La riforma del carcere nel nome di Margara di Stefano Anastasia Il Manifesto, 13 febbraio 2019 Sul finire della sua vita intensa e appassionata, Alessandro Margara - che venerdì e sabato scorso è stato ricordato in un affollatissimo convegno promosso da Franco Corleone, suo successore alle funzioni di Garante dei detenuti della Regione Toscana - usava parlare del “carcere dopo Cristo”, dopo il suo congedo, quando la speranza sembrava aver abbandonato, se non i sentimenti di coloro che lo abitano, quantomeno l’indirizzo politico-amministrativo. Si potrebbe a lungo discutere se mai c’è stato un carcere “giusto”, non discriminatorio nella selezione dei suoi ospiti, universalmente aperto alla prospettiva del reinserimento sociale dei condannati, così come l’avrebbe voluto Margara e come dice l’articolo 27 della Costituzione. Certo è che il carcere di cui scriveva Margara non è dissimile da quello di oggi: 60mila detenuti, un terzo di stranieri per reati minori, metà direttamente o indirettamente riferibili alla legislazione sulla droga, il 60% dei condannati con una pena da scontare che potrebbe consentire l’accesso alle alternative, ma che viene costretto in carcere fino all’ultimo dei suoi giorni di pena. Non potendosi pronunciare, nelle procedure giudiziarie, parole apertamente incostituzionali, tipo quelle proferite dal ministro dell’interno pro tempore in occasione della traduzione in Italia di un condannato a lungo latitante (“deve marcire in galera”), oggi come allora il “carcere dopo Cristo” si affida a retoriche genericamente legalitarie, ma a prassi concretamente discriminatorie, come gli imprenditori politici della paura e una società incattivita vogliono che sia. Questo abuso discriminatorio della legalità passa - non da oggi - dall’uso retorico di una formula, la “certezza della pena”, che contiene in sé una doppia confusione: tra certezza della pena e certezza del diritto e tra certezza della pena e certezza della pena detentiva. L’aspirazione alla certezza del diritto è indubbiamente un valore imprescindibile della sua funzione sociale: ne va della sua prevedibilità, necessaria a orientare comportamenti conformi così come a giustificare la sanzione di comportamenti difformi. Ma la legittima aspirazione alla certezza del diritto non è sovrapponibile alla richiesta certezza della pena. La pena, infatti, è solo l’ultima delle possibili conseguenze dell’applicazione del diritto in materia penale, al netto della irrilevanza penale del fatto, della messa alla prova dell’imputato, della prescrizione del reato, dell’assoluzione dell’imputato, della prescrizione della pena, tutte soluzioni che corrispondono al valore e alla funzione della certezza del diritto, ma non a quella della certezza della pena. La seconda confusione è quella tra certezza della pena e certezza della pena detentiva, contro la pluriformità delle modalità esecutive della pena e il principio del carcere come “extrema ratio”. Nell’atto di indirizzo per il 2019 del ministro della Giustizia Bonafede la certezza della pena viene definita come la “effettiva corrispondenza tra la pena oggetto di condanna definitiva e il percorso dell’esecuzione penale”. Conseguentemente, nel decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario ogni riferimento alle alternative alla detenzione è stato sciaguratamente cancellato. Corollario di questa concezione della pena carcerocentrica è l’eterno ritorno dell’identico: un bel piano di edilizia penitenziaria, che - se mai si dovesse realizzare - non risolverà l’inevitabile sovraffollamento, ma lo alimenterà, mettendo a disposizione un maggior numero di carceri da riempire. Oggi, con la mobilitazione della società civile, l’impegno istituzionale degli enti territoriali e la fedeltà alla Costituzione degli operatori del diritto si può e si deve evitare una nuova catastrofe umanitaria nelle carceri italiane. In tempi di giustizialismo disumano la sfida si chiama giustizia riparativa di Tania Careddu Left, 13 febbraio 2019 In una realtà carceraria come quella italiana che, nell’ultimo decennio, è stata il contenimento dei danni di leggi perniciose come la Fini-Giovanardi (sulle droghe) e la Bossi-Fini (sull’immigrazione) e dove, invece, la reclusione per reati economico-finanziari è pari allo 0,4 per cento, l’unico paradigma applicabile, per evitare che un detenuto su quattro, terminata la pena, non sappia dove andare, è la giustizia riparativa. Se ne è parlato a Roma, qualche giorno fa, al convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”. La quale è un modello che si prende cura dell’autore del reato, della vittima e della comunità coinvolta, abbassando, così, la conflittualità sociale e prevenendo nuovi illeciti. Ricercando, per dirla con (uno dei suoi fondatori) Howard Zehr, “una soluzione che promuove la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”: deve essere riconosciuto e valorizzato il ruolo attivo delle vittime, superata la solitudine del reo e costruita una comunità che ripara e mette al riparo, restituendo attenzione alla dimensione personale e sociale che investe il crimine. “Non è semplice, in questa fase della politica e della società, in cui giustizialismo, assolutezza della pena, legittima difesa sono il suono maggioritario, parlare di giustizia riparativa, recupero del condannato, inclusione e reinserimento sociale del reo”, dice a Left, la consigliera regionale del Lazio, Marta Bonafoni, che ha contribuito ai lavori del convegno. Di fronte al giustizialismo scatenato, di cui i ministri della Repubblica si fanno fieri portatori, bisogna sventolare l’articolo 27 della Costituzione e i principi dello Stato di diritto. “Alla logica del “buttiamo la chiave”, che nei programmi dell’attuale governo prevede una moltiplicazione infinita di queste “chiavi”, con la spinta decisa alla costruzione di nuove carceri - continua Bonafoni - occorre contrapporre la forza paziente di altre parole”. Mediazione, umanizzazione, pene alternative, giustizia riparativa, appunto, che “seppur non rinunciando a una gerarchia netta tra vittime e autori di reato, cerca di coinvolgerli entrambi nel recupero, con l’obiettivo di produrre un avanzamento per tutti, comunità di appartenenza compresa”. Senza distinzioni né capri espiatori. Neppure se qualcuno si fosse macchiato del peggiore dei reati. “Esiste una recentissima data spartiacque in questa battaglia a difesa dello Stato di diritto: il 13 gennaio scorso, il giorno dell’arresto di Cesare Battisti e della sua esposizione al pubblico ludibrio, in barba all’ordinamento penitenziario, al codice penale nonché ai diritti e alla dignità dell’essere umano”, sostiene Marta Bonafoni. Che chiosa: “Per uscire dall’angolo di questa visione di giustizia (feroce) è necessario sostituire all’ideologia di una sicurezza vuota, la ricerca caparbia e tenace della sicurezza sociale oltreché raccontare gli effetti positivi del recupero dei detenuti attraverso la misurazione dell’impatto dei percorsi inclusivi”. Primo fra tutti, il dato sulle recidive, che scende dal 70 al 20 per cento in presenza di progetti di riconciliazione e di reinserimento dei reclusi. All’opposto di quanto accade con l’approccio meramente giustizialista e punitivo: un’afflizione dagli esiti alienanti. Pioggia di insulti contro Palma sulla pagina Facebook del Sappe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2019 Mauro Palma preso di mira dopo aver pubblicato il rapporto sul regime del 41bis. “Non mi stupirei se si scoprisse che è stipendiato da qualche mafia”; “ammazzati indegno”; “spero ti ammazzano un figlio”; “ma perché non ti fai ammazzare coglione”; “sei un fango”, “vai a cagare stronzo”, “garante della mafia”. È solo un parte dei commenti apparsi sotto un articolo postato sulla pagina Facebook della “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza” che riportava le criticità del 41bis denunciate - tramite un rapporto indirizzato alle autorità competenti - dal garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. La quasi totalità dei commenti prefiguravano ipotesi di reato che andavano dalla diffamazione alla minaccia di morte. Commenti che per giorni non sono stati rimossi dal Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari, fino a quando Mauro Palma non ha esposto denuncia. Ieri, infatti, i titolari della pagina hanno rimosso il post. Il Sappe ha mandato un comunicato spiegando che sulla loro pagina Facebook è stato pubblicato un articolo circa il “Rapporto sul regime detentivo del 41bis” redatto dalla citata Autorità di Garanzia e controllo e “a seguito di numerose segnalazioni pervenute su alcuni commenti all’articolo la Redazione, verificatone il non condivisibile ed inappropriato contenuto, ha deciso di rimuovere il post”. Al riguardo “Polizia Penitenziaria Società, Giustizia e Sicurezza” ha voluto precisare di prendere le distanze dai contenuti dei commenti al post, che rispecchiano esclusivamente l’opinione di coloro che li hanno scritti. “Al contrario - continua il comunicato -, si è voluta cogliere l’occasione per esprimere stima ed apprezzamento nei confronti del Prof. Mauro Palma, che si ritiene essere personaggio di alto profilo umano e professionale”. Di tutto si è dato conto in un nuovo post pubblicato ieri sulla stessa pagina Facebook. Sull’accaduto è intervenuta anche la camera penale di Roma e la sua commissione carcere esprimendo piena solidarietà al Garante chiedendo un intervento urgente del ministero della giustizia e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria auspicando “che adottino tutti gli opportuni provvedimenti al fine di evitare il ripetersi di fatti così gravi, che stridono irrimediabilmente con la funzione costituzionale della pena e col mandato di coloro che sono preposti a vigilare sulla sua esecuzione”. Ricordiamo che si tratta di un rapporto relativo all’anno 2016 - 2018 dove sono diverse criticità intorno al 41bis e molte sono le raccomandazioni che lo stesso Garante ha rivolto agli istituti penitenziari nazionali. Tre le problematiche principali. Una riguarda la questione delle cosiddette “Aree riservate” presenti all’interno delle sezioni speciali che sono, in sostanza, un doppio 41bis. Tali sezioni sono separate dalle altre che accolgono le persone sottoposte a tale regime e sono destinate alle figure ritenute apicali dell’organizzazione criminale di appartenenza. Attualmente esistono 14 “Aree”, distribuite in 7 Istituti, al cui interno vi sono ristrette 51 persone (di cui solo 30 di 21 di esse sono in posizione giuridica definitiva). Dubbi e raccomandazioni arrivano anche in relazione ai momenti di cosiddetta socialità binaria. Si tratta di quei casi in cui un altro detenuto viene collocato nell’Area riservata al solo fine di fare “compagnia” al carcerato ivi ristretto, ma in questo modo finendo per determinare anche l’isolamento del primo, con grave ed inevitabile violazione dei diritti alla persona. L’altra problematica è il rischio di automatizzarsi il rinnovo della proroga del 41bis, mentre invece - come recitano diverse sentenze della corte costituzionale - le proroghe vanno valutate caso per caso. La terza problematica principale è il fatto che in alcuni istituti penitenziari l’adozione delle regole interne risultano eccessivamente dettagliate su aspetti quotidiani che vanno anche oltre le già minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017, su cui peraltro il Garante stesso aveva espresso a suo tempo alcune riserve. Garante, insulti, galera di Maurizio Crippa Il Foglio, 13 febbraio 2019 Le patrie galere erano sovente posti non commendevoli anche prima del televoto, ma la deriva del parlare perché si ha la bocca, incattivita dal clima generale, cioè usare la bocca solo per mordere e sputare, è riuscita a peggiorare anche il clima delle patrie galere. Succede che esiste un Garante nazionale per i diritti dei detenuti, istituito dopo che la sentenza europea Torreggiani aveva posto sotto gli occhi di tutti le condizioni di molti, non tutti, gli istituti carcerari italiani. Bene, anzi male, succede che il Garante dei detenuti, professor Mauro Palma, tra l’altro uno dei fondatori dell’Associazione Antigone, abbia pubblicato uno scritto in cui dà conto, in modo documentato e critico, delle condizioni dei detenuti in regime di 41bis. E che per averlo fatto, cioè per aver esercitato le sue funzioni, sia stato coperto da insulti, e da minacce, da parte di operatori del carcere, anche attraverso gli organi informativi ufficiali di un sindacato della polizia penitenziaria. Frasi così: “Ma vaffanculo delinquente legalizzato”, “Lui dovrebbe andare al 41ter”, “Garante di delinquenti”, “Sei un fango”, “Anche tu che li difendi dovresti essere chiuso”, “Prendete questo garante e mettetelo una settimana in mezzo a queste persone”, “Vai a lavorare come si deve”, “Pancio Villa per i delinquenti”. E a Pancio (sic) Villa dei delinquenti ci fermiamo, ma si potrebbe andare avanti. E forse non sarà colpa del televoto. Ma di una politica che considera il carcere solo come una discarica senza uscita, senz’altro sì. La solidarietà dell’Unione Camere Penali al Garante dei detenuti camerepenali.it, 13 febbraio 2019 Vergognoso attacco al Garante Prof. Mauro Palma, sulle pagine dell’organo ufficiale del Sappe, Sindacato della Polizia penitenziaria. È un attacco alla Costituzione. Il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap prendano immediati provvedimenti. La risposta dell’Unione con il proprio Osservatorio Carcere. Gli insulti e le minacce al Garante Nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, nella persona del dott. Mauro Palma, apparse sulla pagina Facebook “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza”, organo ufficiale del Sappe, noto sindacato della Polizia Penitenziaria, non solo ci indignano, ma ci preoccupano fortemente. Leggere, al post relativo al pregevole rapporto sulle condizioni dei detenuti al 41bis, commenti, quasi tutti provenienti da operatori penitenziari, come “Ma vaffanculo delinquente legalizzato”, “Lui dovrebbe andare al 41 ter”, “garante di delinquenti”, “Sei un fango”, “anche tu che li difendi dovresti essere chiuso”, “Vai a cagare stronzo”, “Buffone vatti a buttare da uno strapiombo, cretino” “Prendete questo garante e mettetelo una settimana in mezzo a queste persone”, “Vai a lavorare come si deve”, “Pancio Villa per i delinquenti”, “Ma perché non ti fai ammazzare coglione”, “Ma chi cazzo lo a messo questo stupido”, “Ma vai a cagare garante dei miei stivali”, “Ma che vada in Africa anche lui”, “Mettete al 41bis il garante”, “Non mi stupirei se si scoprisse che è stipendiato da qualche mafia”, “Ammazzati indegno”, “Spero ti ammazzino un figlio”, “Questo garante parassita è molto pericoloso”, “fai solo pena....vomitevole che nessuno prenda provvedimenti... verso un soggetto così vomitevole”, “Ma chi cazzo si crede di essere questo camoscio” “vergognosamente schifoso... non è che è pure garante della mafia?” fino al ministeriale “Devono marcire in galera”, ci inquieta! La figura del Garante Nazionale, istituita anche in risposta alla Sentenza “Torreggiani” che ha visto il nostro Paese condannato per le condizioni inumane della detenzione, rappresenta una garanzia non tanto per i detenuti, ma per il rispetto della Costituzione e della dignità della persona all’interno delle nostre carceri. Oltre ad esprimere la sincera solidarietà a Mauro Palma ed ai suoi collaboratori, denunciamo con forza la vile aggressione proveniente da alcuni uomini in divisa, auspicando che il Ministero della Giustizia ed il Dap procedano ad un doveroso approfondimento al fine di verificare - qualora si accerti la qualificata appartenenza alla polizia penitenziaria o comunque di operatori del settore degli autori delle offese - la sussistenza o meno di profili quantomeno di natura disciplinare oltre che il monitoraggio nelle strutture ove svolgano eventualmente servizio e la opportunità che continuino ad operare con le stesse funzioni. Chi opera in un carcere, come ricordato da Papa Francesco durante il recentissimo incontro con il personale di “Regina Coeli”, non deve solo “garantire la custodia, l’ordine e la sicurezza dell’istituto”, ma spesso anche “fasciare le ferite di uomini e donne che incontrate quotidianamente” perché “nessuno può condannare l’altro per gli errori che ha commesso, né tantomeno infliggere sofferenze offendendo la dignità umana. Le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi di violenza e di illegalità, dove imperversano le cattiverie umane”. Questo ennesimo episodio di intolleranza e di violenza verbale dimostra quanto sia necessario l’attività di monitoraggio sulle condizioni delle nostre carceri offrendo, così, alla società “civile” posta “al di qua delle sbarre”, una corretta e responsabile conoscenza, in difesa della Costituzione e dello Stato di diritto. La Giunta Unione Camere Penali L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Stop prescrizione, c’è l’emendamento giustizianews24.it, 13 febbraio 2019 Bonafede gongola, la Lega temporeggia e i penalisti proclamano lo stato di agitazione. Da un lato c’è il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che pigia col piede sull’acceleratore per far sì che il blocco della prescrizione diventi legge. Dall’altro lato ci sono loro gli avvocati che, tenendo fede all’impegno rinnovato all’ultimo Congresso dell’Unione delle Camere penali italiani di lottare per difendere gli ultimi e i loro diritti, alzano la voce contro il progetto del Guardasigilli e proclamano lo stato di agitazione. Al centro ci sono i diritti. I diritti di un cittadino, dice Bonafede, a sapere che un processo non si concluderà in un nulla di fatto perché l’ha divorato la prescrizione. I diritti, replicano gli avvocati, di quanti sono sotto processo e che non possono, non devono, restare sulla graticola a vita perché si è volutamente fatto saltare l’unico argine alla lunghezza ingiusta e ingiustificata dei processi. Eccolo qui lo scenario di guerra che si profila a poche ore di distanza dal deposito di un emendamento al Ddl anticorruzione che prevede lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. In particolare si prevede che “il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”. I relatori dell’emendamento sono Francesco Forciniti e Francesca Businarolo. Se il Movimento Cinque Stelle plaude in corso a questo tipo di novità, la Lega invece ci va cauta e furbescamente sceglie di non bocciare né promuovere l’emendamento in attesa di capire in che modo un simile provvedimento potrebbe incidere sui consensi. “È un istituto che ha già subito molte modifiche, valuteremo anche queste ultime novità con coerenza e spirito costruttivo. La prescrizione di un reato si può evitare se gli uffici giudiziari funzionano bene, e su questo versante stiamo investendo, per il bene dei cittadini. È importante che i processi siano più veloci per garantire giustizia”, afferma con una dichiarazione democristiana il senatore della Lega Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Ma se il Carroccio temporeggia, i penalisti guidati dal Gian Domenico Caiazza (nuovo presidente dell’Unione delle Camere penali italiane) hanno subito fatto sentire la propria voce: “La Giunta Ucpi, presa visione del testo dell’emendamento presentato alla Camera dei Deputati da esponenti del M5S, rileva e denunzia l’inaudita gravità della riforma che con esso si intenderebbe introdurre nel nostro codice penale”, si legge in un comunicato. “In sostanza l’eventuale approvazione di tale abnorme emendamento, che nemmeno distingue tra sentenza assolutoria e sentenza di condanna, darebbe luogo, con la conclusione del giudizio di primo grado, ad una pendenza teoricamente infinita sia della sentenza di condanna, sia della impugnazione da parte del Pubblico Ministero della sentenza di assoluzione. Ciò in spregio manifesto dei principi del giusto processo e della sua ragionevole durata sanciti dall’articolo 111 della Costituzione - si legge nella nota - la Giunta prende atto con sollievo ed apprezzamento della presa di distanza da tale gravissima iniziativa legislativa espressa dall’onorevole Molinari a nome della Lega di Matteo Salvini”. Consiglio di Stato: “Rigore con i magistrati che sbagliano” di Francesca Mariani Il Tempo, 13 febbraio 2019 Il presidente Patroni Griffi all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il capo del governo: “Serve una riforma per rispondere alle aspettative dei cittadini”. “Con chi sbaglia il sistema disciplinare deve essere rigoroso e tempestivo perché la terzietà delia magistratura è un bene prezioso”. Non ha usato mezzi termini il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi ieri mattina a Roma, nella cornice di “Palazzo Spada”, durante la tradizionale cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Cerimonia che ha visto presente anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e ha visto portare il proprio contributo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha preceduto la relazione centrale di Patroni Griffi. Dall’anno prossimo, però, il confronto sarà più ampio, poiché “abbiamo deciso di dare voce, durante la cerimonia, anche all’Avvocatura dello Stato e al Consiglio Nazionale Forense”, ha annunciato il presidente del Consiglio di Stato. Tornando alla stretta attualità, il neo presidente Patroni Griffi ha voluto sottolineare che “assicurare la tutela dei cittadini e la legalità nell’ordinamento” è l’obiettivo imprescindibile per il giudice amministrativo che deve fungere da “garante delle interazioni tra amministrazioni, cittadini e imprese”. E in questa ottica il riferimento più importante è stato alla “tutela dei diritti fondamentali”: su questo fronte “non sono consentiti arretramenti”, ha spiegato il presidente del Consiglio di Stato. Inevitabile il passaggio anche sul tema dei migranti. Per Filippo Patroni Griffi “la giurisprudenza amministrativa ha dato una dimensione concreta ai diritti fondamentali dei migranti, soprattutto quando vengano in rilievo il diritto alla salute, il diritto all’unità familiare o quello all’adeguata protezione dei minori”. Allo stesso tempo, però, “nel discernere l’arbitrio dal ragionevole esercizio del potere per ragioni di ordine e di sicurezza pubblica, si è ritenuto che, pur in presenza di vincoli familiari, la particolare gravità dei reati e la loro reiterazione attribuisca carattere “autoevidente” alle ragioni alla base di una espulsione”, ha aggiunto Patroni Griffi. Rilevanti, poi, anche le decisioni del Consiglio di Stato che hanno toccato “cruciali aspetti della vita sociale”, come ad esempio “in materia di legittima imposizione dell’obbligo di vaccinazione per l’accesso agli “asili nido” e alle scuole dell’infanzia” o in materia di “contrasto alla ludopatia”. E caldissimo è stato, di sicuro, “il caso delle mense scolastiche”, in cui, ha ricordato il presidente Patroni Griffi, i giudici “hanno dato preminenza alla sfera di libertà personale” degli alunni e dei loro genitori “nelle scelte alimentari”. Per chiudere, infine, Patroni Griffi ha ribadito che “la “macchina” della giustizia amministrativa deve essere moderna ed efficiente”, e a questo proposito ha posto in evidenza “la sperimentazione della modalità di “lavoro agile” (il cosiddetto “smart working”) per i dipendenti”, che hanno avuto “la possibilità di lavorare da casa”. E sul ruolo fondamentale della giustizia amministrativa si è soffermato anche il presidente Conte, preannunciando “una delega specifica riguardante alcuni particolari profili dell’ordinamento della giustizia amministrativa” per poter “rendere ancora più affidabile il sistema “giustizia amministrativa” e ancora più credibile il “sistema Paese”. In sostanza, è prevista “un’opera di equilibrato e prudente aggiornamento” in alcuni settori, come, ad esempio, “il procedimento disciplinare”. L’obiettivo, ha concluso Conte, è la realizzazione di “un disegno riformatore che deve mettere i giudici nella migliore condizione per poter esercitare le loro funzioni giurisdizionali, nel segno della indipendenza e dell’autonomia” e “deve rispondere alle aspettative dei cittadini”. Corruzione. Rapporto Transparency: 71% delle segnalazioni da enti pubblici gnewsonline.it, 13 febbraio 2019 Nel 2018 sono state 152 le segnalazioni di corruzione riferite principalmente a episodi di favoritismo e clientelismo (41), frodi e violazioni contabili (34) e abuso di posizione pubblica (14), avvenuti per il 71% dei casi all’interno di un ente pubblico, sempre più spesso di piccole dimensioni dove è più complicato avere le strutture interne adibite alla denuncia, e per il restante 26% in un ente privato. È quanto emerge dal report “A voce alta - Un anno di segnalazioni 2018” di Transparency International Italia, il rapporto che offre una mappatura della corruzione in Italia sulla base delle segnalazioni fatte dai cittadini sulla piattaforma Alac, l’innovativo strumento di assistenza per chiunque voglia denunciare un caso di corruzione di cui è venuto a conoscenza, attivo dal 2014. “I cittadini si rivolgono a noi soprattutto perché vogliono essere orientati, supportati e tutelati nel loro percorso di denuncia - spiega Davide Del Monte, direttore di Transparency International Italia -. Fino a ora sono stati pochi gli strumenti messi a disposizione dal legislatore, ma siamo convinti che mano a mano la legge sul whisteblower e la legge anticorruzione entreranno a regime, le segnalazioni arriveranno sempre più agli organi competenti come Anac o ai responsabili anticorruzione interni ai luoghi di lavoro. Sono strumenti che hanno un altissimo potenziale di efficacia, perché, inasprendo il profilo repressivo, rendono per la prima volta rischioso offrire e accettare la mazzetta”. La distribuzione geografica delle segnalazioni conferma per il 2018 una prevalenza dei casi di corruzione al centro-sud, con Campania e Lazio in testa rispettivamente con 24 e 21 segnalazioni. “Una tendenza che rispecchia la maggiore presenza di enti pubblici, da cui provengono poco meno dei tre quarti delle segnalazioni, proprio nel Meridione - chiarisce Del Monte -. Al terzo posto troviamo la Lombardia, regione del nord da cui riceviamo il maggior numero di richieste di assistenza riferite al privato: i casi di corruzione segnalati riguardano soprattutto frodi, evasione fiscale e irregolarità contabile”. Per quanto riguarda i settori maggiormente interessati, la sanità si conferma tra i più critici con 34 segnalazioni, con irregolarità nelle nomine e nei concorsi, gestione personalistiche dei reparti, appalti e casi di malasanità. Seguono pubblica amministrazione (24), dove nomine e favoritismi ed esecuzione dei servizi esterni hanno la meglio, e il settore dell’educazione scolastica e universitaria (11). Il segnalante “tipo” è testimone nel 66% dei casi e solo per il restante 34% vittima. Strage di Ustica. “Indagini falsate. Difesa e Trasporti risarciscano i familiari” di Michela Allegri Il Gazzettino, 13 febbraio 2019 I giudici d’Appello, sezione civile: Dc9 abbattuto da un missile. Ci furono depistaggi, i ministeri dovranno pagare 12 milioni. A distanza di 38 anni dalla strage di Ustica, che provocò 81 morti, la prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, presieduta da Antonio Novara, ha stabilito che i ministeri della Difesa e dei Trasporti debbano risarcire con 12 milioni di euro a una parte dei familiari delle vittime. Nessuna bomba, nessun guasto strutturale. Fu un missile ad abbattere l’aereo Dc9 della compagnia Itavia che il 27 giugno 1980 stava volando da Bologna a Palermo. I giudici hanno rigettato gli appelli dei ministeri contro la sentenza di primo grado emessa nel gennaio 2016. La Corte ha dichiarato la prescrizione relativamente al risarcimento “da depistaggio”, ma ha confermato quello “da fatto illecito”. Secondo i giudici, infatti, l’incedente fu provocato da un missile “lanciato da un altro aereo che intersecò la rotta del volo Itavia, in una sorta di scenario di guerra”. Per i magistrati, inoltre, è confermato che le indagini furono depistate e che lo Stato non garantì adeguate condizioni di sicurezza al volo che quella notte precipitò nel Tirreno. Le decisioni - La sentenza, che riguarda 7 familiari delle vittime, concorda con altri quattro verdetti emessi nel 2017 sempre dal Tribunale civile, che ha dato ragione ad altre 68 persone che avevano chiesto il risarcimento. “Questa decisione - ha commentato l’avvocato Daniele Osnato, legale dei familiari di passeggeri ed equipaggio - si aggiunge alle altre che, sempre in sede civile, hanno già restituito giustizia ai parenti ricostruendo la verità dei fatti. Questa sentenza ha voluto ulteriormente precisare che non vi è mai stato alcun conflitto tra i giudicati penali e quelli civili. Atteso che nel processo penale non si è indagato sulla causa della caduta dell’aereo, ma sulla penale responsabilità di alcuni imputati in merito a specifici fatti di reato di natura omissiva”. Sulle cause del disastro aereo è ancora in corso un’inchiesta penale, attualmente contro ignoti. Mentre l’indagine sul depistaggio era approdata a processo nel 2000. Dopo 272 udienze, il 30 aprile 2004 era arrivata la sentenza di primo grado: la Corte d’assise aveva assolto dall’imputazione di alto tradimento i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio, mentre aveva dichiarato la prescrizione del reato a carico dei generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri. In appello, anche per gli ultimi due imputati era stata disposta l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste”. Decisione confermata due anni dopo dalla Cassazione. I risarcimenti - “Ad oggi i ministeri hanno ostacolato non solo le legittime aspettative di verità e giustizia, ma persino le liquidazioni dei risarcimenti, disattendendo le sentenze e richiedendo di voler interamente compensare tali somme con eventuali vitalizi concessi ai figli delle vittime - prosegue l’avvocato Osnato - Auspichiamo che chi di dovere, dai ministri al presidente del Consiglio, si imponga per restituire dignità a chi non soltanto ha perso i propri genitori, ma che ha subito per 39 anni gli effetti di un ignobile ed inaccettabile depistaggio e che, adesso, si vede negata la liquidazione di quanto disposto dalle sentenze emesse in nome del Popolo Italiano”. Pochi giorni fa, i familiari di una delle vittime - Carlo Parrinello - hanno notificato un atto di pignoramento presso terzi nei confronti dei ministeri dei Trasporti e della Difesa che, nonostante le sentenze, non ha ancora pagato per intero il risarcimento. Sanzione al legale troppo svagato di Adelaide Caravaglios Italia Oggi, 13 febbraio 2019 L’avvocato che non avverte il cliente del rinvio di un’udienza, indipendentemente dall’accertamento della sussistenza, in concreto, di una ipotesi di rinuncia o di revoca del mandato, è comunque passibile di sanzione disciplinare: lo hanno chiarito le Sezioni unite civili della Corte di cassazione nella sentenza n. 2755 del 2019. Intervenute sul ricorso di un legale avverso la decisione del Consiglio nazionale Forense di conferma della sanzione dell’avvertimento irrogata ai suoi danni dal Coa di appartenenza, hanno ricordato come non possa che non condividersi l’orientamento secondo il quale sebbene nel codice deontologico sia disciplinata e prevista la sola fattispecie della rinuncia, diversa dalla revoca, anche quest’ultima deve ritenersi del pari fonte dei medesimi obblighi da parte del professionista: in altre parole, la revoca del mandato costituisce “una analoga soluzione di continuità nell’assistenza tecnica e, quindi, deve ritenersi sottoposta ad identiche ragioni di tutela in favore della parte assistita con conseguente sussistenza in capo al difensore, ancorché revocato, dei medesimi obblighi informativi necessari al fine di non pregiudicare la difesa dell’assistito”. Nel caso di specie, poi - continuano l’omessa comunicazione alla parte del rinvio di udienza avrebbe consentito “più opportunamente la difesa dell’assistita a mezzo di memoria istruttoria con eventuale nuovo difensore”: ne derivava, di conseguenza, il fatto che la condotta della ricorrente risultava rilevante “almeno sotto il profilo della correttezza e diligenza”, a maggior ragione dal momento che il dovere di comunicazione persisteva comunque. Nel respingere le doglianze lamentate, i giudici di legittimità hanno quindi rigettato il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, oltre all’ulteriore importo dovuto a titolo di contributo unificato e rammentando, in sede di motivazioni, che “anche per il caso di fattispecie non espressamente tipizzata, è pur sempre possibile ricondurre in via analogica una condotta deontologicamente rilevante alla previsione di analogo illecito considerato espressamente dalla norma regolamentare deontologica”. La dichiarazione di prescrizione non impedisce la confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 5936/2019. La confisca urbanistica, di terreni e immobili, può resistere alla prescrizione del reato. Anche dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 28 giugno 2018. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza penale n. 5936, nella quale è stato affrontato il caso di un procedimento avviato per il reato di lottizzazione abusiva previsto dall’articolo 44 lettera c) del Testo unico dell’edilizia. In appello era stata dichiarata l’estinzione del reato per il maturare della prescrizione, ma era stata confermata la confisca delle opere abusive. Ora, la Cassazione, investita del ricorso contro la persistenza della misura, annulla il giudizio della Corte d’appello, ma nello stesso tempo afferma che è possibile disporre la confisca urbanistica anche in caso di sentenza di prescrizione. E questo anche dopo il verdetto della Corte europea che, pochi mesi fa, ha proprio affrontato il tema. I giudici europei infatti hanno chiarito che i principi di legalità e colpevolezza disciplinati dall’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo, oltre alla presunzione di non colpevolezza, non permettono che la confisca venga disposta in assenza di una sostanziale dichiarazione di responsabilità, anche se adottata in assenza di una formale condanna. Tenendo ferma la necessità di assicurare il diritto di difesa, affermava però la Corte europea, “qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna ai sensi dell’articolo 7 che in questo caso non è violato”. In astratto così, puntualizza adesso la Cassazione, è assolutamente possibile e aderente ai principi della Convenzione, la coesistenza tra prescrizione e confisca. L’attenzione però si deve spostare sul dato sostanziale dell’accertamento dell’esistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato, con tutte le garanzie che sono tipiche della natura penale della confisca. Una conclusione che, oltretutto, ricorda la Cassazione, è in linea con il nuovo articolo 578 bis del Codice di procedura penale, introdotto un anno fa dal decreto legislativo sulla riserva di codice (il n. 21 del 2018). La norma prevede infatti che la Corte d’appello o la Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o prescrizione, decidono sull’impugnazione solo agli effetti della confisca, dopo avere compiuto la verifica sulla responsabilità dell’imputato. In questo senso, tra l’altro, erano andate nel recente passato anche precedenti sentenze della Cassazione stesse, tutte tese a sostenere la possibilità di conservazione della misura patrimoniale, dopo avere accertato la colpevolezza dell’imputato con tutte le garanzie del contraddittorio. Era venuto così a delinearsi un vero e proprio principio di creazione giurisprudenziale, poi fatto proprio dall’intervento del legislatore. La ragione dell’annullamento della pronuncia del giudice di appello, nel caso esaminato, sta proprio nell’assenza di una puntuale verifica sulla responsabilità, davanti invece alle contestazioni sollevate dalle (numerose) persone imputate soprattutto sul fronte della configurabilità della lottizzazione abusiva e soprattutto sull’epoca della sua consumazione. Per questo il provvedimento deve essere annullato e rinviato alla Corte d’appello stessa che ora dovrà procedere all’accertamento, assicurando tutte le garanzie difensive. Non scatta diritto d’autore sui siti di aste giudiziarie autorizzati dal ministero di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 12 febbraio 2019 n. 6734. La banca dati on line delle aste giudiziarie, gestita da uno dei soggetti autorizzati dal ministero della Giustizia, non gode della tutela del diritto d’autore. Così non è reato il ripescaggio dei relativi avvisi da parte di un terzo che li diffonde su un diverso sito internet. La sentenza n. 6734 depositata dalla Cassazione di ieri ha cancellato senza rinvio al tribunale la misura cautelare del sequestro preventivo di un sito on line di servizi e consulenza per l’acquisto di immobili alle aste giudiziarie. La mancanza di un’opera creativa alla base dei contenuti della banca dati di avvisi giudiziari, compresa la loro temporaneità, fanno escludere alla Cassazione che si tratti di opera intellettuale che acceda alla medesima tutela accordata alle banche dati private frutto dell’ingegno dell’autore. Ma il vero spartiacque sta nella natura pubblica dei dati e dell’obbligo pressoché automatico di darne pubblicità su internet. Secondo il ricorso, per le banche dati di natura pubblica non si applica l’articolo 102 bis della legge 633/1942 che consente estrazione e reimpiego delle informazioni prese da banche dati private, ma solo se si resta nel perimetro di prelevare parti “non sostanziali” dell’archivio creato dal “costitutore”. Entro tale limite non c’è bisogno di alcuna autorizzazione da parte di quest’ultimo. Al caso in esame, sempre secondo il ricorso, si applicherebbe l’articolo 102 ter che afferma che il ripescaggio da banche dati di natura pubblica sono sempre consentiti se ci si attiene all’uso legittimo senza rischi per la fonte. La Cassazione esclude comunque che attingendo a una banca dati di natura pubblica si possa commettere il reato previsto dall’articolo 171 bis della legge sul diritto d’autore, in quanto manca il requisito della creatività dell’opera e vige il principio che non vi sono limiti all’uso legittimo dei dati che interessano il pubblico. Da qui l’applicabilità, come contraddittoriamente utilizzata dal Gip e dal tribunale, della nozione di “costitutore” della banca dati al soggetto autorizzato che si riteneva leso dal riutilizzo di terzi, con conseguente applicazione dell’articolo 102 bis della legge 633/1941. Ma proprio in quanto il soggetto autorizzato dal ministero non si può considerare autore, bensì solo costitutore della banca dati contenente gli avvisi giudiziari. Si tratta di una norma “spuria” rispetto al complesso della legge in quanto tutela non il diritto d’autore del costitutore della banca dati, ma l’eventuale rilevanza degli investimenti impiegati per realizzarla. Somministrazione, in appalti illeciti scatta sempre il reato di Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2019 Il reato di somministrazione fraudolenta si consuma ogni volta che le parti concretizzano un appalto illecito, in quanto tale fattispecie è sempre finalizzata ad eludere norme di legge e di contratto collettivo. Questa la conclusione cui giunge la circolare n. 3/2019 emanata ieri dall’Ispettorato nazionale del lavoro, la quale esamina gli effetti della reintroduzione - avvenuta con il cosiddetto Decreto dignità (Dl 87/18) - del reato di somministrazione fraudolenta; tale fattispecie si configura in tutti i casi in cui “la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”. Secondo l’Ispettorato, il reato si configura ogni volta che viene accertato il ricorso ad un appalto illecito, in quanto tale situazione già costituisce, di per se stessa, elemento sintomatico di una finalità fraudolenta, e come tale determina l’applicabilità della sanzione penale. ù+ La circolare fornisce alcuni esempi di finalità fraudolenta: quando le parti tentano di conseguire dei risparmi indebiti sul costo del lavoro mediante l’applicazione del trattamento retributivo previsto dal Ccnl dall’appaltatore e dal connesso minore imponibile contributivo, oppure quando eludono i divieti posti dalle disposizioni in materia di somministrazione. La circolare precisa altresì che la somministrazione fraudolenta può verificarsi anche al di fuori dei casi di appalto illecito, coinvolgendo agenzie di somministrazione regolarmente autorizzate all’esercizio di tale attività. Un esempio di somministrazione fraudolenta di questo tipo viene ravvisata nelle ipotesi in cui un datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per riutilizzarlo tramite agenzia di somministrazione, violando norme di legge o di contratto collettivo. L’Ispettorato precisa, tuttavia, che in questi casi - quando cioè la somministrazione fraudolenta si realizzi per il tramite di una agenzia autorizzata - la prova in ordine alla “specifica finalità” elusiva debba essere più rigorosa. Si tratta di una precisazione opportuna, in quanto le agenzie per il lavoro sono operatori particolarmente qualificati (e soggetti a un’intensa vigilanza) e come tali non possono essere confusi con i tanti caporali che popolano il mercato del lavoro ma, anzi, sono il principale argine contro la diffusione di tali soggetti. Un altro caso di somministrazione fraudolenta si può verificare mediante il distacco illecito di personale, in assenza di uno specifico interesse, e nell’ipotesi di distacco transnazionale “non autentico”, nella misura in cui il distacco, come talvolta avviene, sia funzionale all’elusione delle disposizioni di legge o del contratto collettivo applicato dal committente. La circolare ricorda, infine, che in caso di accertamento di un appalto cui si accompagni il requisito della fraudolenza, il personale ispettivo dovrà contestare anche la violazione amministrativa di cui all’articolo 18 del Dlgs n. 276/2003, e adotterà la prescrizione obbligatoria volta a far cessare la condotta antigiuridica attraverso l’assunzione dei lavoratori alle dirette dipendenze dell’utilizzatore; sarà, inoltre, possibile adottare il provvedimento di diffida accertativa ex articolo 12 del Dlgs n. 124/2004 nei confronti del committente, sulla scorta del ccnl da quest’ultimo applicato. Napoli: morire di febbre in una cella di Poggioreale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2019 Si può morire a causa della febbre alta? Sì, ed è successo domenica sera nel carcere di Poggioreale. Parliamo del 34enne Claudio Volpe, detenuto al giugno del 2017 dopo essere stato sorpreso a spacciare droga. Non godeva affatto di ottima salute. Aveva da alcuni giorni la febbre e aveva difficoltà nel movimento. Volpe era ristretto nel padiglione Milano, uno dei paglioni che hanno nomi di città dove, secondo Pietro Ioia, storico attivista e leader degli ex detenuti organizzati di Napoli, i detenuti vivono in condizione drammatiche e alcuni di loro malati che dovrebbero curarsi altrove. Volpe, come detto, aveva la febbre alta e le sue condizioni di salute si sono ulteriormente aggravate e il personale medico non ha fatto in tempo a chiamare il 118. Il primo a dare notizia dell’episodio è stato il garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che ha invitato gli organi preposti a verificare se i defibrillatori nel carcere di Poggioreale e anche nel carcere di Secondigliano siano funzionanti: “Lo chiediamo - spiega il professore - perché ci giunge notizia che manchino le placche oppure che sono scadute”. A denunciare l’assistenza sanitaria in carcere insoddisfacente è anche Luigi Castaldo, il sindacalista della polizia penitenziaria Osapp. “Risparmiare - denuncia il sindacalista, visto il dettato costituzionale, sulla vita dei cittadini, anche se detenuti, è sempre inaccettabile!”. Castaldo spiega che il pronto soccorso e le infermerie dei reparti sprovvisti dei protocolli per gli interventi diagnostici e terapeutici. Ma non solo, sempre il sindacalista denuncia la mancanza di semplici strumenti, impossibilità di effettuare in loco gli esami del sangue e altro ancora. “Ancora una volta - dice il sindacalista riferendosi alla morte del detenuto per la febbre - è una sconfitta del sistema, in questo caso della sanità che dovrebbe con pochi medici e pochi infermieri, nonché priva di mezzi, gestire una “cittadella” penitenziaria di circa 2.400 detenuti assemblati in 10 padiglioni per diverse migliaia di mq, certamente insufficienti per il sovraffollamento che si è costretti ad affrontare ogni giorno”. Domenica scorsa era stata una giornata problematica a Poggioreale. Oltre alla morte di Volpe, un 21 enne detenuto nel padiglione Avellino, nella cosiddetta sezione ‘ Protetti’, si è ferito volontariamente dopo avere dato fuoco alla propria cella. Dopo aver incendiato la stanza è stato trasferito nel padiglione Livorno dove si è procurato delle ferite sul corpo. “Gli episodi di autolesionismo nelle carceri - commenta Ciambriello - sono ormai quotidiani. Casi analoghi si sono verificati in questi giorni a Santa Maria Capua Vetere e nel carcere di Salerno”. Il Garante chiede, dunque, “un aumento, immediato, del numero di agenti di polizia penitenziaria: di pomeriggio e di notte il personale è ridotto ai minimi termini e un potenziamento del numero di infermieri e medici, soprattutto dopo le 14,30”. Anche per il segretario dell’Uspp, Ciro Auricchio, “il potenziamento del personale non è più procrastinabile: gli agenti ormai lavorano in condizioni di enorme stress, lo denunciamo da anni ma finora non ci è ancora giunta alcuna risposta”. Ritornando al decesso del detenuto perché malato, bisogna ricordare che l’assistenza sanitaria è comunque garantita per legge. I detenuti hanno diritto al pari i dei cittadini in stato di libertà alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali. L’affermazione di questo principio viene sancito dall’art. 32 della Costituzione in materia di diritto alla salute nella parte in cui la norma stabilì che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuò” e che la legge “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Accade che però, determinate patologie non possono essere curate in carcere. A quanto pare anche la febbre alta. Roma: Gherardo Colombo “un rimborso spese ai detenuti impiegati per strade e verde” di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 13 febbraio 2019 La Cassa delle Ammende, ente del Dipartimento amministrazione penitenziaria, assegnerà alle carceri un fondo per un rimborso spese di poche centinaia di euro ai detenuti, per favorirne la partecipazione ai lavori di pubblica utilità. L’ampiezza del fondo, che dovrebbe ammontare a tre milioni, un terzo dei quali per Roma, dipenderà da quanti detenuti aderiranno ai lavori. E sarà gestito tramite il Dap, che erogherà i soldi alle carceri; niente fondi a pioggia alle coop come accadeva con Mafia Capitale. A dirigere la Cassa delle Ammende è Gherardo Colombo, ex giudice del pool di Mani Pulite. La rieducazione è l’obiettivo a cui si tende. Cosa manca? “Ci sarebbe molto da fare perché la rieducazione diventi parte integrante della pena. Dipende da una serie di circostanze: la carenza di strutture, risorse, spazi, progetti. La causa è anche culturale: esiste una forte tendenza a ritenere che la pena debba essere retribuzione del male con il male e che chi ha commesso un reato debba essere escluso definitivamente dalla comunità. Di conseguenza è difficile che la detenzione in carcere possa recuperare le persone”. Qual è lo scopo dei lavori di pubblica utilità? “Credo fermamente che debba essere quello di consentire al detenuto di rientrare più facilmente nella comunità, garantendo a quest’ultima sicurezza e al detenuto la possibilità di essere riconosciuto come persona, trovare lavoro, avere rapporti affettivi e via dicendo”. Il fondo favorirà l’adesione dei detenuti ai lavori utili? “La Cassa ha un cda che stabilisce gli indirizzi dei suoi interventi: tra questi il reinserimento è basilare. I lavori di pubblica utilità possono contribuire a reinserire nel tessuto sociale i detenuti se, oltre a riabituarli ad una vita di relazione fuori dal carcere, offrono la possibilità di formarsi. La formazione deve essere certificata, in modo che costituisca titolo per cercare e trovare un lavoro: attraverso i lavori di pubblica utili i detenuti devono poter diventare giardinieri, riparatori di strade, assistenti qualificati”. Poi servirebbe trovarlo il lavoro... “È essenziale che chi svolge un lavoro di pubblica utilità si trovi davanti una prospettiva. Che, nel campo del lavoro, è l’assunzione. È necessario che si faccia il possibile perché i detenuti che svolgono funzioni sociali possano trovare lavoro una volta usciti dal carcere”. Ora sarà il Dap ad assegnare i fondi e non le cooperative. È l’effetto indotto da Mafia Capitale? “È necessario che le risorse vadano a chi è capace ed ha voglia di utilizzarle in modo appropriato. Competenza e correttezza sono le caratteristiche essenziali che deve avere il destinatario dei finanziamenti”. Coop e imprese entreranno in campo quando la sindaca farà gli appalti con la clausola di assumere ex detenuti che hanno partecipato ai lavori utili. Può bastare contro il malaffare? “Il bando di gara aiuta quando a sua volta ha un contenuto corretto, prevede una procedura appropriata, insomma non consente favoritismi. Personalmente sono anche convinto che tutto ciò non sia sufficiente se non sono previsti ed eseguiti controlli di sostanza. È sempre necessario verificare se ciò che è stato promesso è stato effettivamente eseguito”. Bologna: la Dozza si allarga, previsto un nuovo padiglione da 200 posti di Alberto De Pasquale La Repubblica, 13 febbraio 2019 Via ai lavori entro marzo: due anni di cantieri e fondi per 10 milioni. Il carcere della Dozza avrà un nuovo padiglione da 200 posti. I lavori inizieranno entro marzo e costeranno poco più di 10 milioni di euro. La capienza complessiva considerata regolare di detenuti passerà così a 700 posti. Il nuovo settore avrà una superficie in pianta di circa 960 metri quadrati, articolati su cinque piani fuori terra e un piano tecnico seminterrato. Nelle carte del provveditorato del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti si legge che, oltre al padiglione, entro il 2021 saranno realizzati anche quattro cortili di passeggio per la permanenza all’aperto dei detenuti. Un corridoio collegherà la nuova area al resto dell’istituto penitenziario. Il progetto prevede inoltre l’adeguamento e l’ampliamento del settore colloqui già esistente per renderlo idoneo alla maggiore capienza. “A oggi l’attività di verifica sui lavori è conclusa - spiega il provveditore interregionale per le opere pubbliche Pietro Baratono - stiamo aspettando il rapporto di verifica che validerà il progetto”. A dicembre i detenuti presenti erano 803, di cui 77 donne. Si tratta al 57% di stranieri, che rappresentano 51 nazionalità diverse. I reati commessi più di frequente sono quelli legati allo spaccio di stupefacenti. Oltre un terzo della popolazione detenuta complessiva, 256 uomini e 19 donne, ha problematiche certificate di tossicodipendenza. La capienza regolamentare del carcere è di 500 posti. Da anni la Dozza soffre di sovraffollamento. Il nuovo padiglione cercherà di rispondere alle esigenze di spazio. Ma non risolverà le carenze del personale, in particolare delle professionalità pedagogiche. Sono infatti appena otto gli educatori effettivamente in servizio. “Parliamo di un educatore ogni 60 condannati in via definitiva - stima Antonio Ianniello, garante per i diritti delle persone private della libertà personale - ed è drammatico pensare che i lavori partano con l’organico invariato”. Una carenza già critica al momento e che potrebbe diventare sempre più “preoccupante”, sottolinea il garante, qualora all’ampliamento della struttura non seguisse anche quello del personale. “Già qualche anno fa il Tribunale di sorveglianza si era espresso sul punto - prosegue Ianniello - definendo grave ed eclatante la carenza in termini numerici degli educatori nel carcere di Bologna”. Secondo un rapporto curato dalla Camera penale di Bologna “Franco Bricola” risalente a settembre, alla Dozza i detenuti vivrebbero una “totale assenza di socialità”, trascorrendo appena un’ora al giorno al di fuori delle rispettive celle. Con l’aggravante che lo scarso numero di educatori renderebbe “difficile” garantire a tutti “un percorso di rieducazione e reinserimento”. Il piano 2019-2020 per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti prevede, tra gli altri, corsi professionali di pasticceria, sartoria e assemblaggio di componenti meccanici. Torino: dopo il rogo in carcere, stop ai corsi di cucina per i detenuti di Sarah Martinenghi La Repubblica, 13 febbraio 2019 Il laboratorio attrezzato per la formazione professionale è stato distrutto da un razzo sparato dagli antagonisti. Sono sospesi e non si sa quando potranno riprendere i corsi di cucina e pasticceria che si tenevano nel fabbricato crollato domenica sera dentro al carcere Lorusso e Cutugno, dopo un incendio scatenato da un presidio di antagonisti all’esterno. Nell’edificio andato distrutto c’erano l’aula, i magazzini e soprattutto la cucina attrezzata di tutto punto acquistata due anni fa per sostituire il vecchio laboratorio per la formazione professionale di detenuti e detenute. Ieri l’amministrazione carceraria ha iniziato la conta dei danni anche per capire i tempi della ristrutturazione. E con una serie di sopralluoghi i vigili del fuoco hanno provato a ricostruire la dinamica dei fatti. L’ipotesi al momento più plausibile è che a innescare l’incendio sia stato un razzo di segnalazione partito dal presidio che si teneva davanti alle Vallette e lanciato con un’ampia parabola oltre la cancellata del carcere. Una ricostruzione che all’inizio era sembrata singolare poiché il lancio era stato visto oltre un’ora prima di quando l’incendio è divampato in modo massiccio. Però la dinamica sembra plausibile: il razzo - di tipo nautico - deve aver rotto una finestra del laboratorio e aver appiccato un piccolo rogo. Con il passare del tempo le fiamme si sono estese fino a quando hanno raggiunto due bombole del gas che sono scoppiate con un fragore devastante e hanno distrutto l’intero fabbricato, provocandone il crollo, per fortuna senza provocare feriti. Al momento non ci sono denunciati per questo episodio, che è l’appendice di quattro giorni di disordini e tensioni dopo lo sgombero del Centro sociale L’Asilo di via Alessandria. Ieri il presidio a colpi di petardi e fuochi d’artificio era proprio in solidarietà con gli anarchici arrestati negli ultimi giorni: quelli destinatari di una misura cautelare per associazione eversiva, quelli fermati durante i primi tafferugli di giovedì sera subito dopo lo sgombero e gli 11 arrestati durante la manifestazione di sabato che ha messo a ferro e fuoco la città. Roma: intervista all’Assessore Daniele Frongia sulle iniziative per i detenuti di Sheyla Bobba enzabarcode.it, 13 febbraio 2019 Assessorato allo Sport, Politiche giovanili e Grandi Eventi cittadini, Daniele Frongia, detiene anche diverse deleghe, dalle Politiche giovanili, ai Rapporti con le Università. Oggi però ci rivolgiamo a lui principalmente in quanto delegato ai Rapporti con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Domanda: La delega che riguarda i rapporti con il Garante delle persone private della libertà in questo caso una donna, Gabriella Stramaccioni - è certamente un compito particolare. Com’era la situazione appena assunto l’incarico? Risposta: “La situazione era abbastanza precaria in quanto non erano in corso attività, progetti o interventi tesi a favorire la popolazione detenuta, in particolare con formazione professionale ed inserimenti lavorativi. Anche il diritto alla salute era fragile con precarietà evidenti. Roma usciva dalla difficile situazione di Mafia Capitale che aveva visto, purtroppo, protagonisti anche alcuni ex detenuti e cooperative storiche. Ciò aveva creato una forte diffidenza da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni, diffidenza che abbiamo superato con l’attivazione di nuovi percorsi, grazie all’impegno e alla dedizione della Garante Stramaccioni”. D: A Roma ci sono due grandi realtà, il Carcere di Rebibbia e quello di Regina Coeli. In Italia i detenuti sono 60.125, mentre la capienza regolamentare è di 50.550. Il sovraffollamento riguarda anche le carceri di Roma? R: “Il sovraffollamento riguarda anche gli istituti di Roma in particolare Rebibbia Nuovo Complesso e Regina Coeli, con una presenza di un 15-20% maggiore della media regolamentare, purtroppo non è una competenza specifica della Capitale, solamente il Ministero può cercare di risolvere la situazione”. D: Siamo consapevoli che questa non è una sua responsabilità, ma come responsabile dei rapporti con il Garante, lei conosce gli interventi che saranno messi in atto per risolvere? R: “Il problema delle strutture degli istituti penitenziari era e rimane precario. Si sta procedendo alla loro riqualificazione in particolare a Rebibbia Nuovo Complesso, dove si stanno facendo dei lavori di ristrutturazione in alcuni reparti. Il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - ha indicato la necessità di lavori di ristrutturazione anche in altri reparti, speriamo di vedere ben presto delle migliorie tangibili”. D: Mi riscatto per Roma è una delle iniziative del Campidoglio, in collaborazione con il Ministero di Giustizia e l’Amministrazione Penitenziaria. Quali sono i risultati di questa esperienza? R: “Mi riscatto per Roma è un progetto che sta dando ottimi risultati, innanzitutto per la Città vista l’attività dei detenuti nei piccoli lavori di manutenzione stradale, nella pulitura delle caditoie e nel rifacimento della segnaletica orizzontale, apportando quindi dei miglioramenti tangibili per le vie. Risultati importanti poi anche per gli stessi detenuti, è infatti dimostrato che dar loro una formazione e una professione, almeno di base, diminuisca notevolmente il rischio di recidiva, apportando quindi, un altro vantaggio per la Città: diminuire il numero di malviventi in futuro in circolazione. La cittadinanza, infine, ha accolto con grande entusiasmo i progetti: basti vedere come vengono trattati dalla stessa i detenuti in ogni uscita, offrendo loro caffè e supportandoli con parole di ringraziamento”. D: Il Campidoglio ha fornito 300 Kit di base ai detenuti di Regina Coeli e 100 alle detenute di Rebibbia Femminile, l’iniziativa diventerà strutturale. Cosa contengono i kit? R: “Contengono prodotti base per l’igiene personale come bagnoschiuma, saponetta, spazzolino e dentifricio oltre a indumenti intimi come slip e maglietta più ciabatte”. D: Quali sono le altre iniziative dell’Amministrazione per aiutare le persone sottoposte a regime penitenziario? R: “Mi riscatto per Roma non è la sola iniziativa messa in atto dalla Giunta Raggi grazie alla stretta collaborazione con il Dap e gli interventi della Garante di Roma Capitale, un altro è quello relativo al ripristino del decoro del verde ambientale, attivo oramai da quasi un anno, che ha visto i detenuti, e li vede ancora attivi, riqualificare le ville storiche e i parchi della Città, con interventi di potatura, pulizia e tutto quanto il necessario per ridare nuova linfa alle zone verdi di Roma. Diversi altri progetti, poi, si svilupperanno nei prossimi mesi, sempre con il doppio obiettivo di migliorare la vita della nostra amata Città e dare nuove possibilità di riscatto a chi ha commesso un errore nei confronti della società. Per tutte le iniziative sviluppate in questi mesi mi preme fare un ringraziamento particolare al capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini e al Tribunale di Sorveglianza, senza la loro preziosa collaborazione non sarebbe stato possibile dare il via a tali progetti”. Sciacca (Ag): interrogazione parlamentare sul carcere “struttura inadeguata, da chiudere” corrieredisciacca.it, 13 febbraio 2019 Un’interrogazione parlamentare al Ministro di Giustizia è stata presentata sulle condizioni del carcere di Sciacca. L’atto parlamentare nasce dopo una visita ispettiva, lo scorso 21 gennaio, del deputato nazionale Giusi Occhionero, accompagnata dal saccense Antonello Nicosia in rappresentanza dei Radicali Italiani. Il parlamentare evidenzia diverse criticità e ritiene che l’unica scelta opportuna, sia la chiusura definitiva della Casa Circondariale. La parlamentare chiede al Ministro quali iniziative, e con quale tempistica, intenda intraprendere per la chiusura dell’Istituto. Il carcere, secondo la parlamentare, non può rimanere aperto e non sarebbe neanche opportuno ristrutturarlo posto che la capienza regolamentare non potrebbe superare i 30 detenuti. Il migliore utilizzo della struttura, dopo la sua restituzione al Comune, sarebbe per diverse finalità. Tra le criticità segnalate, la grave carenza di agenti di polizia penitenziaria, la situazione precaria anche per l’assistenza sanitaria, un solo psicologo è presente in sede una volta alla settimana per 2 ore. Nell’interrogazione si evidenzia che ci sono detenuti affetti da patologie di tipo psichiatrico. Per Occhionero si tratta di inadeguatezza strutturale anche in funzione che gli spazi non sono nati per ospitare persone. Tra l’altro, la struttura (un imponente complesso monumentale) ha bisogno di manutenzione costosa. Il carcere di Sciacca manca anche di un’area verde attrezzata per il colloquio dei detenuti con i familiari minorenni. L’area esterna, dove avviene il “passeggio” dei detenuti, è un cortile privo di copertura, con un rubinetto e un wc alla turca in pessime condizioni. Secondo Occhionero, molti detenuti lamentano le condizioni in cui sono costretti a vivere, con i bagni privi di tetto; in cella non c’è l’acqua calda; la doccia si può fare tra le 7.00 e le 8.00 e le 19.00 e le 20.00 con acqua fredda. Problemi anche con il cibo, “scarso di qualità e quantità”. È stato giudicato positivo il rapporto fra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. Cosenza: report dei Radicali dopo la visita nelle carceri cn24tv.it, 13 febbraio 2019 Sono 258 i detenuti nel carcere di Cosenza e 212 a Paola. È emerso nel corso della consueta visita di una delegazione dei Radicali nelle carceri del Cosentino. Il gruppo composto da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, ha effettuato una visita alla Casa Circondariale di Cosenza. Questa mattina, invece, la delegazione, si è recata sul Tirreno presso la Casa Circondariale di Paola. Entrambe le visite sono state autorizzate da Lina Di Domenico, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, su richiesta dell’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani Quintieri, candidato alla carica di Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria. A Cosenza, la delegazione visitante, è stata accolta ed accompagnata dall’Ispettore Superiore Francesco Bufano, Vice Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, dal Funzionario Giuridico Pedagogico Maria Francesca Branca e da una decina di Allievi Agenti di Polizia Penitenziaria mentre a Paola, dal Commissario Capo Davide Pietro Romano e dall’Ispettore Capo Attilio Lo Bianco, Vice Comandante della Polizia Penitenziaria e Coordinatore della Sorveglianza Generale. Inoltre, al Carcere di Paola, la delegazione, è stata ricevuta dal Direttore Caterina Arrotta. Nell’Istituto di Cosenza, che ha una capienza regolamentare di 218 posti detentivi, al momento della visita, erano ristrette 258 persone, 59 delle quali straniere, di cui 103 appartenenti al circuito dell’Alta Sicurezza e 155 a quello della Media Sicurezza, con le seguenti posizioni giuridiche: 50 in attesa di primo giudizio, 23 appellanti, 20 ricorrenti e 162 definitivi. Vi erano, altresì, 2 condannati ammessi al regime della semilibertà ex Art. 50 O.P., 2 detenuti in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. e 4 detenuti al lavoro esterno ex Art. 21 O.P. Tra la popolazione detenuta vi sono 14 tossicodipendenti di cui 9 in terapia metadonica, 12 sieropositivi, 80 con problemi psichiatrici e 5 affetti da epatite C. Nell’Istituto di Paola, che ha una capienza regolamentare di 182 posti detentivi (ci sono 2 camere attualmente non disponibili per un totale di 4 posti), al momento della visita, erano ristrette 212 persone, 103 delle quali straniere, tutte appartenenti al circuito della Media Sicurezza, con le seguenti posizioni giuridiche: 16 in attesa di primo giudizio, 25 appellanti, 15 ricorrenti e 156 definitivi di cui 6 ergastolani. Solo 40 detenuti, ritenuti a basso indice di pericolosità e con un fine pena non molto lungo, sono assegnati alla moderna Sezione a custodia attenuata, aperta qualche anno fa, in cui è operativo il sistema della “sorveglianza dinamica”. Unico dato certo rilevato a Paola è la presenza di 17 tossicodipendenti ma vi sono anche diversi detenuti con problemi psichiatrici ed altre patologie. Nell’Istituto Penitenziario di Cosenza, recentemente affidato al Dirigente Maria Luisa Mendicino in seguito al collocamento a riposo per raggiunti limiti di età del Direttore Filiberto Benevento, sono state riscontrate alcune problematiche che saranno oggetto di ulteriore approfondimento. Inoltre si è constatata la perdurante chiusura dell’area verde esterna, nonostante sia stata ristrutturata ed attrezzata, grazie ad un finanziamento di 50 mila euro della Cassa delle Ammende. Pare che, a breve, anche grazie alle continue sollecitazioni dei Radicali Italiani, puntualmente effettuate all’esito di ogni visita, la stessa sarà resa fruibile ai detenuti per lo svolgimento di colloqui all’aperto con le famiglie ed in modo particolare con figli e nipoti in tenera età o adolescenti e/o genitori anziani, così come avviene ormai da tempo negli altri Istituti Penitenziari della Provincia di Cosenza. Nella Casa Circondariale di Paola, nell’ultima visita tenutasi il 23 agosto 2018, erano state accertate diverse gravi criticità, oggetto anche di una Interrogazione Parlamentare a risposta scritta rivolta al Ministro della Giustizia da parte dell’Onorevole Riccardo Magi, Deputato di +Europa e Segretario Nazionale di Radicali Italiani. Tra le altre cose, era stata riscontrata la inagibilità di 17 camere di pernottamento per un totale di 34 posti detentivi, a causa delle copiose infiltrazioni di acqua piovana. Infine, per lo stesso motivo, risultavano degradate le aule scolastiche ed altri locali tra cui il teatro, l’ufficio della sorveglianza generale ed il corridoio centrale di ingresso alle sezioni detentive. Successivamente all’intervento dei Radicali Italiani presso i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, della Magistratura di Sorveglianza e del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti e dell’atto di sindacato ispettivo parlamentare, tali problematiche sono state parzialmente risolte atteso che, come accertato, sono state ripristinate quasi tutte le camere che erano inagibili e ristrutturate tutti i locali destinati alle attività scolastiche. Continuano a persistere le infiltrazioni meteoriche nel corridoio centrale di ingresso agli spazi detentivi, nella 4 Sezione ed in tutta l’area destinata ai colloqui con i familiari e gli avvocati dei detenuti. Tale situazione sarà rappresentata al Capo ed al Vice Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini e Lina Di Domenico, al Provveditore Regionale della Calabria Massimo Parisi, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti. Nei prossimi giorni, seguiranno le visite dei Radicali Italiani alla Casa Circondariale di Castrovillari (venerdì 15) ed alla Casa di Reclusione di Rossano (martedì 19). Macerata: convegno “Il recupero dei detenuti, benefici per il singolo e stabilità sociale” cronachemaceratesi.it, 13 febbraio 2019 Il convegno organizzato dall’Accademia Georgica all’istituto “Matteo Ricci” ha posto l’attenzione su una tematica attuale coinvolgendo operatori e studenti. La mattinata di venerdì 8 febbraio è stata un’importante occasione di confronto per fare il punto sullo stato dell’arte in materia di recupero e responsabilizzazione dei detenuti con l’intervento di soggetti istituzionali e privati operanti nel campo all’istituto “Matteo Ricci” di Macerata. Il tema del convegno ha visto concordi gli intervenuti sul fatto che il riscatto sociale dei reclusi passa attraverso il lavoro e la valorizzazione dal punto di vista umano. Promosso dall’Accademia Georgica di Treia e organizzato in collaborazione con l’Istituto con l’intento di sensibilizzare e far conoscere alle nuove generazioni tali tematiche e i relativi soggetti che se ne occupano, l’evento ha visto l’intervento di apertura del presidente dell’assemblea legislativa delle Marche Antonio Mastrovincenzo. Il presidente ha subito richiamato l’art. 3 (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”) e 27 (“le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”) della Costituzione italiana. Non sono mancati riferimenti alle problematiche dei penitenziari italiani: a partire dal sovraffollamento, la carenza del personale, soprattutto di Polizia Penitenziaria, e la diminuzione delle risorse che aiutano all’inserimento sociale delle persone detenute. Proprio in questo campo alcuni reclusori marchigiani stanno elaborando attività culturali volte al loro reinserimento. Il vice presidente dell’Accademia Georgica Umberto Patassini, nel tracciare il profilo storico dell’Istituto, ha poi richiamato i valori espressi dalle settecentesche Pie Case di Correzione e Lavoro che adottarono un programma per la formazione professionale dei giovani e nello stesso tempo per poter contribuire allo sviluppo economico e industriale: un concetto pionieristico che oggi l’Accademia sta ripercorrendo attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale. I saluti istituzionali sono poi continuati con Salvatore Angieri, vicario del Prefetto di Macerata e commissario straordinario della città di Treia, che ha posto l’accento sul dibattito tutt’ora aperto che riguarda il peso delle pene, una tematica che vede nel “Dei delitti e delle pene” di Beccaria uno dei capisaldi letterari. A seguire l’avvocato Giancarlo Savi, dell’ordine degli Avvocati di Macerata, ha proposto una riflessione su ciò che è la giusta detenzione e ciò che entra nella sfera dell’istinto etico citando l’esempio di quanto è recentemente accaduto al giovane nuotatore Manuel. Entrando nel vivo dei lavori il professor Carlo Pongetti, direttore del dipartimento di Studi Umanistici dell’università di Macerata, ha illustrato i retroscena della nascita e della gestione delle Pie Case di Correzione e Lavoro di Treia. L’excursus storico ha toccato i temi della critica situazione economica e sociale a cui si è trovato di fronte il futuro pontefice Pio VI all’inizio della seconda metà del 700 quando era Tesoriere Generale dello Stato Pontificio. I documenti d’archivio custoditi dall’Accademia Georgica hanno permesso di studiare lo statuto delle Case e le finalità di un istituto impegnato nella lavorazione del cotone grezzo e della lana per realizzare tele, corde e vele per le imbarcazioni con il monopolio per la fornitura dei porti principali dello Stato della Chiesa. Il dispositivo istitutivo del reclusorio di Treia si preoccupava anche del dopo il periodo di correzione, lanciando degli interrogativi che ancora oggi rimangono aperti. Sulla scia di queste problematiche irrisolte, una risposta ha cercato di fornirla la Fondazione Milani, nata negli anni 70 in località Berta a San Severino dalle idee di Egidio Ciabattoni, un giovane frate Cappuccino, che di fronte agli squilibri di una società ingiusta e oppressiva, inizia a promuovere corsi di addestramento al lavoro. Come affermato da don Donato De Blasi che oggi anima le comunità terapeutiche residenziali “Istituto Croce Bianca” e “Opera Miliani”, la Fondazione ha da subito aiutato chi era uscito dal carcere dopo l’ergastolo a trovare accoglienza e assistenza, ma la vera svolta è stata l’incontro provvidenziale con un industriale della carta che aveva intuito la necessità di una preparazione per i detenuti in quanto non bastava solo scaricarli nelle aziende quale maestranza. A seguire lo psicologo Jacopo Biraschi della Cooperativa Berta ‘80 ha illustrato come recuperare le persone che si trovano in situazioni alternative al carcere mediante interventi che devono essere applicati per due vie: dal basso, attraverso la terapia, e dall’alto, reinserendo le persone integrandole socialmente e instaurando loro una routine che abbia una regolarità funzionale al recupero. La psicologa Claudia Giordani ha poi delineato il trattamento da un diverso punto di vista: quello psicologico che comprende la questione del mandato della pena (da intendere quale scopo del carcere) e dell’inserimento sociale. Una delle parole chiave utilizzate è stata quella della rieducazione: essa implica che lo scopo non sia quello di punire ma quello di reinserire rendendo possibile il recupero di qualcosa. Tale senso, psicologico, vede due vie diverse: la prima è l’identificazione (che risponde alla domanda “Chi sono?”) e la seconda è il riaccendere la passione per la vita. Gli studi sono poi proseguiti con un inquadramento dell’attuale situazione giuridica e delle carceri con la vivace trattazione di Marco Bonfiglioli, del Provveditorato Regionale dell’Emilia Romagna e Marche del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel nuovo regime penitenziario l’elemento centrale è il lavoro ma per capirne la funzione è bisognato ricostruire il percorso degli ultimi dieci anni, periodo in cui è esploso il sovraffollamento delle carceri italiane: il fenomeno è da confrontare con le problematiche avute nella storia delle carceri in Italia, come ad esempio, negli anni 80, il problema del terrorismo, negli anni 90 l’Aids e la criminalità organizzata e negli anni 2000 l’emergenza degli stranieri. In Emilia Romagna e nelle Marche dei circa 4.500 detenuti il 48% sono non italiani. Il quadro che emerge è quello dell’impossibilità di una convivenza con tali problemi. Si chiede al carcere di risolvere un problema sociale che la società non riesce a risolvere e per lavorare non ci sono delle risorse. In Emilia per il sovraffollamento si arriva al 128%. La Corte Europea condanna alla nostra Nazione la disumanizzazione dei detenuti e anche l’art. 27 della Costituzione è chiaro sull’argomento, infatti, sancisce che la dignità vada rispettata anche per quanto riguarda i detenuti. Per arrivare ad una soluzione si cerca di dare uno spazio fisico sia dentro le camere che fuori. Una sfida ancora oggi non vinta, ma che sta portando a risultati concreti e positivi: infatti nelle carceri con il regime ordinario, che prevedono otto ore di libertà, il numero di aggressioni è maggiore rispetto alle carceri con regime aperto, che ne prevedono almeno dieci. La professoressa Lina Caraceni del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Macerata ha inquadrato la situazione dal punto di vista giuridico che è culminata con la recente riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario con cui si afferma che il recupero è dato proprio dalla formazione e dal lavoro. È una responsabilità dei cittadini la possibilità di tornare nella società ma il problema è proprio dentro la società stessa: essa dovrebbe essere accogliente e, in particolar modo, inclusiva. Purtroppo però in carcere c’è marginalità sociale e le politiche penali vanno sempre più verso la criminalizzazione delle marginalità “quasi come se essere straniero o essere povero sia un reato”. Ad intervenire in tal senso è proprio la legge del 2018 (ancora da attuare) che crede nel recupero dei soggetti e il riacquisto di una propria identità attraverso la formazione e il lavoro. Dal Servizio Politiche Sociali della Regione Marche è intervenuto infine Marco Nocchi che ha affermato che il lavoro e la cultura sono gli strumenti più inclusivi che si hanno a disposizione. Per cultura, il sociologo porta ad esempio una serie di laboratori (teatrale, di scrittura creativa, di poesia, di giornalismo e filmografia). L’iniziativa più convincente attuata dal Servizio in termini di risultati è stata l’introduzione del tirocinio formativo gestito da esperti del settore e da organizzazioni che di mestiere fanno da accompagnamento al lavoro. Il dottor Nocchi ha inoltre invitato, soprattutto le giovani generazioni, a fare la propria parte di cittadinanza attiva attraverso esperienze di volontariato in “istituzioni totali” come quelli penitenziari per prendere coscienza del lavoro di programmazione che c’è dietro. L’iniziativa è stata possibile grazie alla collaborazione con l’Istituto di Istruzione Superiore “Matteo Ricci” di Macerata. L’intervento del professor Dario Matteucci ha voluto precisare che la responsabilizzazione dei detenuti è più attuale di quanto si possa pensare auspicandone un esito positivo grazie alle nuove lungimiranti iniziative, anche del legislatore, nel rispetto del principio fondamentale della costituzione della funzione rieducativa della pena. La presenza dei ragazzi dell’Istituto ha avuto la finalità di fornire loro una esperienza formativa forte, molto più forte di ciò che possono vivere nel quotidiano scolastico attraverso la diretta testimonianza di coloro che vivono la realtà delle prigioni e negli istituti di recupero. Airola (Bn): la musica come valvola di sfogo per i giovani detenuti Agenpress.it, 13 febbraio 2019 L’impegno del rapper Lucariello. L’impegno sociale del rap per dare voce a chi non ha voce. È l’obiettivo del laboratorio di “Scrittura e produzione musicale” diretto dal rapper Lucariello nell’istituto penale per minorenni di Airola (Benevento). Un’iniziativa che si inserisce all’interno del progetto “Il palcoscenico della legalità”, nato da un’idea di Giulia Minoli e approdato lo scorso 15 ottobre a Vienna in occasione della IX Conferenza sulla Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata. Intervistato da Gnews, il quotidiano online del ministero della Giustizia, Lucariello spiega il senso dell’iniziativa. “Si tratta di un progetto che portiamo avanti da anni, in cui il linguaggio artistico, e in particolar modo quello teatrale e musicale, diventa punto di riferimento per laboratori che si sviluppano nelle scuole, nelle associazioni e, soprattutto, negli istituti detentivi per minori. A tal proposito, abbiamo avviato una collaborazione con l’Ipm di Airola, in provincia di Benevento, con l’intento di creare un rapporto diretto con i ragazzi per produrre qualcosa di artisticamente valido: due anni fa, insieme a Raiz, abbiamo dato la voce a Puortame là fore, canzone scritta completamente dai ragazzi dopo un laboratorio dedicato proprio a questo. È stata una bella soddisfazione”. Un’iniziativa che il rapper ha voluto estendere anche al cinema: “Proprio così, quest’anno stiamo portando avanti un lavoro sia sulla sceneggiatura con la scrittura del testo per un cortometraggio già in fase di produzione, sia sulla musica con la realizzazione delle canzoni che poi comporranno la colonna sonora del corto. Una di queste canzoni, “Al posto mio”, è già uscita e si può trovare su Spotify e Youtube: il pezzo è scritto e cantato da me e da Alì, un giovane detenuto italiano di origini tunisine. La produzione della canzone si è basata su un lavoro di empatia con le emozioni vissute da ragazzi: nonostante la giovane età, parliamo di persone che si trovano già a vivere la dura realtà del carcere e a dovere scontare pene, in alcuni casi anche piuttosto lunghe, che sono il risultato di un tipo di vita che li ha portati in una precisa direzione. Eppure, torno a ribadirlo, parliamo di ragazzini: concetto che cerchiamo di trasmettere anche nel cortometraggio. La storia è il frutto di una leggenda sull’istituto di Airola, nato su una struttura che un tempo era un monastero, secondo cui sporadicamente i ragazzi detenuti avrebbero avvistato una suora misteriosa chiedendo alle guardie, per la paura, di passare la notte con loro”. “Se la cultura entra in carcere”, di Maria Teresa Pichetto. Effatà Editrice ilpostodelleparole.it, 13 febbraio 2019 Dalle riforme carloalbertine al Polo universitario per studenti detenuti. La prigione è diventata forma dominante di pena soltanto nell’Ottocento e da allora molti si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. In generale è dato per scontato che il carcere sia il principale, se non l’unico, strumento di lotta alla criminalità. Ma, considerati gli alti tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, cosa ne è del principio affermato dalla nostra Costituzione, secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”? Un carcere socialmente utile dovrebbe forgiare degli individui meno inclini a violare le leggi. Sono queste alcune delle considerazioni, oltre ad assicurare anche il diritto allo studio, che hanno spinto i docenti delle Facoltà di Scienze politiche e di Giurisprudenza di Torino a istituire nel 1998 il Polo universitario per studenti detenuti. Il numero dei detenuti che hanno studiato al Polo in questi vent’anni, e quello di coloro che si sono laureati con ottimi risultati, la recidiva zero di coloro che qui hanno studiato e hanno scontato la pena, la possibilità di reinserimento sociale che hanno ottenuto attraverso il lavoro, confermano che un “altro carcere” è possibile. Il volume inserisce questa peculiare e interessante esperienza nel quadro della riflessione sul carcere come si è sviluppata, specie in Piemonte, dal Settecento ad oggi. Maria Teresa Pichetto - Già professore ordinario di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche di Torino, ha dedicato i suoi studi alla storia dell’Utopia, al pensiero politico francese e inglese, al dibattito sull’antisemitismo in Italia e a momenti e figure del Risorgimento. Ha seguito dall’inizio l’esperienza del Polo universitario per studenti detenuti come docente e, per dodici anni, come delegata del Rettore dell’Università di Torino. “La paranza dei bambini”, di Claudio Giovannesi. La fragile libertà dei ragazzini in guerra di Cristina Piccino Il Manifesto, 13 febbraio 2019 Gioventù e marginalità a Napoli, l’ascesa di un gruppo di adolescenti nell’universo della camorra. Facciamo vedere le cose belle non quelle brutte, lo dice Alessandro, uno dei due protagonisti di Selfie, il film di Agostino Ferrente mentre si filma nelle strade del rione Traiano, quartiere di camorra in quella Napoli la cui iconografia ha fatto cortocircuito con la sua realtà. La frase viene in mente guardando La paranza dei bambini, il film italiano del concorso, e in sala oggi, tratto dal romanzo di Roberto Saviano, anche autore della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci e al regista, Claudio Giovannesi, la storia dei ragazzini in guerra nel capoluogo partenopeo per il controllo ciascuno del suo pezzo di territorio. Sono piccoli, quindici anni, forse meno, hanno fame di soldi, di affermazione, le loro vite valgono poco e per questo le giocano senza risparmiarsi. Corrono veloci sugli scooter, non rispettano nessuna delle regole imposte dagli adulti; vogliono tutto e subito, i bei vestiti, la discoteca esclusiva, le Nike ultimo modello, il lusso nelle povere case, il rispetto, la paura. È solo questo? Fosse pure già basta. Nicola (Francesco Di Napoli) diventa subito il capo, gli altri lo seguono, i tradimenti e le vendette sono uguali a quelli dei grandi, forse persino più feroci. La scommessa, registica non è facile, “Gomorra” (la serie) è il rischio più grande da cui farsi intrappolare, Giovannesi peraltro lo conosce da vicino avendone diretto alcune puntate, cosa che gli ha permesso di familiarizzare, lui romano, col territorio. Del resto: viene prima il modello imposto dall’immaginario o la realtà? - che poi era la materia su cui lavorava Gomorra (il film) di Matteo Garrone, l’autorappresentazione di sé - e di un universo - in cui identificarsi. Se lo chiedono appunto i ragazzi di Selfie, appena hanno il telefonino in mano per riprendersi, e la solita storia di armi e camorra i due protagonisti non vorrebbero narrarla. Ma lo scarto è complicato, vale il fuoricampo come accadeva in L’intrusa di Leonardo Di Costanzo - di cui qui ritroviamo la protagonista, Valentina Vannino - o nel film di Bruno Oliviero Nato a Casal di Principe. E poi? Giovannesi sposta questo confronto, non forza l’immagine ma concentra “strabicamente”il suo punto di vista sui ragazzini - che il casting accuratissimo ha trovato perfetti - sui loro guizzi e sul loro respiro dentro al mondo. Nicola, Lollipop, Tyson, Biscottino, e tutti gli altri sono immersi nella realtà in cui vivono, da lì arrivano e lì sono cresciuti, ma al tempo stesso non vengono circoscritti con dogmi e sociologia: esistono, cercano un posto al mondo come sanno farlo, come possono farlo. Basta uno sguardo per decidere, quando Nicola vede la madre costretta a pagare il pizzo al boss locale dice: “Devo faticà”, è sveglio, ci sa fare, ha l’energia ancora infantile di chi non conosce i tatticismi. E dopo che il suo capo viene arrestato in una retata il sogno di riprendersi il Rione Sanità diventa vero, è quasi una rivolta contro i soprusi, e contro tutto quello che gli è sempre negato: le belle cose, le parti della città per i ricchi. Insieme al suo amore, Letizia (Viviana Aprea) Nicola va a teatro, al San Carlo, dove il velluto rosso è così morbido che viene da accarezzarlo. Troppo semplice? Forse. Ma l’azione non conta, sono i suoi personaggi che Giovannesi mette al centro, e che segue con amore al di là di qualsiasi costrizione; era così anche nel precedente Fiore che viveva nel muoversi incessante dei due protagonisti, e poco importa se c’era la periferia romana o il disagio della galera perché spariva dentro la loro presenza. Qui accade lo stesso, e il corpo a corpo del romanzo di formazione assorbe gli arredi alla Gomorra, il letto imperiale, gli stucchi d’oro, l’orologio milionario, o le feste in discoteca da film di mafia americano tra le paure e i sussurri e i sogni di un 400 colpi del presente. Prima delle armi c’è la fragilità e c’è il sogno confuso di una giustizia. C’è il sussulto delicato dell’amore e la fantasia su luoghi lontani dove rifugiarsi e stare in pace. Tutto è cominciato e tutto deve ancora succedere. Siete pazzi dice il vecchio boss di un altro Rione ormai agli arresti domiciliari - Renato Carpentieri - mentre gli fanno scoprire il videogioco più terribile e difficile. È in questo spazio tra la realtà e la sua astrazione che Giovannesi afferma la sua regia, e la libertà dei suoi ragazzini trasportati in un’epica che non si limita alla registrazione di una realtà o alle abitudini della sua immagine ma che è quella della vita, tragica o meno, scelta o imposta dalla casualità o dalle circostanze. Che la sua verità la racchiude nei momenti fragili, quelli che lo stereotipo non permette, in un istante di romanticismo in fuga, nell’esitazione o nel dolore, in una felicità che sa di adrenalina: quello che Nicola e gli altri cercano con incoscienza, senza farsi domande. Non li avevamo mai conosciuti in questo modo. “La Paranza dei bambini” racconta il cuore di Napoli. Ma non è un’altra Gomorra di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 13 febbraio 2019 Berlino applaude il film italiano in concorso. Parlano Vittorio Giovannesi e Roberto Saviano. Una lunga attesa quella che ha portato finalmente alla visione di La Paranza dei Bambini di Claudio Giovannesi in concorso al 69esimo Festival di Berlino. A rappresentare l’Italia il film tratto dal romanzo omonimo di Roberto Saviano che, insieme a Maurizio Braucci, lo vede autore di soggetto e sceneggiatura. Si ispira ad un fatto di cronaca, quello dei “paranzini”, definiti piranha nel titolo internazionale, quindicenni che riuscirono e riescono nel film a conquistare il potere nel Rione Sanità, quartiere popolare e centrale di Napoli. Ancora una volta Claudio Giovannesi racconta gli adolescenti, dopo Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, lo fa con maestria, delicatezza e tenerezza, un sentimento che testimonia amaramente la perdita dell’innocenza nello scegliere la criminalità e con irruenza, l’età adulta. Come per Fiore, lo sguardo di Giovannesi si posa su di un attore non attore, Francesco Di Napoli, giovane scoperto per caso in un altro rione storico di Napoli, il rione Traiano e sul suo viso angelico fonda la dicotomia del film: innocenza e criminalità, guerra e gioco, vita e morte. Claudio Giovannesi e Roberto Saviano descrivono il punto di partenza e l’approccio al film in attesa di calcare il red carpet e giocarsi la corsa all’Orso d’Oro. Nell’adattare il romanzo sul grande schermo, come avete deciso per l’approccio da dare al film? Claudio Giovannesi: durante i primi incontri con gli sceneggiatori Maurizio Braucci e Roberto Saviano, abbiamo da subito voluto individuare il tema, preciso, che doveva essere la perdita dell’innocenza. Abbiamo lavorato dal punto di vista delle fragilità per concentrarci sulla loro vita emotiva, il percorso di ragazzi che dall’incoscienza del gioco arrivano alla guerra. Questo percorso ci ha guidato nel casting, nella scelta dei volti. Un altro aspetto fondamentale era trovare la giusta misura per raccontare. Nel romanzo di Roberto (Saviano) la violenza è mediata dalle parole. Non volevo invece che il film risultasse ricattatorio, esibizionista, ho scelto di usare la violenza solo in funzione del tema principale. Roberto, condivide questo approccio al film? Roberto Saviano: avendo scritto insieme a Claudio e Maurizio il film, è una scelta condivisa, costruita e realizzata insieme. Non è un racconto su di una generazione criminale ma su una generazione per cui conta il denaro, i follower, l’aspetto. Chiunque creda che possa esistere altro, secondo questi ragazzi, o c’ha i soldi o è fesso. Qui si parla di ragazzi del centro, Napoli ha un cuore popolare, è una delle ultime città al mondo con questa caratteristica. I desideri di ragazzi di periferia o di questi centri popolari non sono più desideri da ghetto, ma sono gli stessi dei loro coetanei milanesi, berlinesi, inglesi, la differenza è che loro hanno come lampada di Aladino la pistola a cui chiedere qualsiasi cosa. La pistola è il grande gioco attraverso cui ottenere tutto e purtroppo poi quando la usi diventa dramma e guerra. Che situazione c’è a Napoli con la camorra? È cambiato qualcosa? La camorra sta di nuovo chiedendo pizzo ovunque, le organizzazioni si stanno riprendendo il territorio, ovviamente si tratta di una responsabilità nazionale, europea. L’emigrazione è l’unica risposta che le nuove generazioni riescono a trovare. I protagonisti della nostra storia hanno la percezione che la camorra sia l’unica struttura che impiega giovani. In effetti ai suoi vertici ci sono giovanissimi che non ci sono ai vertici delle imprese legali italiane. Un altro dato interessante è che chi decide di prendere questa strada, inverte un dato che riguarda l’umanità stessa, cioè l’aspettativa di vita, tornata quella del medioevo. Si muore come moriva un ragazzo nella Firenze medioevale, con aspettative di vita bassissima. Questi ragazzi si sentono nella norma pensando di morire a 21 anni, non si pongono neanche il problema, le cose vanno così. Come avete lavorato per sfuggire alla similitudine con Gomorra? C.G: Il punto di partenza è stato non fare uno spin- off di Gomorra, una versione junior. Io ho accettato subito di dirigere il film con l’intento di non replicare un modello che esiste già e che io ho già fatto dirigendo puntate di Gomorra - La Serie. Il punto di partenza condiviso con Roberto era fare un film sull’adolescenza in relazione alla scelta criminale. In che modo la loro vita viene compromessa. Poi non volevamo fare un film di denuncia su Napoli ma cercare di allargare il discorso e raccontare le metropoli del mondo, raccontare l’illusione della giustizia. Si può parlare di una euforia del crimine? Roberto Saviano: Si può parlare di euforia nella misura in cui loro sono euforici nella consapevolezza di scalare il cielo attraverso alcune scelte. Entri nel locale e puoi spendere 500 euro a serata. C’è l’innocenza di credere che questo ti porti alla felicità, che si possa vivere completamente per poi morire subito. Claudio, come ha scelto gli attori in base all’intento del film? Abbiamo fatto questo censimento dei quartieri popolari di Napoli e provinato ben 4000 ragazzi perché le caratteristiche che doveva avere il protagonista erano tre: l’innocenza del volto (che è anche l’aspetto meno realistico del film dato che l’iconografia criminale è molto diversa), la conoscenza diretta delle tematiche di cui si parlava e un talento innato per la recitazione che però doveva essere la capacità di portare la verità dei sentimenti in scena. Su ogni scena noi lavoravamo sul sentimento, lo stesso metodo che ho usato per Alì e Fiore, guardare agli adolescenti senza giudicare, senza dividerli in buoni e cattivi. Creare empatia con il personaggio con assenza di giudizio e riconoscere l’umanità dei personaggi sperando che il pubblico la riconosca. Che ruolo hanno i genitori in questa discesa agli inferi? Quando abbiamo iniziato a scrivere il film, il primo pensiero è stato quello di tenere lontani i genitori perché quando togli ad una generazione, quella dei quarantenni, la possibilità di avere sicurezza economica, un semplice mutuo per esempio, gli hai tolto l’autorevolezza. Non sono autorevoli, sono genitori o da proteggere o da disprezzare, in questo senso nel film c’è una madre che diventa figlia che in una scena molto efficace simbolicamente, cede la stanza grande della casa ai figli. Questo processo lo testimonia anche la cronaca, da indagini è emerso che i genitori dei figli “paranzini” ottengono più facilmente un mutuo dalle banche locali per esempio. Nell’adattare il romanzo abbiamo subito tolto la figura del padre e per assenza di padri, si intende anche l’assenza delle istituzioni. Consiglio d’Europa: “Roma minaccia la libertà di stampa” di Guido Caldiron Il Manifesto, 13 febbraio 2019 Rapporto sull’informazione nel Vecchio Continente. Governo nel mirino per il “taglio ai finanziamenti” e l’atteggiamento negativo verso i media. L’Italia osservata speciale con Russia, Turchia e Ungheria. Preoccupazione per la linea e i toni dell’esecutivo. “Di Maio e Salvini usano regolarmente sui social una retorica ostile nei confronti dei giornalisti”. In Italia, nel corso dell’anno appena trascorso, la libertà di stampa “si è chiaramente deteriorata” e, in ogni caso, si è “ridotta”. È un allarme preciso, circostanziato, inquietante, quello contenuto nel rapporto diffuso ieri da associazioni e ong che animano la Piattaforma per la protezione e la salvaguardia del giornalismo che opera per conto del Consiglio d’Europa - tra loro, la Federazione internazionale dei giornalisti, l’Associazione dei giornalisti europei e Reporter senza frontiere -, raccogliendo denunce e monitorando a livello continentale lo stato della libertà di stampa. Nel documento, intitolato “Democrazia a rischio: minacce e attacchi contro la libertà dei media in Europa”, che raccoglie un lungo elenco di pressioni, abusi e violenze che arrivano fino all’omicidio - i casi di morte violenta descritti sono quelli di Jan Kuciak, Jamal Khassogi, Viktoria Marinova e Maksim Borodin, cronisti uccisi rispettivamente in Slovacchia, Turchia, Bulgaria e Russia nel corso del 2018, colpisce prima di tutto che la situazione del nostro Paese sia presa in esame con un report specifico accanto a quelli di realtà come l’Ungheria, la Turchia e la Russia. Il motivo di questa scelta è presto detto: l’Italia è “tra i Paesi con il maggior numero di segnalazioni pubblicate sulla piattaforma” nel corso dello scorso anno, “lo stesso numero della Federazione Russa”. Cifre inoltre più che triplicate rispetto al 2017. Complessivamente, il rapporto valuta “la situazione della libertà dei mezzi d’informazione in Europa sulla base di 140 gravi violazioni segnalate alla piattaforma nel corso del 2018”, episodi e vicende che si iscrivono spesso in una drammatica continuità di repressione e violenza verso i rappresentanti della stampa indipendente, come ad esempio nel caso del regime di Erdogan in Turchia. Per il caso italiano permangono ad esempio le indicazioni di pericolosità relative alla presenza delle organizzazioni mafiose - 21 i giornalisti minacciati di morte e per questo sottoposti alla protezione delle forze dell’ordine -, anche se le novità che hanno valso alla Penisola questa sinistra menzione speciale hanno tutte a che fare con il quadro politico definito dall’esecutivo gialloverde. Da questo punto di vista, il rapporto non potrebbe essere più esplicito. “La maggior parte degli allarmi registrati nel 2018 - si legge nel documento -, sono stati inviati dopo l’insediamento ufficiale del nuovo governo di coalizione il 1° giugno”. Non solo, “i due vice premier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, usano regolarmente sui social media una retorica particolarmente ostile nei confronti dei media e dei giornalisti”. Quella che è chiaramente indicata come l’attitudine negativa del governo italiano nei confronti della libertà di stampa e degli stessi giornalisti è sottolineata a più riprese e con diversi esempi. A partire dall’”abolizione dei sussidi pubblici alla stampa”, il vero e proprio attacco alle voci libere (più volte denunciato da questo giornale) che si è tradotto nella cancellazione dei contributi all’editoria non profit deciso dal governo con la recente legge di bilancio. Ci sono poi “gli insulti” rivolti da Di Maio all’indirizzo dei giornalisti o la minaccia di “rimuovere la protezione della polizia per il giornalista investigativo Roberto Saviano”, più volte evocata da Salvini. Un clima, quello che si respira nel nostro Paese, che secondo la Fnsi, citata nel rapporto, espone “i professionisti dei media” ad “un rischio costante di violenza”, “alimentato dalla retorica ostile dei membri del governo e dei partiti della maggioranza”. Ma sul giornalismo italiano, come ha ricordato in questi giorni Concita De Gregorio a partire dalla vicenda che la vede suo malgrado protagonista, continua a pesare, accanto alle pressioni politiche e alle minacce violente, il rischio di vedere limitata la propria autonomia e libertà da richieste di risarcimenti danni esorbitanti in cause civili che hanno l’evidente scopo di intimidire o punire le voci scomode dell’informazione. Migranti. Più “irregolari” dopo la stretta al diritto d’asilo di Fulvio Fulvi Avvenire, 13 febbraio 2019 Una ricerca Ispi mette in evidenza il forte aumento degli stranieri senza permesso di soggiorno negli ultimi sette mesi Il monito del presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi: “diritti a rischio”. Sono 40mila i migranti irregolari che vivono sul territorio nazionale: la stima è dell’lspì, che ha fotografato il forte aumento degli stranieri rimasti senza permesso dì soggiorno. La protezione umanitaria in Italia registra un forte calo negli ultimi sette mesi, con la conseguenza di un sensibile aumento degli immigrati irregolari che vivono sul territorio nazionale: circa 40mila. Perché sono quasi 45mila i soggetti che tra il giugno 2018 e il gennaio 2019 si sono visti negare l’asilo. Solo il 2% dei richiedenti ha invece ricevuto la tutela prevista dalle norme vigenti (nel 2017, con le precedenti disposizioni, erano il 25%) mentre, nello stesso periodo, ì rimpatriati non hanno superato le 5mila unità. Sono ì dati che emergono da uno studio dell’lspi, l’Istituto di politica internazionale. Si tratta, in pratica, dei primi effetti della circolare emanata in materia dal Viminale nel luglio scorso. A quel giro di vite, che ha imposto di fatto restrizioni nella concessione dei permessi alle commissioni territoriali, ha poi fatto seguito il decreto Salvini, discusso in quei mesi e convertito in legge a dicembre. Secondo le stime dell’lspì, inoltre, nel 2020 il numero degli irregolari, cioè ì migranti senza permesso dì soggiorno, in Italia potrebbe salire addirittura di 140mìla unità superando in totale quota 670mila. La cifra è, nella sostanza, il frutto della riduzione delle forme dì protezione introdotte nel nuovo “decreto sicurezza”. “Sì tratta dì un numero più che doppio rispetto ad appena cinque anni fa -spiega Matteo Villa, ricercatore dell’istituto -quando ì migranti irregolari stimati erano meno dì 300mila e sarebbe anche il record di sempre se si esclude il 2002, quando in Italia sì stimavano presentì 750mìla irregolari”. Ai ritmi attuali, dunque, i rimpatri dei migranti irregolari nei loro Paesi di provenienza avranno un effetto molto marginale. “Per rimpatriarli tutti - dice il ricercatore dell’Ispi - sarebbero necessari 90 anni, e solo alla condizione che nel prossimo secolo non arrivi più nessun irregolare”. Un’ipotesi impossibile nella realtà. Con il recente “decreto sicurezza” il governo Conte ha abolito la “protezione umanitaria” (permesso di soggiorno per motivi umanitari, della durata massima di due anni) presente nell’ordinamento italiano sin dal 1998, una tutela che veniva concessa da una commissione territoriale su base discrezionale in presenza di cause come problemi di salute o condizioni di grave povertà nel Paese (o regione) d’origine del richiedente asilo. E tutto questo mette a rischio, per i migranti, anche ì diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. L’allarme su questo versante è stato lanciato ieri dal presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il linguaggio usato da Patroni Griffi è tecnico ma il messaggio che passa è immediato: gli interventi legislativi che si sono succeduti in materia dì immigrazione, l’ultimo dei quali è, appunto, la “legge sicurezza”, hanno condotto a “uno statuto dello straniero in più parti derogatorio rispetto all’ordinario quadro dì regole e valori che disciplinano il rapporto tra il pubblico potere e i cittadini”, È cosi che è “entrato in tensione il nucleo dei diritti fondamentali”, dice il presidente del massimo organo di Giustizia amministrativa, che rivendica il merito di aver dato, alla sua attività “una dimensione concreta ai diritti fondamentali dei migranti, dalla salute all’adeguata protezione dei minori”. Terrorismo. Il giorno della verità, altri nomi nella lista dei latitanti di Anais Ginori e Carlo Bonini La Repubblica, 13 febbraio 2019 Vertice Italia-Francia. L’appuntamento è per oggi in place Vendôme. La delegazione del nostro ministero di Giustizia arriva nel cuore della capitale per incontrare i colleghi francesi in una riunione che tutti definiscono “tecnica” ma dal valore altamente politico, nel mezzo della crisi diplomatica in corso. Sul tavolo i funzionari italiani formalizzeranno le richieste di estradizione per alcuni latitanti rifugiati Oltralpe da decenni. La lista è composta di Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin, Roberta Cappelli, Enzo Calvitti, Paolo Ceriani Sebregondi, Maurizio Di Marzio, Paola Filippi, Gino Giunti, Giorgio Pietrostefani, Ermenegildo Marinelli, Sergio Tornaghi, Raffaele Ventura, Enrico Villimburgo. Per la maggior parte, ex br, un militante di Prima Linea, uno dei Pac, uno del Movimento comunisti rivoluzionari, uno delle Formazioni comuniste combattenti. Qualcuno condannato all’ergastolo, altri a pene che non superano i vent’anni. In tutto sono quindici nomi tra cui è stato aggiunto negli ultimi giorni Narciso Manenti su cui la procura di Bergamo ha emesso un mandato di arresto europeo. Affiliato ai “Nuclei armati per il contropotere territoriale”, è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe Gurrieri, carabiniere ucciso nel 1979 a Bergamo davanti al figlio adolescente. Manenti, sessantuno anni di cui trentasei passati Oltralpe, abita a Châlette-sur-Loing, comune di tredicimila abitanti nella regione della Loira, dove si fa chiamare da tutti “Angelò”. È titolare di un’impresa di servizi a domicilio, la sua foto appare sul sito della ditta. La sua situazione non è molto diversa da quella di altri latitanti che si sono rifatti una vita alla luce del sole, con figli e a volte nipotini, professioni come architetto, ristoratore, psicologo. Tutti hanno beneficiato della protezione della Dottrina Mitterrand, regolarizzati con permessi di soggiorno rinnovati ogni dieci anni dalle Prefetture nonostante fossero ricercati dalla giustizia italiana. È dall’ottobre 2002 che i funzionari del nostro ministero di Giustizia non riaprono discussioni formali con gli omologhi francesi. Allora si decise di dare la priorità all’estradizione di Cesare Battisti, su cui la giustizia d’Oltralpe si pronunciò favorevolmente nel 2004, troppo tardi visto che era già scappato all’estero. Questa volta, arriverà da Roma una nutrita delegazione composta da Giuseppe Corasaniti, capo Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Donatella Donati, direttore generale della Giustizia Penale, Stefano Opilio, direttore dell’ufficio della Cooperazione Giudiziaria Internazionale Penale, Antonio Pastore e Laura Alessandrelli, magistrati addetti all’ufficio Cooperazione Internazionale. Funzionari e magistrati avranno due giorni per confrontarsi. Spiega una fonte qualificata del ministero di Giustizia che ha accesso ai dossier: “Ci sono due blocchi: uno risalente al 25 ottobre 2002 che riguarda otto persone, su cui le estradizioni risultano ancora pendenti. Un altro blocco, di cinque, sei persone risale alla seconda metà degli anni Ottanta, per loro le estradizioni furono all’epoca negate perché non si trattava di sentenze definitive ma ora i casi saranno riaperti al tavolo coi francesi”. La battaglia si annuncia lunga e complessa, a meno che alcuni profili non rientrino nelle regole del mandato d’arresto europeo (Mae) applicabile però solo per reati commessi dopo il 1993. Secondo fonti francesi, su un paio di fascicoli sarebbero stati forniti nuovi elementi. Bernard Squarcini conosce bene la galassia dei latitanti italiani avendoli seguiti durante gli anni Novanta da responsabile dei Renseignements Généraux, l’intelligence interna della polizia. Squarcini, detto “Lo Squalo”, ormai uscito dalla polizia dopo vari scandali, non esclude che alcune procedure siano state aggiornate alla luce di elementi raccolti durante la collaborazione tra le due polizie negli anni Novanta. “Gli agenti della Digos - ricorda - venivano regolarmente a Parigi. La Francia ha continuato a essere una base intellettuale e logistica per alcuni gruppi fino a inizio degli anni Duemila”. Nel caso del mandato d’arresto europeo la procedura sarebbe veloce. “Se gli italiani porteranno un inventario di fatti nuovi che risalgono a dopo 1993 - conclude Squarcini - allora non ci sarà molto da discutere”. È ciò su cui scommette il nostro governo. Una fonte vicina al ministro Alfonso Bonafede dice: “Su almeno due posizioni siamo ragionevolmente convinti che i tempi di consegna da parte dei francesi possano essere molto rapidi”. Su quali siano i due latitanti la fonte aggiunge: “Almeno in questa fase non lo diremo. Non intendiamo dargli alcun vantaggio”. Spagna. Il futuro e la libertà dell’Europa si giocano anche in Catalogna di Matteo Angioli Il Dubbio, 13 febbraio 2019 Al via il processo ai leader indipendentisti catalani. Accusati di sedizione e ribellione, rischiano fino a 25 anni di prigione. Le elezioni europee del 26 maggio non sono l’unico appuntamento rilevante per il futuro europeo. C’è un altro evento da non sottovalutare, legato a una vicenda largamente ignorata dai mass- media, ovvero il processo che inizierà il 12 febbraio a Madrid agli esponenti catalani indipendentisti in detenzione preventiva da 15 mesi. Se condannati, rischiano pene che vanno dai 17 ai 25 anni di reclusione. Malversazione, sedizione e ribellione sono le accuse di cui devono rispondere sette leader politici per aver organizzato il referendum consultivo sull’indipendenza della Catalogna il primo ottobre 2017. Altri due leader del mondo dell’associazionismo sono accusati di sedizione. Malversazione per aver distratto fondi pubblici per organizzare un referendum non autorizzato dal Parlamento; sedizione per aver agito pubblicamente al di fuori dei canali legali per impedire l’applicazione di leggi; ribellione per aver agito pubblicamente e con la violenza in deroga alla Costituzione, dichiarando l’indipendenza di una parte del territorio nazionale. L’ultima accusa in particolare è controversa perché l’evidenza, non smentita, mostra che la violenza è stata perpetrata solo da parte della polizia spagnola. Ciò che colpisce è un ricorso così massiccio all’uso della forza e alla giurisdizione penale dopo anni di sostanziale inerzia da parte di Madrid. È un fatto che merita attenzione e una riflessione, possibilmente a livello europeo, alla quale abbiamo voluto contribuire incontrando l’8 gennaio, assieme al Sen. Roberto Rampi, quattro dei nove detenuti nel carcere di Lledoners, a 70 km da Barcellona. Significativo che la conversazione si sia incentrata sullo Stato di Diritto e sullo sciopero della fame che avevano condotto a dicembre e sul quale, il 10 dello stesso mese, erano intervenuti anche i vescovi catalani con il vicesegretario della Conferenza Episcopale Tarragonese, Norbert Miracle, che sulla specifica questione della detenzione preventiva ha detto: “Quando la detenzione preventiva, in modo abusivo, cerca un anticipo della pena prima della condanna, o viene applicata al sospetto più o meno fondato di un reato commesso, costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita nascosta, oltre la facciata di legalità”. Dopo l’annullamento da parte del Tribunale Costituzionale nel 2010 dello Statuto di Autonomia della Catalogna, approvato per via parlamentare nel 2006, il governo spagnolo non ha fatto nessun passo concreto per tenere aperto un canale con Barcellona e così dalle aule parlamentari siamo passati a quelle giudiziarie. A questo punto occorre lanciare un allarme sull’erosione delle istituzioni e dello Stato di Diritto e sull’incapacità e la nolontà di governi di nutrire il dialogo, il contraddittorio, la conoscenza; in altre parole di governare democraticamente. Se è vero che l’Unione europea si fonda sui principi liberali, democratici e sullo Stato di Diritto, allora la posta in gioco è il diritto di dissentire pacificamente e di presentare e difendere proposte alternative. L’abuso della giurisdizione penale scoraggia la libertà di espressione, il legittimo dissenso nonviolento e la fecondità del dialogo che sono alla base in una democrazia. In questo senso giova richiamare le parole dell’ex Presidente spagnolo socialista Luis Zapatero, che il 16 dicembre scorso aveva dichiarato che l’iniziativa degli indipendentisti era “un viaggio verso il nulla, che ha superato i limiti della politica. Ma non hanno fatto un colpo di stato” per poi aggiungere che con i partiti indipendentisti “non c’è stato quasi nessun dialogo”. È proprio l’isolamento in cui sono finiti i catalani che occorre sconfiggere per primo. Bruxelles parla solo con le capitali degli Stati membri, tuttavia il Parlamento europeo, i partiti e i politici possono occuparsi della questione con maggiore libertà. È questa l’assenza che i Catalani, indipendentisti ma anche europeisti, stigmatizzano. E è a partire da questo dato che occorre ascoltarli e coltivare le loro aspirazioni di maggiore libertà, diritti e democrazia nell’ottica che l’iniziativa di divisione rivolta a circa 7 milioni di cittadini si elevi in una di unione che abbracci mezzo miliardo di europei, potenziali cittadini degli Stati Uniti d’Europa. Da questo punto di vista è interessante che Clayborne Carson, presidente del prestigioso King Institute, abbia espresso apprezzamento al Presidente della Generalitat catalana Quim Torra per la scelta nonviolenta sposata dal movimento indipendentista, sottolineando al contempo che mentre gli esponenti catalani appartengono a un movimento per dividere, Martin Lugther King jr apparteneva ad uno per unire. Marco Pannella era convinto che se non riusciremo a costruire la patria europea, l’Europa delle patrie, con i suoi Stati indipendenti nazionali, distruggerà l’Europa e le patrie stesse. Negli ultimi anni della sua vita, in riferimento alla Catalogna e alla Scozia, di cui lodava la scelta nonviolenta, affermava: “Non deve più importare il colore del passaporto, quindi anche la storia antropologica di quell’area, ma deve invece contare il grado di riforma dello Stato nella direzione di maggiori diritti e libertà. La lotta non può essere ritenuta di progresso se è di rottura delle unità nazionali per creare altre mini realtà nazionali e nazionaliste. Occorre invece proporre come motivo unificante quella di riforme radicalmente democratiche degli Stati nei confronti dei quali ci si trova in posizione minoritaria”. Lo straordinario impegno e sacrificio che passa per i nove detenuti politici è di un livello tale da poter mobilitare nuove forze ed energie non per riformare il Regno di Spagna ma per riprendere a edificare gli Stati Uniti d’Europa, uscendo così dall’isolamento che produce pasticci e offrendo un’isola e uno slancio di speranza e di azione politica per salvarsi dal mare intergovernativo europeo sempre più in tempesta. Non casualmente i Catalani pongono al centro il rispetto dello Stato di Diritto e dei diritti civili. Come sintetizza Louise Arbour, ex Alto Commissario ONU ai Diritti Umani, lo Stato di Diritto consiste nel non aver nessuno al di sopra della legge e nell’applicazione giusta di leggi giuste, ovvero secondo i principi e le norme internazionali che regolano il rispetto dei diritti umani. Non è sufficiente il rispetto della legalità, poiché la legalità può anche derivare da un codice fascista o comunista, quindi violenta e autoritaria. Inoltre, il 6 aprile 2018 il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione aveva invitato le autorità spagnole ad astenersi dal perseguire l’accusa di ribellione contro le personalità politiche e i manifestanti appartenenti alla minoranza catalana. Tali accuse per atti che non comportano violenza o incitamento alla violenza potrebbero interferire con i diritti di protesta pubblica e dissenso. Anche il relatore speciale sulle questioni relative alle minoranze, Fernand de Varennes, il 25 gennaio scorso ha dichiarato che “il dissenso politico non violento da parte delle minoranze non dovrebbe dare origine ad accuse penali in quanto tali restrizioni dovrebbero essere imposte solo se strettamente necessarie e proporzionate”. Più interessante ancora è la dichiarazione di uno degli avvocati degli esponenti catalani, Javier Melero, unionista, nonché co- fondatore di Ciudadanos, formazione sedicente centrista e “liberale” spagnola che però, in barba al garantismo e alla separazione dei poteri, non solo auspica il massimo della pena per gli imputati prima ancora che il processo abbia inizio, ma esclude a priori qualsiasi forma di indulto nel caso di condanna. Nel gennaio 2018 l’avvocato Melero aveva detto: “Ciudadanos non ha fatto una riflessione in materia penale, come in tante altre. L’idea del liberalismo ruota attorno alla separazione dei poteri e su questo, da tempo, Ciudadanos non ha una posizione né propria né liberale”. Senza scomodare la categoria dei “populisti”, che si trovano a destra come a sinistra, alle europee si affronteranno da una parte gli europeisti e dall’altra i sovranisti o “eurorealisti”, come si definiscono oggi alcuni di essi. Il quadro però è reso più complesso dall’esistenza di pesanti differenze nel campo europeista. Se è chiaro e legittimo che i nazionalisti contrastino l’UE, con dosi di demagogia variabili, in quanto entità tecnico- oppressiva di popoli e Stati nazionali, appare meno evidente che vi siano alcuni europeisti che sostengono con dosi di ipocrisia certe, che si può e si deve fare meglio per un’Europa sempre più unita e solidale. Cioè auspicano una cooperazione politica maggiore senza considerare però che la cooperazione politica esiste già. Occorre stabilire urgentemente se si vuole la cooperazione politica in una federazione, che come tale abbia forza di legge, o no. Tra gli europeisti vi sono in particolare i cosiddetti “liberali” che si raccolgono nel Partito dei Liberali e Democratici per l’Europa (Alde) e che anziché lottare per quei principi e quegli obiettivi che sbandierano da sempre, nutrono l’Europa intergovernativa e le relative posizioni di potere che ne scaturiscono scendendo a patti (al ribasso, ma presentandoli come conquiste) proprio con quei nazionalisti intenti a impedire ogni possibilità di Europa unita. Sono alleanze e patti tossici. Ovviamente non con tutti. I colpi inferti al sistema dell’informazione e ai diritti del lavoro in Ungheria da Orbán e al sistema giudiziario polacco da Kaczynski non sfuggono nemmeno alla cecità “liberale”. Ma è nei dettagli che nasconde il diavolo (sovranista). Per inciso, in Italia i “liberali” che fanno riferimento all’Alde appartengono a Più Europa e con convinzione hanno partecipato l’ 8 novembre al Congresso dell’Alde tenutosi proprio a Madrid. Emma Bonino, oggi uno dei volti più autorevoli della famiglia “liberale” europea, intervenendo in apertura ha detto: “È rigenerante essere in un ambiente non ostile all’Europa e anzi determinato e impegnato nel sogno e nel progetto europeo” per poi spiegare che il confronto oggi è “tra il nazionalismo e un’Europa democratica, aperta, liberale”. Non si capisce allora il suo silenzio sulla decisione “democratica, aperta e liberale” di espellere i membri catalani del Partito Democratico, il Pdecat, annunciata dall’Alde in un comunicato del 27 ottobre 2018, redatto in stile sovietico, in cui si afferma di non entrare negli affari politici interni della Spagna e di esortare “tutti gli attori politici a impegnarsi nel dialogo per consentire una soluzione sostenibile”. Chissà, forse è così che funziona il nuovo dialogo “liberale”: a suon di espulsioni. È evidente che espellendo i catalani del Pdecat, i “liberali” europei aggravano il tabù rispetto una questione la cui complessità esige di essere affrontata laicamente. Purtroppo la scelta compiuta è di evidenziare il connotato indipendentista dei democratici della Catalogna piuttosto che quello federalista europeo. Una scelta che produrrà l’effetto perverso di accrescere il primo ed indebolire il secondo. Ma non finisce qua: alle ultime elezioni regionali in Andalusia, per potersi assicurare una presenza nel governo regionale, i liberali hanno dato vita ad un’alleanza con il Partito Popolare mantenuta in vita grazie all’appoggio esterno di Vox, la formazione di estrema destra nazionalista all’origine della denuncia che ha portato all’arresto degli indipendentisti catalani e nel cui programma elettorale si legge la proposta di “mettere al bando partiti, associazioni o organizzazioni non governative che perseguono la distruzione dell’unità territoriale della nazione spagnola” e quella di “promuovere un nuovo trattato europeo, in linea con i paesi del gruppo di Visegrad in termini di confini, sovranità nazionale, rispetto dei valori della cultura europea e aumentare considerevolmente il peso della Spagna nel processo decisionale”. Il Presidente del gruppo Alde al Parlamento europeo, l’ex Primo Ministro belga Guy Verhofstadt, acclamato al recente Congresso dei “liberali” di Più Europa, ha scritto su Twitter che il patto siglato in Andalusia è “un’opportunità storica per la rigenerazione e la modernizzazione di questa grande terra”. In realtà è una scellerata alleanza di comodo anti- Ue federale (come in Austria e Svezia) che sdoganerà su tutto il territorio nazionale spagnolo l’anti-europeismo più marcato alle prossime elezioni. Non si tratta di applicare un “cordone sanitario” ideologico attorno ai nazionalisti più o meno estremi. Basterebbe che chi professa idee liberali vivesse secondo certi principi e quindi obiettivi conseguenti, in assenza dei quali i sovranismi non possono che proliferare. Il vero dramma quindi è l’asfissiante assenza di idee- forza, di valori, di moralità politica e il dilagare di avida ambizione di potere con la quale, dopo decenni di duopolio Ppe- Pse, i “liberali” europei oggi si apprestano a dare il colpo di grazia all’Europa dei padri fondatori. Grecia. L’inferno di Moria: autolesionismo e tentati suicidi anche tra i bambini Corriere della Sera, 13 febbraio 2019 Più di 5mila uomini, donne e bambini sopravvivono nel campo di Moria sull’isola di Lesbo, in Grecia, previsto per ospitarne 3mila, privo delle minime condizioni di dignità. Sembra una prigione a cielo aperto, dove intere famiglie vivono intrappolate dall’accordo tra Unione Europea e Turchia, siglato nel 2016. Un’intesa che costringe migliaia di persone, in fuga da guerra e violenze, a rimanere bloccate per mesi, alcune addirittura fino a due anni, prima di ricevere una qualunque risposta. MSF gestisce una clinica di fronte al campo, dove fornisce cure mediche e psicologiche ai bambini, e cure ostetriche alle donne incinte. Ogni settimana le équipe di MSF assistono adolescenti che hanno tentato il suicidio e quasi un quarto dei bambini coinvolti nelle terapie di gruppo ha avuto episodi di autolesionismo, ha tentato il suicidio o ha pensato di togliersi la vita. Turchia. Più di mille mandati d’arresto in un giorno. Vietate le marce dell’Hdp di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 febbraio 2019 Una delle più vaste operazioni di polizia contro il movimento Hizmet dell’imam Gülen prende di mira altri agenti di polizia. Nel sud est curdo bloccate le manifestazioni per Leyla Guven, al 100° giorno di sciopero della fame. Sono trascorsi due anni e sette mesi dal 15 luglio 2016, dal tentato e fallito colpo di Stato in Turchia. Eppure la campagna di epurazioni immediatamente lanciata dal presidente Erdogan non è terminata. Ieri la polizia ha lanciato una delle più ampie operazioni mai realizzate contro il movimento Hizmet del predicatore Fethullah Gülen, passato da braccio destro (per molti, la mente) delle politiche di Erdogan al più acerrimo dei nemici. Nel mirino altri poliziotti, accusati di appartenenza al movimento: sono stati spiccati 1.112 mandati d’arresto in 76 province, sulla base di un’indagine relativa a un concorso per agenti di polizia del 2010. Al momento sono stati già arrestati 124 sospetti, “demoni” secondo la definizione del ministro degli interni Soylu. Ankara accusa Gülen di aver infiltrato propri uomini dentro tutte le istituzioni dello Stato, scordando di specificare che lo ha potuto fare con il sostegno dello stesso Erdogan. L’ultima operazione affolla ancora di più le 384 carceri turche, già piene: oltre 77mila persone sono dietro le sbarre in attesa di processi legati al golpe. Fuori restano, ai margini della società, 150mila dipendenti pubblici licenziati in tronco. Numeri a cui si aggiungono quelli che dal 2016 mettono la Turchia sul podio delle violazioni della libertà di stampa: 130 media chiusi e 68 giornalisti ancora in prigione (degli oltre 240 arrestati dopo il tentato golpe). Ma in carcere restano anche dieci parlamentari dell’Hdp. Contro il partito di sinistra la repressione non si ferma: ieri le marce organizzate in 15 città in sostegno della parlamentare Leyla Guven, al 100° giorno di sciopero della fame, sono state bloccate dalla polizia con barricate, scudi, arresti. Tunisia. I bambini dell’Isis reclusi e abbandonati: così i figli pagano le colpe dei padri di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 13 febbraio 2019 Stando ai numeri, sembra che siano circa 200 bambini e 100 donne ad esser rinchiusi in prigioni o in campi di detenzione all’estero senza esser accusati di nulla. La loro unica colpa è quella di far parte di una famiglia che ha avuto dei legami con foreign fighters: l’accusa di Human Rights Watch. Secondo le autorità tunisine, sono più di 3000 i connazionali che hanno lasciato il paese per raggiungere e unirsi alle fila dell’Is. Una delle nazioni con il maggior numero di foreign fighters che oggi fa i conti con la gestione del ‘ritorno’. In questo frangente, una delle maggiori criticità è rappresentata dai figli o familiari dell’Isis: bambini che oggi stanno pagando all’estero le colpe di genitori militanti. Stando ai numeri, sembra che siano circa 200 bambini e 100 donne ad esser detenuti in prigioni o in campi di detenzione all’estero senza esser accusati di nulla. La loro unica colpa è quella di far parte di una famiglia che ha avuto dei legami con foreign fighters. L’indifferenza. In un rapporto Human Rights Watch punta il dito contro il governo di Tunisi, colpevole secondo la Ong statunitense, di non star facendo abbastanza per riportare questi innocenti in patria. “Le questioni di sicurezza - afferma Letta Tayler, ricercatrice di terrorismo e antiterrorismo di Human Rights Watch - non possono giustificare l’azione dei governi che abbandonano i bambini piccoli e altri cittadini detenuti senza accusa in squallidi campi e prigioni estere. I bambini tunisini sono bloccati in questi campi senza istruzione, senza futuro e senza via d’uscita, mentre il loro governo sembra non alzare nemmeno un dito per aiutarli”. La prigionia. Alcune donne hanno raccontato ai loro familiari di essere rinchiuse in Libia in condizioni di estrema indigenza e in carceri sovraffollate. Altre hanno denunciato le condizioni inumane nelle tendopoli nel nord est della Siria. Due madri hanno raccontato che donne e bambini sono stati picchiati durante gli interrogatori nella prigione di Misurata dove alcune delle vittime, anche minori, hanno confessato di voler uccidersi. I parenti di bambini e donne recluse all’estero, soprattutto in Iraq, Siria e Libia, hanno provato a contattare il ministero tunisino per chiedere informazioni ed esortarlo ad un’azione decisiva per riportarli in patria. Ma la maggior parte ha dichiarato di non aver ricevuto risposta. Ad oggi, nonostante le dichiarazioni di impegno, la Tunisia ha riportato a casa solo tre di questi minorenni impegnandosi a riportare a casa altri 6 orfani entro la metà di febbraio. L’accusa. La mancanza d’impegno da parte della Tunisia nel riportare a casa i figli di presunti o confermati membri dell’Isis dà luogo secondo l’ong statunitense ad una grave violazione dei diritti dell’infanzia. Inoltre, le madri, se non accusate, dovrebbero essere rimpatriate assieme ai figli. Se invece queste fossero sospettate o accusate di terrorismo o affiliazione, dovrebbero essere detenute in patria così da garantire ai figli una maggior vicinanza. “Questi bambini e persino le loro madri - continua Tyler - non possono lasciare i campi e sono bloccati nelle prigioni: non possono tornare a casa da soli più di quanto i pesci possano attraversare il deserto. Lasciarli languire senza accusa aggraverà le loro sofferenze e rischia di alimentare ulteriori risentimenti”. Sudan. Abusi della polizia in risposta alle massicce proteste della popolazione La Repubblica, 13 febbraio 2019 La denuncia di Human Rights Watch. Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu dovrebbe rispondere, sollecita HRW, con urgenza alla crisi dei diritti umani nella sessione di marzo e assicurare un’indagine indipendente. L’organizzazione umanitaria in difesa dei diritti umani, Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato con un video, pubblicato oggi 11 febbraio, le violenze estreme delle forze governative e gli scioccanti abusi contro i manifestanti durante le lunghe settimane di proteste della popolazione - in gran parte pacifiche - in tutto il Paese. Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe rispondere con urgenza alla crisi dei diritti umani in Sudan nella sessione di marzo e assicurare un’indagine indipendente sulle violazioni commesse dall’inizio delle proteste nel dicembre 2018. Spari ad altezza d’uomo e bastonate sui manifestanti. Le riprese video, verificate da Human Rights Watch, mostrano forze di sicurezza che girano su veicoli armati, sparando proiettili e gas lacrimogeni contro manifestanti disarmati e picchiando brutalmente la gente con i bastoni e i calci delle pistole. Il video mostra anche le ferite riportate dalle persone per gli spari ad altezza d’uomo; prove di pestaggi duri e torture e gli effetti delle incursioni della polizia negli ospedali, dove sarebbero stati sparati gas lacrimogeni nelle sale del pronto soccorso bloccando così ogni attività di assistenza medica. “Vi sono prove inconfutabili - si legge nel rapporto di Hrw - del fatto che il Sudan stia usando violenza spietata e brutalità contro i manifestanti pacifici che esprimono disagio e critiche verso il governo”, ha detto Jehanne Henry, direttore dell’Africa associata a Human Rights Watch. “Queste tattiche violente, che violano il nucleo stesso degli obblighi internazionali in materia di diritti umani in Sudan, dovrebbero finire immediatamente, e i responsabili dovrebbero essere perseguiti”. Finora 50 vittime, dicono gli attivisti. Da metà dicembre, i manifestanti sono scesi in strada nelle città di tutto il Paese per protestare contro gli aumenti dei prezzi e per chiedere al presidente Omar al-Bashir, al potere da 29 anni, di dimettersi. Le proteste sono iniziate ad Atbara e si sono diffuse in altre città e paesi, tra cui Gedarif, Wad Madani, Port Sudan, Dongola, El Obeid, El Fasher, Khartoum e Omdurman. Agendo con totale impunità, le forze di sicurezza governative - ma anche la polizia nazionale e gruppi paramilitari, tra cui le Forze di supporto rapido - hanno usato violenza eccessiva, sparando proiettili veri, proiettili di gomma e gas lacrimogeni direttamente contro i manifestanti. Gli attivisti sudanesi stimano che oltre 50 persone siano morte, la maggior parte delle quali da ferite da arma da fuoco, tra cui il venticinquenne Babiker Abdul Hamid, un medico sparato il 17 gennaio a distanza ravvicinata mentre tentava di curare i feriti. La polizia ha agito sapendo di essere impunita e ingiudicabile. Le forze hanno attaccato sfacciatamente ospedali e personale medico, arrestando dozzine di medici e entrando in un ospedale, come hanno fatto durante le proteste del 9 gennaio scorso a Omdurman, sparando proiettili e gas lacrimogeni e impedendo al personale medico di curare i feriti. I medici per i diritti umani hanno riferito che sette ospedali sono stati attaccati direttamente, ostacolando severamente il personale che tratta i pazienti e causando difficoltà respiratorie a causa dei gas lacrimogeni. Le forze governative hanno anche radunato e detenuto centinaia, forse migliaia, di manifestanti e critici, arrestandoli per le strade e negli uffici e nelle case. Le prove-video mostrano segni di tortura sui detenuti rilasciati. Nonostante un ordine del 20 gennaio scorso, da parte del capo della sicurezza nazionale, di rilasciare tutti i detenuti, solo 186 sono stati rilasciati. Funzionari della sicurezza hanno continuato a detenere centinaia di persone, inclusi molti eminenti membri del partito di opposizione, avvocati, medici e attivisti su base giornaliera. Al-Nashir ricercato dalla Corte Penale e al potere da 29 anni. “Ogni settimana che passa, la situazione peggiora”, ha detto Henry. “È giunto il momento che il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite aumenti il monitoraggio della situazione e invii immediatamente gli investigatori nel Paese”. La mancanza di responsabilità per le passate violazioni ha alimentato continui abusi in Sudan, afferma Human Rights Watch. Al-Bashir è ricercato dalla Corte penale internazionale con l’accusa di responsabilità per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur. “Incoraggiati da anni di impunità, i leader del Sudan stanno ancora una volta commettendo gravi crimini contro i civili per settimane senza conseguenze”, ha commentato Henry. “Omar al-Bashir - ha concluso - è un latitante che dovrebbe rispondere alle accuse dell’ICC (International Criminal Court) contro di lui per crimini in Darfur, incluso il genocidio”. Libero e al governo, nonostante due mandati di arresto. Nonostante i mandati di arresto emessi nel 2009 e nel 2010, il governo sudanese ha rifiutato di cooperare con la corte o di fornire una significativa responsabilità per le atrocità nel Darfur e in altre due zone di conflitto, il Southern Kordofan e il Blue Nile. Human Rights Watch ha documentato i crimini atroci in quelle aree, tra cui uccisioni, stupri, torture, attacchi a ospedali e scuole, e lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di civili. Dal 2011, i sudanesi hanno protestato più frequentemente e in numero maggiore su una serie di lagnanze. Nel 2013, il governo sudanese ha risposto a un’ondata di proteste popolari con estrema violenza, uccidendo oltre 170 persone. Il governo non ha perseguito nessuno dei responsabili delle uccisioni. Iraq. Lo scrittore che dava fastidio agli ayatollah di Roberta Zunini La Stampa, 13 febbraio 2019 Proteste per l’omicidio di Alaa Mashzoub, il poeta che denunciava l’ingerenza dell’Iran. Quarant’anni dalla rivoluzione islamica in Iran, l’influenza degli ayatollah persiani sul confinante Iraq, paese a maggioranza araba, è sempre più forte. Tanto forte che chi osa denunciarla ad alta voce può finire all’altro mondo. E successo al poeta iracheno Alaa Mashzoub, noto oltre che per i suoi versi, anche per le critiche contro le interferenze straniere nel suo paese e la corruzione dilagante specialmente nell’esecutivo guidato da partiti sciiti foraggiati da Teheran. Il poeta, 51 anni, nato e vissuto a Kerbala, una delle città sante per tutti gli sciiti non solo iraniani, è stato ucciso sabato scorso da13 pallottole in un agguato avvenuto mentre rincasava; a sparargli, due uomini. Nei suoi scritti l’intellettuale aveva affrontato senza remore itabù politici e religiosi che rendono la vita delle menti libere irachene difficile e frustrante. Lo scrittore, laureato alla facoltà di Belle Arti all’Università di Baghdad nel 1993, iniziò la propria carriera scrivendo per i media locali, in seguito divenne autore di numerosi racconti e romanzi. Dalla caduta di Saddam Hussein, Mashzoub, aveva iniziato a scrivere contro l’aumento del settarismo e lo strapotere delle milizie alimentate dai soldi dell’Iran. Il suo primo libro pubblicato nel 2008 e intitolato In the Homeland and Nazionalism, era una raccolta di poesie proprio sull’interferenza straniera in Iraq e sul ruolo dei religiosi come Moqtada al Saadr. In un post su Facebook del 17 gennaio, Mashzoub aveva criticato l’ayatollah Khomeini, il leader della rivoluzione iraniana del 1979. L’anno scorso inoltre aveva partecipato alle proteste di piazza contro la mancanza di servizi pubblici e di lavoro. Il ministero della Cultura iracheno ha condannato il suo omicidio, ma sono parole che risuonano vuote. Il fratello di Mashzoub, Kassem, ha affermato che chiunque denunci la corruzione in Iraq può diventare vittima della “libertà di parola”. L’uomo ha detto che “tutto ciò che mio fratello desiderava era vedere l’Iraq in un bellissimo Stato”. Secondo Ali Al Bayati, membro dell’Alta Commissione irachena per i diritti umani, “l’assassinio di Mashzoub è stato perpetrato da un gruppo criminale che intende diffondere il terrore e la paura tra gli iracheni e limitare la loro libertà di espressione. I precedenti omicidi di attivisti civili riflettono la debolezza dei servizi di intelligente”. A settembre dello scorso anno era stata uccisa a Baghdad una star dei social media, la modella Tara Fares, “colpevole” di essersi occidentalizzata. Alcune settimane dopo, nella città di Bassora, dove la rete idrica era stata contaminata dall’acqua fognaria facendo scoppiare una epidemia, era stata freddata Soad Al Ali, madre di quattro figli, promotrice delle manifestazioni contro il dissesto infrastrutturale negato dal governo centrale. Corte penale internazionale dell’Aja. Shell a processo per la repressione in Nigeria di Pietro Del Re La Repubblica, 13 febbraio 2019 Quattro donne accusano il gigante del petrolio di avere provocato l’impiccagione dei mariti. È cominciato ieri il processo voluto da quattro vedove nigeriane contro i dirigenti della Shell, imputati all’Aja con l’accusa di aver istigato violazioni dei diritti umani da parte della giunta militare di Abuja negli anni Novanta. Secondo i pubblici ministeri, i dirigenti si resero indirettamente responsabili dell’impiccagione dei mariti delle quattro donne che erano attivisti impegnati per la tutela dell’ambiente nella regione meridionale del Delta del Niger, devastata dall’inquinamento della multinazionale petrolifera anglo-olandese. Esther Kiobel, Victoria Bera, Blessing Eawo e Charity Levula chiedono giustizia per il ruolo svolto dalla Shell nell’arresto illegale, nell’imprigionamento e nell’esecuzione dei loro rispettivi mariti. “La multinazionale petrolifera ha sempre cercato d’impedire che questo caso arrivasse in tribunale e ha impiegato le sue risorse per combattermi”, ha dichiarato la Kiobel. I quattro attivisti furono impiccati nel 1995 al termine di un processo sommario, anche come dimostra Amnesty International che ha documentato in modo indipendente il ruolo di Shell nelle uccisioni, negli stupri e nelle torture di cui si rese responsabile il governo nigeriano durante la repressione delle proteste. Le vedove chiedono ora un risarcimento e scuse pubbliche da parte del gigante petrolifero. Portare a processo una potente multinazionale per i danni causati all’estero è stato un cammino lungo e straziante. Il primo tentativo di chiamare in causa Shell, in un tribunale di New York, da parte di Esther Kiobel risale al 2002 e s’è chiuso nel 2013 quando la Corte suprema americana ha concluso che gli Stati Uniti non avevano competenza giuridica per esaminare il caso: in altri termini, i tribunali statunitensi non esamineranno mai nel merito le denunce mosse contro Shell. Da ieri, invece, per la prima volta, in una battaglia per la giustizia e in nome dei diritti umani che va avanti da oltre 20 anni, Esther Kiobel e le altre vedove avranno la possibilità di raccontare le loro storie di fronte a un tribunale.