Donne e carcere: popolazione carceraria femminile vittima di discriminazione di Laura Fazzini osservatoriodiritti.it, 15 febbraio 2019 Le donne carcerate sono condannate a una doppia pena: circa 2.400 persone detenute in piccoli spazi all’interno di istituti maschili per mancanza di spazi e fondi. E poi ci sono le difficoltà legate ai figli, alla famiglia e alla burocrazia per poter cercare un riscatto attraverso il lavoro. In una popolazione di circa 60 mila carcerati, solo il 4% è donna, 2.400 persone che vivono in piccoli spazi dentro istituti maschili. “È una discriminazione di genere, così come esiste nella società civile così si rispecchia nelle carceri. Come sempre le leggi ci sono, ma si fa fatica ad applicarle”, esordisce Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano al convegno sulla detenzione femminile nel carcere di San Vittore a fine gennaio. Secondo il magistrato le detenute soffrono una doppia pena, perché il basso numero delle detenzioni spesso porta a dirottare i fondi nei grandi reparti maschili, destinando poche risorse economiche ai settori femminili. “È da vent’anni che il dato nazionale sulle donne in carcere non aumenta, ma nemmeno diminuisce. I reati commessi sono sempre legati al patrimonio, spesso la donna delinque per cultura o per necessità. L’indole femminile non porta a delinquere contro la persona, però questo non basta per convincere molti miei colleghi a destinare alle donne le misure alternative fuori dal carcere”, sottolinea Di Rosa. Solo 5 istituti su 200 sono destinati esclusivamente alle donne, che spesso sono rinchiuse in vecchi reparti precedentemente maschili. Mancano spazi dedicati alle attività femminili e alle problematiche di genere. “Gestire un reparto femminile è molto complesso, le donne difficilmente riescono a sottostare alle regole imposte dall’alto. Hanno necessità specifiche, come quelle della salute, che richiedono fondi e spesso questi fondi non ci sono. Dobbiamo puntare all’esternalizzazione della pena, rimettere le donne nella società rafforzando il loro ruolo in famiglia e rendendole consapevoli del reato. Ma non è facile e spesso siamo lasciati soli”, denuncia Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore. Spesso inoltre gli spazi ricreativi e le sale destinate alle visite mediche sono nei reparti maschili. “A Bollate l’ambulatorio ginecologico l’hanno messo nella sezione maschile, noi quindi dobbiamo chiedere di essere accompagnate sia da una poliziotta del nostro reparto sia da uno della parte maschile”, spiega una detenuta presente al convegno. Storie di detenute: famiglia e figli per uscire dal buio - “Non ho visto i miei figli per 3 anni, non me li facevano vedere e io non stavo bene. Le medicine che mi davano mi tenevano in uno stato di malessere costante. Adesso lavoro, ho smesso le terapie farmacologiche e mi sento libera. Posso finalmente prendere in mano la corda e tirarla per uscire da qui”, testimonia Karima Joumadi, detenuta nel carcere milanese e da un anno partecipante attiva del progetto Donne oltre le mura promosso da regione Lombardia insieme ad altri partner già presenti nelle carceri di Milano, Bollate e Como. La somministrazione di farmaci, utilizzati per tranquillizzare i detenuti, e l’impossibilità di vedere i figli oltre alle 8 ore mensili per i colloqui, portano spesso la donna a chiudersi e rompere i rapporti familiari. “La maggior parte delle detenute ha figli all’esterno, la famiglia per loro è la salvezza. Dobbiamo insistere perché gli articoli del codice penitenziario destinati alle misure alternative fuori dal carcere siano applicati. Una donna si può salvare quando viene reinserita nella rete sociale da cui proviene”, sostiene Cecco Bellosi, coordinatore della comunità Il Gabbiano che da anni aiuta il reinserimento dei detenuti con progetti di housing sociale nella città metropolitana di Milano. L’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario prevede la presenza negli istituti dei bambini, in strutture dedicate che siano meno impattanti a livello emotivo delle carceri classiche. In Italia ci sono circa 50 madri detenute con 60 figli, ma le case di reclusione realizzate per essere i giusti luoghi di crescita per i bambini sono solo quattro in tutta Italia. “Quando una donna realizza che la propria detenzione è una privazione di libertà anche per i propri figli, si sente vittima e inizia un percorso di disimpegno morale che la porta ad allontanarsi dai figli stessi”, puntualizza il professor Ivo Lizzola del dipartimento di Pedagogia generale dell’Università di Bergamo. Popolazione carceraria femminile: salvarsi con il lavoro - Un altro aiuto fondamentale per le donne detenute è il lavoro, che spesso manca o è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. “Appena entri in carcere vieni privata di tutto, ti fanno tornare bambina. Per fare qualsiasi cosa devi fare una domandina, aspettare che ti rispondano e sperare di poter lavorare per qualche ora. Noi donne siamo abituate a lavorare, rimanere senza nulla da fare è una doppia pena”, commenta Alba Lenor Sevillano, da 7 anni reclusa e ora anche lei inserita nel progetto lavorativo Donne oltre le mura. Ad Ornella Pignatelli, detenuta da un anno a Bollate, il lavoro ha consentito di rimettersi in discussione e di mostrare al figlio la propria autonomia “Quando mi hanno confermato la condanna a 5 anni mio figlio si è spaventato. Non sapevo come tranquillizzarlo e mi sentivo persa. Ora lavoro, mi sento realizzata e lui segue con me la mia detenzione. Ma ci sono donne che non ce la fanno, che si rinchiudono in se stesse e abbandonano i figli”. Detenzione femminile: la lotta con la burocrazia - Le difficoltà burocratiche di accedere dentro le mura e la crisi economica minano la possibilità per le aziende e i privati di portare lavoro ai detenuti e questo accade ancora di più nelle sezioni femminili. “Dicono che amministrare 100 detenute sia peggio che gestire un carcere intero. Io lavoro con le donne da oltre vent’anni e ogni giorno è una lotta, burocratica e psicologica. Dobbiamo portare il lavoro fuori da qui, far lavorare le detenute nella società perché possano davvero reinserirsi”, dice Luisa Della Morte, responsabile della cooperativa Alice. Gli operatori al Governo: “Ridiamo dignità ai detenuti” - “Abbiamo un articolo della Costituzione che parla di rieducazione e questa si può fare quando si dà dignità alla persona detenuta. Ma come facciamo noi, dell’amministrazione penitenziaria, a portare dignità quando gli ultimi decreti legge del Governo disumanizzano, quando l’Europa ci condanna per il sovraffollamento e i politici pensano di cambiare le cose costruendo nuove carceri?”, denuncia Luigi Pagano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Se il passato Governo aveva realizzato una nuova riforma dell’ordinamento penitenziario, che porta ad aumentare le misure alternative anche per le detenute madri, il governo Conte ha cambiato rotta programmando fondi per ampliare le carceri. Il mondo degli operatori non è soddisfatto e la situazione di stallo rimane. “Gli invisibili”, progetto per tutelare i diritti dei detenuti disabili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2019 Tutelare i diritti delle persone con disabilità fisica e psichica detenuti all’interno degli istituti di pena perché abbiano la possibilità avere accesso al trattamento riabilitativo e che sia favorito l’accesso alle misure alternative. Parliamo di un progetto dal nome “Invisibili” che sarà presentato il 26 febbraio presso la Camera del Lavoro Metropolitana in Corso Di Porta Vittoria 43, a Milano. Gli interventi del progetto “Gli Invisibili” sono realizzati nell’ambito delle iniziative promosse da Regione Lombardia attraverso il Programma Operativo Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. Ente capofila del progetto è SiR, Consorzio di cooperative sociali costituitosi nel 2000 quale risultato di un progetto sviluppato in comune con Anffas Milano Onlus e formato da una rete di 13 cooperative sociali. Il Consorzio, nato per promuovere la cooperazione sociale, negli anni è diventato un punto di riferimento nel sistema di welfare locale. Nello specifico in area penale, il Consorzio SiR è capofila del Progetto “Gli Invisibili” nell’ambito del Por Fse - “Avviso pubblico per lo sviluppo di interventi di accompagnamento all’inclusione socio lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria (Minori e adulti)”, che realizza in partnership con la propria rete cooperativa e le Istituzioni, per favorire il reinserimento sociale di persone con disabilità provenienti dai tre istituti penali milanesi (San Vittore, Bollate e Opera) o in misura alternativa sul territorio di Milano e Città Metropolitana. Come detto, il progetto ha l’obiettivo di tutelare i diritti delle persone con disabilità fisica e psichica detenuti all’interno degli Istituti di pena perché abbiano accesso a opportunità di trattamento e riabilitative (in particolare all’ interno del Centro Clinico di Opera o in art. 21 o permesso premio presso strutture riabilitative esterne); favorire l’accesso alle misure alternative (come la detenzione domiciliare) potenziando la rete di opportunità del territorio per persone con importanti problematiche sanitarie per le quali non è indicata la permanenza in Istituto, seppur in presenza di autonomie residue. Evitare, laddove possibile, la permanenza o l’ingresso in carcere per le persone con patologie fisiche (tetraplegia, hiv), o psichiche (ritardo mentale, demenza, etc.), intercettando precocemente il bisogno e costruendo una progettualità sul territorio, oltre a favorire i percorsi di reinserimento sociale al termine della pena specifici per le persone con disabilità. Da ricordare, a proposito della misura alternativa anche nei confronti dei detenuti con problemi psichici, che a giorni la Corte costituzionale pubblicherà la sua pronuncia su una questione di legittimità, sollevata dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura, già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Carceri, sindacati: Dap diserta tavolo. Parte la protesta rassegna.it, 15 febbraio 2019 “L’amministrazione penitenziaria diserta il tavolo, parte la protesta dei sindacati di polizia penitenziaria”. A denunciarlo sono Sappe, Osapp, Uilpa Pp, Sinappe, Cisl Fns, Uspp, Cnpp, Fp Cgil, spiegando che “nella giornata di ieri si sarebbe dovuta tenere una riunione sul destino di 970 allievi viceispettori, che stanno completando il percorso formativo nelle scuole dell’amministrazione penitenziaria, a seguito di un concorso il cui iter si completerà a giorni, dopo undici anni dalla data del bando. I sindacati, inizialmente convocati alle 15, hanno atteso invano, fino alle 18, l’arrivo della delegazione di parte pubblica”. A causa di tutto questo, continuano le sigle, cioè “di (non) gestione delle relazioni sindacali e del mancato rispetto del personale di polizia penitenziaria, impegnato nel corso che attende notizie sulla sua futura destinazione, in relazione a un bando di concorso che ne prevedeva il rientro in sede, tutti i sindacati hanno deciso di non attendere oltre”. L’amministrazione, con tale comportamento, “non solo dimostra che su un tema così delicato non ritiene utile il confronto con le organizzazioni dei lavoratori, ma, contrariamente a quanto dichiarato in più occasioni, registra una scarsa sensibilità anche della parte politica che, interessata più volte per addivenire a una soluzione positiva della vicenda relativa ai ritardi ingiustificabili nel perfezionamento e nella conclusione di un concorso che ha penalizzato già oltremodo chi vi aveva partecipato e superato le prove, dopo oltre un decennio, non coglie l’occasione per dimostrare attenzione nei confronti della polizia penitenziaria”. Per tale ragione i sindacati fanno appello “alla sensibilità del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per accogliere senza ulteriori tentennamenti e indugi le richieste già chiaramente presentate da tutte le organizzazioni sindacali, in merito al più ampio accoglimento delle aspirazioni dei partecipanti al concorso in questione, stante le lungaggini procedurali che lo hanno caratterizzato, pronti a scendere in piazza per manifestare pubblicamente il disagio vissuto dal personale interessato”. La dittatura dei manettari di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 febbraio 2019 Un referendum propositivo in materia penale è l’inizio di un incubo populista. Movimento 5 stelle e Lega vogliono introdurre i referendum propositivi anche in materia penale. Insomma, i cittadini avrebbero la possibilità di approvare leggi che, ad esempio, aumentano le pene per determinati reati o modificano i meccanismi processuali. Uno scenario inquietante, che aprirebbe il varco alle peggiori pulsioni giustizialiste. È l’ultima novità emersa dall’esame in corso alla Camera della proposta di legge costituzionale sul referendum propositivo targata M5S-Lega: con 500 mila firme i cittadini potranno presentare una proposta di legge che, se non approvata entro 18 mesi dal Parlamento, sarà oggetto di un referendum per deliberarne l’approvazione. Il referendum sarà valido se il 25 per cento degli aventi diritto avrà votato sì (quorum esteso anche ai referendum abrogativi). Ieri, durante le votazioni alla Camera, sono stati bocciati gli emendamenti proposti da Forza Italia che chiedevano che la consultazione fosse inammissibile in materia di ratifica dei trattati internazionali, elettorale e penale. Il ddl costituzionale, infatti, a differenza di quanto avviene oggi, non impone limiti ai referendum propositivi, citando solo i “princìpi fondamentali della Costituzione” e quelli “del diritto europeo e internazionale”. A preoccupare è soprattutto la possibilità di indire consultazioni in materia penale, se si considera già solo quanto avvenuto negli ultimi giorni, con gli insulti e le minacce al Garante dei detenuti o le ondate di sdegno per le sentenze ritenute troppo morbide. Il referendum propositivo sarebbe comunque oggetto di un vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale, al quale sarebbe affidato in misura ancora maggiore il ruolo di garante della tenuta democratica del paese. Si è di fronte all’ultimo stadio evolutivo del populismo penale, in cui si consegna direttamente al popolo il compito di legiferare in materia di giustizia. In questo senso, il gesto delle manette rivolto ieri dal deputato grillino Giuseppe D’Ambrosio ai colleghi del Pd è il migliore (o meglio, peggiore) preludio di ciò che ci aspetta. Si torna al tempo del cappio? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 15 febbraio 2019 Un deputato dei Cinque Stelle, rivolto ai deputati del Pd, ha agitato le mani come se fossero ammanettate. Voleva dire: “Dovete andare in prigione”. Non siamo ancora al famoso cappio issato 25 anni da un parlamentare leghista, contro Craxi e contro i socialisti. La strada però è quella. E cioè si fa largo l’idea che per realizzare il famoso cambiamento, occorrano prigioni, forche, esecuzioni, arresti, ammanettamenti. E soprattutto occorra abbattere una buona volta lo Stato di diritto. A questo scopo, nel dibattito in aula - dunque non solo nel gesto di un parlamentare sconsiderato - si è introdotta l’idea di organizzare dei referendum popolari propositivi nei quali il popolo, esautorando il Parlamento, possa introdurre nuove leggi per cambiare il codice penale e, evidentemente, per aumentare le pene, gli anni di galera, gli ergastoli e tutto il resto. Una specie di tribunale popolare permanente, qualcosa di molto simile alla giustizia proletaria, credo di capire. Anche senza proletariato. Tutto ciò è molto preoccupante. Esistono, dentro la maggioranza, parlamentari che inorridiscono di fronte a questa deriva? Probabilmente sì. È ora che si facciano sentire. Quanti insulti ai giudici nella stagione del risentimento di Paolo Mieli Corriere della Sera, 15 febbraio 2019 Ben pochi oggi si fanno scrupolo di tenere nel debito conto le prove o l’assenza delle stesse. E non soltanto quando l’imputato è un “eccellente”. Quando tra qualche tempo ci dedicheremo a mettere a fuoco l’attuale stagione di rabbia e risentimento, gioverà soffermarci, quantomeno per quel che riguarda l’Italia, su questo inizio 2019 nel quale in poco più di un mese per ben tre volte in aule di tribunale un’udienza è stata turbata da urla e insulti alla corte. La prima fu per la condanna (in appello) di Antonio Ciontoli, padre della fidanzata di un giovane, Marco Vannini, ucciso nella loro casa a Ladispoli nel maggio del 2015. Motivo della protesta, la riduzione della pena nell’ipotesi accolta dal giudice che si fosse trattato di un omicidio colposo. La seconda in occasione della sentenza di condanna per la morte, nel luglio 2013, dei quaranta passeggeri di un vecchio pullman uscito dall’A16 che, sulla Napoli-Canosa, all’altezza di Avellino ruppe i freni e precipitò nella scarpata di Acqualonga provocando quello che è considerato come il più grave incidente della storia italiana. Motivo delle lamentazioni, stavolta, la mancata condanna dell’amministratore delegato di autostrade Giovanni Castellucci. La terza in una delle udienze finali del processo di secondo grado per la strage di Viareggio (giugno 2009) allorché il gpl uscito da una cisterna colpita da un treno deragliato mentre entrava nella stazione, aveva causato la morte di trentadue persone. Qui all’origine dello sdegno collettivo il fatto che l’ex amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti (già condannato in primo grado a sette anni), abbia ora rinunciato alla prescrizione, pur proclamandosi innocente, con una dichiarazione di “rispetto al dolore dei familiari”. “Devi sciacquarti la bocca prima di parlare delle vittime di Viareggio”, gli hanno urlato dall’aula giudiziaria. Cosa hanno in comune queste tre circostanze? L’ira dei parenti delle vittime sulla quale non potremmo permetterci altro che parole di comprensione. In situazioni del genere il dolore è tale che non può esservi posto limite. Ma, dal momento che le aggressioni ai giudici e agli imputati non sono venute solo dai familiari dei morti bensì anche da altri coinvolgendo perfino i due vicepresidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, forse è il caso di fermarsi a ragionare pubblicamente su cosa siano diventati i processi italiani. La prima osservazione da fare è che quando in questi dibattimenti è coinvolto un esponente di alto livello, come nei casi Castellucci e Moretti, viene immediatamente considerata un’ingiustizia dalla collettività la mancata condanna al massimo della pena. E viene ritenuto un segno di sottomissione ai poteri costituiti persino un caso come quello dell’amministratore di Autostrade laddove appare evidente che se lui stesso e tutti i suoi uomini avessero trascorso le settimane che precedettero la caduta del bus nel dirupo a riavvitare i bulloni del guardrail, si sarebbe riusciti a scongiurare l’incidente. Viene poi tenuto nel conto di un sotterfugio per ingraziarsi i giudici e perciò meritevole di sdegno persino l’atto di rinuncia alla prescrizione che è ciò che normalmente viene chiesto a tutti coloro che si sono trovati in situazioni simili a quelle di Moretti. In altre parole, se un amministratore delegato viene coinvolto in un caso del genere, la stragrande maggioranza degli osservatori e delle persone comuni non prendono neanche in considerazione che possa essere innocente o che i giudici non riescano a raccogliere prove sufficienti a condannarlo. Persino una sconto di pena verrà considerato un’”infamia”. Ha fatto notare il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza che i tribunali che non condannano ipso facto gli imputati eccellenti vengono accusati di viltà e di aver voluto sancire con le loro sentenze che il delitto da loro preso in esame “non ha colpevoli”. È un falso sillogismo sperimentato le prime volte nei processi per le stragi degli anni Settanta quando gli inquirenti che (assai spesso, purtroppo) non erano riusciti ad individuare con prove certe in mandanti di quegli orribili delitti venivano regolarmente additati come rei di aver stabilito che quelle erano stragi “senza colpevoli”. Come se decine, centinaia di magistrati impegnati su quei casi fossero stati a un certo punto raggirati o corrotti per tener nascosta la verità. Una “verità” che, senza curarsi della mancanza di evidenze e riscontri, molti hanno poi lasciato depositarsi in libri e manuali di storia ammantandola solo di qualche cautela quando era il momento di indicare i responsabili con nome e cognome. È l’infernale meccanismo che prende le mosse dal celebre articolo pubblicato su questo giornale il 14 novembre del 1974 da Pier Paolo Pasolini il quale si diceva certo dell’identità dei “colpevoli” delle stragi degli anni Settanta, salvo non poter mettere quei nomi nero su bianco per assenza di riscontri. Per lui era forse legittimo in quel particolare frangente storico denunciare in tal modo lo stato delle cose. Forse. Poi però per decine di anni la scuola pasoliniana ha fatto proseliti al di là probabilmente delle intenzioni dell’autore. Tant’è che oggi sono pochissimi quelli che nel considerare un processo si fanno scrupolo di tenere nel debito conto le prove o l’assenza delle stesse. Tutti sanno ma pochi hanno le prove. Ma c’è dell’altro. Dell’altro che non riguarda più gli “eccellenti”. Sotto questo profilo il caso più interessante tra quelli di cui abbiamo parlato all’inizio è il primo, quello del padre della fidanzata che assieme ad alcuni familiari ha ucciso - probabilmente senza intenzione - il giovane a Ladispoli. Qui non ci sono amministratori delegati, agli effetti del risarcimento del danno conta poco definire per quale motivo e in che condizioni Ciontoli abbia ucciso Vannini, resta l’interesse pubblico (della giustizia) a stabilire come sono andate davvero le cose. Nient’altro. I giudici ci proveranno ancora (manca il terzo grado, la Cassazione) e non c’è davvero nessun motivo per considerare coloro che se ne sono occupati o che se ne occuperanno complici della mala giustizia. Se alla fine tutto si concluderà con un’attenuazione della pena, possiamo pensare solo che questa sia la spassionata valutazione dei magistrati. Eventuali nuove manifestazioni di ira come quelle che si sono avute alla sentenza di appello sono da mettere nel conto solo dei tempi di risentimento in cui stiamo vivendo. Ed è per tale motivo che questo caso - senza imputati eccellenti - è forse più importante degli altri due. Riforma penale, a via Arenula parte il tavolo con avvocati e Anm: “Incontro proficuo” di Errico Novi Il Dubbio, 15 febbraio 2019 È stata la prima vera riunione del “tavolo” sulla riforma del processo penale. Ieri a via Arenula il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si è confrontato con i diversi interlocutori, dell’avvocatura e della magistratura, coinvolti nel percorso di elaborazione condivisa. È una nota del Cnf a dare notizia che all’incontro hanno preso parte, con il guardasigilli, “il Cnf, l’Ocf, l’Unione Camere penali, l’Aiga” e appunto l’Associazione nazionale magistrati. “Si è trattato di un proficuo scambio di opinioni e valutazioni tra tutti i presenti”, ha detto il presidente del Cnf Andrea Mascherin, “naturalmente ora si tratta di proseguire i lavori alla ricerca di soluzioni, le più condivise possibili, con l’obiettivo di razionalizzare le varie fasi del procedimento, soluzioni che naturalmente non devono in alcuna maniera limitare l’esercizio delle garanzie difensive”. È l’Unione Camere penali a segnalare come l’elaborazione di uno schema di intervento veda i penalisti e l’Anm condividere “le linee generali sui principali temi di riforma”. In previsione del tavolo tenuto ieri, riferisce la nota dell’Ucpi, penalisti e “sindacato” delle toghe avevano infatti “individuato proposte comuni di intervento per ridurre i tempi morti del processo e al contempo garantire e rafforzare l’effettività del contraddittorio”. Si tratta di “un’ampia depenalizzazione, l’effettiva funzione di filtro dell’udienza preliminare, incremento del ricorso ai riti alternativi con individuazione di meccanismi di estensione della premialità per il patteggiamento e il rito abbreviato, in particolare con l’estensione dei casi di abbreviato condizionato”. Sono le proposte “richiamate dal presidente dell’Anm Minisci e dal presidente dell’Ucpi Caiazza”, prosegue la nota, “sulle quali si è aperta la discussione”. E il ministro “ha accolto con favore tale modalità di interlocuzione, impegnando i partecipanti al tavolo alla redazione di prime proposte su cui rendere più concreto il dibattito, e preannunciandone di proprie”. Se dunque Caiazza ribadisce che il confronto con Minisci “proseguirà nelle prossime settimane” e che l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti in programma a Padova offrirà già domani “un proficuo lavoro di approfondimento” con i magistrati, è l’Organismo congressuale forense a indicare, in un proprio comunicato, la prossima tappa del percorso, prevista per il 28 febbraio, dopo che il 21 si terrà un nuovo incontro per il processo civile. Il ministro, chiarisce l’Ocf, intende procedere “individuando i principi da fissare in provvedimenti” che sarebbero definiti con “decreti attuativi di delega” conferita al governo. Il coordinatore dell’Organismo, Giovanni Malinconico, parla di “lavori improntati alla concretezza” e alla “costruttiva franchezza”. L’Ocf, si legge ancora nella nota, “ha condiviso l’esigenza, manifestata dal ministro, di rendere più agili, celeri e funzionali i meccanismi processuali” e ha ribadito che, sia sul penale che sul civile, “qualsiasi ipotesi di modifica dovrà garantire il diritto di difesa e la corretta dialettica delle parti”. Stretta baby gang, l’età per il carcere scende a 12 anni di Emilio Pucci Il Messaggero, 15 febbraio 2019 Proposta di legge della Lega: niente benefici a chi è colpevole di associazione a delinquere. Il relatore: “I ragazzi oggi sono diversi sono sempre più impiegati dalla malavita”. Abbassare il limite dell’imputabilità da 14 a 12 anni. Escludere le premialità previste per i reati compiuti dai minori se c’è l’aggravante dell’associazione. Una stretta sulla “difesa” dei minori che compiono reati: deve essere dimostrata in maniera stringente l’incapacità di intendere e volere. Sono solo alcune delle misure contenute in una legge che la Lega ha depositato, firmata da tutti i deputati del Carroccio in Commissione Giustizia alla Camera. A proporla soprattutto il coordinatore del partito di via Bellerio in Campania, Gianluca Cantalamessa. Nella relazione inviata al Parlamento dalla Direzione investigativa antimafia si parla di azioni connotate spesso da “ingiustificata ferocia”, di episodi “riprovevoli e violenti”, espressione di una vera e propria deriva socio-criminale”. Ma il fenomeno è in aumento in tutte le città italiane. Gli ultimi dati sono stati forniti dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza su un campione di 7.000 adolescenti sul territorio nazionale: il 6,5 per cento degli adolescenti fa parte di una gang, il 16% ha commesso atti vandalici e 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a risse. Arriverà anche il momento della prevenzione (la reintroduzione dell’educazione civica nelle scuole va in questa direzione) ma per ora la Lega punta alla repressione e alla certezza della pena. “Bisogna far passare il concetto che un minore di 12 anni non è più quello del passato. Le nuove generazione sono più precoci”, la premessa alla base del testo di legge. “L’obiettivo - osserva Cantalamessa - è quello di aggiornare il diritto penale”. Il sistema penale italiano prevede che il minore “non imputabile”, perché al momento del fatto non aveva compiuto ancora quattordici anni o perché, pur avendoli compiuti, è stato riconosciuto incapace di intendere e di volere”, venga prosciolto, cioè non assoggettato a pena. Questo non vuol dire che nei confronti del minore non venga disposta nessuna misura, laddove sia considerato pericoloso. L’articolo 224 recita: “Qualora il fatto commesso da un minore degli anni quattordici sia preveduto dalla legge come delitto, ed egli sia pericoloso, il giudice, tenuto specialmente conto della gravità del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto, ordina che questi sia ricoverato nel riformatorio giudiziario o posto in libertà vigilata”. L’obiettivo della Lega è di abbassare l’età di due anni. Basta dunque con il considerare i “baby boss” alla stregua di ragazzini. Magari poi tutelati perché considerati incapaci di intendere e volere. Arriveranno dei “paletti” su questo fronte. E se un under 12 commette un grave reato in gruppo non potrà avere alcuno sconto di pena: prevista l’aggravante dell’associazione. Niente premio. Accoltellamenti, tentativo di stupro, episodi di bullismo, ragazzini impiegati come “pony express” per la droga o per delitti: se molti capi della camorra e della mafia sono stati assicurati alla giustizia ora sempre più spesso - spiegano fonti parlamentari della Lega - prevale la logica del branco o di avvalersi ai baby-criminali. Bologna è in testa per il numero delle baby gang, seguita da Roma, Catania, Bari, Palermo, Napoli, Genova, Torino e Milano. Più reati e meno denunce. La Camera Penale Minorile, ha depositato un progetto in Commissione cultura nel quale si prevede che il tribunale dei Minorenni entri in contatto “con il minore a disagio e lo indirizzi verso un percorso di educazione, recupero, formazione professionale, attività sportive e ludiche propedeutico a un ingresso positivo nella vita sociale”. Magistrati in politica, il Csm “ammonisce” Michele Emiliano per il suo ruolo nel Pd di Liana Milella La Repubblica, 15 febbraio 2019 Accusato di avere violato il divieto per le toghe di iscriversi a un partito politico e partecipare alla sua attività, il governatore pugliese è stato condannato dalla sezione disciplinare alla pena più lieve. “Io non ci sto”. Il governatore della Puglia Michele Emiliano contro il Csm, che vede al suo vertice David Ermini. Una polemica in famiglia, anche se Ermini, renziano ormai senza tessera del Pd da quando è diventato vice presidente dell’organo di autogoverno dei giudici, non ha presieduto la sezione disciplinare, di cui abitualmente è a capo, nelle ore in cui questa ha elaborato il verdetto contro Michele Emiliano, che da Pd è stato diretto competitor alla segreteria del partito contro Renzi. Adesso, dopo quattro anni di processo disciplinare, è stato “ammonito”. Non poteva iscriversi al Pd, come invece ha fatto, perché, pur in aspettativa, quindi con la toga nell’armadio, tuttavia dal 2004 in avanti ha continuato a essere un magistrato. Con gli obblighi che un magistrato ha per via dell’ordinamento giudiziario voluto dall’allora premier Berlusconi e dal Guardasigilli leghista Castelli nell’ormai lontano 2005, ma alla fine entrato in vigore con il ministro della Giustizia Mastella, quindi in pieno governo Prodi. “Divieto di iscriversi a un partito politico”. La norma è chiara. Ma Emiliano - e con lui il suo prestigioso difensore, l’ex procuratore di Torino e super toga oggi in pensione Armando Spataro - è convinto del contrario, perché a suo dire un giudice in aspettativa per mandato politico deve anche essere libero di “fare politica” e quindi elaborare dall’interno le idee di un partito. Lui ha fatto così. Lascia il posto di potente pubblico ministero a Bari, con tanto di inchieste sulla corruzione in politica, nel 2004 per correre a sindaco. Vince. Non gli basta. Corre ancora, e vince di nuovo, per il vertice della Regione Puglia. Diventa un politico a tutti gli effetti, al punto da diventare anche presidente del Pd pugliese. Per dieci anni il caso Emiliano non è un caso. Poi, nel 2014, un procuratore generale della Cassazione puntiglioso come Pasquale Ciccolo dà credito e fa vagliare un esposto contro di lui. Parte l’azione disciplinare. E siamo a oggi, alla condanna all’ammonimento, in verità un vero e proprio buffetto sulla guancia, la pena più lieve possibile, che però a Emiliano non piace per niente. Protesta subito. Premette: “Non meritavo l’azione disciplinare”. E quanto alla condanna è drastico: “Valuterò la motivazione della sentenza ai fini della impugnazione nei successivi gradi, nella speranza che questa vicenda sia l’occasione per il legislatore di intervenire per evitare gli equivoci sin qui verificatisi”. È polemico quanto basta: “Accetto la meno grave delle sanzioni disciplinari previste per i magistrati con serenità e con rinnovata determinazione nello svolgimento del mio incarico di presidente della Regione Puglia. La sanzione è la più tenue e non ha alcun effetto pratico sull’esercizio delle mie funzioni, ma ciononostante ritengo di non averla meritata”. Già, Emiliano va avanti, come del resto ha sempre fatto. Almeno fino al 3 dicembre, quando ormai il Csm sta arrivando alla stretta finale sul suo caso. E allora lui spedisce una lettera al circolo del quartiere Murat-San Nicola di Bari per comunicare che non rinnoverà la tessera del Pd. La racconta così: “Sinceramente a me non è che la tessera mi cambia nulla. Quindi continuerò a essere il riferimento, credo, della gran parte della maggioranza degli iscritti del Pd della Puglia. Continuerò a essere il riferimento di molte liste civiche che in Puglia stanno operando. Insomma, nella sostanza non cambia niente, però io voglio rispettare la sentenza della Corte costituzionale che ha introdotto una novità, che la mia aspettativa per mandato elettorale non è sufficiente per separare il mio ruolo di magistrato dalla politica. Occorre che io non faccia la tessera e quindi io ho obbedito come sono abituato a fare”. Sì, quel 3 dicembre Emiliano lancia un segnale al Csm, forse augurandosi un’assoluzione, che invece non è arrivata. Dichiara di accettare la sentenza della Consulta che il 4 luglio 2018, con la firma di Nicolò Zanon, in realtà precipita come una spada sulla sua testa. Niente iscrizione ai partiti, neppure per chi è in aspettativa. Un no a Emiliano e a Spataro che avevano chiesto al Csm di sollecitare un nuovo responso della Corte. Un paletto che, una volta messo, era impossibile da aggirare per il Csm in sede disciplinare. Una Consulta che poi conferma se stessa, e la sentenza firmata dall’ex vice presidente Paolo Maddalena che già nel 2009 aveva posto gli stessi obblighi per Luigi Bobbio, rampante pm di Napoli entrato in politica con An nel 2001, ma poi punito dal Csm. Una continuità negli anni, dal 2009 al 2018 che gli stessi magistrati non contestano. Perché sono loro i primi a sostenere che, una volta entrata in politica, la toga non può teorizzare le “porte girevoli”, non può e non deve tornare indietro, ma trovare un altro lavoro nell’ambito della Pubblica amministrazione. I tentativi di leggi sulle toghe in politica finora non hanno avuto successo. L’ultimo si è arenato tra le polemiche nella precedente legislatura. Adesso tocca al Guardasigilli Alfonso Bonafede provarci. Terroristi del “Bas”, questione irrisolta di Giorgio Mezzalira Corriere dell’Alto Adige, 15 febbraio 2019 La richiesta di grazia per Heinrich Oberleiter, presentata dalle figlie, ha avuto il via libera dalla procura generale di Brescia e ora il dossier passerà nelle mani del presidente Sergio Mattarella. Sono cause di salute quelle addotte per il pardon presidenziale. Il “bravo ragazzo della val Aurina”, riparato prima in Austria, poi in Baviera e di nuovo in Austria dove tuttora risiede da (sempre) latitante, è oggi un settantasettenne con due ergastoli sulle spalle. Le condanne a suo carico sono molte e gravi, comprendono fatti di sangue oltre a numerosi atti dinamitardi. L’ultimo che gli venne addebitato, fu l’attentato al Brenner Express. Era il 15 novembre 1964 e il treno transitato al Brennero venne fermato a Bressanone. Il vagone con la valigia che conteneva l’ordigno pronto a esplodere fu portato in un binario morto e la bomba fatta brillare. L’attentato venne intercettato grazie alla telefonata fatta alla polizia da un cittadino germanico di nome Karl Joosten, un informatore dei servizi segreti italiani. Dalle pagine della sentenza della Corte di Assise di Brescia (1970), città in cui si celebrò il processo per quei fatti, risulta che tale Joosten ammise di aver partecipato al confezionamento della valigia per rendere possibile l’individuazione del treno e comunicarlo tempestivamente alla polizia italiana. In quel processo Joosten fu assolto, mentre Oberleiter e Oberlechner (altro “bravo ragazzo”) vennero dichiarati colpevoli e condannati a 19 anni e 4 mesi di carcere. Mezzo secolo dopo quel processo e ormai a quasi sessant’anni dalla notte dei fuochi si torna a dover fare i conti con la giustizia, con i parenti delle vittime, con la vicenda degli anni delle bombe e le ombre del coinvolgimento dei servizi segreti italiani. Una storia, quest’ultima, ancora tutta da decifrare che costringe a tenere sospeso il giudizio su quel periodo. Soprattutto sugli attori. Oberleiter non ha mai negato la propria partecipazione al cosiddetto movimento di liberazione del Sudtirolo (Bas) ed è tuttora convinto che, per quanto oggi vi siano vie diverse da quelle della violenza per perseguire l’obiettivo di una riunificazione del Tirolo, ciò che è stato raggiunto in termini di autonomia sia frutto anche di quella stagione di violenza politica, cui partecipò attivamente. Ed è confortato in ciò da una robusta narrazione pubblica alimentata dalla destra politica di lingua tedesca e da ricostruzioni storiche di parte, prese per buone. La richiesta di grazia per Oberleiter sta dentro a tutto questo groviglio di questioni irrisolte, carica di valenze politiche, di tensioni tra chi vorrebbe chiudere un’intera pagina e consegnarla alla storia, tra i primi il presidente della provincia Kompatscher, e chi, facendo professione politica di alfiere dell’italianità, la vuole tenere ben aperta e consegnare alla giustizia di casa nostra i terroristi altoatesini latitanti ancora in vita. In mezzo, o meglio in alto, ora c’è Sergio Mattarella. A lui spetta una valutazione decisiva sulla domanda di grazia, giudizio che per sua natura si muove tra giustizia e umanità. Il prospetto dei decreti di grazie e commutazione delle pene dell’attuale presidente della Repubblica, pubblicato sul sito del Quirinale, ci informa che su un totale di oltre mille e trecento pratiche esaminate, dodici sono andate a buon fine. Un potere, quello di grazia, che necessita opinioni e pareri, tra questi quello dell’autorità giudiziaria - per Oberleiter positivo - e del ministro della Giustizia. Ma è anche un potere che riguarda la condizione personale del soggetto che chiede clemenza e tiene insieme passato, presente, futuro. Non sfugge a nessuno che accanto alla funzione di carattere umanitario dell’atto di grazia ve ne sia una dal significato politico. Con Oberleiter forse ne capiremo meglio le implicazioni. Inchiesta sulla morte di Cucchi, si allunga la lista dei depistaggi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 febbraio 2019 Indagato un colonnello. Il maggiore in Aula: non presero il registro con il nome cancellato. Tra il processo a carico dei carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, e l’indagine-bis a carico di ufficiali e sottufficiali sui presunti depistaggi riscontrati a più riprese dal 2009 a oggi, l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi assume contorni sempre più vasti. Potenzialmente inquietanti. E si estende a nuovi protagonisti. Fra questi c’è il colonnello Lorenzo Sabatino, già a capo del Reparto operativo dell’Arma a Roma, oggi comandante provinciale a Messina, indagato per favoreggiamento in relazione all’acquisizione dei documenti ordinata dalla Procura nel novembre 2015. In quel periodo, mentre i funzionari della Squadra mobile raccoglievano le prove sui carabinieri oggi imputati, i magistrati avevano chiesto all’Arma di cercare e trasmettere tutte le carte conservate nelle diverse caserme da dove era transitato Cucchi la notte dell’arresto, tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Ad occuparsene fu proprio Sabatino, che inviò il capitano Tiziano Testarmata del Nucleo investigativo. Quel lavoro, si scoprirà in seguito, risulterà lacunoso in relazione ad almeno due episodi: le mancate acquisizioni di una email, risalente al 2009, da cui si capiva che due relazioni di servizio sulle condizioni di Cucchi redatte da altrettanti carabinieri della stazione Tor Sapienza furono modificate per ordini superiori, e dell’originale del registro del fotosegnalamento della Compagnia Casilina, dove il nome di Cucchi fu “sbianchettato” e sostituto da quello di un altro arrestato. Per queste vicende il capitano Testarmata è stato già inquisito e ascoltato dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò. L’altro ieri è stato il turno di Sabatino, il cui avvocato Adolfo Scalfati precisa: “Le contestazioni al colonnello non hanno nulla a che vedere con la email né con il registro sbianchettato”. Secondo il difensore, che rivendica l’estraneità del suo assistito rispetto al reato ipotizzato dai pm, alla Procura giunsero tutti i documenti richiesti, di cui però Sabatino non avrebbe redatto una dettagliata nota di accompagnamento. Tuttavia, a parte le versioni diverse e contrastanti sui fatti del 2015 rese finora da indagati e testimoni in divisa, il cuore degli accertamenti della Procura continua ad essere la consegna ritardata (resa possibile solo dopo insistite richieste o scoperte causali) delle carte che proverebbero i tentativi di coprire le responsabilità dei carabinieri nel “violentissimo pestaggio” inflitto a Cucchi la notte dell’arresto, una settimana prima che morisse in ospedale. Ieri mattina, in aula, il maggiore Pantaleone Grimaldi ha ribadito che quando Testarmata arrivò alla Compagnia Casilina, preceduto da una telefonata di Sabatino, per fare copia del carteggio relativo a Cucchi, saltò fuori il registro del fotosegnalamento con il nome di Cucchi cancellato in maniera piuttosto evidente. Lui suggerì di portare via l’originale, perché poteva essere proprio la prova che cercavano, ma non fu ascoltato. “Mi resi conto immediatamente dell’anomalia - ha detto Grimaldi, qualcosa in più di un’irregolarità che meritava un approfondimento; quell’atto andava sequestrato e acquisito. Ascoltando le mie obiezioni, il capitano Testarmata si mostrò molto perplesso, non sapeva cosa fare e mi rispose che avrebbe chiesto direttive, quindi uscì dalla stanza per fare una telefonata. Non so a chi chiese direttive, ma poco dopo tornò dicendo che la direttiva restava quella di fare una copia conforme, senza prendere l’originale”. Uccisero le mogli e il figlio malati, il presidente Mattarella grazia tre ottantenni di Valentina Errante Il Messaggero, 15 febbraio 2019 “Pietà e comprensione”. È passato poco più di un anno da quando Annalisa Morello, la moglie di Franco Dri, si era rivolta al presidente della Repubblica, perché concedesse la grazia a suo marito: l’uomo che con un colpo di pistola aveva ucciso Federico, quel figlio di 47 anni che oramai non riconoscevano più, violento e perduto in quel mondo dove l’eroina l’aveva reso prigioniero. Oltre mille firme in calce alla petizione. E ieri il capo dello Stato ha avuto pietà. Ha avuto pietà anche di Giancarlo Vergelli e Vitangelo Bini, la grazia è arrivata pure per loro: quei due uomini che alla soglia dei novantanni hanno interrotto con un omicidio la sofferenza delle donne che amavano, non dovranno scontare il carcere. Entrambe erano malate di Alzheimer. Tutti e tre hanno già scontato una pena troppo alta. Le motivazioni del Quirinale hanno il linguaggio della burocrazia, l’ufficialità dei pareri favorevoli da parte dei giudici competenti. Ma certo, nessuno di questi tre casi creerà polemiche. Anche le Corti d’Assise avevano concesso tutte le attenuanti agli imputati. Il dramma della famiglia Dri del piccolo comune di Fiume Veneto in provincia di Pordenone, non era cominciato nel gennaio 2015, quando papà Franco, 73 anni, al culmine dell’ennesima lite, aveva sparato a Federico. Un solo colpo di pistola, dritto al petto. Da trent’anni il dramma di quel figlio che i genitori avevano tentato di “guarire” con ogni strumento dalla malattia che si chiama eroina aveva interrotto le loro vite. Neppure San Patrignano aveva funzionato. Federico era stato cacciato. L’anziano, non in perfetto stato di salute, era stato condannato in appello a una pena di oltre sei anni, che ha già in parte scontato. I cittadini di Fiume Veneto avevano avviato una petizione, la moglie e l’altro figlio di Dri avevano chiesto con una lettera che fosse concessa la grazia. Giancarlo Vergelli, invece, ha 88 anni, è stato condannato a febbraio di tre anni fa dalla corte d’appello di Firenze: sette anni e 8 mesi per aver ucciso la moglie ottantottenne malata di Alzheimer. Nella loro casa di borgo Pinti a Firenze, il 22 marzo 2014, Vergelli l’aveva strangolata con una sciarpa, poi si era presentato in commissariato: “Non ce la faccio più”. Tra le lacrime aveva raccontato la sua storia e il dolore nel vederla ogni giorno più assente. Per Vitangelo Bini il dramma era stato lo stesso. Oggi ha 89 anni, la Cassazione ha confermato a giugno la pena a sei anni e sei mesi per l’omicidio della sua Mara, anche lei era malata di Alzheimer. Per anni le era stato accanto, l’aveva curata e assistita. Poi le condizione di quella donna con la quale aveva trascorso la vita intera erano diventate insostenibili ed era stato necessario ricoverarla in una struttura sanitaria a Prato. Ogni giorno era peggio e così Bini aveva deciso: aveva preso una pistola dalla sua collezione di armi e si era presentato al reparto di degenza e per tre volte aveva premuto il grilletto. È l’articolo 11 della Costituzione a conferire al presidente della Repubblica il potere di concedere la grazia. E ieri Mattarella ha firmato i tre decreti, con la pietà che gli era stata richiesta. “Nel valutare le domande di grazia, in ordine alle quali il ministro della Giustizia, a conclusione della prevista istruttoria ha formulato avviso non ostativo - si legge nella nota del Quirinale - il Presidente della Repubblica ha tenuto conto dell’età avanzata dei condannati e delle precarie condizioni di salute dei medesimi, dei pareri favorevoli espressi dalle autorità giudiziarie nonché delle eccezionali circostanze in cui sono maturati i delitti, evidenziate nelle sentenze di condanna”. Il comunicato ricorda anche l’età dei beneficiari dell’atto di clemenza: “Franco Antonio Dri, nato nel 1941, di Giancarlo Vergelli, nato nel 1931, e di Vitangelo Bini, nato nel 1930. Gli atti di clemenza individuale hanno riguardato il residuo della pena della reclusione ancora da espiare (circa tre anni e sei mesi per Dri, cinque anni e sei mesi per Vergelli e cinque anni e otto mesi per Bini)”. Trentino Alto Adige: “Venite a visitare le nostre carceri” di Sarah Franzosini salto.bz, 15 febbraio 2019 L’appello dell’avvocato Fabio Valcanover ai giudici della Consulta. L’obiettivo: cercare di risolvere la grave situazione nei due penitenziari di Bolzano e Trento. L’avvocato e attivista dei Radicali Fabio Valcanover non molla. Continuare a tenere alta l’attenzione sulle carceri di Bolzano e Trento, data la loro nota precarietà, è l’imperativo. L’occasione per una nuova iniziativa, in questo senso, è stato l’evento che si è tenuto ieri (13 febbraio) alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento a cui hanno preso parte due giudici della Corte Costituzionale, Marta Cartabia (vicepresidente), la quale fu relatrice della sentenza n° 32 della Corte che dichiarò l’illegittimità costituzionale della legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti che equiparava le droghe leggere a quelle pesanti, e Daria De Pretis. La richiesta avanzata da Valcanover durante l’incontro, pensato per far conoscere il precipuo lavoro svolto dalla Consulta, è quella di inserire all’interno dell’iniziativa “Viaggio nelle carceri”, ovvero un ciclo di lezioni tenute dai giudici costituzionali ai detenuti sulla Costituzione e sul ruolo dell’organo, anche altre due tappe: le case circondariali di Bolzano e Trento. “La situazione nel fatiscente carcere di Bolzano è catastrofica e in attesa della nuova struttura (sul cui progetto è appena arrivato il via libera in seguito all’accordo siglato fra Condotte Italia Spa e la Provincia, ndr) nulla si fa nel frattempo per migliorare le condizioni dei detenuti”, sottolinea l’avvocato trentino. E le cose non vanno meglio a Trento dove a dicembre l’ennesimo suicidio in carcere ha scatenato una rivolta di un gruppo di detenuti che hanno dato fuoco a materassi e suppellettili. Senza contare le problematiche relative all’aspetto sanitario. “I giudici hanno detto che prenderanno in considerazione la mia proposta, mi auguro che il loro viaggio possa estendersi anche ai nostri territori, così da capire come poter risolvere le criticità esistenti”, auspica Valcanover che si mette a disposizione per accompagnare i giudici costituzionali all’interno delle strutture carcerarie, l’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario, infatti, dà loro facoltà a compiere visite ispettive. Diverse sono state finora le sollecitazioni, da parte di Valcanover, per cercare di smuovere le coscienze istituzionali - e non solo - e risollevare lo status dei reclusi. Restano inoltre alcune soluzioni prospettate in passato dallo stesso Valcanover insieme ai Verdi, ossia creare un provveditorato regionale competente solo per i due penitenziari di Bolzano e Trento; istituire un Garante regionale unico per i detenuti (ma nel mentre almeno nominarne uno per il capoluogo altoatesino dove a differenza di Trento non è stato finora previsto) tema sul quale c’è stata una certa apertura da parte del presidente Kompatscher; e in ultimo far sì che la Regione eroghi la liquidazione delle parcelle del Patrocinio a Spese dello Stato avanti ai Giudici di Pace operanti nel territorio regionale. Napoli: 5 indagati per la morte del detenuto nel carcere di Poggioreale cronachedellacampania.it, 15 febbraio 2019 Ci sono cinque indagati per la morte di Claudio Volpe, il detenuto 34enne del rione Traiano deceduto quattro giorni fa nel carcere di Poggioreale con febbre alta. su disposizione della Procura della Repubblica di Napoli è stata disposta l’autopsia sulla salma e il magistrato ha inviato le parti, come atto dovuto ad indicare legali e periti per seguire l’esame autoptico. La morte del detenuto, l’ennesima nel carcere di Poggioreale l’altra notte aveva scatenatole vibranti proteste dei familiari e amici di Volpe fuori dal carcere con una sassaiola a cui era seguita anche la protesta all’interno da parte dei detenuti. Una inchiesta interna è stata avviata anche dall’amministrazione penitenziaria insieme con i dirigenti dell’Asl per capire se il detenuto poteva essere salvato. Lorenzo Acampora, direttore del dipartimento di tutela della salute negli istituti penitenziari di Napoli, ha spiegato a Il mattino che “il sovraffollamento crea pesanti disagi. Solo a Poggioreale ci sono, infatti, 2.411 detenuti anziché i 1.680 previsti, circa 800 in più, con inevitabili ripercussioni sull’assistenza sanitaria. Il centro clinico accoglie in media 70 ammalati anziché 45. E, ogni pomeriggio, la guardia medica in ciascun reparto è chiamata a visitare una settantina di pazienti. E, per gli interventi chirurgici, negli ospedali i posti dedicati ai reclusi sono insufficienti. Per un’ernia inguinale loro aspettano anche un anno e mezzo dalla prenotazione”. Ieri il commissario dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva, è stato in visita nel carcere e a lui sono state segnalate tutte le criticità. Lamezia: l’Associazione Antiracket, una sfida alla ‘Ndrangheta di Armando Caputo La Repubblica, 15 febbraio 2019 Lamezia Terme è una cittadina molto complessa, in un certo senso “particolare”; fu fondata cinquant’anni fa dall’unione di tre Comuni calabresi molto vicini tra loro, anche se l’unione tra i suoi cittadini non può dirsi ancora completata. È una città sul mare, pur essendo a due passi dalla montagna; ha le terme, l’aeroporto, la ferrovia, l’uscita dell’autostrada. A Lamezia c’è la ‘ndrangheta. Siamo in piena terra di mafia, e se qualcuno ha ancora qualche dubbio in proposito, tre scioglimenti del consiglio comunale negli ultimi 25 anni bastano e avanzano a chiarire le idee. La storia dell’Associazione Antiracket Lamezia (Ala) inizia nel 2003, proprio durante il secondo di questi scioglimenti per infiltrazione mafiosa. Di fronte a una fortissima pressione intimidatoria delle cosche cittadine, uno sparuto gruppo di imprenditori e di cittadini solidali, iniziò questo lungo percorso che li portò a maggio del 2005 alla presentazione di ALA e dei suoi tredici soci alla città. La particolarità di questa associazione, oggi possiamo anche dire la sua forza, è quella di essere stata pensata e realizzata “a freddo”, cioè non su una spinta emotiva di qualcuno dei soci causata da un danneggiamento o da una richiesta estorsiva, ma in base a precisi convincimenti, valori e obiettivi. Per questo motivo la parte sostanziale del gruppo fondatore è ancora particolarmente attiva e continua a incoraggiare i nuovi aderenti, ad oggi vantiamo circa 45 soci, nel fare altrettanto. A partire dal 2007 le prime denunce e le collaborazioni degli imprenditori, le costituzioni di parte civile, gli arresti e le pesanti condanne ci hanno dato più forza, più consapevolezza, e lentamente è diventato normale chiamare le cose con il proprio nome e quindi il problema è diventato il pizzo, e quelli del quartiere Scinà, di via del Progresso o di Sambiase, sono stati finalmente chiamati a voce alta i Torcasio, i Giampà e gli Iannazzo. Le centinaia di arresti e di condanne ottenute poi a partire dal 2011, grazie ad un lavoro eccezionale di magistratura e forze dell’ordine, e con una punta d’orgoglio anche all’importante contributo di ALA, hanno rassicurato i cittadini ma, nonostante alcune confische importanti, poco hanno inciso sulla forza economica di alcune cosche in particolare. Il loro peso è ancora enorme: sono così infiltrate nell’economia della città da incidere quasi certamente sulla vita politica, visti i diversi gli scioglimenti del consiglio comunale. È evidente che sia necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, servono le denunce e le condanne certe, ma soprattutto c’è bisogno di diffondere la cultura delle regole e della legalità e di sempre più giovani che rifiutano i metodi e le facili (e spietate) promesse della ‘ndrangheta. Nel corso degli anni, a partire dal 2010, l’impegno e le attività dell’associazione sono cresciuti notevolmente. Proponiamo ogni anno, in tutti gli istituti scolastici lametini, percorsi di crescita scelti in base all’età degli studenti: in questi incontri si parla del valore della memoria, della bellezza del nostro mare e dei nostri luoghi, di quante di queste bellezze ci porta via la mafia, e naturalmente proponiamo libri da leggere e autori che incontrano di persona gli studenti per rispondere a tutte le domande e curiosità dei ragazzi. Ma l’impegno più grande è certamente “Trame, il festival dei libri sulle mafie”, che è stato, per assurdo, forse l’attività più difficile da portare avanti in questi otto anni. Con la cultura dicono che non si mangi e un festival come il nostro è troppo scomodo per riuscire ad avere un sostegno economico costante. Per adesso riusciamo a sostenerci con i bandi regionali, a cui di anno in anno partecipiamo, e grazie all’amicizia e all’affetto dei tanti ospiti che ogni anno vengono al festival. Ma soprattutto riusciamo ad andare avanti grazie alla forza dei nostri volontari: oltre 100 ragazzi ogni anno trasformano la nostra città, rivestendo ormai un ruolo sempre più importante anche nell’organizzazione del festival. Per gestire quello che ormai è diventato un vero e proprio progetto culturale, Ala ha costituito la Fondazione Trame, uno strumento necessario che speriamo di riuscire a irrobustire nel prossimo futuro. Tutto quello che riusciamo a fare nasce dall’impegno di noi “vecchi” soci fondatori, dei tanti che ci hanno sostenuto nel tempo, dei giovani che ci supportano nelle attività che svolgiamo nelle scuole, durante il festival e nelle altre attività che organizziamo, ad esempio, al Civico Trame, un bene comunale mai usato, vandalizzato, che noi abbiamo ripristinato grazie al sostegno di tanti amici e abbiamo reso fruibile a tutti, arricchendolo di attività, di laboratori creativi, di una piccola ma fornita biblioteca, di un orto civico, di wi-fi etc. Proprio al Civico Trame abbiamo da poco iniziato una nuova avventura: Visioni Civiche. Insieme alla fondazione Trame abbiamo partecipato e vinto il bando Prendi Parte! Agire e pensare creativo ideato dalla Dgaap del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per promuovere l’inclusione culturale dei giovani nelle aree caratterizzate da situazioni di marginalità economica e sociale. Con questo progetto abbiamo voluto rispondere al bisogno di partecipazione soprattutto giovanile che la città, a nostro parere, esprime. Visioni Civiche è un corso gratuito di formazione sul campo che ha lo scopo di accompagnare un gruppo di giovani di Lamezia Terme e del suo circondario in un percorso di riappropriazione della città, attraverso i linguaggi del video-reportage e del giornalismo civico-partecipativo. Con questo percorso abbiamo l’intenzione di fornire ai partecipanti gli strumenti per trovare storie e informazioni, scrivere e documentare la realtà a partire dai bisogni dei cittadini, con il fine, non secondario, di contaminare la comunità, i giornalisti locali e riattivare la partecipazione democratica. Ma Lamezia è ricca anche di tante altre associazioni che svolgono le loro attività con impegno e coraggio, che seguono percorsi diversi, ma che puntano ai nostri stessi obiettivi: far diventare Lamezia Terme una città migliore, dove sia possibile intraprendere e lavorare senza subire le pressioni mafiose, quelle estorsive, certo meno pressanti di qualche anno fa, e quelle legate al grande traffico di danaro sporco che viene infiltrato nel tessuto economico cittadino. Bisogna creare le condizioni per far sì che i nostri ragazzi possano scegliere liberamente se restare in Calabria, ma per raggiungere questo risultato, c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. Milano: avvocati a scuola di diritti umani di Valeria Uva Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2019 Formazione gratuita e transnazionale a 30 avvocati sui diritti fondamentali dell’Unione europea in materia di immigrazione e antiterrorismo, grazie al progetto Lawyers4Right vinto dall’Ordine avvocati di Milano, in partnership con realtà bulgare e spagnole. Si tratta di un progetto transnazionale finanziato con fondi comunitari del valore di circa 400mila euro per promuovere la formazione degli avvocati sul tema dei diritti umani, con particolare riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. L’ordine del capoluogo lombardo ha vinto insieme a un consorzio internazionale tra Bulgaria (capofila è l’associazione degli avvocati bulgari per i diritti umani), Spagna (con l’equivalente del nostro Consiglio nazionale forense e l’Università di Burgos). Per l’Italia, oltre all’Ordine, hanno partecipato Confprofessioni Nord-Est e Associazione forense (Anf), con quote che valgono complessivamente 70mila euro. Il programma di studio ha l’obiettivo di sensibilizzare gli avvocati, così come gli altri professionisti della giustizia, sul loro ruolo chiave nel campo dei diritti umani e riguarderà in particolare: i diritti dei minori e il ricongiungimento familiare nel settore delle migrazioni; i diritti di difesa delle persone sottoposte ad indagini antiterrorismo. Con una formula innovativa:?ogni partner organizzerà una sessione di formazione riservata per metà agli avvocati e ai giuristi locali e per l’altra metà a colleghi dei paesi consorziati. A Milano i corsi si terranno a gennaio 2020 e, oltre ai 30 avvocati selezionati dall’Ordine, parteciperanno anche i professionisti inviati dai partner di Bulgaria e Spagna. Allo stesso modo, Milano porterà alcuni dei propri avvocati ai seminari di Sofia e Burgos. La conoscenza delle lingue - Di volta in volta i corsi saranno tenuti nella lingua del paese ospitante con traduzione simultanea. Nessun costo per gli avvocati selezionati:?il progetto copre anche le spese di viaggio e alloggio, all’80% con fondi Ue e per il restante 20% a carico dei partner. Dopo la messa a punto del programma coordinato dall’Università di Burgos (Spagna), partirà il bando per scegliere i partecipanti. “I criteri per la selezione non sono ancora definiti in dettaglio - anticipa Alice Pisapia, esperta di diritto europeo e consulente dell’Ordine di Milano per i fondi europei destinati alla giustizia - ma certamente occorrerà la buona conoscenza di inglese o francese, così da garantire una forte interazione con gli altri partecipanti e sfruttare al massimo l’opportunità di creare una “rete” transnazionale di competenze e relazioni interpersonali”. “Si valuteranno anche i curriculum degli aspiranti - conclude - secondo i criteri che saranno meglio definiti nel bando”. Milano: l’avvocato paralizzato e il tribunale non a norma di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 febbraio 2019 Rimpallo di responsabilità tra giudici e ministero. L’ultimo allarme: un uomo ha cercato di entrare nelle stanze di gip e pm che lo hanno indagato per stalking. A un mese dalla paralisi del giovane avvocato precipitato da uno dei parapetti troppo bassi del Palazzo di giustizia milanese, e dalla visita del ministro della Giustizia Bonafede, tutto è uguale a prima. Al punto che ieri, nel rimpallo tra ministero e capi degli uffici giudiziari (peraltro devoluto alla competenza della procura di Brescia dopo la trasmissione del fascicolo per l’ipotesi di “lesioni personali gravissime”), tocca al Comune di Milano dare una mano: ieri, nella Conferenza permanente, ha accolto la preghiera dei capi uffici di mettere a disposizione dalla prossima settimana 300 transenne di quelle abitualmente usate in strada, transenne (come l’unica sinora collocata nel punto del dramma) con le quali il Provveditorato opere pubbliche cinturerà i 2 chilometri di parapetti fuorilegge per altezza sotto il minimo. Per 3 mesi, per ora: perché il Comune poi ne avrà bisogno per viabilità, concerti o eventi sportivi simili alla Stramilano. Difficile prevedere cosa potrà cambiare intanto, visto il ping-pong in corso. I cinque “datori di lavoro pubblici” ai fini della sicurezza sul lavoro (i presidenti di Corte d’appello, Tribunale e Tribunale di sorveglianza, e i vertici della Procura generale e della Procura della Repubblica) producono documenti con i quali dal 2015 fino al dicembre 2018 avevano ripetutamente avvisato il ministero dei pericoli e richiesto interventi urgenti, senza risposta. Dal ministero la “Direzione generale delle risorse materiali”, subentrata al Comune nella gestione degli edifici giudiziari dal 1° settembre 2015, in una nota del dirigente Antonio Mungo ribatte invece che “non avrebbe potuto provvedere al finanziamento di alcun intervento manutentivo straordinario” perché “la relativa richiesta, nelle forme previste dalla vigente normativa, e facendo seguito alle circolari sul punto ripetutamente inviate agli uffici nazionali, è stata formulata solo al termine del 2018; peraltro, l’inserimento della richiesta di finanziamento autorizzato dalla Conferenza permanente il 24 dicembre 2018 per 650.000 euro è avvenuto senza alcun progetto o documenti di supporto”. Q uesta odierna posizione non si concilia con la circolare diramata dalla medesima Direzione generale il 21 novembre 2016, che escludeva le misure di adeguamento della sicurezza dall’iter ora invece additato dal ministero. I progetti, inoltre, vanno affidati a professionisti che è intuitivo non lavorino gratis, ma dietro compensi finanziati dal ministero. Via Arenula per il futuro fa ora sapere che “è stato richiesto al Provveditorato opere pubbliche il progetto sulla base del quale era stata effettuata la richiesta di finanziamento delle opere da farsi, mai prima pervenuta”, e che la richiesta “verrà valutata, unitamente a tutte le altre pervenute riguardanti gli oltre 900 immobili in gestione al ministero, nell’ambito nella prossima programmazione con i pertinenti stanziamento di bilancio”. Nel frattempo, a 4 anni dalla strage in cui Claudio Giardiello uccise un avvocato, un giudice e un coimputato, la sicurezza resta un problema anche sotto altri profili. L’altro ieri la gip Maria Vicidomini è stata facilmente raggiunta in stanza (“tu non devi... mio figlio non lo puoi...”) da un alterato indagato per stalking al quale il giorno prima aveva ordinato il divieto di avvicinamento alla compagna. Fatto allontanare da due dei pochi carabinieri nel palazzo (solo 60 su 3 turni, per 7 piani dove ogni giorno entrano 8.000 persone), l’uomo è andato a cercare il pm Roberta Amadeo che aveva chiesto la misura. Costei, a differenza del gip, ha un ufficio con davanti la stanza della segreteria, che dunque ha fatto filtro. Il pm ha attivato i carabinieri della zona dove vive la moglie, alla quale infatti l’uomo, in evidente non controllo di sé, ha iniziato a telefonare violando il divieto di comunicazione. Da qui l’aggravio della misura cautelare e l’arresto in carcere. Un episodio di nuovo spia di una criticità che il procuratore generale Roberto Alfonso ha voluto verificare ieri di persona al settimo piano con il vicecapo gip Ezia Maccora. Termoli (Cb): si conclude corso di volontariato per i detenuti, quasi cento partecipanti ilgiornaledelmolise.it, 15 febbraio 2019 Domenica 17 febbraio 2019 alle ore 11 durante la Santa Messa, presso la parrocchia di San Timoteo in Termoli, saranno consegnati gli attestati di partecipazione al “Corso di volontariato per Detenuti” tenutosi nell’autunno scorso da ottobre alla fine di dicembre per complessivi 12 incontri. “Novantuno - spiega il parroco di San Timoteo, don Benito Giorgetta, sono coloro che si sono iscritti e più settanta sono stati assidui, interessati e coinvolti nella partecipazione. Da parte di tutti sono stati espressi pareri e giudizi lusinghieri circa l’esperienza fatta. L’attestato è rilasciato a firma del presidente della Iktus Onlus, organizzatrice e promotrice degli incontri, del Vescovo Monsignor Gianfranco De Luca e della dottoressa Rosa La Ginestra, direttrice del carcere di Larino. Infatti il corso è stato organizzato e promosso sinergicamente dalla Iktus Onlus, dalla Diocesi di Termoli-Larino e dal Carcere di Larino. Coloro che lo riceveranno saranno abilitati a prestare opera di volontariato presso il carcere di Larino o presso la Casa Famiglia “Iktus Lucia e Bernardo Bertolino” che ospita detenuti per offrire loro una possibilità di reinserimento nella vita sociale e lavorativa. Ancora una volta si è dimostrato che del carcere e, soprattutto, dei detenuti in esso accolti, si deve parlare. Occorre proporre una cultura della solidarietà e della prossimità espressi attraverso le più svariate forme di volontariato. Dopo la messa, coloro che vorranno, si recheranno nella casa famiglia per condividere un momento di convivialità con gli ospiti li accolti. Si coglie l’occasione per ringraziare tutti i relatori del corso, tutti i partecipanti e coloro che hanno collaborato per la sua realizzazione. Una grande ed edificante testimonianza di interesse, di coinvolgimento e di partecipazione”. Torino: “Liberi di imparare”, i detenuti portano l’Antico Egitto nel bar del tribunale di Lidia Catalano La Stampa, 15 febbraio 2019 I manufatti realizzati in carcere esposti per un mese. “Importante condividerli con tutta la cittadinanza”. La maschera funeraria di Merit, moglie di Kha, architetto-capo del faraone Amenhotep, è identica all’originale del 1400 (circa) avanti Cristo. Così come incredibilmente fedeli ai reperti autentici sono le stele, le anfore, i cofanetti e i papiri che da ieri impreziosiscono la caffetteria del Palazzo di Giustizia. A realizzarli, con precisione degna dei più esperti scribi e artigiani egizi, sono stati i detenuti della Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno” che frequentano il liceo artistico Primo e l’istituto professionale Plana di Torino, seguiti dagli insegnanti delle sezioni carcerarie con la supervisione degli esperti del museo Egizio. “In questi mesi ho addirittura imparato a leggere i geroglifici”, dice Alberto Prada indicando orgoglioso la riproduzione del Libro dei Morti di Kha, la tela che racchiude le formule a cui il defunto si affida per affrontare le prove nell’aldilà. Prada sta finendo di scontare la sua pena ed è stato ammesso al lavoro esterno: “Sarò qui tutti i giorni a fare da cicerone per i visitatori che verranno a sbirciare le opere durante la pausa caffè”. La mostra “Liberi di imparare” resterà allestita fino al 25 marzo ed è frutto della collaborazione tra l’Egizio, la Casa Circondariale e l’Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Torino. “Chi lavora nelle carceri sa quanta arte e quanta bellezza resta confinata dietro le sbarre - commenta Monica Gallo, Garante per i detenuti - è importante che almeno una parte venga condivisa con la cittadinanza”. All’inaugurazione dello “Spazio cultura inclusiva” della caffetteria, che d’ora in poi sarà a disposizione di cittadini e associazioni interessate a presentare progetti di inclusione sociale, è intervenuta anche la sindaca Appendino. “La comunità ha un’enorme responsabilità verso chi prova a reinserirsi, nessuno deve essere lasciato ai margini”. Questo l’obiettivo di “Liberi di imparare”, che rappresenta anche un ulteriore tassello della rinascita di un bar dal passato turbolento, finito al centro di un’inchiesta per corruzione conclusasi con sette arresti. Oggi a preparare il caffè dietro al bancone ci sono detenuti ed ex detenuti che lavorano per le cooperative Liberamensa e Consorzio sociale Abele lavoro. “La pena ha una funzione rieducativa - sottolinea Edoardo Barelli Innocenti, presidente della Corte d’Appello di Torino - Chi ha pagato il conto con la collettività deve avere diritto a una seconda chance”. Airola (Bn): sindaco e detenuti Ipm ricevuti dal Papa ilvaglio.it, 15 febbraio 2019 “Lei che ama tutti, ci raggiunga! Porti conforto alle tante famiglie che non hanno lavoro, agli ammalati, ai giovani, ai tanti fedeli cristiani e a tutti coloro che hanno bisogno di speranza; in particolare, dia sostegno ai giovani detenuti affinché trovino il giusto reinserimento nella società civile”. È questo stralcio della lettera che il sindaco di Airola, Michele Napoletano, ha consegnato nella giornata di mercoledì 13 febbraio a Papa Francesco. Una delegazione formata dallo stesso Primo cittadino, infatti, dal parroco della Comunità della Santissima Annunziata, don Liberato Maglione, nonché da cinque giovani dell’Istituto penale minorile e dal direttore della stessa struttura, Dario Caggia, ha avuto modo, replicando al momento del 2013, di essere ricevuta ieri, presso la sala Nervi di Città del Vaticano, dal Santo Padre. Papa Bergoglio - si legge nella nota diffusa alla stampa - ha interloquito con i caudini in particolar modo esprimendo parole di incoraggiamento all’indirizzo degli ospiti dell’Istituto e inviando un nuovo messaggio di vicinanza e saluto alla Comunità airolana. Per il resto, come detto, il sindaco ha lasciato una missiva a Francesco nel cui corpo si esprime l’invito allo stesso a venire in visita ad Airola. Di seguito il testo integrale della lettera: “Vostra Santità, Le scrive il Sindaco della Città di Airola, Michele Napoletano, che, ritornando a Roma per professare la fede sulla tomba di San Pietro, sente il bisogno di dirLe grazie per i diversi incontri, già avuti, che hanno legato Airola al Santo Padre e per invitarLa in questa Terra per una benedizione alla comunità airolana ed in particolare ai detenuti presso l’Istituto penale minorile. Ricordo ancora, con commozione, le parole da Lei pronunciate: “Abbi forza e coraggio nel guidare e servire il tuo Paese”, nell’anno 2013, in occasione della benedizione della fascia Tricolore, che mi pregio di indossare. Grazie, in particolare, per la benedizione della statua di San Giorgio, Santo Patrono della Città, nell’aprile 2015, in occasione della sua collocazione nella pubblica piazza cittadina; per la benedizione della statua della Vergine Addolorata, Regina della Comunità tutta e della Valle Caudina, nel giugno 2017, in occasione del centenario della festa a Lei dedicata; per l’appuntamento annuale, all’udienza generale del mercoledì, con i giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile. Vostra Santità, il mio Paese ha avuto l’onore di fregiarsi del titolo di città, nell’anno 1754, a seguito del regio decreto di re Carlo di Borbone, non per la densità della popolazione, oggi 8.500 abitanti, ma per la presenza di diversi ordini, congregazioni e istituti religiosi, conventi e chiese, confraternite, castello medioevale, istituto penale minorile, scuole e uffici a cui, da sempre, ha fatto riferimento l’intera Valle. Ancora oggi abbiamo la gioia di avere il convento dell’ordine dei Frati Minori, il monastero delle Clarisse, la Congregazione dei Padri Passionisti, l’istituto delle Suore dell’Apostolato Cattolico, un bel numero di chiese, tra cui la chiesa della SS. Annunziata, di scuola vanvitelliana, monumento nazionale; abbiamo, ancora, la gioia di ospitare, ai piedi del castello, le spoglie mortali di Madre Concetta Pantusa, serva di Dio, per la quale si è chiusa l’inchiesta diocesana sulle virtù eroiche. La nostra Comunità, ora, intercede presso la Santissima Trinità affinché possa ottenere i miracoli richiesti. L’attuale sede comunale e quella dei carabinieri è il Palazzo Montevergine, un tempo convento dei Virginiani; un tempo abbiamo avuto anche la presenza dei padri domenicani. Nel corso dei secoli, fu portato al fonte battesimale, in Airola, un bimbo, Innico Caracciolo, che poi diventerà Cardinale di Napoli. Nel 1996 il cardinale Ratzinger è venuto nel comune limitrofo di Sant’Agata dè Goti per aprire gli eventi Alfonsiani in onore del grande vescovo e dottore della Chiesa, il redentorista Sant’Alfonso Maria De Liguori. Oggi, abbiamo la fortuna di avere un grande vescovo, Domenico Battaglia, degno successore degli apostoli e fedele al suo magistero; Egli è sempre presente nella vita di tutti, conosce ciascuno di noi e segue da vicino anche i detenuti. Airola, attraverso il Sindaco, i Parroci, i Religiosi/e e, soprattutto, gli ospiti dell’Istituto Penale Minorile desidera invitarLa in terra Sannita, a pochi chilometri da Pietrelcina, paese natale di San Pio. Lei che ama tutti, ci raggiunga! Porti conforto alle tante famiglie che non hanno lavoro, agli ammalati, ai giovani, ai tanti fedeli cristiani e a tutti coloro che hanno bisogno di speranza; in particolare, dia sostegno ai giovani detenuti affinché trovino il giusto reinserimento nella società civile. Rassicuriamo che il territorio comunale ha la possibilità di garantire tutto quanto utile e necessario alla Sua accoglienza, in condizioni di massima sicurezza, ivi compreso una pista di atterraggio per elicotteri. Siamo certi della Sua preghiera per noi. Attendiamo la gioia della visita di Papa Francesco. Ho l’onore di professarmi, con profondo rispetto, servo obbediente di Vostra Santità”. Venezia: da detenuto a scrittore, così Aziz ha trovato la forza di ricominciare di Erminia Chiodo gnewsonline.it, 15 febbraio 2019 Una storia che racconta speranza, futuro e integrazione quella che arriva dal carcere di Trento, dove un detenuto marocchino, Aziz, pubblicherà, grazie ai risparmi del suo lavoro da carcerato, il racconto della sua vita Mai più qui, la forza di ricominciare, una raccolta di storie, illustrate dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, tenute insieme dal filo conduttore della droga e della violenza, che partono dall’infanzia in Marocco per approdare nelle carceri italiane, e che verrà presentato al Festival nazionale della cultura sostenibile, in programma in Italia dal 21 maggio al 6 giugno 2019. “Il progetto Aziz, che unisce due realtà, quella del carcere e quella della scuola, nasce a Venezia alcuni anni fa quando da volontaria dell’associazione ho seguito alcuni detenuti che traducevano i testi di bambini scritti in italiano, nelle loro lingue di origine - racconta Nadia De Lazzari, presidente dell’Associazione di volontariato Pace di Pesce responsabile del progetto - Aziz era fra quei detenuti.” Condannato a 8 anni di reclusione per spaccio di droga e sequestro di persona, con alle spalle solo due anni di scuola elementare in Marocco, Aziz riesce a scoprire, attraverso le storie dei bambini, l’esistenza di un mondo diverso, un mondo fatto di onestà, di bellezza, di cultura, di colori, di pace, un mondo opposto all’unico mondo che aveva conosciuto fino ad allora. E trova la sua strada. In pochi mesi impara l’italiano e consegue il diploma di terza media. Scriverà 25 racconti che Nadia farà diventare un libro corredato di illustrazioni e che è stato candidato e selezionato per il Festival dello sviluppo sostenibile che si colloca fra gli eventi nati a partire dalla sottoscrizione dell’Agenda 2030 e degli Obiettivi di sviluppo sostenibile da parte dell’Assemblea generale dell’Onu nel settembre 2015. Due le date che vedranno protagonista il libro di Aziz: il 23 maggio a Venezia e il 6 giugno a Trento. Il Progetto Aziz è un sogno che diventa realtà per tutti i protagonisti di questa storia: gli studenti che definiscono la loro arte “testimonianza oculare della realtà con cui hanno l’onore di dare una grande opportunità di vita ad Aziz”, l’associazione Venezia Pesce di Pace, che ha promosso e sostenuto l’iniziativa, la Casa Circondariale di Trento, Patriarca di Venezia, Presidente Comunità Religiosa Islamica Italiana, Rabbino Capo Comunità Ebraica di Venezia, Arcivescovo dell’Arcidiocesi di Trento, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Ma soprattutto è il lieto fine di emancipazione cercato con costanza e determinazione da Aziz, che nelle carceri italiane ha trovato il suo nuovo mondo possibile. Crotone: Bollari e le memorie dallo Jonio come ali di libertà di Roberto Carta crotoneinforma.it, 15 febbraio 2019 Carlo Gallo “regala” emozioni anche nella Casa Circondariale di Crotone. Quanto e come le attività culturali aiutino e “si aiutino” all’interno delle carceri è noto da decenni. Già all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il teatro in carcere inizia ad assumere significati, metodologie e obiettivi nuovi che si precisano e si consolidano nel tempo. Non ci sarebbe bisogno, infatti, di rammentare le prime esperienze all’interno del The San Quentin Drama Workshop, fondato proprio nel penitenziario californiano dall’ergastolano Rick Cluchey. Né dovrebbe essere necessario sottolineare come si sia già arrivati a configurare il Teatro in carcere come ad una pratica formativa non tradizionale che, addirittura, aiuta la riscoperta delle capacità e delle sensibilità personali, ma anche una modalità di espressione positiva di emozioni negative o angoscianti. In Italia fa testimonianza, laboratorio, formazione e scienza Armando Punzo che ha trovato addirittura la sua dimensione umana e professionale proprio in un carcere, quello di Volterra, dove da trent’anni ha fondato e dirige la “Compagnia della Fortezza”, formata da detenuti-attori: una vera e propria Istituzione Didattica e Culturale. Ed è in quest’ottica che i suoi (ed anche altri numerosi laboratori e attività in ambito teatrale) costituiscono un patrimonio di base da valorizzare e dal quale partire per costruire percorsi che abbiano una dimensione artistica ma anche formativa, orientata a una spendibilità esterna in grado di coniugare le competenze artistiche con quelle tecnico/professionali, al fine di rendere il carcere non solo un istituto di pena ma anche un istituto di cultura, cioè un luogo dove le contraddizioni e le energie in esso presenti vengano valorizzate e trasformate in senso costruttivo e propositivo e non solo in senso “contenitivo”. Come non citare e rammentare, “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani del 2012 (Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino): in quella occasione è il pubblico di tutto il mondo a scoprire la realtà italiana del teatro in carcere e, su quell’onda, si moltiplica così la spinta a socchiudere le porte delle carceri all’arte, al teatro, al cinema, agli eventi culturali aperti alla società. Martedì scorso, su iniziativa del Garante comunale dei diritti delle persone detenute, l’Avvocato Federico Ferraro, e della Direttrice della Casa Circondariale di Crotone Emilia Boccagna e dei suoi operatori sociali è arrivato il Teatro della Maruca in carcere. Nello specifico Carlo Gallo autore ed attore di un monologo teatrale che ha fatto il giro d’Italia sbarcando anche all’estero, ha pensato di offrire proprio Bollari Memorie dallo Jonio agli ospiti della Casa Circondariale. Frutto di un grande atto di generosità, che seppur portava con se il difetto del carattere della sporadicità e dunque non capace di “sfruttare” gli effetti delle esperienze sopra descritte, l’incontro e la messa in scena hanno “costruito” un grande momento di complicità ed emozione fra gli ospiti e l’artista crotonese che, assieme al fratello Angelo, sta dando tanto lustro quante grandissime opportunità attraverso il piccolo grande miracolo del Teatro Off realizzato. Abbiamo accompagnato Carlo Gallo, assieme a Roberto Carta che è autore delle magnifiche foto di questo articolo, in questa esperienza che mozza il fiato ad ogni tipo di emozione come solo il sorgere del sole sa fare quando il mattino è già arrivato con tutta la luce della consapevolezza della giornata uguale a quella del giorno prima. Carlo Gallo si è preparato ed allenato, prima della replica, con una attenzione e tensione che si è moltiplicata all’incedere dei detenuti in sala: si è seduto fra loro ed ha conosciuto storie di scrittura e canto; volti e bocche voraci di silenzi. Siamo certi che ha dovuto e voluto mettere in campo, in quegli istanti preliminari alla messa in scena, tutta la sua capacità di ascolto che deve essere sempre “scansionata” dalle emotività. Carlo Gallo è salito sul palcoscenico della sala usata per proiezioni e laboratori musicali scavalcando, con rispetto e gratitudine, le prime file di autorità (c’erano, fra gli altri, Prefetto, Questore e Comandanti dei Carabinieri, della Capitaneria di Porto e della Guardia di Finanza). Carlo Gallo ha scavalcato se stesso e tutti i suoi personaggi che raccontano la pesca per passione e per fame; Carlo Gallo ha scavalcato il suo stesso studio e recupero delle memorie di una Crotone e di una Calabria che non ci sono più, per atterrare nella memoria dei detenuti per fame e per giustezza. Si è creato, nell’oltre ora dello spettacolo, un sentimento unico: quello del linguaggio che rispetta entrambe le vie, quella del parlante quanto quella delle orecchie, del naso e degli occhi. Carlo Gallo ci aveva abituato a tutto ciò; ma non ha dato nulla di scontato per tutto ciò. Carlo Gallo ha dunque teso mani e braccia ancora più in là. Ed abbiamo visto mani tese sul palcoscenico della Casa Circondariale che si sono unite a quelle plaudenti più volte. C’è stato rispetto reciproco. Ecco l’aspetto della cronaca più secca che sentiamo l’obbligo di riportare. Carlo Gallo ha teso mani, braccia e spiegazioni anche al termine, anche a quelle prime file scavalcate come e solo al fine di scavalcare se stesso. E c’è stato altro e diverso rispetto, nuovamente reciproco. Si perché al di là della oramai arcinota ed arci-riconosciuta bravura e professionalità di Carlo Gallo (più fuori che dentro le mura di Crotone a dire il vero, almeno dal punto di vista istituzionale), ciò che abbiamo vissuto, ha dovuto subire, inesorabilmente, tutti gli effetti di quella sporadicità ed estemporaneità che ha partorito questa stessa “magnifica” giornata. Il vero peccato è che non ci rendiamo conto, che le vere ali della libertà tarpate, sono quelle di una società che non programma e non progetta con ciò che ha a disposizione; le vere celle e galere che costruiamo attorno a noi stessi, liberi pensatori a trucco vero e di sceneggiata quotidiana, sono quelle dell’ignoranza dell’opportunità e dell’opportuno; e dell’infinita ignoranza nei confronti dell’unica arma indispensabile: la cultura. “La paranza dei bambini”. L’innocenza barattata per un abito firmato di Antonio Mattone Il Mattino, 15 febbraio 2019 Adolescenti che all’improvviso intraprendono la scalata ai vertici di un clan. Che cercano con determinazione e sfrontatezza considerazione e spazio nel mondo criminale. “La paranza dei bambini”, il film tratto dal romanzo di Roberto Saviano in concorso al Festival di Berlino, è un racconto duro e spietato e nello stesso tempo pieno di tenerezza che descrive quali possano essere i percorsi per perdere l’innocenza nei vicoli di Napoli. Tutto comincia con un desiderio di giustizia: la madre di Nicola, il giovane protagonista privo di riferimenti paterni, costretta a pagare il pizzo e a subire umiliazioni, i rampolli delle famiglie che un tempo comandavano mortificati dai nuovi capizona. Sentimenti di solidarietà e valori positivi che poi si trasformano in ricerca di egemonia e di potere. Basta avere una pistola, come una lampada di Aladino a cui si può chiedere ogni cosa. E se si inceppa si trova il modo di procurarsene un’altra, fino a possedere armi più potenti e terrificanti. Poi l’adrenalina sale fino a far compiere gesti estremi. E così per avere denaro, abiti di marca, prestigio e il lusso nelle case modeste, si finisce per perdere tutto. Una scelta che diventa irreversibile e da cui non è più possibile tornare indietro, quando si rompono equilibri e alleanze e si lasciano morti ammazzati a terra. Quello che colpisce è la mancanza di misura che caratterizza i giovani aspiranti boss, che superano continuamente il limite di aggressività e non riescono più a frenare l’escalation di violenza. Come ha detto Saviano, questo non è solo un racconto di una generazione criminale ma di un’intera generazione alla ricerca di considerazione e simboli di successo. Il confronto tra chi ha il tavolo più grande e con il maggior numero di bottiglie all’interno della discoteca, diventa una competizione tra gruppi di comitive o di quartieri diversi. Uno sguardo di troppo, l’atteggiamento di sfida sfociano in risse che possono provocare strascichi violenti e vendette. Scene che abbiamo visto tante volte nella realtà. Ma in fondo questi ragazzini crescono anche con il desiderio di avere una identità positiva, il senso di appartenenza ad una comunità. Quando Nicola comincia ad esercitare la sua egemonia, regala ai bambini del rione Sanità le magliette della squadra di calcio con ben impresse le iniziali del quartiere, R.S.. Non può non pensare al grande lavoro di squadra che fanno i ragazzi di padre Loffredo nelle catacombe di San Gennaro. La bellezza artistica se vissuta come patrimonio comune può esercitare un grande fascino, come avviene ai due fidanzatini quando nel film entrano nel teatro San Carlo. La visione de “La paranza dei bambini” mi ha fatto venire alla mente alcuni giovani che ho incontrato nel carcere di Poggioreale. Esistenze innocue e irrilevanti che in un istante sono diventate protagoniste del male. Nello aveva 19 anni quando è stato arrestato durante una tragica rapina che costò la vita al suo giovane complice, ucciso da un poliziotto in borghese che si trovava casualmente in quella tabaccheria. Era rimasto orfano a 9 anni, con la madre morta per una grave malattia. Privo del suo principale punto di riferimento è cresciuto per strada, con gli insegnamenti appresi nei vicoli di uno dei quartieri più difficili di Napoli. La voglia di emergere, di sentirsi qualcuno e una pistola giocattolo senza il tappo rosso pronta per l’occorrenza. Poi la tragedia. Anni dopo l’ho rincontrato in un altro carcere, non ho mai interrotto i contatti con Nello. Era lui che mi scriveva e continuava a cercarmi. Quel giorno mi raccontò che da grande (ma nel frattempo già lo era diventato) avrebbe voluto fare l’infermiere perché voleva aiutare i malati a non soffrire come invece aveva visto tormentarsi sua madre. Poi tirò fuori la foto del suo amico morto durante la rapina e mi parlò di lui. Vidi dai suoi occhi uscire delle lacrime, e non riuscì a terminare le cose che avrebbe voluto dirmi. Ma quel pianto aveva detto tutto e gli aveva restituito un pò della sua innocenza. Oggi è uscito dal carcere e fa il cameriere. Quando non ci sentiamo per alcuni giorni mi scrive su whatsapp: “È un po’ che non ti fai vivo, tutto bene?”. Come ha ricordato Isaia Sales, commentando il rapporto semestrale della Dia al Parlamento, le giovani leve della nuova camorra bruciano le tappe della carriera criminale portandosi appresso il bagaglio culturale che gli appartiene, come l’uso dei social o il linguaggio generazionale. Tuttavia sono accompagnati anche dalla fragilità che contraddistingue la giovane età, come si può vedere in Nicola e nei giovani protagonisti del film. Allora forse bisognerebbe creare degli spazi di umanità dove cercare di intercettare questa debolezza e trasmettere senso di paternità e passioni. Solo così potremo strappare dalla violenza questi adolescenti sempre più soli e confusi. Prima che sia troppo tardi. “Liberi dentro - cambiare è possibile anche in carcere” askanews.it, 15 febbraio 2019 Il libro di Savasta che da 25 anni incontra i detenuti come volontario. Più di venticinque anni trascorsi in carcere, per libera scelta, per incontrare le persone detenute in qualità di volontario della Comunità di Sant’Egidio. Da questa esperienza pluridecennale Ezio Savasta, che è membro del Coordinamento Internazionale per l’abolizione della pena di morte, promotore sul web dei temi della difesa dei diritti umani, ha tratto un libro: “Liberi dentro - Cambiare è possibile anche in carcere”. “In prigione, per eccellenza luogo di emarginazione, la visita rompe l’isolamento e questo è un grande dono. Chi è detenuto, anche chi ha commesso gravi reati, non vuole che la sua vita si esaurisca con il suo reato, ma chiede di essere ascoltato. In questo libro - si legge nella quarta di copertina, a firma di Mario Marazziti che ne ha scritto l’introduzione - vengono descritte con profondità le giornate nelle carceri italiane, si smontano luoghi comuni, ci si imbatte in tante piccole e grandi contraddizioni, ci si appassiona a vicende che paiono quasi incredibili. La vita, le difficoltà, le speranze, la violenza, le delusioni, la rabbia, la gioia che queste vicende esprimono, mostrano quanta umanità sia racchiusa dietro gli spessi muri di una prigione”. “Il carcere è uno specchio. Racconta come siamo. È un sensore di civiltà. È un microcosmo, deformato, della nostra vita. Tutto è terribilmente umano, ma anche estremo. Come il rumore, assordante, permanente. Il contrario di quello che chi non vi è mai entrato potrebbe immaginare: nel rumore l’inattività, che spesso non aiuta a riflettere, ma addormenta quello che servirebbe per cambiare”, aggiunge Marazziti. Savasta, che insegna nella scuola secondaria superiore a Roma, sottolinea che nel libro “sono raccontate varie storie avvincenti e descrizioni dell’interno del carcere, realtà nascosta da un alto muro che la separa dal mondo esterno. Spero che tra le pagine del libro scoprirete quanta umanità e sofferenza, che meritano attenzione e rispetto, sono racchiuse dietro le mura di una prigione”, aggiunge sul blog che gestisce “Diritti Umani-Human Rights”. A tredici anni pony express della cocaina. Gennaro e l’infanzia rubata da Gomorra di Antonio Emanuele Piedimonte La Stampa, 15 febbraio 2019 “Quando ero piccolo mi facevano fare il pony insieme a mio cugino”. In realtà Gennaro (nome fittizio) ha ancora tredici anni ma evidentemente si sente già grande, abbastanza da manifestare una scorbutica diffidenza: “O zì ma tu overo fai ‘o scrittore? Nun è che sì nu giornulaio? (nei quartieri popolari è frequente la confusione tra giornalaio e giornalista, ndr). Perché nuie ‘e schifamm” (i cronisti non godono della nostra stima). È un ragazzino come tanti, che non lascia mai la sella del suo scooter e ti parla fissando lo schermo del telefonino, a scuola ci va poco, è fiero dei tatuaggi e mostra un tono impostato: insomma vuole vestire i panni dell’aspirante camorrista, anche se la carriera cominciata facendo consegne di droga (il pony express) sembra non averlo condotto molto lontano. Lavora, per così dire, in una piazza di spaccio - o almeno è quello che vuole far credere - ma di fatto continua a ricoprire il ruolo di “muschillo”, che è la traduzione di moscerino e come è facile intuire indica i bambini usati per il trasporto delle dosi di stupefacente sia perché più agili e veloci degli adulti (come i piccoli insetti, appunto) sia perché per la loro età non possono incorrere nelle maglie della giustizia. Ai “muschilli” dedicò il suo ultimo articolo Giancarlo Siani, uscito sul “Mattino” del 22 settembre 1985 con il titolo: “Nonna manda nipotino a vendere la droga”. Il giorno seguente il giovane reporter napoletano sarà ucciso in un agguato. Oltre trent’anni dopo, la principale differenza è che “Gennaro” non è stato costretto da un parente, anzi, ha scelto e fortemente voluto entrare nel giro dei “pezzi grossi”, cioè lo storico clan Contini, una cosca che nonostante arresti e omicidi (il padrino è in galera da decenni) regna su una vasta zona della città senza aver mai fatto registrare tradimenti o scissioni. E infatti sono gli unici territori dove non si registrano “stese” e solo sporadicamente qualcuno viene “buttato a terra” (espressione che indica un omicidio). “Non te lo dico quanti soldi mi alzo, ma sono assai”, spiega con aria furba l’adolescente ma, come confida un amico che segue distrattamente la conversazione, non si tratta di riservatezza bensì del timore che altri possano metterlo in cattiva luce dicendo che guadagnano più di lui. In realtà non è ben chiaro neppure quale sia il suo reale contributo all’organizzazione, si direbbe che stia facendo un percorso “di formazione”, un po’ muschillo, un po’ vedetta-sentinella per prevenire i blitz delle forze dell’ordine. Di certo però, per lui come per altri coetanei on the road, quello che conta davvero è il vestire griffato, possedere uno scooter potente, potersi atteggiare con le ragazze, recitare una parte. Un forma di esibizionismo che se diventa collettivo, si fa subito violenza. Scenari noti e più volte raccontati pure sul grande schermo, anche se tra il celebre “Scugnizzi” di Nanni Loy, uscito nelle sale esattamente trent’anni fa, e la “Paranza dei bambini” (di Claudio Giovannesi) presentato due giorni fa al Festival del Berlino, molto sangue è passato sotto i ponti. La fiction insegue la cronaca, ma Shakespeare insegna che ci sono più cose tra cielo e terra. L’ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia, appena presentato, è un altro doloroso e inquietante richiamo a quella realtà che in molti fingono di non vedere, spesso per un malriposto orgoglio partenopeo, atteggiamento palesato persino dal nostro piccolo criminale in erba che, mentre segue le tracce dei vip dei social, sbotta: “Tutti parlano male di Napoli, è uno schifo, è invidia perché nuie siamo meglio, ecco perché s’hann vattere (bisogna picchiarli, ndr, il riferimento è ai tifosi delle altre squadre)”. Scrivono gli analisti della Dia: “Particolare attenzione merita il rapido diffondersi di episodi riprovevoli e violenti commessi dalle cosiddette baby gang, espressione di una vera e propria deriva socio-criminale”. E ancora: “I minori rappresentano un “esercito” di riserva da impiegare in particolare nelle attività di spaccio delle sostanze stupefacenti ove, come più volte emerso dalle attività investigative, partecipano persino i bambini”. Ugualmente sconfortanti i dati della giustizia minorile, recentemente ricordati dal sociologo Isaia Sales: “Quelli che sono stati messi alla prova, cioè hanno visto annullare la pena con un impegno a studiare o a imparare un lavoro, tornano da adulti nel circuito criminale e penale. Quasi la metà di essi sono recidivi, da adulti fanno quello che facevano da ragazzini”. Non scambiare la prostituzione con la libertà sessuale di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 15 febbraio 2019 Non so se tutti vi ricordate della legge Merlin. Siamo negli Anni 50, anni in cui le donne per legge potevano essere picchiate dagli uomini per correggerne il comportamento, anni in cui le mogli avevano ancora l’obbligo delle prestazioni sessuali nei confronti del marito. Lina Merlin, una delle nostre madri costituenti condusse una battaglia durata 10 anni sulla chiusura delle “case chiuse”. E alla fine, insieme alle donne degli altri partiti, ci riuscì. La legge ha portato un vero capovolgimento di ottica: la prostituzione non è reato, ma il suo sfruttamento sì, e così si è rotta la pratica di uno Stato che guadagnava dalle tasse delle “case chiuse” e quindi dallo sfruttamento sessuale delle donne. Ora c’è una proposta di legge, targata Lega, presentata dal senatore Rufa, che ci riporta indietro, a prima del 1958. Il disegno di legge si ispira ad altri precedentemente presentati dalla Lega, e punisce la prostituzione nei luoghi pubblici, mentre la autorizza in case private, prevedendo la riscossione delle tasse dello Stato dalla compravendita dei corpi femminili. E non si scioglie il nodo della dignità delle donne coinvolte nella prostituzione, in gran parte schiave. E il tutto in nome del “decoro civile e morale”. E si risolve così? Non posso credere che siamo un Paese così capace di prevenire e combattere il terrorismo e non riusciamo a combattere lo sfruttamento sessuale e la tratta degli esseri umani, come raccomandato da Onu e Convenzione di Istanbul. La prostituzione non può essere considerata un lavoro come un altro. Julie Bindel sul “Guardian” lo ha ben sottolineato: “Il corpo delle donne non è un posto di lavoro”. La prostituzione è un fenomeno variegato e anche assai complesso. Ed è molto difficile distinguere tra prostituzione volontaria e involontaria, ma sappiamo che ormai tende sempre più a caratterizzarsi come tratta di esseri umani e schiavitù. Rachel Moran, ex prostituta irlandese e ora giornalista e attivista, ha intitolato il suo bellissimo e inquietante libro-testimonianza sulla vita quotidiana da prostituta “Stupro a pagamento”. Non a caso, e ne consiglio la lettura, soprattutto agli uomini. Kate Millet scrittrice americana, diceva bene: “Non è il sesso, in realtà, che si fa vendere alla prostituta: è la sua degradazione. E il compratore, il cliente, non sta comprando la sessualità, ma il potere”. Alessandra Bocchetti nota femminista italiana ha giustamente affermato: “Il bisogno di sesso è una realtà che riguarda uomini e donne, senza che questo debba produrre sottomissione, schiavitù e perdita di dignità. I corpi non si comprano e non si vendono”. Ci sono alcuni punti fermi della legge Merlin che non possono essere dimenticati. Non impedisce a chi vuole esercitare la prostituzione di farlo, ognuno può fare ciò che vuole, ma punisce gli sfruttatori e non le donne e gli uomini che la praticano, garantisce che lo Stato non ci guadagni, combatte le organizzazioni criminali, indirizza verso percorsi di fuoriuscita e assistenza le vittime. Non sono a favore di uno Stato etico che si pone come decisore e giudice assoluto del bene e del male, ma per uno Stato che si fonda sulla libertà dei suoi cittadini, donne e uomini. Appunto, libertà e non schiavitù, non degradazione. La “regolarizzazione” della prostituzione non può essere scambiata con la libertà, tanto meno con la libertà sessuale. Ogni persona ha diritto di esprimere la propria sessualità e il proprio orientamento sessuale, purché nel pieno rispetto della dignità umana, e soprattutto senza essere schiavizzata o soggiogata. E lo Stato non deve guadagnare sulla negazione della libertà e sullo stupro a pagamento. Migranti. Il Comune di Milano resiste a Salvini: parte la sfida del registro civico di Andrea Senesi Corriere della Sera, 15 febbraio 2019 In Comune l’anagrafe parallela dei richiedenti asilo: così viene “aggirato” il decreto Salvini. Il sindaco: non è disobbedienza, vogliamo aiutare chi rimane senza diritti. Insorge il centrodestra: atto illegale. È la “terzia via” tra la chiusura leghista e la disobbedienza civile annunciata dai sindaci di centrosinistra del Sud. La ricetta milanese di resistenza legale al decreto sicurezza era stata annunciata dal sindaco Giuseppe Sala ed è stata raccontata ieri, davanti alle commissioni consiliari di Palazzo Marino, dall’assessore al Welfare Pierfrancesco Majorino e da quello ai Servizi civici Roberta Cocco. Il Comune istituirà un registro per i richiedenti asilo, uno strumento che permetterà all’amministrazione di “tutelare” quei migranti che, per effetto del decreto Salvini, non potranno più iscriversi all’anagrafe cittadina. L’obiettivo del registro è conoscere i richiedenti asilo domiciliati a Milano, mettere a disposizione questi dati a tutti gli enti che possano essere interessati (Inps, ospedali, scuole) per facilitarne l’accesso ai servizi a cui hanno diritto. I servizi comunali che hanno sede in via Scaldasole offriranno poi consulenza legale a chi ne ha bisogno. “Vogliamo offrire un supporto pur nel rispetto della legge”, commenta Cocco, mentre Majorino lancia un appello alla prefettura di Milano “perché non applichi la legge Salvini nella parte relativa alla cessazione dei percorsi di accoglienza già in attivi e non mandi le persone per strada”. Sono già 103 i migranti che, secondo dati di Palazzo Marino, si sono visti rifiutare, dal 25 ottobre a ora, la richiesta di iscrizione anagrafica. La “terza via” milanese rimane nell’ambito della legalità, perché i richiedenti non vengono iscritti all’anagrafe ufficiale (la strada scelta invece dai sindaci di Napoli e Catania), ma prova comunque a “limitare i danni prodotti dalla legge”. Uno per tutti: “Il decreto Salvini non fa che aumentare l’esercito di invisibili in giro per la città”. Per questo si metterà infine in campo una “rete civica per l’integrazione”, con la collaborazione del terzo settore, con l’obiettivo di intercettare chi vive per strada, anche perché ha perso il diritto all’accoglienza nei centri per effetto del cambiamento della legislazione. La polemica esplode in un attimo. Durissimo il leghista Alessandro Morelli: “Majorino e il Pd mettono il Comune di Milano nelle condizioni di essere la prima amministrazione ad essere accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Per il capogruppo di Forza Itala Fabrizio De Pasquale “urge attivare immediatamente i centri per il rimpatrio e le procedure di espulsione e non utilizzare l’anagrafe per fare propaganda”. I Cinque stelle però offrono una sponda inaspettata al centrosinistra. “Noi siamo assolutamente d’accordo con l’idea di costituire un registro per sapere quante e chi siano e siamo anche d’accordo con l’aiutarle nell’immediato. Se lo si fa per aiutare le persone siamo pronti a dare il nostro supporto; se serve ad attaccare il governo, no”, commenta l’ex candidato sindaco del M5s Gianluca Corrado. Plaudono il Pd e le sinistre: “Il registro va fatto il prima possibile”. In serata arriva anche il commento del sindaco. “Stiamo parlando di richiedenti asilo - sottolinea Beppe Sala: a noi interessa una tutela di queste persone, una tutela minima sulla sanità perché se vanno in un pronto soccorso non ci siano troppe storie”. Droghe. La nuova emergenza tra gli adolescenti e i nostri ritardi di Antonio Polito Corriere della Sera, 15 febbraio 2019 Ma le norme che regolano il sistema di prevenzione e assistenza risalgono agli anni 90 del secolo scorso. C’è una nuova emergenza droga tra gli adolescenti. L’inchiesta del Corriere lo sta testimoniando oltre ogni dubbio. L’eroina è tornata, ma è diversa per qualità e costo. Nuove sostanze hanno creato nuovi consumatori. Sempre più spesso i ragazzi non sanno neanche bene che cosa stanno assumendo, e per questo la soglia di percezione del rischio si è abbassata. In termini medici sono definite “poliassunzioni”, ma i giovani le chiamano il “mischione”, mix di droghe più o meno pesanti, fumate, ingerite o iniettate. Le norme che regolano il sistema della prevenzione e dell’assistenza risalgono agli anni 90 del secolo scorso, e furono scritte per un fenomeno del tutto diverso. Nuovi problemi emergono, e richiedono una riflessione seria e senza preconcetti. 1) I ragazzi che si drogano hanno bisogno di un aiuto prima che sia troppo tardi. La loro salvezza è questione di tempo. E invece la prima rete di intervento sul territorio è debole, con poche risorse, spesso inadatta ai più giovani. I Serd (Servizi per le dipendenze patologiche) non sempre sono la porta d’ingresso migliore per chi incontra le droghe per la prima volta, e questo al di là dell’impegno e della dedizione con cui tanti operatori lavorano. Tarati sulla gestione dei tossicodipendenti cosiddetti “cronici”, di lunga durata e di età matura, “gestiti” con il metadone, ai nuovi arrivati non possono offrire molto di più che un colloquio psicoterapeutico e dei farmaci. Pur erogando direttamente servizi di assistenza, i Serd regolano e controllano anche la spesa sanitaria presso operatori privati come le comunità terapeutiche, e per questo tra i due sistemi si può creare diffidenza e incomprensione. 2) L’ingresso in comunità per gli adolescenti è difficile, e il processo è troppo lento. Se un medico prescrive un periodo anche breve di ricovero, perché l’Asl riconosca la spesa la famiglia deve ingaggiare un avvocato. Il potere di decidere è di fatto affidato a una complessa procedura amministrativa; oppure, ma quando le cose sono già precipitate, al giudice minorile. Le comunità adatte ai più giovani sono poche e piene, e le Regioni che pagano privilegiano quelle sul proprio territorio, riducendo così ancora di più la disponibilità complessiva. Il paradosso oggi è questo: se mio figlio si ammala, posso portarlo in qualsiasi ospedale d’Italia per curarlo. Se comincia a drogarsi, non tocca a me decidere se, quando e dove potrà essere curato. 3) La “residenzialità”, anche solo diurna, che spezza il legame con l’ambiente “tossico”, è essenziale, perché drogarsi è un fenomeno sociale e culturale, non solo sanitario. Chiama in gioco una trama di rapporti. Ha un suo rito simbolico, che si svolge intorno alla sostanza. Richiede dunque un intervento educativo, che separi il giovane dalla dipendenza dal gruppo e dai luoghi dello spaccio, oltre che dalla droga. La sostanza è irresistibile. Innumerevoli sono i casi di disintossicazioni riuscite che finiscono in ricadute non appena il ragazzo torna a contatto con i contesti di attrazione e di disponibilità, come il boschetto di Rogoredo a Milano, il girone infernale raccontato dall’inchiesta del nostro Gianni Santucci. 4) I genitori non sanno che fare. Sono disperati. Uno di loro ha raccontato sul Corriere a Elisabetta Andreis qualcosa che può apparire terribile, ma è invece esperienza comune. Andare in comunità è così difficile che molti padri e madri sperano con tutto il cuore che i loro figli siano fermati e processati per un reato. Certe volte li denunciano addirittura. È l’unico modo perché sia un giudice minorile, verificata la pericolosità per gli altri, a disporne il ricovero in comunità. 5) Tra le dipendenze (i Serd si occupano anche di quelle da alcolismo, ludopatia, Internet) e le sindromi c’è un sottilissimo confine. Anzi, molti studi dicono che l’uso di sostanze, a partire dalla marijuana, è prima di tutto un indicatore di disagio psichico. Però in Italia i canali di cura sono separati, e le strade tra i Serd e i servizi psichiatrici si incontrano solo nel caso delle cosiddette “doppie diagnosi”, ragazzi con problemi psichici e dipendenza insieme (come Pamela, uccisa un anno fa a Macerata). In alcune regioni, come la Lombardia, si sta infatti sperimentando un coordinamento tra Serd e servizi psichiatrici. Spagna. Junqueras in aula: “Io prigioniero politico, il referendum non è un reato” di Francesco Olivo La Stampa, 15 febbraio 2019 Entra nel vivo il processo ai dodici leader indipendentisti accusati di aver organizzato il referendum per la secessione della Catalogna nell’ottobre del 2017. Ieri la giornata più attesa: per la prima volta la parola è andata agli imputati. Il principale tra loro è sicuramente Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat e leader di Esquerra Republicana, in carcere preventivo da oltre 15 mesi, sul quale pende la richiesta di pena di 25 anni di carcere. “Mi dichiaro prigioniero politico”, ha detto Junqueras, dopo aver deciso di rispondere soltanto alle domande del suo legale e non a quelle della procura, dell’Avvocatura dello Stato e della parte civile (il partito di estrema destra Vox). Junqueras parlando per circa due ore ha ripercorso tutta la vicenda culminata nella dichiarazione di indipendenza, rimasta lettera morta. L’argomento principale sviluppato da Junqueras è il carattere pacifico del movimento indipendentista. Si tratta di un punto centrale di questo processo visto che l’accusa di ribellione prevede proprio l’utilizzo della violenza. Molto più complicato è stato l’interrogatorio di Joaquim Forn, l’ex ministro dell’Interno di Puigdemont, che ha dovuto spiegare al pubblico ministero la condotta dei Mossos d’Esquadra durante la preparazione e lo svolgimento del referendum. Oggi la data del voto Oggi sarà con tutta probabilità il giorno in cui il premier Pedro Sánchez firmerà la sua resa. Il premier ha convocato i giornalisti per le dieci e,almeno di colpi di scena, annuncerà la data delle elezioni anticipate. L’ipotesi più concreta è quella del 28 aprile, prima quindi delle elezioni europee, che in Spagna coincidono con quelle amministrative. La decisione del premier socialista, entrato alla Moncloa solo 9 mesi fa, è arrivata dopo la sconfitta parlamentare sulla legge di Bilancio, causata dal voto negativo dei partiti indipendentisti catalani. Stati Uniti. Supermax, il carcere che ospiterà El Chapo è peggio di Guantanamo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2019 Una versione moderna del carcere di Alcatraz, dove la tecnologia riesce ad eliminare tutte le percezioni sensoriali. Parliamo del Supermax, il penitenziario federale di Florence in Colorado, una struttura identificata come ADX, codice che rappresenta il massimo nell’amministrazione carceraria statunitense: così sicura, così remota e così severa che è stata definita l’Alcatraz delle Montagne Rocciose. È salita agli onor edella cronaca dopo che si sta valutando di rinchiudere El Chapo, il narcotrafficante messicano recentemente condannato da una Corte federale di New York famoso soprattutto per le sue continue evasioni: era riuscito a fuggire da due prigioni messicane ad alta sicurezza prima della sua ultima cattura ed estradizione negli Stati Uniti. In questa struttura triangolare, immersa nel silenzio delle Montagne Rocciose, sono rinchiusi gli uomini considerati i criminali più pericolosi d’America: terroristi, kamikaze, serial killer e responsabili di stragi. C’è ad esempio Terry Nichols, il complice di Timothy McVeigh (rinchiuso a Florence, poi giustiziato) nell’attentato a Oklahoma City del 1995. Oppure Theodore Kaczynski, alias Unabomber, che per 17 anni ha terrorizzato gli Usa con i suoi pacchi bomba. Si trova rinchiuso anche Ramzi Ahmed Yousef, l’ideatore dell’attentato al World Trade Center di New York del 1993. Ma anche Richard Reid, il simpatizzante di Al Qaeda che nel 2001 tentò di fare esplodere un aereo con una scarpa-bomba e Eric Rudolph, un ultrà antiabortista assassino di infermiere e poliziotti. I detenuti di Florence restano chiusi nella loro cella, in un regime di totale isolamento, per 23 ore al giorno. “L’ora di libertà” consiste in una passeggiata fra i corridoi, guidata a distanza da un dispositivo elettronico legato alle caviglie. Il cortile è riservato ai detenuti meno pericolosi. Le celle sono un loculo che misura poco più di 2 metri per 3. La finestra è una fessura di 12 centimetri. Non esistono oggetti: letto, sgabello, toilette e lavandino sono un tutt’uno di cemento armato. Telecamere a raggi infrarossi osservano ogni movimento del detenuto, mentre microfoni direzionali captano qualsiasi tipo di suono. Come stabilito dalle leggi federali, l’obiettivo del carcere non è affatto la riabilitazione dei detenuti, bensì la protezione della società dalla loro presenza. Amnesty International ha più volte criticato il trattamento dei detenuti nel carcere. Robert Hood che è stato direttore del carcere dal 2002 al 2005 disse durante un’intervista che quel luogo “non è fatto per l’umanità”, aggiungendo che l’ADX Florence è “come l’inferno, solamente più pulito”. Guantanamo, rispetto a questo carcere, sembrerebbe un hotel. C’è la testimonianza di Mahmud Abouhalima, uno dei terroristi che partecipò all’attentato del 1993 al World Trade Center che ha descritto la sua vita all’ADX Florence: “Passo i giorni seduto in una stanza in cui non ho più di tre metri per camminare, questo piccolo buco è diventato tutto il mio mondo, la mia sala da pranzo, il luogo in cui leggo, scrivo, dormo, cammino. Il luogo in cui urinare e defecare. Praticamente vivo in un bagno, e questo concetto mi tormenta da dieci anni”. E non mancano detenuti che impazziscono a causa della detenzione disumana. Il New York Times descrisse cosa fece nel 2001 un altro detenuto, Jake Powers, un rapinatore di banche finito all’ADX dopo essere evaso dalla precedente prigione in cui si trovava: “Powers perse la testa. Si tagliò i lobi delle orecchie, si strappò un dito, si “affettò” il tendine d’Achille, si infilò delle graffette in faccia e in fronte, ingoiò un dentifricio e cercò di tagliarsi l’addome per recuperare il dentifricio; dopo essersi fatto un buco in fronte si iniettò nelle cavità del cervello quello che riteneva essere una “considerevole dose di fluido ad alto contenuto di batteri”“. Nel 2005 Powers si aprì invece lo scroto e rimosse un testicolo. Turchia. In corteo per la libertà di Ocalan e di tutti i prigionieri politici di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 febbraio 2019 Domani a Roma. Appuntamento alle 14 in Piazza dell’Esquilino. A Strasburgo confluiranno tre marce partite da Svizzera, Germania e Lussemburgo. Per la prima volta si protesterà anche in Kenya dove Apo fu arrestato. “Abdullah Öcalan gode della fiducia di milioni di persone in Medio Oriente: porre fine al suo isolamento significa dare una prospettiva di pace e democrazia a tutti quei territori martoriati da decenni di guerra, distruzioni e milioni di profughi”. Lo scrivono l’Ufficio informazione del Kurdistan in Italia, la Comunità curda e Rete Kurdistan in un testo che lancia il corteo di domani, firmato da associazioni, sindacati, centri sociali, artisti ed esponenti politici. Tra questi l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano, detto “il curdo”, e i primi cittadini di Napoli e Palermo, di cui il leader detenuto a Imrali è cittadino onorario. Il corteo partirà alle 14 da piazza dell’Esquilino e si concluderà A piazza Venezia. Nella capitale arriveranno manifestanti da tutta Italia per chiedere la liberazione di Öcalan e di tutti i prigionieri politici curdi e la difesa della rivoluzione del Rojava. Rivendicazioni sostenute dallo sciopero della fame di 327 detenuti nelle carceri turche e di centinaia di curdi sparsi in tutto il mondo. Tra loro Leyla Güven, deputata dell’Hdp che rifiuta il cibo da 100 giorni. Da mercoledì è ricoverata in rianimazione all’ospedale di Diyarbakir. Insieme a quella di Roma ci saranno mobilitazioni a Strasburgo - dove confluiranno tre marce partite nei giorni scorsi da Svizzera, Germania e Lussemburgo - e in molte altre città. Per la prima volta si protesterà anche in Kenya, dove Öcalan fu arrestato il 15 febbraio 1999. Turchia. Vent’anni di isolamento in un carcere, lì Ocalan ha fatto la rivoluzione di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 febbraio 2019 Il 15 febbraio 1999 Abdullah Ocalan veniva rapito dai servizi segreti turchi in Kenya. Erano trascorsi 21 anni dalla fondazione del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. Altri venti ne sono passati dall’inizio di un isolamento brutale, nell’isola-prigione di Imrali, Mar di Marmara. Ma sarebbe un errore definire quel giorno di due decenni fa l’inizio della fine. È stato l’inizio di un altro inizio, di una trasformazione che genera frutti. Una rivoluzione che Ocalan coltiva da dietro le sbarre. In isolamento ha pensato, scritto, sognato. Ha portato fuori dalla cella testi che sono diventati la base teorica di un processo unico in Medio Oriente e nel mondo: il confederalismo democratico in atto a Rojava, nel nord della Siria. Ha traghettato il Pkk da movimento nazionalista e marxista a movimento che ha nell’autonomia senza Stato il suo pilastro. Rojava è divenuta il terreno fertile per la terza via, l’alternativa a capitalismo e socialismo: autogoverno, cooperativismo, femminismo, ecologismo sociale. E internazionalismo: questo pezzo di terra da anni attira l’attivismo concreto e la partecipazione della sinistra globale, i singoli, i movimenti di base. Una realtà nemica per i tradizionali attori della regione, gli Stati-nazione. Gli ultimi anni non hanno conosciuto solo la rivoluzione, ma anche una rinnovata violenza esercitata sul popolo curdo dalla Turchia. Fatto fallire il negoziato di pace voluto da Ocalan, Erdogan (prima da premier e poi da presidente) ha promosso e promuove la dura repressione del sud-est turco a maggioranza curda: prima con un’offensiva militare, nel 2015, brutale come poche altre (mezzo milione di sfollati, migliaia di morti, città rase al suolo), poi con l’arresto di migliaia di membri e sostenitori del partito di sinistra Hdp (tra cui dodici parlamentari). Ha invaso la vicina Siria, occupato il cantone curdo di Afrin, lo ha svuotato. Si prepara ad ampliare l’offensiva oltre il fiume Eufrate, verso Kobane (attraversata ieri dalla marcia in onore di Ocalan: partita da Chelebiye arriverà a Elpelûr, dove Apo viveva ospite di Damasco prima dell’espulsione). Oltre il confine Ankara bombarda su base quasi quotidiana i monti di Qandil (l’ultima volta ieri e martedì), dove si sono rifugiati i combattenti del Pkk dopo il ritiro dalla Turchia. Nel silenzio dei governi, il popolo curdo resiste. Il suo simbolo oggi è la parlamentare Leyla Guven: oggi cadono i 100 giorni dall’inizio del suo sciopero della fame, protesta contro l’isolamento di Apo. Il leader da dietro le sbarre continua a lanciare nuovi inizi. Brasile. Stretta del ministero sulle visite ai detenuti nelle carceri federali Nova, 15 febbraio 2019 Il ministro della Giustizia brasiliano, Sergio Moro, ha firmato un’ordinanza che stabilisce nuove regole per le visite ai detenuti nelle prigioni federali. Si tratta della seconda modifica delle regole dopo quella adottata nell’agosto 2017. Il testo dell’ordinanza (numero 157) stabilisce che in queste strutture le visite dei parenti saranno consentite d’ora in poi solo all’interno delle sale colloquio e attraverso videoconferenza, sempre rigorosamente sotto supervisione del personale della polizia penitenziaria e avranno come unico scopo garantire al detenuto il mantenimento dei “legami familiari e sociali”. Nelle sale colloquio, coniugi, parenti e amici autorizzati a visitare il prigioniero saranno separati da un vetro, e potranno parlare solo con l’uso di un citofono. Solo i detenuti che hanno firmato un accordo di collaborazione con la giustizia e nei casi previsti dalla legge riceveranno un trattamento differenziato. Fino ad oggi inoltre ai detenuti era concesso anche di avere contatti con i propri parenti e amici nei cortili del carcere, fuori dal controllo della polizia. “Con le nuove regole, le visite in cortile diventano un’eccezione alla regola”, ha riferito il ministero in una nota, sottolineando che con questa ordinanza il sistema penitenziario federale avrà una sola regola generale. Le visite nelle sale colloquio dureranno non più di tre ore e dovranno essere programmate in precedenza. Potranno essere settimanali e dovranno svolgersi sempre in giorni lavorativi, tra le 13 e le 19,30. Ogni detenuto potrà ricevere fino a un massimo di due visitatori, senza considerare i bambini, che potranno entrare negli istituti solo accompagnati. Le visite potranno essere interrotte o sospese se i funzionari della prigione dovessero sospettare che il detenuto o qualsiasi visitatore stiano utilizzando un linguaggio criptato per trasmettere messaggi o che il visitatore stia approfittando dell’occasione per comunicare con detenuti o visitatori in altre cabine delle sale colloquio. Lo stesso accadrà se gli agenti addetti alla sicurezza dovessero accorgersi che detenuti o visitanti violino le regole di sicurezza, tra le quali il divieto di conversazioni private con gli agenti addetti alla sicurezza, l’uso di documenti falsificati per identificare il visitatore, possesso di un oggetto proibito nell’ordinanza del direttore del Dipartimento nazionale penitenziario o l’uso di indumenti vietati. Il detenuto stesso può richiedere l’interruzione o la sospensione della visita in qualsiasi momento.