Sempre più anziani nelle carceri: una nuova emergenza anche per l’Italia? di Mario Iannucci e Gemma Brandi* Corriere Fiorentino, 14 febbraio 2019 Sono ormai sempre più frequenti, sulla grande stampa, gli articoli che segnalano la massiccia presenza, nelle carceri giapponesi, di detenuti anziani, over 65. L’incremento dei detenuti in tale fascia di età è considerevole: mentre negli anni 60 gli anziani nelle carceri nipponiche si aggiravano sul 2% di tutti i reclusi, ora hanno raggiunto e superato il 20%. Che spiegazioni possiamo dare di tale impressionante crescita? Qualsiasi persona intelligente che abbia lavorato con i criminali, specie negli istituti di pena, sa bene che la inclinazione trasgressiva/esclusiva del soggetto risponde sempre a precise esigenze economiche del suo apparato psichico. Non si va in galera per caso. Nemmeno i vecchi vanno per caso in galera. A proposito del trend giapponese, ad esempio, si possono dare spiegazioni socio/demografiche o superficiali analisi psicologiche: l’aumento percentuale degli anziani nella popolazione generale (in Giappone si prevede che nel 2030 saranno più di un terzo); l’indebolimento delle reti sociali e familiari; il “confort” del carcere superiore a quello di una vita grama, isolata e solitaria (il kodokushi, la morte solitaria, riguarda secondo taluni esperti circa 30.000 persone l’anno); la preferibilità del carcere all’ospizio; il reato come “risarcimento/pretesa di impunità” per avere dato molto alla crescita della nazione. Non vogliamo certo negare che tutte queste spinte possano entrare in gioco. D’altronde, se Paesi civili promuovono l’adozione di “Ministeri della Solitudine”, una ragione dovrà pur esserci. Potremmo peraltro proporre il ricorso anche a “Ministeri della Inutilità”. Fino dagli studi che Adolphe Quetelet, celebre astronomo/ matematico/statistico belga, effettuò nel 1831 sull’età della popolazione detenuta nel suo Paese (ma i dati del Belgio furono verificati in tutto il mondo), si è sempre ritenuto che il crimine non fosse roba da vecchi. Certo: almeno per gli street crimes una certa prestanza fisica occorre che il delinquente l’abbia. Fino a qualche decennio fa la curva che metteva in rapporto i crimini con l’età aveva ovunque il suo picco fra i venti e i trenta anni, per poi decrescere in modo rapido fino ad avvicinarsi allo zero dopo i 65 anni. Anche in Giappone, fino al 1960, la curva per gli omicidi ha avuto questo andamento. Lo studioso Hiraiwa-Hasegawa però, in un lavoro statistico pubblicato nel 2005, ha messo in evidenza che già nel 2000 tale curva faceva registrare una rapida ascesa fra i 15 e i 25 anni, per poi mantenersi stabile fino ai 65 anni. I sessantacinquenni, insomma, in Giappone ammazzano come i venticinquenni. Certo: le differenze socio-culturali fra un Paese e un altro possono fare la differenza. Ma dobbiamo ritenere che l’aumento della popolazione anziana nelle carceri riguardi solo il Giappone? Niente di più falso. Seppure con percentuali minori rispetto alla realtà nipponica, in tutto il mondo western crescono i detenuti anziani. Negli Usa, fra il 1995 e il 2010, il numero dei carcerati over 55 delle prigioni federali e statali era all’incirca quadruplicato (con un incremento del 282%), mentre il numero di tutti i reclusi era cresciuto meno della metà (l’incremento era stato del 42%). E in Italia come vanno le cose? Dai dati del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria apprendiamo che i carcerati over 60, che nel 2005 erano 2.136, nel 2017 sono diventati 4.476, con un incremento percentuale (rispetto al totale dei detenuti, pressoché invariato in quei due anni) del 116%. Se saremo in grado di riflettere su questo impressionante trend, rifuggendo da superficiali “spiegazioni” sociodemografiche, potremo forse predisporre per tempo, in vari settori (sociale, sanitario, giudiziario, ecc.) adeguate strategie di policy. Il carcere è sempre stato in grado di anticipare il divenire di una società e, se non lo si “ascolta”, si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. *Psichiatri psicoanalisti, Esperti di Salute Mentale applicata al Diritto Minacce al Garante dei detenuti, il ministro condanna. A metà di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 febbraio 2019 Pioggia di insulti e intimidazioni a Mauro Palma per la sua relazione sul carcere duro del 41bis. Mentre la morte dell’ennesimo detenuto per mancanza di cure adeguate fa scoppiare a Poggioreale una protesta dentro e fuori le mura che dura da un paio di giorni (addirittura con la battitura delle sbarre in due sezioni, cosa ormai poco frequente per via dell’individualizzazione delle lotte che non conosce differenza tra la società dei liberi e quella dei reclusi) provocando lo stato di agitazione di tutte le organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria che “chiedono un incontro urgente con il Dap e con il ministro della Giustizia”, ecco, in questi stessi giorni il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, diventa oggetto di insulti e minacce per il solo motivo di aver fatto il proprio mestiere. Scomodo e in controcorrente, in questi tempi bui. Il post che conteneva la relazione del Garante sul 41bis, il regime di carcere duro riservato a mafiosi e terroristi, è stato ormai rimosso dalla pagina Facebook della Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza che ha così censurato la pioggia di bestialità (una per tutte: “Spero ti ammazzano un figlio”) rinnovando invece “stima ed apprezzamento” per Palma, ritenuto “personaggio di alto profilo umano e professionale”. Frasi oscene da ogni punto di vista messe nero su bianco da chi evidentemente si sente ormai legittimato ad ogni tiro al bersaglio, e sicuro di immunità. Magrissima anche se necessaria consolazione, perciò, l’attestato di solidarietà cerchiobottista giunto dal Guardasigilli Alfonso Bonafede che, a nome di tutto il Ministero di Giustizia, ha definito quei messaggi “inaccettabili” e ha ricordato che “il Garante svolge il suo ruolo secondo quanto previsto dalla legge e non può essere per questo oggetto di offese e insulti”. Per poi aggiungere, però, spinto da un’improrogabile necessità: “Sul 41bis non sono d’accordo con il Garante ma il suo ruolo è fondamentale e deve, ovviamente, poter esprimere liberamente il suo pensiero”. Gli insulti da censurare contro il garante dei detenuti di Massimo Bordin Il Foglio, 14 febbraio 2019 Sulla pagina di uno dei Sindacati della Polizia penitenziaria sono apparsi commenti di iscritti al sindacato, dunque cittadini che portano una divisa, con insulti gravissimi. In ritardo di un giorno, di cui chi scrive si scusa, qui oggi si dà conto degli insulti ricevuti dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma per aver pubblicato un rapporto critico su alcuni aspetti del regime carcerario speciale applicato ai detenuti condannati o accusati di associazione mafiosa. Sulla pagina in rete del Sappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, sono apparsi commenti di iscritti al sindacato, dunque cittadini che portano una divisa, con insulti gravissimi al garante che con quel documento non faceva altro che il suo lavoro e il suo dovere. L’Unione delle camere penali, in un’incisiva lettera pubblica di condanna dell’avvenuto, si chiede giustamente se il ministero non ravvisi in quei commenti gli estremi per avviare procedure disciplinari, mentre il sindacato li ha, tardivamente, rimossi dal proprio sito, prendendone le distanze pur criticando il merito dell’elaborato del garante. Per avere idea del tenore dei commenti occorre leggere la protesta dei penalisti che ne pubblicano alcuni davvero inammissibili e a quella lettera conviene rimandare per evitare un effetto da cassa di risonanza. Qui si cita solo un commento, ripetuto da molti che lo hanno declinato in vario modo: “Anche tu che li difendi dovresti essere chiuso”. Il concetto può servire paradossalmente come consolazione per il professore Palma. In fondo è lo stesso trattamento, per motivi molto simili, che alcuni magistrati di Palermo avevano proposto, con a disposizione ben altri mezzi rispetto alla Polizia penitenziaria, per un galantuomo e un grande giurista come Giovanni Conso. Insulti al garante detenuti dopo rapporto sul 41bis: “Ammazzati mafioso!” di Niccolò Magnani ilsussidiario.net, 14 febbraio 2019 Dopo anni di visite nelle carceri, studi costituzionali, incontri e interviste con i vari rappresentanti di tutta la filiera che lavora e, suo malgrado, vive nelle prigioni di tutto il Paese, è sorto un rapporto dettagliato e ricco di ben 750 incontri fatti. Lo ha redatto il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o private della libertà personale, tal Mauro Palma. Il tema del 41bis - il regime carcerario speciale di massima sicurezza e isolamento introdotto nell’ordinamento penitenziario all’indomani delle stragi di mafia del 1992 - è il cardine sul quale si smuove l’intera indagine pubblicata in questi giorni e sulla quale Palma è stato oggetto di indegni insulti, polemiche e minacce alla sua persona. L’indagine è stata postata sulla pagina Facebook “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza” e i vari commenti indecorosi sono stati rimossi solo ieri dopo la denuncia fatta dal Garante presso il Sappe (sindacato polizia penitenziaria, ndr): ““Non mi stupirei se si scoprisse che è stipendiato da qualche mafia” ; “ammazzati indegno” ; “spero ti ammazzano un figlio” ; “ma perché non ti fai ammazzare coglione” ; “sei un fango”, “vai a cagare stronzo”, “garante della mafia”“ (ringraziamo il Dubbio per averli raccolti e mostrati per primi). Il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha voluto esprimere immediata solidarietà al Garante dei detenuti, bollando come inaccettabili le offese e gli insulti: “La mia solidarietà e quella di tutto il Ministero della Giustizia al Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, colpito in queste ore sui social network da una lunga serie di messaggi inaccettabili dopo la sua relazione sul 41bis. Il Garante svolge il suo ruolo secondo quanto previsto dalla legge e non può essere per questo oggetto di offese e insulti. Sul 41bis non sono d’accordo con il Garante ma il suo ruolo è fondamentale e deve, ovviamente, poter esprimere liberamente il suo pensiero”. Il rapporto redatto da Palma dal titolo “Rapporto sul regime detentivo del 41bis” si riferisce al periodo che intercorre dall’anno 2016 al 2018, dove sono emerse diverse criticità intorno al 41bis e molte sono le raccomandazioni che lo stesso Garante ha rivolto agli istituti penitenziari nazionali. In particolare, le “aree riservate” presenti all’interno delle sezioni speciali sono per Palma una sorta di “doppio 41bis”. “Tali sezioni sono separate dalle altre che accolgono le persone sottoposte a tale regime e sono destinate alle figure ritenute apicali dell’organizzazione criminale di appartenenza”, spiega bene il Dubbio in un focus dedicato al caso-Palma. Ma altre problematiche legate ancora al regime duro riguarda anche la “socialità binaria”: “quei casi in cui un altro detenuto viene collocato nell’Area riservata al solo fine di fare “compagnia” al carcerato ivi ristretto, ma in questo modo finendo per determinare anche l’isolamento del primo, con grave ed inevitabile violazione dei diritti alla persona”. Il terzo punto di critica forte al regime carcerario introdotto nel 1992 riguarda il fatto che in alcune carceri l’adozione delle regole interne risultano molto dettagliate su aspetti della quotidianità carceraria che vanno ben oltre le già “minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017”, sulle quali tra l’altro il Garante Palma aveva già espresso a suo tempo diverse riserve. Solidarietà dai Garanti territoriali Dichiarazione del Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, Garante per le Regioni Lazio e Umbria. “Sono certo di interpretare i sentimenti di tutte le colleghe e i colleghi garanti delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e dagli Enti locali italiani testimoniando la più forte solidarietà personale e istituzionale al Presidente dell’autorità Garante nazionale delle persone private della libertà, Prof. Mauro Palma, vergognosamente insultato nei commenti su una pagina Facebook gestita da un sindacato di polizia penitenziaria. Bene hanno fatto i suoi dirigenti a disporre la cancellazione di quei commenti che vogliamo sperare non appartengano a personale penitenziario, la cui delicata missione è incompatibile con un simile spregio delle istituzioni e delle funzioni di garanzia attribuite dalla legge e dalle convenzioni internazionale al Garante nazionale delle persone private della libertà. Sappiamo bene che il ritorno di un nuovo affollamento penitenziario e la perdurante carenza di personale penitenziario causa condizioni di sofferenza in carcere, per i detenuti e per i lavoratori, ma nulla giustifica la perdita della misura e l’aggressione, anche solo verbale, nei confronti di nessuno, e meno che mai nei confronti di chi è impegnato nella delicata missione istituzionale di far corrispondere il nostro sistema penitenziario agli standard e alle norme internazionali”. Ministero Giustizia-Anci: incontro per affidare lavori di pubblica utilità a detenuti di Gianluigi Lombardi gnewsonline.it, 14 febbraio 2019 Proseguono gli incontri tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani con l’obiettivo di redigere un protocollo d’intesa finalizzato al reinserimento nel mercato del lavoro delle persone che devono scontare una pena detentiva tramite lo svolgimento di attività lavorative al servizio della cittadinanza. L’impiego delle persone detenute in lavori di pubblica utilità, fino ad oggi, si è concretizzato senza l’intermediazione dell’Anci, attraverso degli accordi tra il Ministero della Giustizia e l’Ente territoriale oggetto della convenzione. Con la definizione di questo accordo si cerca di implementare l’efficacia del trattamento su scala nazionale. Nello specifico si prevedrà all’assegnazione alla Cassa delle Ammende di un fondo destinato agli istituti penitenziari in base al numero e alla qualità dei progetti di pubblica utilità promossi, alla remissione de debito per le spese di giustizia al detenuto che presta la propria opera volontaria e gratuita in favore della collettività e alla frequentazione di un percorso formativo per i detenuti ammessi al circuito che permette l’acquisizione di conoscenze e competenze spendibili nel mondo del lavoro. Il progetto potrà attivarsi inizialmente nei capoluoghi di maggiore estensione e coinvolgerà prevalentemente le case di reclusione ove sono ristretti i soggetti con fine pena medio-lungo, quindi maggiormente impiegabili in piani di lavoro con ampio spettro temporale. Il presidente della Consulta: difendere i valori universali, anche contro la legge di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 febbraio 2019 La Corte costituzionale incontra gli studenti. Giorgio Lattanzi incalzato dalle domande in una scuola della periferia difficile di Roma. “Ci sono casi eccezionali in cui la legge non deve essere osservata”. “Non posso rispondere”. Lo dice e lo ripete il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi. Per sette volte gli studenti dell’Istituto professionale Carlo Urbani di Acilia si sentono replicare così: “Non posso rispondere perché rischierei di anticipare un giudizio della Corte”. Passiamo alla prossima. Ma sono tutte domande precise, dirette. “È legittimo che tanti sindaci si rifiutino di applicare il decreto sicurezza?”. “Il decreto sicurezza presenta aspetti di possibile incostituzionalità?”, chiedono due ragazzi della quinta A. “Lo stop alla prescrizione che è stato inserito nella legge anti corruzione è compatibile con il diritto di difesa?” “Quali riforme legislative servirebbero per attuare sul serio l’articolo 27?”, chiedono due ragazze, quinta A e quinta E. “Qual è l’orientamento della Corte sul fine vita?”, “È costituzionale l’aumento dell’Iva, visto che si tratta di un’imposta proporzionale ma non progressiva?”, “Nei contratti di lavoro precario tipo pony express, è rispettato l’articolo 36 che parla di orari di lavoro, riposi, ferie e diritto a un’esistenza libera e dignitosa?”, queste domande arrivano dalla quinta D e dalla quinta E. Lattanzi non risponde. Non può. Nell’aula magna dell’istituto professionale, ragazze e ragazzi sono arrivati con i vestiti eleganti. Lattanzi comincia qui il nuovo ciclo di incontri del “Viaggio in Italia, la Corte incontra gli studenti” che l’anno scorso ha coinvolto 36 scuole. Il Carlo Urbani sta tra Acilia e Ostia, terra di mezzo e di campi incolti, binari del treno Roma-Lido e Iper triscount. Si studiano design, grafica, servizi commerciali, servizi sanitari. A dieci minuti da qui c’è la piazza dove il 3 febbraio è stato colpito Manuel Bortuzzo, il nuotatore che ha la stessa età di questi studenti e che ora rischia di restare paralizzato. I professori accarezzano i ragazzi con lo sguardo. “La nostra scuola è un presidio di legalità in un territorio difficile, abbiamo gli Spada, i Casamonica”. Il presidente della Corte costituzionale è venuto a parlare della “forza della Costituzione” che sta nel suo essere “una super legge, non modificabile dalle leggi ordinarie”. Lattanzi è dell’idea che la Costituzione non vada modificata “se non marginalmente”. Comunque con estrema cautela, perché “è come un orologio di precisione, anche toccando un ingranaggio che sembra secondario si rischia di bloccare la macchina”. “La Costituzione - aggiunge - è uno scudo contro gli abusi di potere e le violazioni dei diritti. Non è una vecchia signora ma una signora giovane e moderna, ancora attuale e capace di rispondere ai problemi dell’oggi. La stabilità di un paese - conclude il presidente della Consulta prima di passare alle domande - dipende dalla stabilità della sua Costituzione”. Rispondere alle domande suggerite dall’attualità però si rivela complicatissimo. Bisogna prenderla alla lontana. “La Costituzione tratta lo straniero in maniera diversa rispetto al cittadino?”, chiede Annalisa della quinta A. “No - spiega Lattanzi - i diritti fondamentali sono riconosciuti alla persona, indipendentemente dalla cittadinanza. Se ci sono differenze sono su aspetti minori, il principio è l’uguaglianza e la differenziazione un fatto eccezionale”. Elisa della quinta C recita un passo dell’Antigone. “Migliaia di persone scendono in piazza contro leggi considerate disumane - chiede poi - è giusto che vengano perseguite per disobbedienza?”. Lattanzi si dedica ad Antigone. “Quello del contrasto tra legge scritta e legge naturale è un problema eterno. L’osservanza della legge non può giustificare qualsiasi cosa, ci sono dei valori supremi e universali che vanno difesi anche quando sono contrastati dalla legge. Non può essere una regola e non si può affermare che sia giusto trasgredire ogni norma che ci appare ingiusta, ma la mia idea è che ci sono dei casi eccezionali in cui la legge non deve essere osservata”, conclude il presidente della Corte costituzionale. Parole chiare. “Peccato però per le tante risposte non date, i ragazzi hanno bisogno di incontrare istituzioni aperte”, commentano i professori alla fine. Sofocle qui fuori è il nome di una strada. A percorrerla tutta si arriva al bar tabacchi dove hanno sparato a Manuel. Relazione della Dia al parlamento: “A Napoli bande in mano a baby-boss” di Marina Della Croce Il Manifesto, 14 febbraio 2019 Si mimetizzano, riescono a infiltrarsi sempre più nelle città ma soprattutto in alcuni casi sono guidate da boss sempre più giovani e violenti, tanto da far pensare agli investigatori di trovarsi davanti a un ricambio generazionale ai vertici di almeno una delle storiche organizzazioni criminali. Altro che “mafia, ‘ndrangheta e camorra saranno cancellate tra qualche mese o anno”, come ha avuto il coraggio di annunciare il 18 dicembre scorso il ministro degli Interni Matteo Salvini. Le mafie italiane sono sempre più radicate nel meridione ma non disdegnano, come si sa ormai da anni, di esportare i loro metodi criminali anche nel nord del Paese e in particolare - e questa sarebbe la novità - nel Veneto, attratte dalla ricchezza diffusa della regione. È a dir poco allarmante la radiografia della criminalità organizzata che risulta dalla relazione semestrale al parlamento della Direzione investigativa antimafia, che rispetto agli anni precedenti accende un riflettore soprattutto sull’età sempre più bassa dei nuovi capi, baby-boss adolescenti “che si sono posti a capo di gruppi emergenti tentando di assumere il controllo del territorio”. Un cambiamento generazionale che si avverte soprattutto a Napoli dove, spiegano gli investigatori della Dia, si è assistito alla “scomparsa dei capi carismatici” e oggi si registrano molti gruppi autonomi “più simili a bande gangsteristiche” che compiono azioni più simili a quelle messe in atto dalla mafia siciliana che dalla camorra. A partire da un uso “spregiudicato” della violenza, utile a creare un clima di perenne paura attraverso le cosiddette stese, colpi di pistola sparati contro abitazioni, auto e negozi al solo scopo intimidatorio. Per la Dia le aree più a rischio sono i quartieri di Forcella, Quartieri Spagnoli, Mercato, Vasto, Case Nuove, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli. “In queste zone ad elevato tasso di disgregazione del tessuto sociale - si legge nella relazione - i punti di forza dei clan emergenti risiedono nella capacità di reclutamento di nuovi affiliati grazie all’interazione con la criminalità diffusa e nella disponibilità di armi e munizioni”. E ancora: “Le caratteristiche sociali, culturali ed economiche dei quartiere degradati o periferici di Napoli agevolano l’arruolamento di giovani leve, molte delle quali minorenni, attingendo al vivaio delle bande della microcriminalità”. Nella provincia napoletana e nel casertano permangono invece le “storiche consorterie camorristiche, ben insediate nel tessuto sociale radicate nel territorio”. Preoccupa anche la situazione della capitale. Per la Dia Roma è ormai un crocevia internazionale di affari, ma è diventata anche un “punto di incontro privilegiato tra le organizzazioni criminali italiane e straniere”. Alle bande locali si sono aggiunte quelle che gli investigatori definiscono come delle emanazioni di mafia, camorra, e ‘ndrangheta “in grado di gestire affari che spaziano dal traffico di stupefacenti alle estorsioni, all’usura, al riciclaggio”. Quella romana è a criminalità composta dal colletti bianchi, che hanno sostituito le azioni violente e militari con la ricerca di relazioni utili a infiltrare il territorio. Il oro radicamento, spiega ancora la relazione della Dia, “è stato altresì facilitato dall’inserimento di propri referenti nei circuiti economici legali anche attraverso al costituzione d società collegate e gestite da esperti professionisti, attive nei settori degli appalti pubblici e dell’acquisizione indebita di finanziamenti statali”. L’esercito senza fine delle mafie di Isaia Sales Il Mattino, 14 febbraio 2019 La mafia social. Forse è questo l’elemento che più colpisce nel rapporto semestrale della Dia (Direzione investigativa antimafia) al Parlamento. Non è che prima di questo rapporto non fosse stata analizzata dagli esperti la presenza anche di appartenenti alle mafie sui social, ma ora questa novità viene strettamente legata ad un altro dato: la “giovanilizzazione” delle mafie, un abbassamento drastico dell’età in cui si diventa mafiosi, cioè membri a tutti gli effetti di una élite criminale, e il rapido superamento di una serie di tappe lungo una carriera il cui approdo (un tempo) non era riservato a tutti i delinquenti ma solo a chi si era attenuto a determinati comportamenti codificati in una lunga e storica “sapienza” mafiosa. E se i mafiosi vengono reclutati sempre più in un’età in cui prima si poteva tutt’al più aspirare ad esserlo, i giovani portano nell’universo mafioso le novità e l’identità del loro tempo, cioè l’uso di internet, di Facebook, di Instagram, di Twitter e quant’altro appartiene al linguaggio della loro generazione. E si sa che la giovane età è più esposta alla vanità, all’esibizione anche virtuale della forza, al mettersi in mostra, dando spazio ad una specie di “estetica della violenza” come efficacemente l’ha definito Marcello Ravveduto. Se prima un mafioso comandava anche con i silenzi, con gli sguardi, con il detto e il non detto, con le allusioni e i doppi sensi, oggi il medium digitale diventa uno strumento abituale per il giovane appartenente che, da questo punto di vista, intacca uno degli elementi d’identità dell’essere mafioso: la segretezza e la riservatezza. “Virtù” criminali, queste di un tempo, che non erano solo necessitate dal non esporsi all’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura, ma erano anche perseguite per distinguersi dalla criminalità comune. Da questo punto di vista si può dire che i clan di camorra stanno facendo scuola nel mondo mafioso: reclutamento di giovanissimi senza seguire uno specifico e selettivo percorso criminale, appartenenza poco discreta, uso massiccio dei social. E se questa modalità viene seguita anche dalle più strutturate mafie siciliane e calabresi, ciò dimostra come l’arcaico possa farsi moderno, e come strutture impermeabili e coese possano aprirsi alla contaminazione contemporanea senza perdere la loro forza e la loro pervasività. Infatti, le mafie godono ancora di ottima salute. In fondo questa semplice verità ci conferma il rapporto della Dia. Il ricorso a giovanissimi dimostra sì che le file mafiose si sono allentate dopo la repressione massiccia degli ultimi decenni sia nei territori di vecchio insediamento sia nei nuovi domini del Centro-Nord (di cui anche il Veneto comincia a far parte) ma anche che il recinto di nuovi reclutamenti si sta facendo più ampio e tocca zone e ambienti sociali non tradizionali. Non si nasce mafiosi ma oggi lo si può diventare più facilmente, più immediatamente e in territori più estesi rispetto a qualche anno fa. Se i mafiosi cambiano e si rinnovano spinti dalla repressione, trovano sempre nuove disponibilità e nuove adesioni. Se un giovane sente il bisogno di essere qualcuno, e non possiede il talento adatto nell’universo legale, la violenza si dimostra sempre più una buona risorsa e una ottima opportunità. E se prima questa opportunità illegale la trovavi sotto casa, nella tua stessa famiglia o nel tuo stretto giro di amicizie, oggi il campo si è allargato. La repressione sembra solo inseguire ciò che avviene nella società, e quando è efficace apre la strada a nuove leve. Così ci accorgiamo di essere impreparati ad evitare che le fila criminali scompaginate da un’inchiesta ben condotta possano ricomporsi. Bravi ormai nella repressione, attrezzati nell’usare meglio tutto l’armamentario legislativo messo in piedi in questi anni, preparati anche ad usare bene tutti i mezzi che le nuove tecnologie ci forniscono sul fronte investigativo, ma totalmente impreparati di fronte ad un grande tema: come impedire che si riformi l’esercito di riserva che va a sostituire quello decimato sul fronte criminale? Non abbiamo risposte a questo interrogativo, anzi non ce lo poniamo più. La nostra società alle prese con le mafie non è in grado di prevenire. Punto. Che le scuole avviino progetti di educazione alla legalità è un segno che una parte della società reagisce (ma andare a scuola regolarmente è già di per sé una mezza assicurazione contro quel mondo); che le associazioni di volontariato si muovano sul territorio è utile per dimostrare quanti passi avanti sono stati fatti nel limitare il consenso passivo. Ma se la realtà si scontra con gli insegnamenti, se le parole si scontrano con i fatti, se non c’è corrispondenza tra pensare e poter fare, allora la pedagogia della violenza e del sopruso farà sempre nuovi proseliti. I nuovi mafiosi, giovanissimi, recitano una parte che spesso gli calza a pennello. Si esercitano a fare i boss, cercano visibilità. Imbracciano fucili e telefonini, corrono sui motorini e sul web. Nulla di strano: sono giovani e moderni, hanno la tv al plasma, la play station e i social network. Comunicano con il mondo come il mondo comunica con loro perché sono dentro al mondo. Non sono qualcosa di esterno ad esso. “Camorra per la vita” è quello che nel 2016 scrivevano i “barbudos” di Ponticelli che si facevano fotografare con tatuaggi con cui inveivano contro le forze dell’ordine e non facevano mistero della loro idea di vita. Una vita del tutto e subito, dell’oggi ci sono e domani no, del prendo ora e poi si vedrà. E purtroppo non sono confortanti i dati della giustizia minorile nonostante l’azione generosa di tanti magistrati e operatori. Quelli che sono stati “messi alla prova”, cioè hanno visto annullare la pena con un impegno a studiare o a imparare un lavoro, tornano da adulti nel circuito criminale e penale. Quasi la metà di essi sono recidivi, da adulti fanno quello che facevano da ragazzini. Giovanissimi che tornano nel mondo del crimine appena abbandonano quello della legalità forzata, perché la realtà fuori è altro. Fuori ci sono paranze da onorare, gruppi criminali in cui contare, mondi criminali che includono. Gli esclusi non sembrano loro. E sarà così finché non si farà della prevenzione un uso capillare e consapevole. Da questo siamo ancora lontani. Anzi non abbiamo ancora cominciato. Cassazione. La “colpa” dei figli ricade sui padri Il Tempo, 14 febbraio 2019 Condannato per la “colpa” del figlio. La “colpa” dei figli ricade sui padri. Specialmente se non li hanno educati a dovere. Potrebbe essere questa, in sintesi, la morale della sentenza emessa dagli “ermellini” del “Palazzaccio” di piazza Cavour. I genitori di un liceale, minorenne all’epoca dei fatti, dovranno risarcire una signora, bidella nella scuola frequentata dall’adolescente, destinataria di parole ingiuriose che il ragazzo aveva scritto con un pennarello sulla scrivania della donna durante una “incursione illegittima” portata a termine all’interno dell’istituto con altri giovani “complici”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, confermando una sentenza emessa dal tribunale di Urbino. I giudici marchigiani avevano concesso al ragazzo il perdono giudiziale, ma questo, hanno chiarito i togati della Corte Suprema, “non ha efficacia di “giudicato” nel giudizio civile risarcitorio”, tanto più che quella che i genitori hanno “sminuito”, definendola semplicemente una “goliardata”, secondo la Cassazione (che a questo proposito richiama quanto accertato a suo tempo dal giudice di merito), “testimonia che non vi è stata sufficiente educazione del figlio a concetti elementari quali quelli del rispetto del prossimo e dell’intima connessione fra i concetti di libertà e responsabilità”. I giudici di Cassazione, nel rigettare i ricorsi presentati contro la sentenza del tribunale di Urbino, sottolinea quindi il “disvalore sociale” della “condotta ingiuriosa” ai danni della dipendente scolastica. Non è reato “minacciare” lo sfratto se l’inquilino non paga l’affitto di Rosario Dolce Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2019 Il locatore che “minaccia” al conduttore, non in regola con i pagamenti del canone di locazione, di: “buttare dalla finestra tutti i suoi effetti personali e di distaccare le utenze (elettriche ed idriche)”, non commette alcun reato. Tanto è quanto hanno appena stabilito i giudici della Corte di Cassazione, Sezione V Penale, con la Sentenza nr 563/2019, pubblicata l’8 gennaio 2019. Il dato fattuale con il quale si sono confrontati i giudici - per come si apprende dalla scarna motivazione del provvedimento in commento - si sussume nell’ipotesi in cui, più in generale, il proprietario di un immobile locato intimi al proprio conduttore di lasciare l’appartamento, se persevera nella morosità, anticipando l’esercizio dell’azione giudiziale. Nella specie, il conduttore ha ritenuto che tale condotta integrasse gli estremi della minaccia di cui all’articolo 612 codice penale, a mente del quale: “Chiunque minaccia ad altri un ingiusto dannoè punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a 1.032 euro. Se la minaccia è grave o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno. Si procede d’ufficio se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339”. Ma per i giudici di legittimità l’assunto è infondato. Infatti è argomentato nella sentenza che l’elemento essenziale del reato di “minaccia” è dato dalla limitazione della libertà psichica, laddove compromessa mediante la prospettazione del pericolo che un male possa essere cagionato, purché la stessa si configuri come ingiusta e, in quanto tale, possa essere dedotta dalla situazione contingente (Cassazione Penale, Sezione V, n. 45502 del 22/04/2014, Scognamillo, Rv. 261678). Nella specie il danno minacciato non è stato ritenuto come tale (cioè “ingiusto”), poiché - secondo il decidente - la frase pronunciata dal locatore (imputato) in sé evocherebbe l’esercizio di una facoltà giuridica, di cui egli è legittimamente titolare. In altri termini, se il conduttore è moroso e quindi non rispetta l’impegno contrattuale assunto, il proprietario dell’appartamento che ha concesso in godimento il proprio immobile è perfettamente legittimato ad intimare, già verbalmente e secondo le forme del caso, lo sfratto dall’abitazione. La prospettazione di adire le vie legali, in quanto esercizio di una prerogativa giuridica riconosciuta dal nostro ordinamento, dunque, non implica la sussistenza di un cosiddetto “danno ingiusto”, e, come tale, rimane estranea alla fattispecie incriminatrice di cui al citato articolo 612 codice penale (in punto, sono state richiamate nel provvedimento i seguenti arresti giurisprudenziali: Corte di Cassazione Penale, Sezione 6, n. 20320 del 07/05/2015, Lobina, Rv 263398; conforme Sezione 5, n. 44381, 26/09/2017; Sezione 5, n. 51246 del 30/09/2014, Marotta, Rv. 261357). Niente omesso versamento per la srl costretta a fare fronte a fatture Parmalat di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 13 febbraio 2019 n. 6920. Non sussiste il reato di mancato versamento dell’Iva se la società è stata costretta dal commissario straordinario a fare fronte alle fatture Parmalat a seguito del crack. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza n. 6920/19 della Cassazione. La Corte si è si trovata alle prese con una vicenda in cui una srl e, quindi, il suo rappresentante legale erano stati condannati per il reato di omesso versamento dell’Iva (articolo 10-ter del Dlgs 74/2000). La Corte di appello di Brindisi aveva pertanto dichiarato la colpevolezza dell’azienda prevedendo 4 mesi di reclusione per il rappresentante legale. Contro la sentenza è stato proposto ricorso e il ricorrente ha evidenziato come mancasse completamente l’elemento psicologico, atteso che non erano state in alcun modo valutate le particolarità della fattispecie laddove - a fronte del mancato pagamento delle fatture da parte della Parmalat - abitualmente fornita dalla società del ricorrente, quest’ultima, costretta a dare continuità aziendale alla Parmalat come disposto dal commissario straordinario, non era stata in grado di pagare l’Iva sulle fatture emesse. L’omissione, pertanto, era dovuta a una situazione particolare, in quanto non era stata conseguenza di una libera scelta e la Corte territoriale non aveva valorizzato la fattispecie. I Supremi giudici hanno evidenziato l’errore commesso nel merito dove si è dato valore esclusivamente al mancato versamento dell’imposta e alla circostanza che la società avesse dato preminenza al pagamento delle retribuzioni ai dipendenti. La Corte, invece, ha evidenziato il fatto che la società era stata costretta dal commissario straordinario a fare fronte alle commesse Parmalat e al conseguente ulteriore indebitamento. La Corte d’appello di Lecce dovrà riaffrontare la vicenda con diversa composizione. In caso di danno ambientale anche il Comune ha diritto al risarcimento di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2019 Corte di Cassazione - Sezione VII - Ordinanza 22 gennaio 2019 n. 2780. Nel caso di violazione della normativa ambientale il Comune nel cui territorio è stata posta in essere la condotta illecita ha diritto al risarcimento del danno. Questo è il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2780/2019, la quale riconosce il diritto dell’ente comunale a costituirsi parte civile, e ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso di condotte illecite costituenti reati ambientali, a condizione però che tali condotte vengano poste in essere nel territorio di pertinenza del predetto ente. Il caso - La contestazione di numerose violazioni alla disciplina ambientale portava, da parte del tribunale di Taranto, alla condanna dell’imputato; confermata sia pure con riduzione delle pene, in secondo grado da parte della Corte di Appello di Lecce. Tale decisione, per quel che riguarda le statuizioni civili riconosceva in capo all’ente comunale il diritto ad essere risarcito per il danno conseguente ai reati ambientali per i quali l’imputato era stato condannato. Quest’ultimo, ritenendosi leso nei propri diritti, ricorreva per Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, l’assenza di legittimazione processuale dell’ente territoriale ed il conseguente difetto di ogni diritto al risarcimento data la totale mancanza dei suoi presupposti. Rappresentava, sul punto il ricorrente, che la normativa consente la sola partecipazione al processo dello Stato attraverso il ministero competente quale titolare del diritto leso. Il procedimento dopo aver fatto il suo corso, veniva discusso da parte dei giudici della Corte Suprema di Cassazione. La posizione della Cassazione - L’ordinanza, presenta una precisa risoluzione della questione, precisando i limiti del diritto a costituirsi parte civile in procedimenti penali come questo, con una sicura individuazione dei soggetti ai quali possa essere riconosciuto il risarcimento del danno, conseguente alle condotte illecite costituenti reato commesse nel territorio di sua competenza. Gli ermellini senza ombra di dubbio ed in conformità alla giurisprudenza già espressa da parte del Supremo Collegio, ritengono comunque legittima quella parte della sentenza di secondo grado relativa alle statuizioni civili, che riconosce al Comune il diritto al risarcimento. A tale conclusione, da parte dei giudici della Corte Suprema di Cassazione si giunge a seguito del riconoscimento in capo all’ente territoriale di due specifici diritti derivanti dalle sue prerogative. L’ente comunale infatti è titolare di un diritto alla propria posizione funzionale in seno all’ ordinamento, ed ad una competenza per la realizzazione dell’assetto urbanistico nel territorio che gli è proprio. Entrambi tale prerogative, vengono lese da condotte illecite come quelle poste in essere dall’imputato al quale erano stati contestati alcuni reati ambientali. Tali delitti presentano il carattere di sanzionare comportamenti che apportano un danno al bene ambiente, compromettendone la tutela. La compressione, pertanto di tali diritti può, osservano ancora i giudici, assumere una duplice configurazione a seconda del carattere patrimoniale del suo oggetto. Infatti, nel caso in cui essa abbia ad oggetto eventuali posizioni di vantaggio dell’ente locale, saremo in presenza di un danno di indiscutibile carattere patrimoniale, nel caso invece essa riguardi la sua sola generica posizione funzionale nessuna valenza patrimoniale potrà essere riconosciuta. Nella parte finale della motivazione vengono fatte osservazioni, circa la risarcibilità dei danni diversi da quelli ambientali, ammettendo anche da parte dell’ente locale un diritto alla costituzione di parte civile nel processo penale ed un eventuale risarcimento. Lo Stato, pertanto non è più il solo ente competente a partecipare al procedimento penale in qualità di parte, potendovi essere ammessi anche gli enti locali, nel cui territorio sono stati commessi i reati ambientali con un evidente aumento degli obblighi di risarcimento in capo all’imputato. Napoli: suicidi e sovraffollamento, Poggioreale al collasso di Maria Pirro Il Mattino, 14 febbraio 2019 “Poggioreale è al collasso. Ci sono 2.411 detenuti anziché 1.680 previsti, circa 800 in più, con inevitabili ripercussioni sull’assistenza sanitaria. E anche gli altri istituti sono sovraffollati: ospitano 7660 reclusi invece di 6142”. Samuele Ciambriello, il Garante dei detenuti della Regione Campania, è preoccupato, e aggiunge: “Sono già sette le inchieste aperte per la morte dietro le sbarre, tutti casi avvenuti nel 2018 e nel 2019, l’ultimo, prima di Claudio Volpe, risale alla scorsa settimana”. Il precedente - Un romeno di 41 anni è deceduto per cause ancora da chiarire, come spiega il Garante: “L’immigrato lamentava dolori allo stomaco, all’addome e a un braccio. Ma era solo, nessuno andava ai colloqui o lo contattava al telefono e la sua storia era così scivolata nel silenzio”. Le emergenze - A queste tragedie se ne aggiungono altre: nove suicidi (di cui cinque a Poggioreale) registrati in un anno, e 104 tentativi. “È chiaro che, per evitarli, servono rinforzi: più agenti e camici bianchi. Occorre raddoppiare le guardie mediche, istituire un presidio d’emergenza, senza dover aspettare ogni volta l’arrivo delle ambulanze del 118”. E poi, prosegue Ciambriello, “va installato un defibrillatore in ogni reparto: mi risulta che in alcune apparecchiature manchino le placche o siano scadute o che non ci siano proprio le attrezzature”. Il garante dei detenuti chiede sia istituito immediatamente un tavolo per affrontare le varie situazioni, coinvolgendo sia i vertici della Asl, dal 2008 competente per i diritti legati alla salute, sia i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e del carcere, chiamati a garantire la sicurezza. Ma scarseggiano anche psicologi ed educatori, questi ultimi sono appena 95 in tutta la regione. “Carenze compensate soltanto in parte dai volontari, che io chiamo (provocatoriamente) i “cospiratori della speranza”. Le carenze nei servizi non permettono percorsi di rieducazione e reinserimento”. Ancor più difficile è l’intervento in favore dei pazienti psichiatrici (“Non bastasse, otto sono internati in attesa che si liberi un posto nelle residenze senza sbarre attrezzate nella regione”, certifica Ciambriello), e a Poggioreale una indagine dell’associazione Antigone segnala anche l’abuso di farmaci. Le reazioni - Edmondo Cirielli, questore della Camera dei deputati e parlamentare di Fratelli d’Italia, si rivolge direttamente al Guardasigilli Alfonso Bonafede, citando il caso Napoli: “Chiediamo ancora una volta una riposta da parte del ministro e del governo in modo ad affrontare definitivamente l’emergenza carceri”. Sos nazionali e locali si intrecciano. I Radicali per il Mezzogiorno europeo con un gruppo di “Ex detenuti organizzati” in mattinata manifestano davanti alla sede del Consiglio comunale di Napoli, nel giorno in cui è fissata l’istituzione del garante cittadino dei reclusi. Il movimento è in via Verdi per consegnare le firme raccolte all’esterno del carcere a sostegno dell’iniziativa. “Solo a Napoli - afferma l’avvocato Raffaele Minieri, di Radicali italiani - vi sono circa 3.500 detenuti concentrati in quattro strutture”. Torna al centro il problema del sovraffollamento. E Pietro Ioia, portavoce degli “Ex detenuti organizzati”, ricorda la morte di Claudio Volpe, 34 anni, avvenuta domenica scorsa. Napoli: morte in cella di Claudio Volpe, la rabbia di Poggioreale di Maria Pirro Il Mattino, 14 febbraio 2019 Giallo sul decesso del detenuto di 34 anni. Sit-in dei familiari, durante la notte lancio di sassi e caos nelle camerate. Ancora proteste, al carcere di Poggioreale, per la morte del detenuto 34enne Claudio Volpe: 120 chili, una figlia di 5 anni, originario di Pianura. Meccanico sin da bambino, senza più il papà, emigrante di ritorno da Milano, fruttivendolo con un furgoncino sotto casa fino all’arresto. “Ma una condanna per droga non si può scontare con la morte”, sussurra Santina, la sorella del giovane scomparso all’improvviso domenica scorsa. “Non si può per una febbre a 38 e mezzo”, urla Valentina Pace, vedova a 32 anni. “No”. Anna Russo, la madre, non ce la fa neanche a parlare. Da due giorni familiari e amici manifestano davanti all’istituto penitenziario, travolti dal dolore. Ai piedi del “mostro di cemento”, come chiamano questa struttura, bloccano al mattino la strada. I parenti srotolano uno striscione, chiedono “verità e giustizia”, sono arrabbiati. Perché è mistero sulle cause della tragedia. Due le inchieste aperte: una della Procura, l’altra interna alla Asl di Napoli che ha nominato una commissione di esperti. I fatti - “Ho visto mio marito, per l’ultima volta, giovedì scorso in occasione del colloquio. Mi ha baciato e ha giocato con la bambina: stava bene”, questa ricostruzione di Valentina. “Il giorno dopo, mio fratello ha avuto il mal di gola, gli hanno dato la tachipirina, sabato è salita la febbre, domenica è stato visitato e riaccompagnato in cella ma è svenuto durante la cena. Altro controllo medico e ritorno a letto. Lì è praticamente morto. E nessuno ci ha mai avvisato ufficialmente”, sostiene Santina. Lorenzo Acampora, direttore del dipartimento di tutela della salute negli istituti penitenziari seguiti dall’Asl di Napoli, conferma: “Il paziente è stato portato per due volte nel punto di primo soccorso, al terzo accesso non c’era più nulla da fare. Aveva la febbre, e la procedura prevista in questi casi è stata eseguita correttamente, ma solo l’autopsia può chiarire eventuali responsabilità”. L’agitazione - Ieri mattina, il sit-in. Nella notte precedente, altra tensione. Secondo quanto segnalato dal Sappe e confermato dalla Polizia, i reclusi nei reparti Livorno e Salerno hanno messo in atto l’agitazione battendo oggetti contro le sbarre. All’esterno invece “un gruppo di circa 30 donne, familiari di detenuti - spiega il sindacato degli agenti - hanno lanciato bottiglie e pietre sia contro il cancello e anche all’interno del parcheggio per protesta contro il personale di polizia penitenziaria sequestrando una decina di colleghi all’interno, la macchina di qualche agente è rimasta colpita. Un altro presidio di 8-9 persone erano sedute a terra e 40 in piedi hanno tentato di bloccare la strada”, al grido “assassini”. Subito dopo, tutte le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria hanno proclamato lo stato di agitazione. “Chiediamo un incontro urgente con il Dap e con il ministro della Giustizia”, dice Ciro Auricchio, segretario regionale Uspp. Per Luigi Vargas, segretario Sinappe, “i fatti avvenuti sono stati gravissimi per l’incolumità dei poliziotti e il mantenimento dell’ordine e della sicurezza nel carcere di Poggioreale”. Interviene anche la famiglia Volpe che si dissocia dalle accuse rivolte agli agenti di polizia penitenziaria. “Il nostro non è un altro caso Cucchi: non si sono verificati maltrattamenti o abusi da parte dei poliziotti, anzi. Il problema vero è l’assistenza sanitaria”, dichiara Santina Volpe che, con altri parenti, incontra anche la direttrice del carcere. E lo stesso Acampora riconosce che, a prescindere da questa vicenda, c’è un problema effettivo nell’assistenza: “Innanzitutto, dovuto al sovraffollamento”. Napoli: Radicali ed ex detenuti chiedono di istituire il Garante comunale di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2019 I Radicali per il Mezzogiorno Europeo e gli ex detenuti organizzati di Napoli hanno manifestato questa mattina, 13 febbraio, dinanzi alla sede del Consiglio Comunale in via Verdi. La manifestazione è stata indetta nel giorno in cui tra i temi all’ordine del giorno dell’assemblea, figura anche l’istituzione del garante cittadino dei detenuti per la città di Napoli. L’iniziativa è stata promossa fin dall’inizio del 2018 dai Radicali per il Mezzogiorno Europeo su input dell’avvocato Raffaele Minieri. Ha visto i militanti dell’associazione impegnati in una raccolta firme all’esterno del carcere di Poggioreale e ha avuto uno sbocco concreto nella delibera di giunta sul garante cittadino, presentata lo scorso agosto da Roberta Gaeta, assessore alle politiche sociali. Sulle ragioni della manifestazione di Radicali ed ex detenuti si è così espresso l’avvocato Raffaele Minieri, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani nonché uno dei fondatori dell’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo: “I fatti di cronaca di questi ultimi giorni dimostrano l’urgenza della istituzione del garante cittadino delle persone detenute. Napoli è troppo grande e ci sono troppi detenuti (circa 3.500 in quattro strutture) in questo momento perché passi in secondo piano questa iniziativa che manifesta ogni giorno di più la sua urgenza”. Presente al sit-in anche Pietro Ioia, leader degli ex detenuti organizzati di Napoli. Così Ioia sull’urgenza del garante cittadino e sulle drammatiche condizioni di Poggioreale: “Stamattina siamo fuori al palazzo del Consiglio Comunale di Napoli in quanto oggi all’ordine del giorno c’è l’istituzione del garante cittadino dei detenuti. Io spero che si faccia al più presto perché la situazione a Poggioreale è diventata insostenibile. A Poggioreale non se ne può più, ormai è diventato un carcere che produce solo morte, malavita e malasanità. Soprattutto malasanità e a tal proposito abbiamo l’ultimo caso di decesso a Poggioreale (un detenuto di 33 anni morto domenica scorsa) per una febbre che durava da tre giorni ma questa persona non è mai stata portata in ospedale. Lo hanno fatto morire in una cella. Dunque noi vogliamo il garante dei detenuti per la Città Metropolitana di Napoli, chiunque sia ma lo vogliamo”. Infine è intervenuto l’avvocato Emilio Martucci, tesoriere dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, per un bilancio della mattinata di mobilitazione: “Quella di oggi è stata una mattinata in cui l’associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo ha manifestato, a mio avviso in modo proficuo, davanti al Consiglio Comunale in via Verdi per far sì che la delibera di giunta dello scorso agosto sul garante cittadino dei detenuti sia effettivamente mantenuta e si nomini questo garante. Serve che si passi dalle parole ai fatti, in un momento drammatico per la situazione carceraria. Questo è di tutta evidenza. Siamo stati anche all’interno del Consiglio Comunale e di sicuro la nostra lotta continua. Speriamo di vincere.” Venezia: l’Icam della Giudecca in Parlamento. I Garanti: no alla chiusura, è un gioiello Corriere del Veneto, 14 febbraio 2019 “L’Icam della Giudecca va chiuso”. L’appello arriva dalla deputata di Liberi e Uguali del Molise Giuseppina Occhionero che all’inizio del mese ha fatto visita all’Istituto a custodia attenuata per le madri di Venezia. La legge 62 del 2011 prevede infatti che nei casi in cui esistano delle esigenze cautelari di particolare rilevanza, i bambini fino ai 6 anni che vivono con la mamma la seguano all’interno degli istituti di detenzione. All’Icam di Venezia sono accolte 7 donne con 8 bambini di età compresa fra i 6 mesi e i 5 anni, i quali secondo la deputata vivrebbero in una condizione critica: “L’area dedicata si trova all’interno del carcere stesso, che sappiamo essere un’ottima struttura, ma ciò comporta delle conseguenze per i piccoli - spiega Occhionero - Inoltre non è presente il servizio di Pediatria e, per quanto gli arredi siano belli, gli spazi sono inadeguati”. Le stanze non sarebbero insomma il più possibile simili ad ambienti familiari. “Ci sono poi carenze di assistenza sanitaria”, continua Occhionero. Una serie di accuse che il Garante regionale dei diritti della persona, Mirella Gallinaro, e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Venezia, Sergio Steffenoni, rispediscono al mittente. “L’Icam della Giudecca è un gioiellino” replica Gallinaro. “Venezia è Venezia, ha le sue difficoltà, ma non si può sparare a zero su una struttura all’interno della quale dal punto di vista dell’attenzione nei confronti dei bambini e delle detenute si fa un ottimo lavoro”, continua il Garante regionale, ricordando poi che “il Comune garantisce un posto all’asilo nido e alla scuola materna per tutti e la presenza delle associazioni di volontari”. “L’Icam è stato realizzato con fondi pubblici, è stato voluto così - riprende Steffenoni. Ha ingresso, cortile e bagni del tutto indipendenti dal carcere”. “Il Pediatra viene una volta al mese e visita tutti i bambini, poi in caso di emergenza è a disposizione”, conclude Steffenoni. Milano: il figlio di 4 anni lo voleva vicino durante un esame al cuore, permesso negato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 febbraio 2019 Perché il bimbo “non è in pericolo di vita”. A un bimbo piccolo, malato cardiaco grave, è stato negato di avere al suo fianco, per solo due ore, il padre detenuto non definitivo durante un particolare esame invasivo. Deborah Morano, la madre del piccolo, non si capacità di questa visita negata. La considera una ingiustizia, soprattutto nei confronti del piccolo che non ha colpe e che desiderava il padre al quale è affezionato e che non vedeva da mesi. “Il Procuratore generale giustifica l’aver negato la visita perché secondo lui il bimbo “non è in pericolo di vita”, racconta a Il Dubbio Deborah. “Sono magistrati medici o padreterni? - si chiede Deborah- Fin dove si può spingere la libertà di interpretazione di una legge rispetto all’umanità?”. Si chiede ancora la madre del piccolo: “Il desiderio di un bambino malato di essere accanto al suo papà, né omicida né pericoloso, può essere sottovalutata da un uomo che indossa una toga?”. La storia giudiziaria che riguarda Giuseppe Morabito, il padre del bimbo, è complicata. Si professa innocente, l’accusa è di aver partecipato ad una associazione per lo spaccio di marijuana, poi c’è il cognome che non aiuta e a Milano (è lì che si era trasferito con la famiglia) ed essere indagati con quel cognome evoca facilmente l’omonima cosca della ‘ndrangheta. “Visto il parere contrario del Pg - si legge nella decisione- ritenuto che non sussistono i presupposti cui all’art 30 legge penitenziaria per le ragioni esposte nello stesso parere, rigetta l’istanza”. Questo il rigetto della Quinta Sezione Corte d’Appello di Milano all’istanza che Giuseppe Morabito, detenuto nel carcere di Voghera per il reato dell’art 74 della legge stupefacenti, aveva avanzato per poter essere autorizzato a recarsi all’Ospedale Niguarda di Milano a fare visita al figlio di 4 anni nella mattina del giorno in cui sarebbe stato lì ricoverato per accertamenti diagnostici, una biopsia e coronografia cardiaca. Morabito non vedeva da parecchi mesi il figlio a causa della malattia, che impediva al bimbo di recarsi a effettuare i colloqui con il padre. Il motivo del rigetto? Il colloquio non rientrava nelle ipotesi di permesso premio previste dall’art 30 dell’ordinamento penitenziario. Così scrive la Corte, rinviando in toto alle argomentazioni del parere negativo della Procura Generale, secondo la norma citata dell’ordinamento penitenziario “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare, può essere concesso il permesso di recarsi a visitare l’infermo con le cautele del regolamento”. La stessa istanza, a gennaio 2019 era stata avanzata contestualmente anche al Gip di Milano, che a marzo dell’anno scorso aveva emesso la sentenza, oggi impugnata avanti la Corte d’Appello. Cosi mentre quest’ultima rigettava, facendo proprie, le argomentazioni del Procuratore Generale che dava parere sfavorevole, il Gip riteneva la stessa richiesta “meritevole di accoglimento in ragione dei problemi di salute del figlio”. Per questo, preso atto anche del parere favorevole del Pubblico ministero, autorizzava il padre a recarsi all’Ospedale Niguarda “con la scorta in giornata”. Infatti era tutto pronto, gli agenti del carcere di Voghera si stavano preparando per scortare Giuseppe. Poi la doccia fredda: il rigetto della Corte d’Appello. C’è da aggiungere un particolare: Giuseppe Morabito non sta scontando una condanna definitiva, ma è detenuto in misura cautelare. Lo stesso Pm che un anno fa aveva chiesto l’applicazione della custodia preventiva, come titolare dell’indagine, non ha avuto dubbi nell’autorizzare Morabito a recarsi con la scorta in Ospedale dal figlio di 4 anni. L’argomento è anche quello del diritto alla genitorialità, ma anche il diritto del minore alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto. Del resto è nell’art 3 della Cedu, quello che vieta i trattamenti degradanti e disumani durante la detenzione, che si inserisce la tutela del benessere del minore, per cui la detenzione del padre (viste ancora le profonde disparità rispetto alla maggiore “attenzione” data al ruolo della madre) non può essere di intralcio né ai diritti del bambino, né a quelli del detenuto genitore. Venezia: il Patriarca Moraglia “un progetto per rieducare i carcerati” Il Gazzettino, 14 febbraio 2019 “Vi è la necessità di riaffermare un fatto: a tutti, sì veramente a tutti, deve stare a cuore che la giustizia sia realmente equilibrata e adeguata al caso concreto; che non sia, per usare un linguaggio accessibile a tutti, né buonista né crudele perché in entrambi i casi sarebbe ingiusta, ossia non-giustizia”. A dirlo, ieri, il patriarca Francesco Moraglia intervenendo al convegno “Pena, recupero, riparazione. Fatiche degli operatori ed impegno sociale”, promosso al centro pastorale “Card. Urbani” di Zelarino dall’Ispettorato generale delle Carceri, dall’Unione giuristi cattolici italiani e dalla Camera penale veneziana, con la collaborazione della Scuola Grande di San Rocco e della Fondazione Archivio Vittorio Cini, presenti molti vescovi del Nord est. Nell’occasione è stato presentato il documento “Per una pastorale della giustizia penale” (ed. Marcianum Press) che - spiegano i promotori - “vuole incoraggiare a superare il modello vigente e ben consolidato della giustizia retributiva con quello della giustizia riparativa, un percorso culturale che sta crescendo sempre di più, dove il reo è chiamato a riparare il danno causato alla vittima”. Moraglia, che sotto le feste di Natale è solito visitare Santa Maria Maggiore e il penitenziario femminile della Giudecca, ha offerto una riflessione sull’importanza di punire il responsabile di un reato ma, allo stesso tempo, di offrire un percorso di rieducazione e reinserimento sociale, come sancito dalla Costituzione. “Credo si possa pacificamente convenire - ha osservato il Patriarca - sul fatto che una giustizia “umana”, vera e buona, non può consegnare colui che è stato giustamente condannato a un sistema penitenziario non dignitoso della persona o lesivo dei suoi diritti e, di conseguenza, privarlo del fondamentale cammino educativo; in tal modo, ne siamo tutti convinti, credo, si realizzerebbe piuttosto una reale ingiustizia”. E in linea col documento sulla pastorale della giustizia penale, ha aggiunto: “È perciò importante che l’espiazione diventi anche rieducazione della persona, che la giustizia trovi dei reali profili riparativi, sappia aprire e non chiudere strade riparative; è il vero investimento che la società può fare non accontentandosi di una sentenza, anche passata in giudicato, ma aprendo un percorso in cui non si tralascia la pena, non si trascurano mai le vittime e le esigenze loro o dei loro familiari, ma si prende cura del colpevole”. Milano: “Gli invisibili”, dibattito sul tema della disabilità tra carcere e territorio anci.lombardia.it, 14 febbraio 2019 Il 26 febbraio presentazione esiti del progetto. Martedì 26 febbraio verranno presentati gli esiti del progetto “Gli invisibili” che ha l’obiettivo di tutelare i diritti delle persone con disabilità fisica e psichica detenuti all’interno degli Istituti di pena perché abbiano accesso a opportunità di trattamento e riabilitative e favorire l’accesso alle misure alternative (come la detenzione domiciliare) potenziando la rete di opportunità del territorio. Gli interventi del progetto “Gli Invisibili” sono realizzati nell’ambito delle iniziative promosse da Regione Lombardia attraverso il Programma Operativo Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. Ente capofila del progetto è SiR, Consorzio di cooperative sociali costituitosi nel 2000 quale risultato di un progetto sviluppato in comune con Anffas Milano Onlus e formato da una rete di 13 cooperative sociali. Il Consorzio, nato per promuovere la cooperazione sociale, negli anni è diventato un punto di riferimento nel sistema di welfare locale. Nello specifico in area penale, il Consorzio SiR è capofila del Progetto “Gli Invisibili” nell’ambito del Por Fse - “Avviso pubblico per lo sviluppo di interventi di accompagnamento all’inclusione socio lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria (Minori e adulti)”, che realizza in partnership con la propria rete cooperativa e le Istituzioni, per favorire il reinserimento sociale di persone con disabilità provenienti dai tre istituti penali milanesi (San Vittore, Bollate e Opera) o in misura alternativa sul territorio di Milano e Città Metropolitana. L’evento si terrà presso la Camera del Lavoro Metropolitana in Corso Di Porta Vittoria 43, Milano, Sala Buozzi. In allegato il programma. Genova: nasce Radio DeeJail, la radio dei detenuti Ansa, 14 febbraio 2019 Programma ideato da don Fiscer. In redazione 7 reclusi di Marassi. Nasce a Genova il primo programma radio fatto dai detenuti, Radio DeeJail. L’idea è di don Roberto Fiscer, ex deejay sulle navi da crociera, attualmente parroco della SS. Annunziata del Chiappeto, conosciuto per le sue parodie di canzoni famose con testi cristiani e per essere il fondatore e l’anima di Radio Fra le Note, la prima web radio parrocchiale della diocesi di Genova disponibile tramite App, internet e sul canale 810 del digitale terrestre. “Gesù riabilitava le persone, le aiutava a rialzarsi. Come sacerdote, credo, che la mia missione sia di aiutare quanti sono in difficoltà a rimettersi in piedi”, spiega don Roberto. Dopo aver ottenuto tutti i permessi necessari, don Fiscer ha realizzato un piccolo studio di registrazione all’interno del carcere di Marassi coinvolgendo una redazione di 7 detenuti, italiani e stranieri, giovani e meno giovani, con cui curerà ogni settimana il programma. Prima puntata prevista venerdì prossimo sul Festival di Sanremo. Crotone: spettacolo in carcere per i detenuti con il Teatro della Maruca oggisud.it, 14 febbraio 2019 Martedì 12 febbraio, presso la sala teatro della Casa circondariale di Crotone, è stato messo in scena dal Teatro della Maruca nella persona di Carlo Gallo, lo spettacolo “Bollari”. “Una parola antica tradotta nel suono gutturale dei pescatori per annunciare l’avvistamento dei tonni a largo delle coste, un urlo di gioia a cui seguivano lanci e fragori di bombe in mare, una pratica illegale diffusa tra i pescatori dello Jonio, al fine di ricavare più pesce possibile in poco tempo e sopperire ai lamenti dello stomaco. Lo spettacolo narra la contesa di mare tra due anziani pescatori e le vicissitudini di quella che fu la Cecella, il miglior peschereccio dello Jonio, negli anni del fascismo fino alle porte della seconda guerra mondiale. Tratto da racconti orali di anziani calabresi, Bollari è una storia di mare che si chiude sopra il deserto dei valori di un mondo travolto dal regime e dalla guerra. “ L’iniziativa è stata promossa dal Garante dei detenuti Federico Ferraro ed ha incontrato il favore e la disponibilità della Direzione della Casa circondariale, nella persona della d.ssa Emilia Boccagna. Numerose le autorità istituzionali presenti: dal prefetto Fernando Guida al questore Massimo Gambino, fino ai rappresentanti delle Forze dell’ordine ed al Cappellano del carcere Don Stefano Cava. Il teatro è una delle forme più importanti dell’ arte e, come tale, aiuta le persone, gli artisti e gli spettatori ad esprimere il proprio essere e la propria creatività. Attraverso il teatro ognuno di noi può riconoscersi, riflettere sulla propria vita e sulle esperienze o, capire con occhi diversi, da spettatore, la realtà come risulta. Al termine dello spettacolo alcune pasticcerie crotonesi hanno offerto il buffet per gli ospiti della casa circondariale. Il garante esprime un sincero ringraziamento sia al Teatro della Maruca che alle pasticcerie “I dolci di Hera, Lucanto e Federico” per la gratuita disponibilità alla realizzazione di questa importante attività, nonché al personale di Polizia penitenziaria che ha coordinato l’evento. “Costituzione e clemenza”, il presidente Mattarella riceve gli autori al Quirinale nelpaese.it, 14 febbraio 2019 Il 12 febbraio il Garante dei detenuti per le regioni Lazio e Umbria, Stefano Anastasìa, il Garante dei detenuti della Regione Toscana, Franco Corleone, e il Prof. Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale nell’università di Ferrara, sono stati ricevuti al Quirinale dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’incontro è stata l’occasione per presentare al Capo dello Stato il volume Costituzione e clemenza, da loro curato per Ediesse e La Società della Ragione (Roma, 2018). Il libro contiene una ragionata proposta per un rinnovato statuto costituzionale degli istituti di amnistia e indulto, frutto di un seminario svoltosi al Senato della Repubblica il 12 gennaio 2018. Le ragioni e la necessità di una riforma del vigente articolo 79 della Costituzione sono state illustrate dai curatori al Presidente. La conversazione ha riguardato anche gli atti di clemenza (grazia e commutazione delle pene) di titolarità del Quirinale. Sullo sfondo della proposta la necessità di recuperare le misure di clemenza, individuale e collettiva, come tassello essenziale del disegno costituzionale delle pene, in un momento storico in cui il sovraffollamento carcerario, tornato a livelli preoccupanti, rimette in discussione il divieto di pene contrari al senso di umanità e la loro finalità rieducativa. “Un’altra strada”. La barbarie giustizialista vista da Renzi di Matteo Renzi Il Dubbio, 14 febbraio 2019 In libreria da domani il saggio di Matteo Renzi “Un’altra strada” edito da Marsilio: “un atteggiamento eccessivamente subalterno al giustizialismo e ad alcune procure ha caratterizzato l’esperienza della sinistra nel periodo iniziale della cosiddetta Seconda Repubblica. Sono fiero di aver concorso, insieme ad altri, a modificare questo approccio”. Pubblichiamo qui un estratto del libro di Matteo Renzi, “Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani”, Marsilio (pp. 240, euro 16) In libreria da domani 15 febbraio 2019. “Tratto caratterizzante il populismo è l’abilità di tenere insieme le notizie false con un atteggiamento forcaiolo. La storia, peraltro, ci insegna che i populisti sono i primi a finire vittima dei loro stessi marchingegni. Non è il caso di risalire ai giacobini o alla ghigliottina sotto cui caddero molte più teste di rivoluzionari che di nobili, ma è la stessa storia italiana a certificare il rischio di un contrappasso. L’effetto boomerang di chi si presuppone custode di una morale che chiede di applicare agli altri, ma che sovente ignora per se stesso, è caratteristica saliente della coalizione tra Lega e Movimento 5 Stelle. Coloro che ci rimproverano di non aver scongiurato l’alleanza tra queste due forze, dimenticano che nascono entrambe dalla stessa matrice, ovvero il cappio esibito ai partiti della prima repubblica dalla Lega Nord. Quella Lega che ha ostentato la bandiera dell’onestà giustizialista vent’anni prima del Movimento 5 Stelle e che ha al suo interno tali e tanti elementi di contraddizione che suona assurdo, per chi non è garantista come noi, ignorare i procedimenti, le sanzioni, le condanne. Cosa sarebbe accaduto se i capigruppo di Camera e Senato del Pd fossero stati condannati, ancorché in via non definitiva, per peculato? È questa, infatti, la definizione del reato per cui Massimiliano Molinari e Riccardo Romeo, capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, sono stati condannati, cioè per aver sottratto alla disponibilità degli italiani e utilizzato a fini personali finanziamenti pubblici. Quale sarebbe stata la reazione della macchina del fango propalato dal Movimento 5 Stelle se queste condanne fossero state inflitte a due parlamentari del Pd? Possiamo facilmente immaginarlo, visto il polverone che si solleva ogni volta anche solo per l’apertura di un fascicolo di indagine, per non dire di un avviso di garanzia. È sotto gli occhi di tutti il massacro mediatico dei 5 Stelle il cui manganello virtuale si abbatte sugli esponenti del Pd, mentre per la Lega tutto ciò non vale. Il populista è giustizialista con gli avversari ma garantista con gli amici. Nel decreto pomposamente ribattezzato “Anticorruzione”, che porta la firma del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sono entrate delle norme ad personam proprio allo scopo di salvaguardare alcuni dirigenti leghisti dall’accusa di peculato. Si può essere più o meno favorevoli alle modifiche legislative, ma intervenire con dei provvedimenti ad hoc quando c’è un procedimento in corso - in presenza di un’indagine e di alcune sentenze che riguardano i dirigenti di uno dei partiti di maggioranza - è un’attività che pensavamo relegata agli anni d’oro del berlusconismo. Invece oggi tutto ciò viene ammantato di purezza dalla soffice coltre del mantello grillino, che in nome dell’anticorruzione salva dall’accusa di peculato i dirigenti leghisti. Io non credo che a gogna si debba rispondere con gogna uguale e contraria. Penso sia da difendere non la dignità di un partito, ma l’onore delle istituzioni. Il giustizialismo squalifica la giustizia, distrugge l’idea della sentenza di un tribunale fondato sul principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Le istituzioni hanno un valore. Se le sentenze vengono emesse dal tribunale del popolo che ha sede su un blog, a essere colpito non è soltanto il bersaglio della persecuzione, ma l’idea stessa della dignità delle istituzioni. In questo la sinistra ha più di qualcosa da farsi perdonare. Un atteggiamento eccessivamente subalterno al giustizialismo e ad alcune procure ha caratterizzato l’esperienza della sinistra nel periodo iniziale della cosiddetta seconda repubblica. Sono fiero di aver concorso, insieme ad altri, a modificare questo approccio. Lo spirito di riforma che animava provvedimenti come l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati voleva evitare nuovi casi giudiziari come quello, devastante, legato al nome di Enzo Tortora. Ma occorreva, e occorre, anche una battaglia culturale per creare un clima in cui, se un avversario riceve un avviso di garanzia, non se ne chiedono le dimissioni, ma si attende il processo. Tutti i cittadini sono innocenti finché non c’è una sentenza passata in giudicato. Così prescrive la Costituzione e a questo principio mi sono costantemente attenuto, suscitando gli sfottò di avversari e talvolta anche di compagni di partito. Ho sempre pensato che bisogna combattere in nome del rispetto istituzionale che si deve agli avversari. È un sabato di novembre del 2018 quando le agenzie battono la notizia dell’assoluzione di Virginia Raggi, indagata e poi rinviata a giudizio per reati collegati all’abuso d’ufficio e al falso ideologico. Non ho mai avuto un rapporto particolarmente felice con il sindaco Raggi; anche nei mesi in cui abbiamo condiviso responsabilità istituzionali, non abbiamo avuto occasioni di particolare consuetudine. Anzi. Tuttavia, pur contestando alla radice il modo in cui amministra la città, appreso della sua assoluzione, chiesi immediatamente di poterle parlare per esprimerle la mia vicinanza, il mio affettuoso in bocca al lupo per il futuro. Dal giorno dopo, avversari come prima. Perché è sul piano politico che dobbiamo sconfiggerla, non su quello giudiziario. È lo stesso atteggiamento che ho sempre avuto verso Silvio Berlusconi e che mi ha attirato valanghe di critiche da parte della sinistra massimalista, la quale sembra essere capace di stare insieme solo se contro qualcuno. Il garantismo a mio parere deve prevalere sempre, non solo in base alle convenienze. In politica si hanno avversari, non nemici, ci si divide nelle aule del parlamento, non si è divisi dalle aule giudiziarie. Se la Lega - quella dei diamanti acquistati coi soldi pubblici e nascosti in Tanzania, delle lauree finte comprate in Albania, dei rimborsi elettorali utilizzati per le spese della famiglia Bossi - ha un passato burrascoso da farsi perdonare, il Movimento 5 Stelle non è da meno. Non si tratta dei singoli procedimenti che riguardano i suoi esponenti, né di inseguire sulla via della criminalizzazione i loro parenti. Si tratta, invece, di fare un passo ulteriore nella comprensione di questi fenomeni: la natura ideologica delle posizioni del Movimento 5 Stelle sulla giustizia è esplicitata da un libro di Gianroberto Casaleggio in cui si propone in modo paradossale l’esposizione dei condannati agli angoli delle strade. Questa è la filosofia che ispira il Movimento 5 Stelle, questo è il pensiero del loro guru scomparso: “La corruzione è vista come una malattia contagiosa. Corrotti e corruttori sono esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città”. L’ostentazione del corpo del reo massacrato preventivamente dalla gogna digitale dei social e poi esposto al pubblico ludibrio è pura barbarie, il cui paradigma culturale è quotidianamente ribadito da alcuni magistrati, per fortuna in minoranza, anche dentro il Csm, nonché da alcune redazioni di quotidiani. La polemica aperta sui media dopo la cattura di Cesare Battisti in Bolivia, per esempio, non ha riguardato l’ormai classico, quasi scontato e tradizionale, show del ministro dell’Interno Salvini, ma ha coinvolto in profondità colui che riveste l’alto e nobile ruolo del guardasigilli, Alfonso Bonafede. Appartengo alla stragrande maggioranza degli italiani soddisfatta dall’arresto di un terrorista come Battisti. Ricordo come, già nel 2016, con il cambio di governo da Dilma Rousseff a Michel Temer, l’Italia avesse formalmente avanzato la richiesta di una risoluzione del caso. Il fatto che il presidente Jair Bolsonaro e il presidente Evo Morales abbiano consentito alle straordinarie donne e uomini della polizia e dell’intelligence italiane di catturarlo dopo averlo inseguito per mesi è un fatto positivo per chi crede nella giustizia, non per chi esige vendetta. Non è un caso che parole di profonda civiltà siano state pronunciate dai familiari delle vittime, molto più sensibili al rispetto istituzionale di quanto non lo siano stati i ministri della Giustizia e dell’Interno, i quali hanno scelto non solo di aderire a un’indecorosa parata pseudo-istituzionale, ma addirittura di dedicare un video, con tanto di prelevamento delle impronte digitali e accompagnamento in carcere, esponendo il detenuto a una procedura illegale e producendo anche l’effetto paradossale di consentire l’identificazione degli agenti, la cui identità è di solito sotto tutela. Il tutto per una manciata di like. Questa manifestazione di cattivo gusto non mi sorprende: conosco Bonafede anche a livello personale. Dieci anni fa si era candidato contro di me nella corsa a sindaco di Firenze. Il risultato del Movimento 5 Stelle fu del tutto trascurabile, ma ricordo che Bonafede, pur non essendo stato eletto, si presentava regolarmente alla sede di Palazzo Vecchio armato di una telecamerina: “Intendo mostrare ai cittadini cosa accade realmente nelle stanze del potere”, diceva. Ebbi gioco facile nel dirgli che le sedute del Consiglio erano già da tempo in streaming e che quindi avremmo potuto fare a meno del suo nobile gesto: il punto non è la passione per i video, ma la riduzione della giustizia a uno squallido spettacolo mediatico che serve solo a registrare un effimero gradimento in rete. Su questo tema una politica di sinistra deve essere radicale, intransigente e chiara”. Il declino della verità. “Così si è imposto il potere delle fake news” di Bernard-Henri Lévy* La Stampa, 14 febbraio 2019 Il filosofo ricostruisce storia e contesto, e avanza tre idee concrete per combatterle. Invitato da Google Europe a un seminario di riflessione sul declino della verità e il diffondersi delle fake news e i mezzi per fermarle, comincio con l’inquadrare la vicenda nella sua storia e nel suo contesto. Cito le Riflessioni sulla guerra spagnola dove George Orwell spiega che “nel 1936 la storia si è fermata” perché lì, in Spagna, ha scoperto “per la prima volta”, “articoli di giornale che non avevano alcun rapporto con i fatti”; lì ha avuto “l’impressione” che fosse “la nozione stessa di verità” che, rovinata dai fascismi rossi e bruni, stava “per scomparire da questo mondo”; ed è lì, in sostanza, che Goebbels è diventato possibile (“Decido io chi è ebreo e chi non lo è”) o, un giorno, Trump (“Avete i vostri fatti? - noi abbiamo i nostri - che sono fatti alternativi!”). Da Nietzsche a Putin e Trump - Continuo evocando, a monte e a valle di questa rivoluzione totalitaria, i punti focali, ovvero: 1) il “criticismo” di Kant, che, separando il noumeno del fenomeno, limitando la nostra conoscenza a quest’ultimo e postulando che possiamo sapere solo quello che ci lasciano intravedere i filtri della sensibilità, le categorie della comprensione e le idee della ragione, inietta nel rapporto con la verità una parte di soggettività di cui i sostenitori della Brexit, per esempio, sarebbero oggi le lontane vittime; 2) un “prospettivismo” nietzschiano che, facendo della verità un “punto di vista”, fino a giudicare “vero” il punto di vista che rafforza una vita, “falso” quella che la avvilisce e la sminuisce, provoca un secondo shock da cui possiamo benissimo immaginare si sia diffusa la deriva che porta fino alle notizie false di Putin o, ancora, di Trump; 3) il “decostruzionismo” post-nietzschiano che, storicizzando la “volontà di verità” (Foucault), mettendo l’oggetto “tra virgolette” (Derrida) e separandolo dal suo referente (“la conoscenza dello zucchero non è zuccherata”, Althusser), annegandone la testimonianza, infine, in una nuvola di grafici e schemi (Lévi-Strauss) o nel nodo borromeo (Lacan), ci ha fatto perdere il contatto con quanto il Vero poteva avere di semplice, solido, inconfutabile. Nel pollaio del web - E quindi colloco la responsabilità di Internet e dei Gafa (Google, Apple, Facebook e Amazon, ndt) lì, alla fine del processo e di una sequenza finale i cui stadi sono, grosso modo, i seguenti. Numero, quasi infinito, delle parole liberate dalla democrazia digitalizzata. Il web diventa una ressa, per non dire un pollaio, dove ognuno è saldo nella sua opinione, nella sua convinzione e sostiene la sua verità Il web diventa una ressa, per non dire un pollaio, dove ognuno è saldo nella sua opinione, nella sua convinzione e sostiene la sua verità. E, al fondo di una china resa inavvertibile dal rimbombo di quegli acufeni che sono i tweet, i retweet e i vari post con cui bombardiamo il web, ora, per questa nuova, recente verità, esigiamo il rispetto dovuto alla precedente. Si era partiti dall’idea che tutti hanno lo stesso diritto di esprimere la propria opinione, ora si arriva a dire che tutte le opinioni espresse hanno lo stesso valore. Un patchwork di certezze - Si è cominciato col chiedere: “ascolta, comprendi quello che dico”; poi è diventato: “qualunque cosa tu pensi, rispetta quello che dico”; e ora finisce con l’essere: “non venirmi a dire che un modo di pensare è superiore a un altro e che, in questo chiacchiericcio globalizzato in cui ci arrabattiamo per tenere il punto, ci sarebbe una scala delle verità”. Si pensava di democratizzare il coraggio della verità, caro all’ultimo Foucault; si pensava di dare a tutti gli amici della verità i mezzi tecnici perché anche loro potessero contribuire, con audacia e moderazione, alle avventure della conoscenza. Ma no! Questo è un banchetto! È il corpo della Verità quello che è stato messo sul tavolo! Si pensava di democratizzare il coraggio della verità, caro all’ultimo Foucault; si pensava di dare a tutti gli amici della verità i mezzi tecnici perché anche loro potessero contribuire, con audacia e moderazione, alle avventure della conoscenza E, mosso da un istinto cannibale, ognuno ha cominciato a smembrarlo! Ognuno si è confezionato un patchwork di certezze e sospetti con questi lacerti insanguinati e poi in decomposizione; ed ecco, poteva non risorgere, accanto all’eleganza dei greci, la perversità di quei famosi sofisti secondo i quali la verità è solo un’ombra incerta, l’uomo è la misura di tutte le cose, e la verità di uno vale esattamente come quella del vicino? A partire da questo, e visto che sono ospite di Google, propongo a Carlo D’Asaro Biondo, suo “presidente responsabile delle collaborazioni e delle relazioni strategiche”, tre idee concrete e, mi pare, abbastanza “strategiche”. Siamo tutti a un bivio - Una hall of shame, un Olimpo della vergogna che, in collaborazione con i 50, i 100 o i 200 più grandi giornali del mondo, elenchi, in tempo reale, le fake news più devastanti a livello globale. Un concorso che, sul modello delle accademie francesi del XVIII secolo da cui uscirono (scusate se è poco) i due Discorsi di Rousseau, inviti il popolo del web a proporre il testo, il video, l’opera che con la potenza della verità o dello scherzo inchiodi le notizie false più dannose - e, naturalmente, riconosca e premi il vincitore. E poi, due secoli e mezzo dopo Diderot, la compilazione di una nuova “Enciclopedia” - sì! Una vera enciclopedia! L’opposto, quindi, di Wikipedia e del suo brodo di scarsa cultura! Perché chi altro se non uno dei Gafa, queste imprese mondiali, ha il potere, se così decide, di riunire migliaia di veri e capaci studiosi, di tutte le discipline, di elaborare uno stato della conoscenza disponibile all’inizio del XXI secolo? Enciclopedia o ignoranza. Ricucire la trama della verità o rassegnarsi alla sua definitiva lacerazione. Addentrarsi sempre più nella Caverna, nella sua profusione oscura e vociferante o iniziare, forse, a uscirne. Non vorrei dare a questo seminario di Google più importanza di quello che merita. Ma potrebbe essere l’inizio di una presa di coscienza? Il segno che si sta rimettendo qualcosa in discussione, un’inversione di rotta? Potrebbe essere che faccia tornare in auge la responsabilità, nel bene e nel male? Nel distruggere come nel rimediare? Di disoperare il mondo e di rimetterlo al lavoro? Siamo tutti a un bivio. *Traduzione di Carla Reschia Cybersecurity. A Pisa il think tank nazionale sulla protezione del Paese di Raffaele Angius La Stampa, 14 febbraio 2019 Dal 13 al 15 febbraio il Cnr ospiterà la terza edizione del forum nazionale sulla sicurezza informatica organizzato dal Cini. Per l’inaugurazione ufficiale interverrà anche la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. Non poteva che essere il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa a ospitare Itasec, il forum italiano della sicurezza informatica rivolto ad aziende, pubblica amministrazione e hacker. Proprio nel luogo da dove l’Italia fece il suo primo ingresso su Internet, nel 1986, si incontreranno imprenditori, ricercatori e giovani geni dell’informatica, per condividere le proprie conoscenze e creare le basi per una discussione sul ruolo del Paese nel mondo cibernetico. I temi che hanno dominato la prima mattinata di sessioni e incontri sono già significativi: comunicazione nel mondo della cybersecurity, cura dei dati personali nelle pubbliche amministrazioni, gestione delle minacce informatiche. Ma è solo un’anticipazione prima dell’apertura ufficiale dei lavori, alla quale parteciperanno anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il vicedirettore generale del DIS della Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alla cybersecurity Roberto Baldoni e il presidente del Cnr, Massimo Inguscio. Organizzata dal Laboratorio Nazionale di Cyber Security del Cini - in collaborazione con il Cnr, la Scuola Imt Alti Studi di Lucca, le Università di Pisa, Firenze e Siena - la conferenza riunisce per il terzo anno consecutivo il mondo dell’innovazione e della protezione digitale del “sistema Paese”, per creare un “sistema di condivisione e di incontro tra privati e mondo accademico, che favorisca un balzo in avanti dell’Italia nell’affrontare le sfide poste dal mondo digitale”, ha spiegato a La Stampa Paolo Prinetto, presidente del Cini e tra i fondatori della Nazionale hacker italiana. Il filone principale della conferenza è dedicato alla scienza e tecnologia della cybersecurity, cui si affiancano workshop e tutorial riservati agli aspetti economici, politici e legali della sicurezza informatica, con una nutrita presenza di università e personalità del mondo accademico e dell’imprenditoria. Una novità rispetto alle edizioni passate è che, da quest’anno, si terrà anche uno Start-up day. Nell’occasione, ricercatori e aziende presenteranno progetti, prototipi e soluzioni di cyber security alla ricerca di investitori e partner. Ma Itasec diventa anche l’occasione per presentare il neonato Centro di Competenza in Cybersecurity Toscano (C3T), che svolgerà attività di ricerca e trasferimento tecnologico nel campo della sicurezza informatica. “Sforzo collettivo delle università più prestigiose del territorio, sostenuto dalla Regione Toscana, per garantire che i progetti di espansione dell’industria 4.0 siano sostenuti da un’adeguata protezione del nostro sforzo imprenditoriale”, ha spiegato Rocco De Nicola, fondatore del centro e ordinario della Scuola di Alti Studi di Lucca, che già aveva ospitato il ritiro della nazionale italiana di cyberdifesa. Uno sguardo al futuro inoltre sarà offerto anche dagli incontri tra gli esperti di sicurezza informatica e i ricercatori nell’ambito della fisica quantistica. “Per la prima volta in Italia, abbiamo chiesto a queste due realtà di confrontarsi su temi che, nel futuro, riscriveranno il modo in cui intendiamo la sicurezza informatica” - ha spiegato il dirigente di ricerca dell’Istituto di informatica e telematica del Cnr Marco Conti -. Sono queste le occasioni in cui si può lavorare sull’interpretazione di scenari futuri, oltre che sulla risoluzione di rischi già noti”. A proposito dei quali, gli organizzatori hanno anche previsto una speciale performance dedicata alla simulazione di un attacco alle infrastrutture energetiche del Paese. Scopo dell’iniziativa sarà quello di dare un esempio tangibile dell’importanza di proteggere le infrastrutture critiche che garantiscono la sicurezza e il benessere dei cittadini. Itasec 2019 sarà anche un’occasione importante di manifestare unità a livello nazionale nel chiedere maggiori investimenti nell’ambito della sicurezza informatica. “Servono fondi e incentivi affinché pubbliche amministrazioni e infrastrutture critiche siano adeguatamente protette - ricorda Paolo Prinetto -. Noi facciamo la nostra parte facendo divulgazione e creando momenti di incontro tra privati e accademie, dai quali spesso hanno origine sinergie virtuose e occasioni commerciali. Tuttavia è solo un piccolo inciso nel sistema informatico del Paese: da quando un bambino si collega a Internet per la prima volta a quando completa gli studi universitari, è necessario che riceva strumenti adeguati per essere sempre protetto e al sicuro”. Un po’ come l’Italia, che proprio qui, trentadue anni fa, si collegava la prima volta al futuro. Cannabis terapeutica, corsa alla produzione. Ma in Italia è di Stato di Daniela Passeri Il Manifesto, 14 febbraio 2019 Un “conclave” al summit di Davos sugli effetti benefici della pianta. E in Italia molte regioni si candidano alla produzione per uso terapeutico. La scienza ufficiale esprime riserve, pone interrogativi, sollecita ulteriori verifiche e studi clinici sull’uso terapeutico della Cannabis. A richiederla in quantità sempre maggiori sono quei pazienti con patologie anche gravi che l’hanno sperimentata (si può fare dal 2006) e ne hanno tratto benefici maggiori rispetto ad altri farmaci, e con effetti collaterali trascurabili, senza rischi di dipendenza. La grande finanza se ne è accorta: al Forum economico mondiale di Davos, il 24 gennaio scorso, è stato organizzato un Cannabis Conclave, dato che la domanda dei pazienti nei maggiori paesi europei (Italia, Germania e Olanda) nel 2019 dovrebbe raddoppiare. Negli Usa anche Big Tobacco sta investendo nella Cannabis terapeutica e nutraceutica e fa lobby per allentare le maglie del proibizionismo. Se l’uso terapeutico della Cannabis Sativa, o dei cannabinoidi, è relativamente poco documentato negli studi clinici è dovuto al fatto che si tratta di una pianta che dal 1961 è considerata illegale: il proibizionismo ha fortemente limitato il suo uso in medicina. La scoperta, negli anni 90, del sistema endocannabinoide nel cervello e in altre parti dell’organismo ha riacceso l’interesse della scienza: ora conosciamo i meccanismi con i quali i fitocannabinoidi, in particolare i due più studiati, il THC (delta-9-tetraidrocannabinolo, sostanza psicotropa) e il CBD (cannabidiolo, non psicotropo) agiscono e come possiamo utilizzarli per trattare una serie di sintomi e malattie, in Italia fissati per decreto ministeriale (9/11/2015): dolore cronico e dolore associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale; nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per Hiv; come stimolante dell’appetito nei casi di cachessia, anoressia e ai pazienti oncologici o affetti da Aids; come trattamento ipotensivo nel glaucoma; per la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. Di cannabinoidi, però, ne esistono almeno altri 80 e i derivati della Cannabis nel loro complesso sembrano efficaci per trattare altre malattie, tra cui epilessia, fibromialgia, patologie autoimmuni, ansia, artrosi, non ancora riconosciute per legge. “Attenzione: non è una panacea, non è un farmaco meraviglioso - dice uno dei decani dell’uso della Cannabis terapeutica per il trattamento del dolore cronico, il prof. Paolo Poli, presidente di Sirca, Società italiana ricerca Cannabis - esiste una variabilità genetica tale in noi esseri umani che in alcuni pazienti funziona, e in altri no, come succede per tutti i farmaci. Detto questo, è una terapia che stiamo sperimentando: serve molta ricerca clinica - che non viene fatta - e il trattamento è complicatissimo”. La complicazione deriva dal fatto che anche la Cannabis Sativa ha una grande variabilità genetica, quindi da piante molto simili si possono estrarre preparati con le stesse percentuali di Thc e Cbd ma che danno risposte differenti “perché è il fitocomplesso che agisce, non le singole componenti. Nel fitocomplesso sono presenti anche terpeni, flavonoidi e altri cannabinoidi che vanno a influire sulla risposta del paziente”. Per i pazienti sui quali funziona, curarsi con la Cannabis non è semplicissimo. Nel 2017 e nel 2018 alcune associazioni (come Luca Coscioni, InFioreScienza in Liguria) hanno denunciato forniture a singhiozzo. Per chi invece vuole iniziare la terapia, la lista di attesa può durare anche sei mesi (la situazione nelle regioni è varia e in evoluzione). La scarsità è dovuta al fatto che la quantità di Cannabis per uso terapeutico distribuita alle Asl e agli ospedali è predeterminata anno per anno dal ministero della Salute sulla base del fabbisogno indicato dalle Regioni, che si rivela spesso sottostimato. Sono circa 30 mila le persone che in Italia ne fanno uso terapeutico, per un fabbisogno di 1 tonnellata l’anno, mentre le previsioni per il 2022 e 2025 parlano di un fabbisogno di 3 e 4 tonnellate. Oggi la domanda viene soddisfatta in minima parte dalle coltivazioni dello Stabilimento chimico farmaceutico militare (Scfm) di Firenze, del ministero della Difesa, l’unica struttura autorizzata (nel 2019 ne produrrà 350 kg, nel 2018 ne ha prodotti 150 kg), mentre la maggior parte (altri 700 kg) viene importata, tramite il ministero della Salute olandese, dalla ditta Bedrocan che negli ultimi anni non sempre è riuscita a far fronte a tutte le richieste, dal momento che vari paesi europei hanno regolamentato il settore nello stesso periodo, facendo esplodere le richieste. Un’ulteriore partita di 100 kg sarebbe dovuta arrivare dal Canada da Aurora, l’azienda che aveva vinto un bando del nostro ministero della Salute, però non è riuscita a rispettare i rigorosi standard di qualità richiesti. La quota di Cannabis che proviene dall’estero viene gestita per metà direttamente dagli ospedali che hanno la licenza per importarla, per metà da 6 ditte farmaceutiche importatrici che distribuiscono le infiorescenze su tutto il territorio nazionale, in base alle richieste delle Asl. Alessandro Pastorino, titolare di FL Goup di Pietra Ligure, uno dei 6 importatori, ci spiega che le forniture vengono distribuite in modo equo: “Non c’è un motivo pratico per cui una regione riceva più o meno prodotto, ma è vero che nelle regioni esistono maggiori o minori competenze e capacità di gestione e programmazione, anche da parte di farmacisti e medici. Direi che è normale in un mercato nuovo, dove si sta cercando di costruire una filiera”. Certo è che la produzione va incrementata. “Mi domando come mai qui in Italia le gare sono bloccate, perché è tutto fermo - dice il professor Poli - ci sono fior di cordate italiane ed estere disposte ad entrare nel Scfm di Firenze che ci assicura un prodotto di altissima qualità”. Anche diverse Regioni e città si sono candidate per avviare la coltivazione di Cannabis, mentre le associazioni di produttori di canapa premono per rompere il monopolio dello Stato su un prodotto che poi viene acquistato all’estero da aziende private. Un mese fa il ministero della Difesa ha pubblicato un avviso pubblico di pre-informazione per la realizzazione di serre per ampliare lo Scfm. Per vederle in produzione ci vorranno almeno un paio d’anni. Tra i vantaggi dell’uso terapeutico della Cannabis, Poli sottolinea il fatto che costa meno di altre terapie, se poi la produzione nazionale dovesse aumentare i costi si ridurrebbero ulteriormente. Una terapia standard può costare sui 70 euro al mese: una volta accertato che il paziente risponde bene, si fa un piano terapeutico e il paziente passa a carico del sistema sanitario. Tutti gli esperti insistono sulle garanzie di qualità e purezza: la Cannabis non è tutta uguale e quella per uso medico deve essere coltivata in soluzione idroponica e non nel terreno, dal quale potrebbe assorbire metalli pesanti (infatti è usata per la fitodepurazione di terreni inquinati), e in serra per non essere contaminata da pesticidi. “Per questi motivi siamo contrari all’auto-coltivazione - precisa Poli - i pazienti che ricorrono al fai-da-te possono avere grossi problemi, soprattutto perché, lo ripeto, le dosi esatte dei diversi cannabinoidi sono fondamentali per l’efficacia della terapia, e non sono determinabili da chi la coltiva in casa”. Lo sanno bene i farmacisti: poiché non esistono farmaci registrati a base di Cannabis (a parte il Sativex, costosissimo e pare già superato), la terapia si fa assumendo per decotto o inalazione (con apposito apparecchio) un preparato magistrale che viene fatto in farmacia a partire da infiorescenze inscatolate con le dosi indicate dalla prescrizione medica. Su ciascun flacone il farmacista deve fare un’analisi che certifichi il contenuto dei fitocannabinoidi: nel suo piccolo il farmacista deve fare quello che fa l’industria farmaceutica (e infatti sono pochi a farlo, un centinaio di farmacie su 18 mila). In Germania per semplificare la vita ai farmacisti è autorizzata la vendita di semilavorati a base di Cannabis, già certificati, pronti da diluire. La Cannabis sta dunque tornando a grandi passi nella farmacopea, dopo una storia millenaria e decenni di olbio, con tutti i distinguo rispetto all’uso ricreativo, in particolare per gli adolescenti. “Vediamo tante persone che hanno fatto uso di Cannabis ricreativa da giovanissimi, dai 14 ai 20 anni, nel periodo dello sviluppo della plasticità cerebrale, con grossi problemi psichiatrici - dice Poli - Certo, la Cannabis non ha mai ammazzato nessuno, la dose letale è di 6 kg, però in quella fase dello sviluppo può fare danni enormi”. Sri Lanka. “Cercasi boia per impiccare gli spacciatori”. Lo stipendio? 180 euro al mese La Repubblica, 14 febbraio 2019 Il profilo ideale dei candidati è: maschio, tra i 18 e i 45 anni, con alta moralità e forza mentale. Le esecuzioni capitali per i trafficanti di droga riprenderanno entro due mesi. Nei bracci della morte 1.300 detenuti. Nello Sri Lanka si cercano boia per impiccare i condannati a morte per droga: è l’annuncio che si legge sui giornali dell’isola, dopo che il presidente Maithripala Sirisena ha deciso di riprendere le esecuzioni - sospese da 43 anni - solo per i trafficanti di stupefacenti. La ricerca dei candidati “ideali” dovrà svolgersi piuttosto in fretta, dato che le impiccagioni - così ha garantito il presidente - riprenderanno entro due mesi. Sui giornali si legge che il sistema penitenziario è alla ricerca di due carnefici, dopo che l’ultimo boia dell’isola si è licenziato nel 2014. Senza mai aver impiccato nessuno, egli si è ritirato dal lavoro adducendo che la vista della forca gli procurava disturbo traumatico da stress. Impiccare le persone per 180 euro al mese. Secondo il Daily News, che pubblica l’annuncio sulle pagine degli inserzionisti, lo stipendio mensile del nuovo impiegato statale sarà di 36.310 rupie (180 euro). Il profilo ideale del candidato deve rispettare i seguenti requisiti: maschio, tra i 18 e i 45 anni, con “eccellente indole morale” e “forza mentale”. Thushara Upuldeniya, responsabile delle carceri del Paese, fa sapere che i colloqui si svolgeranno il mese prossimo. Il presidente Sirisena “contagiato” da Duterte nelle Filippine. Nel 1976 in Sri Lanka è entrata in vigore una moratoria sulla pena di morte. Da quell’anno sono state condannate alla pena capitale 1.299 persone. L’impiccagione è prevista per diversi crimini, come il traffico di stupefacenti, l’omicidio e lo stupro. Finora però le sentenze sono rimaste sospese e i condannati in carcere. Tra questi, solo 48 sono colpevoli di crimini legati allo spaccio; in 30 hanno chiesto la revisione della sentenza. Per sua stessa ammissione, la scelta del presidente Sirisena (il cui nome completo è Pallewatte Gamaralalage Maithripala Yapa Sirisena) è stata maturata dopo una visita nelle Filippine lo scorso gennaio, dove egli ha incontrato Rodrigo Duterte. Il presidente filippino è “campione” di una feroce guerra alla droga, che finora ha causato circa 5mila morti ufficiali, e l’imposizione della legge marziale a Mindanao, nel sud del Paese. Australia. Primo ministro riapre controverso centro di detenzione di Silvia Guzzetti Avvenire, 14 febbraio 2019 Duro scontro tra governo conservatore e opposizione laburista sulle politiche migratorie. Premier in polemica con il parlamento che vuole accogliere i rifugiati di Manus e Nauru. Il premier australiano Scott Morrison ha annunciato la riapertura del controverso centro di detenzione per migranti sull’isola di Natale, territorio remoto a circa 2.300 chilometri da Perth. Le autorità locali hanno tuttavia contestato la sua decisione dicendo che le strutture sanitarie del centro sono limitate e inadeguate e che devono regolarmente evacuare pazienti perché l’ospedale non è in grado di garantire cure complesse. Morrison ha giustificato la sua scelta dicendo che nuove leggi appena approvate dal parlamento aumenterebbero il numero di migranti illegali. Martedi e mercoledì, infatti, i legislatori hanno deciso di ignorare gli avvertimenti del governo e di adottare nuove leggi che aprono le porte ad alcuni dei mille rifugiati detenuti nei centri di Manus e Nauru, in condizioni condannate dalle Nazioni unite e dalle organizzazioni per i diritti umani. Sarà sufficiente la richiesta di due o più medici a consentire ai migranti di lasciare i due centri di detenzione dove una decina di persone sono già morte e altre hanno tentato il suicidio tra le quali anche dei bambini. Scontro sui migranti in vista delle elezioni di maggio - È la prima volta in decenni che un governo australiano perde il voto su una propria legislazione alla Camera dei rappresentanti, un conflitto che preoccupa il premier atteso alla prova delle elezioni generali il prossimo maggio. Le dure politiche anti immigrazione del partito conservatore al governo sono state criticate dall’opposizione laburista. Lo scontro, in vista delle prossime elezioni, durerà per settimane. I laburisti, favoriti nei sondaggi, hanno accusato Morrison di giocare sulla paura dei migranti per accumulare voti. “Garantire accesso a cure mediche adeguate per rifugiati e richiedenti asilo è un atto umanitario”, ha dichiarato Louise Aubin, rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di Canberra. Il centro sull’isola di Natale ha ospitato in passato migliaia di persone ed è stato teatro di proteste violente di detenuti costretti a vivere in condizioni durissime. Gli ultimi 35 hanno lasciato l’isola lo scorso ottobre quando il campo di detenzione è stato chiuso. Filippine. Arrestata la reporter odiata dal presidente di Sara Volandri Il Dubbio, 14 febbraio 2019 La giornalista filippina Maria Ressa è un personaggio molto noto in patria e stimata anche all’estero, tanto che nel 2018 è stata nominata assieme ad altri colleghi “persona dell’anno” dal settimanale americano Time, come simbolo dei reporter “in pericolo”, che lavorano in teatri di guerra o vittime della censura dei regimi. La Ressa rappresenta il secondo caso. E dopo tanti allarmi è stata arrestata nel suo ufficio di Manila per “diffamazione”. Un arresto che tutte le associazioni di difesa dei diritti umani hanno definito come un “atto di persecuzione”. Non ci vuole un fine politologo per capire che si tratta di una ritorsione da parte del presidente-padrone Rodrigo Duterte che la giornalista aveva più volte con inchieste e articoli, in particolare sul periodo in cui Duterte era governatore di Mindanao e mise in campo i famigerati squadroni della morte per combattere il traffico di droga. Tutto documentato e denunciato dal sito web fondato da Maria Ressa, Rappler, che ha pubblicato diversi report sulla feroce repressione dei trafficanti di droga che ha causato migliaia di morti tra presunti spacciatori e consumatori dal 2016. Il sito rischia ufficialmente la chiusura per precedenti accuse di evasione fiscale che coinvolgono anche la Ressa ma per gli oppositori di Duterte e per le ong internazionali, Amnesty International in primis, si tratta di accuse palesemente posticce. “Non ci facciamo intimidire, non ci sono casi legali, propaganda o menzogna che possono mettere a tacere mettere a tacere i giornalisti filippini. Queste acrobazie legali mostrano fino a che punto sia arrivato il governo per mettere a tacere la stampa, inclusa la meschinità di costringermi a passare la notte in prigione”, ha dichiarato la giornalista davanti le telecamere che documentavano il suo arresto. Bahrein. Otto anni di repressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 febbraio 2019 Il 14 febbraio 2011 la “rivolta di San Valentino” incendiava il Bahrein. Dalla Rotonda della Perla, al centro della capitale Manama, si levavano le richieste comuni alle contemporanee proteste delle piazze arabe: giustizia, libertà, democrazia, dignità. Poche settimane dopo, di gran carriera, le truppe dell’Arabia Saudita percorsero i 24 chilometri dell’autostrada che collega i due paesi e avviarono una sanguinosa repressione, portata avanti senza sosta negli anni successivi dalle forze di sicurezza locali. Oggi la situazione resta drammatica. Lo spazio per le libertà d’espressione, associazione e manifestazione è pari a zero, non esistono più opposizioni politiche organizzate, il movimento per i diritti umani è in esilio o in carcere e chi osa protestare (compiendo dunque un reato) rischia di essere ucciso o, se va bene, di finire in carcere. Nelle carceri la tortura è diffusa e ai prigionieri vengono negate le cure mediche. Le norme antiterrorismo hanno creato di fatto un sistema giudiziario parallelo, in cui è possibile anche che imputati civili siano processati in corte marziale. Centinaia di oppositori sono stati sanzionati con la privazione arbitraria della nazionalità. Protetta dagli Usa e dalla Gran Bretagna, la famiglia reale continua a non pagare alcun prezzo per questa spietata repressione e s’impegna, spesso con successo, a rafforzare la sua reputazione attraverso partecipazioni a eventi mondani, l’organizzazione di eventi sportivi internazionali (come il Gran premio automobilistico di Formula 1) od opere di “mecenatismo”. L’ultima ci riguarda decisamente da vicino. All’università di Roma “La Sapienza” c’è una cattedra intitolata “Re Hamad per il dialogo inter-religioso e la coesistenza pacifica”. Il titolare è il professor Alessandro Saggioro. Il “Re Hamad” che compare nel titolo della cattedra è Sua Maestà il re del Bahrain amad bin Isa Al Khalifa, non esattamente un esempio virtuoso di dialogo e coesistenza. Germania. Arrestati due 007 siriani per le torture agli oppositori del regime di Assad di Walter Rauhe La Stampa, 14 febbraio 2019 “Crimini contro l’umanità”. Due cittadini siriani di 42 e 56 anni appartenenti ai famigerati servizi segreti del Gid sono stati arrestati lunedì sera in Germania in quanto sospettati di aver ordinato e anche di aver anche preso parte personalmente alle torture e uccisioni di migliaia di oppositori al regime di Assad tra il 2011 e 2012. È la prima volta in assoluto che la procura federale tedesca ha emesso un mandato di cattura nei confronti di cittadini stranieri per crimini contro l’umanità compiuti al di fuori della Germania. Una storia iniziata nel 2012 Anwar R. Era responsabile di un reparto dell’intelligence siriana a Damasco incaricata di identificare e arrestare disertori, giornalisti e oppositori di Assad e di rinchiuderli poi in un carcere della Gid dove, all’apice delle proteste contro il regime, vennero torturate oltre 2000 persone. L’accusa nei confronti dell’ufficiale è quella di aver compiuto crimini contro l’umanità. Eyad A. è invece sospettato di aver condotto personalmente torture e di essere responsabile dell’uccisione nel carcere di almeno due detenuti politici. Un terzo uomo siriano, anche lui appartenente ai servizi segreti di Assad, è stato arrestato sempre lunedì in Francia nell’ambito di un’indagine condotta dalla procura tedesca insieme a quella francese e durata per oltre due anni. “Chi compie crimini contro l’umanità ed è responsabili di violenze inaudite e della soppressione dei diritti civili e umani deve sapere di non poterla mai fare franca”, ha dichiarato ieri la ministra della giustizia tedesca Katarina Barley esprimendo la sua soddisfazione per il successo dell’operazione. “Le atrocità compiute dal regime di Assad non resteranno impunite”, ha aggiunto la ministra socialdemocratica. Alla fine del 2012 i due ex ufficiali dell’intelligence siriana lasciarono il loro Paese per recarsi in Germania, dove avanzarono regolarmente richiesta di asilo politico dichiarandosi alle autorità come oppositori al regime di Assad, e non furono immediatamente identificati. Ma dopo il 2015, quando centinaia di migliaia di siriani approdarono in Germania grazie alle politiche di apertura della cancelliera Merkel, alcuni ex dissidenti e oppositori di Assad riconobbero nei due i propri torturatori, e li denunciarono alla polizia tedesca. Solo alla fine di una lunga e difficile indagine con raccolte di prove e documenti le procure di Germania e Francia hanno potuto concludere gli arresti.