superiori: vengono arrestati e in serata sono già liberi. Devo anche dire che la cosiddetta canapa legale, sorretta da importanti investimenti in marketing, credo non trasmetta un buon messaggio”. La conferenza nazionale sulle droghe non si fa da 11 anni. Pensa sia uno strumento da rilanciare? “Il confronto tra le parti in gioco è fondamentale. Ma è vero però che oggi esistono metodi più avanzati e meno costosi per la concertazione delle strategie. La conferenza nazionale nasce circa 30 anni fa, è possibile pensare a nuove modalità per la sua realizzazione”. Stati Uniti. Trump fa diventare il muro un’emergenza nazionale di Marina Catucci Il Manifesto, 16 febbraio 2019 Donald Trump, parlando dal giardino delle rose della Casa bianca, ha confermato ciò che si rumoreggiava da settimane, ovvero che per aggirare la rigidità del Congresso per niente prono a concedergli il budget necessario a costruire un muro tra Stati uniti e Messico, dichiarerà un’emergenza nazionale. Ciò che “The Donald” sta cercando di assicurarsi è un budget aggiuntivo di circa 8 miliardi di dollari, molto lontano dalle affermazioni della speaker democratica alla Camera, Nancy Pelosi, che ha più volte affermato di essere disposta ad investire per il muro un budget di 1 dollaro. Trump ha annunciato di voler anche firmare l’accordo bipartisan sulla finanziaria in modo da evitare un nuovo shutdown, un’interruzione delle attività lavorative che priva dello stipendio centinaia di migliaia di lavoratori federali. Molti dei colleghi di partito di Trump non sono d’accordo con la dichiarazione dello stato di emergenza, mossa che anche ai loro occhi appare sconsiderata, mentre i democratici stanno preparando azioni legali volte a bloccare questo provvedimento sin da quando Trump ha iniziato a ventilarne la messa in opera, a fine novembre. Il timore principale del Gop è che questa mossa segni un precedente pericoloso per un futuro presidente del partito opposto, che potrebbe utilizzare lo stesso metodo per far passare leggi severe sul controllo delle armi o relative al cambiamento climatico, due vere bestie nere per i repubblicani. La possibilità di uno scenario simile è stata confermata dalla stessa Pelosi; si tratta di una paura che i democratici conoscono bene in quanto negli otto anni di mandato di Obama si erano ritrovati in una posizione simile con un presidente del loro partito che governava tramite decreti legge, creando un precedente pericoloso, usato spesso da Trump durante il primo anno di presidenza. Ora la nuova iniziativa del tycoon della Casa bianca dovrà affrontare tutta una serie di sfide giuridiche, a cominciare da quella del procuratore generale di New York, Letizia James, la quale ha già più volte affermato che questa è una crisi costituzionale, creata dal presidente. “Questa azione - ha dichiarato James - nuocerà agli americani in tutto il Paese, sprecando i fondi necessari a gestire emergenze reali e disastri reali, il tutto per fare avanzare l’agenda personale del presidente. Non rimarremo immobili di fronte a questo abuso di potere e combatteremo, usando ogni strumento legale a nostra disposizione”. Se questo è l’atteggiamento dei democratici, al momento con il pieno controllo della Camera, si apre lo scenario di una lunga battaglia. Dichiarazioni belligeranti sono arrivate dai maggiori esponenti del partito opposto a Trump, da Sanders a Elizabeth Warren, a Kamala Harris, inclusi tutti i candidati alle prossime presidenziali del 2020: questa è anche l’occasione perfetta di fare un’opposizione di ferro per i rappresentanti di un elettorato che odia Trump più di ogni altro presidente nella storia Usa. In una dichiarazione rilasciata mentre Trump stava ancora parlando, la speaker Pelosi e il leader della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, hanno affermato che il “presidente sta chiaramente violando il potere che appartiene esclusivamente al Congresso, potere che è stato sancito dai nostri fondatori nella Costituzione. Il Congresso, quindi, difenderà le autorità costituzionali nel Congresso stesso, nei tribunali e nel pubblico, utilizzando ogni metodo disponibile. Il presidente non è al di sopra della legge. Il Congresso non può lasciare che il presidente stracci la Costituzione”. Pakistan. Nessuna giustizia per Sana, il delitto d’onore resta (ancora) impunito di Viviana Mazza Corriere della Sera, 16 febbraio 2019 La storia della 25enne cittadina italiana di origini pakistane uccisa nel suo Paese evidenzia la spaccatura fra molte giovani che vivono in occidente e i loro genitori e nonni sul tema dell’integrazione. A volte è utile leggere storie come quella di Sana Cheema dal punto di vista locale. La morte di Sana, per cui sono stati assolti il padre, il fratello e lo zio da un tribunale pachistano del distretto di Gujrat, è stata seguita con attenzione dai giornali del suo Paese d’origine. Sana era nata in Pakistan, ma aveva vissuto a lungo a Brescia ed era cittadina italiana. Non voleva sposarsi con l’uomo scelto per lei dalla famiglia: si era innamorata di un ragazzo della provincia bresciana, anche lui italiano di seconda generazione. In Pakistan, specialmente nelle grandi città, le ragazze sono sempre più istruite e desiderose di partecipare al mercato del lavoro. Ma pratiche come i delitti d’onore restano diffuse: nel distretto di Gujrat la media di casi denunciati alla polizia è una quarantina l’anno, e si verificano soprattutto nelle zone rurali o recentemente “urbanizzate”. Quasi tutti si concludono senza condanne, per mancanza di prove o perché chi denuncia (spesso la famiglia della vittima) giunge a un accordo di riconciliazione con gli assassini (anch’essi familiari). Un editoriale del giornale pachistano Dawn aveva esultato lo scorso aprile, quando il sistema giudiziario si era attivato nel caso di Sana, grazie all’attenzione sollevata dai media italiani, dai social e dalle proteste della comunità pachistana di Brescia: c’era la speranza che fosse fatta giustizia. “Troppo a lungo, quando si tratta di punire chi commette questi orrendi crimini, la legge è morbida, poiché anziché essere visti come omicidi molti li ritengono un modo legittimo di difendere l’onore”, scrisse il quotidiano. La famiglia aveva affermato che Sana era morta per cause naturali, ma quando il corpo è stato riesumato e l’autopsia ha concluso che la ragazza aveva l’osso del collo rotto, il padre ha confessato di averla strangolata. Alla fine però ha ritrattato e Dawn ha scritto a giugno che è stata pagata una mazzetta nel tentativo di cambiare l’autopsia. È in atto uno scontro generazionale sulle libertà delle donne. Lo osserva lo stesso Dawn: “Ci sono molte giovani in Occidente come Sana Cheema: ragazze di origini pachistane, di seconda, terza o quarta generazione. Anche se per i loro genitori, nonni o bisnonni è stato difficile integrarsi, è ingiusto o illogico aspettarsi che i discendenti - in particolare le donne - seguano le regole patriarcali del Paese d’origine”. Sana era cresciuta con una certa libertà (anche rispetto ad altre donne nella comunità pachistana in Italia dove poche lavorano): gestiva una agenzia per pratiche automobilistiche, aiutava gli stranieri a ottenere la patente. Questa libertà era forse dovuta al fatto che la famiglia l’aveva lasciata sola in Italia: quando l’avevano richiamata in patria, si aspettavano che si adeguasse a regole che lei non riconosceva più. Ci sono però anche molti pachistani che credono che i delitti d’onore debbano essere puniti, e che non siano legati alla classe sociale o alla religione ma all’assenza di parità di genere e all’idea patriarcale che è giusto così. Iran. 277 le esecuzioni nel 2018 di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 febbraio 2019 Calano le esecuzioni capitali in Iran, almeno stando ai dati ufficiali ma l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in un rapporto in occasione del quarantesimo anniversario della rivoluzione, segnala anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Sono state almeno 277 le persone salite sul patibolo in Iran nel 2018, di cui 89 riportate da fonti ufficiali iraniane e 188 segnalate da fonti non ufficiali. Nel 2017 le esecuzioni erano state ben più alte: 544. Ad incidere su questo calo è la legge di riforma delle norme sul traffico di stupefacenti, entrata in vigore nel novembre del 2017. Nel 2018 le esecuzioni per droga sono infatti scese ad almeno 23 rispetto alle almeno 257 del 2017. A quanto risulta dai dati ufficiali tredici persone sono state impiccate sulla pubblica piazza nel 2018, di queste 10 erano accusate di reati di natura politica e sei avevano meno di 18 anni al momento del reato, nel 2017 erano state 36. Nel 2018, secondo le informazioni dell’Osservatorio sui diritti umani in Iran, sono state emesse oltre 110 sentenze di fustigazione e 11 sono state eseguite. Inoltre, è stato riportato almeno un caso di amputazione degli arti. Inoltre, si stima che durante la protesta esplosa nel Paese nel gennaio 2018, sarebbero stati effettuati 8.000 arresti arbitrari, sarebbero state uccise almeno 58 persone e 12 tra i manifestanti imprigionati sarebbero morti sotto tortura.