Detenute in carceri pensate al maschile: un’esistenza difficile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 febbraio 2019 Ricerca della Onlus “La società della ragione” sulla condizione delle donne. il dossier evidenzia problemi di quotidiana gestione degli spazi e delle cose, in genere fanno gruppo e poi c’è il problema della lontananza dai figli. Le donne sono una componente marginale di una popolazione penitenziaria prevalentemente maschile, in funzione della quale gli istituti di pena sono stati pensati, costruiti e disciplinati. Sono una esigua minoranza rispetto al totale dei detenuti, proprio per questo è di fatto sono poco conosciute le implicazioni che la detenzione ha nelle differenze di genere. A svelare le problematiche e i sentimenti estremizzati, è una ricerca condotta dalla Onlus “La società della ragione” e presentata venerdì scorso alla Sala Collezioni del Consiglio Regionale della Toscana. Sono, appunto, donne in transizione raccontate nella ricerca, intervistate nelle carceri di Pisa e Sollicciano, che descrivono l’esperienza femminile della reclusione. Emerge la centralità del fattore emotivo: un’emotività a volte cieca, che spinge a conflittualità e aggressività: “Siccome in carcere non si sceglie con chi stare, c’è un problema di quotidiana gestione degli spazi e delle cose”, si legge nel dossier. Il progetto si è ispirato al filone di letteratura scientifica teso a indagare la soggettività femminile, sulla scia del pensiero della differenza. Si legge nel dossier che al centro è lo “sguardo” delle donne: su di sé, sulle relazioni dentro e fuori il carcere, sulle difficili condizioni di vita nello stato di detenzione. Iniziando da se stesse, però: perché il “partire da sé”, rivisitando se stesse nel rapporto col mondo intorno, permette di recuperare nuovi strumenti, di comprensione e di fronteggiamento, del difficile evento della carcerazione. Questa è l’idea centrale dei “laboratori” del progetto, nei quali le donne detenute hanno ripercorso i passati sentieri di vita ed esplorato i possibili futuri, facendo i conti con gli insuccessi senza però dimenticare i punti forza della propria esperienza esistenziale: anzi imparando a riconoscerli e a metterli all’opera per far fronte al duro presente; soprattutto per prefigurare un possibile futuro dopo la detenzione. La via del “partire da sé” con l’occhio rivolto alle risorse, personali innanzitutto, è però ardua e per niente scontata, per colei che vive la detenzione ed è quotidianamente sommersa dalla “miseria” dello stato detentivo; poiché è difficile staccare la mente da quella condizione così estrema. Peraltro il “centrare su di sé” si apprende dal dossier che spesso non è compreso e non è favorito dai tanti attori del carcere (volontari e professionisti del sociale), se non in chiave di “ripensamento e rielaborazione” del reato. Il che comporta però di doversi concentrare sul deficit, col rischio di rimanere su quello bloccati, in una logica puramente espiativa. Per sollevarsi dalla pervasività del carcere, le detenute fanno uno sforzo attivo per la cura dell’ambiente: oltre che per l’adattamento, prendersene cura diventa un fattore di protezione. Nel dossier si legge che, in media, le donne hanno risorse e questo permette che il tempo scorra abbastanza adeguatamente. Forse perché “in genere, le donne fanno gruppo e si oppongono a chi si isola”, rimandando all’importanza della dimensione collettiva e della cura dell’altra. Le donne riempiono di significato le relazioni, diventando una risorsa fondamentale di resilienza al carcere. Poi c’è il problema della lontananza dai figli che eleva il livello di disagio in carcere: i rapporti materni sono spesso possibili (solo) per il percorso premiale che sembra suggerire l’idea che il mantenimento di questo legame non rientri nei diritti ma nelle concessioni subordinate alla dimostrazione della detenuta di essere una buona madre altrimenti sospetta di non meritare i figli. Ma permane il problema di fondo, sollevato anche dal Garante nazione delle persone private della libertà: la carenza strutturale di attenzione alle donne in carceri pensate al maschile. Minacce sul web al Garante dei detenuti, dopo la relazione sul 41bis Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2019 Insulti e minacce. Molti hanno riempito in questo modo la sezione commenti sotto un articolo che riportava alcune criticità sollevate da Mauro Palma - garante dei detenuti - in un rapporto sulle sezioni carcerarie che ospitano detenuti al 41bis, il regime di carcere duro apparso sulla pagina Facebook “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza”. Dopo aver visitato diverse carceri, quindi il garante ha pubblicato il proprio parere. Che non deve esser piaciuto a molti, Sulla pagina Facebook il tenore dei commenti degli utenti a volte appare aggressivo. C’è chi scrive infatti “ma perché non ti fai ammazzare c...e, vallo a dire ai parenti delle vittime che il 41 è inaccettabile” e “La smetta subito, lei è sul filo di un rasoio si faccia garante per la Polizia Penitenziaria xké lei è un piccolo uomo”. I post polemici sono pressoché la totalità dei commenti. Si legge ancora: “Garante dei delinquenti! A cosa serve questa figura se già vi è il magistrato di sorveglianza che fa la stessa cosa!”. E ancora: “Questi garanti fanno più male che bene! E chi garantisce per le vittime?”. Il Sindacato degli agenti penitenziari non ha rimosso i commenti e il Garante ha sporto denuncia alla Polizia postale. Garante dei detenuti attaccato per le parole sul 41bis di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2019 Ma la pena non dev’essere vendetta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà ha pubblicato un rapporto sulle sezioni carcerarie che ospitano detenuti in regime di 41bis, il regime speciale introdotto nell’ordinamento penitenziario all’indomani delle stragi di mafia del 1992 con lo scopo di impedire i rapporti tra esponenti della criminalità organizzata e associazioni esterne. Il Garante ha visitato tutte le sezioni di 41bis in Italia e ha pubblicato il proprio parere. Su una pagina Facebook chiamata “Polizia Penitenziaria Società Giustizia e Sicurezza” ha ricevuto commenti di una violenza inaudita, che vanno da offese volgari tipo “ma chi cazzo si crede di essere questo camoscio” (il camoscio, nel più brutto gergo penitenziario, è il detenuto) o “ma va affanculo delinquente legalizzato”, a frasi in odor di minaccia quali “spero che ti ammazzano un figlio” o “ma perché non ti fai ammazzare coglione”. Il Garante delle persone private della libertà è una figura istituzionale voluta dalle Nazioni Unite. Il suo compito non è quello di entrare nelle decisioni dei singoli Stati in merito alla detenzione, bensì quello di valutare se le condizioni di privazione della libertà rispondano alle regole che lo Stato stesso si è dato o cui ha aderito in Convenzioni internazionali. Nel caso dell’Italia e del 41bis, la Corte Costituzionale ha più volte spiegato come tale articolo andasse applicato. Scrive il Garante nel suo rapporto: “Il Garante nazionale ha esaminato la situazione di applicazione del regime ex articolo 41bis o.p. alla luce del perimetro che la Corte ha delineato (…). Pertanto il rapporto qui presentato non entra nella questione in sé di tale previsione normativa, ma si focalizza sulla valutazione di come la sua applicazione rispetti i parametri di legittimità indicati dalla Corte Costituzionale e altresì di come la sua reiterazione, spesso per un numero cospicuo di anni, a carico della singola persona, possa esporsi al rischio di incidere sull’inderogabile principio di tutela dei diritti umani di ogni persona, indipendentemente dal suo status di libertà o detenzione, nonché dei diritti fondamentali che, pur nei limiti oggettivi posti dalla situazione privativa della libertà e in regime particolare, non cessano di essere tutelati dalla nostra Carta costituzionale”. Il Garante muove un certo numero di rilievi, criticando le condizioni materiali inaccettabili di alcune sezioni e le reiterate proroghe del regime al di là del necessario. Tanto la Corte Costituzionale quanto la Corte europea dei diritti umani sono state chiare nei loro pronunciamenti: il regime di 41bis deve avere come scopo quello di impedire i collegamenti con l’esterno e non deve invece servire per infliggere sofferenze aggiuntive al detenuto, già sottoposto alla pena della reclusione. La pena non deve mai essere vendetta. Uno Stato forte è quello che è capace di tenerlo sempre presente. Piaccia o non piaccia ai poliziotti penitenziari che hanno scritto quei commenti, abbiamo una Costituzione e abbiamo strumenti sovranazionali a tutela dei diritti umani. I diritti umani appartengono a ogni uomo, libero o detenuto che sia. Questo non significa mettere in dubbio la certezza della pena né la lotta alla mafia. È tutt’altra cosa. Ci auguriamo che le più alte istituzioni dello Stato e chi ha compiti di governo esprimano solidarietà e vicinanza al Garante, dando all’esterno un messaggio inequivocabile di distanza da chi predica odio e violenza. *Coordinatrice associazione Antigone Vivere uno sopra l’altro in una cella: risposta a Roberto Saviano di Carmelo Musumeci agoravox.it, 12 febbraio 2019 I “muri” sono abbastanza alti da permettere di poter far finta di non vedere e udire la disperazione e le grida d’aiuto che vengono da dentro. (Dal libro “Nato colpevole” distribuito su Amazon). È difficile togliersi il carcere dalla testa dopo 27 anni di galera e quando trovo qualcosa che parla delle nostre “Patrie Galere” lo leggo con attenzione. L’altro giorno ho letto sulla rivista settimanale “L’Espresso” un bell’articolo di Roberto Saviano che afferma: “La soluzione non è quella più intuitiva e banale di costruire altri istituti penitenziari, ma la strada giusta da intraprendere sarebbe quella di analizzare le cause che portano un numero così alto di persone in carcere e provare a capire se non sia piuttosto il caso di prevedere percorsi alternativi alla carcerazione”. Spero che questo articolo di Saviano lo legga anche il nostro Ministro della Giustizia, che ha dichiarato che per sconfiggere il sovraffollamento basta costruire nuovi carceri. Forse lui non sa che costruire nuovi carceri farà aumentare la piccola e grande criminalità, come è sempre accaduto negli altri paesi. Roberto, grazie di avere scritto sul sovraffollamento nell’inferno delle carceri italiani, ma purtroppo la società italiana non vuole conoscere la verità sulle sue prigioni e ai politici italiani non interessa sapere che le carceri scoppiano in tutta Italia, che i detenuti muoiono, che alcuni si tolgono la vita e che altri crepano psicologicamente. I mass media, per fortuna non tutti, hanno dimenticato che anche i detenuti sono uomini e sono pochi i giornalisti che scrivono che i detenuti sono abbandonati a se stessi e che vivono accatastati uno sopra l’altro. E vivere in questo modo toglie ogni rimorso per quello che s’è fatto fuori. Molti non sanno che il carcere in Italia, nella maggioranza dei casi, non è solo il luogo dove ci vanno i delinquenti, ma è soprattutto il rifugio dei ribelli sociali, degli emarginati, dei diseredati, degli emigrati, dei tossicodipendenti, dei figli di un Dio minore (quelli con la cravatta e la camicia bianca per fortuna non ci vanno se no leverebbero il posto ai poveracci). Roberto, diciamoci la verità, a nessuno importa sapere che nelle carceri italiane non c’è più spazio per vivere, che vivere uno sopra l’altro è una condanna aggiuntiva, una condanna moltiplicata, dal punto di vista fisico, psichico, morale e sanitario. Roberto, nessuno vuole capire che il sovraffollamento nelle carceri smetterà quando questo governo finirà di considerare dei delinquenti tutte le persone disagiate. Essere sotto processo, una pena silenziosa che lascia ancora indifferente l’Anm di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 12 febbraio 2019 All’evento per i 110 anni dell’associazione magistrati c’è stato un grande assente: il diritto dell’accusato a essere lasciato in pace al più presto. Radio Radicale ha, anche questa volta, svolto in modo esemplare il suo compito. Portando i microfoni nell’Aula Magna della Sapienza di Roma, ha consentito di seguire anche da lontano una parte significativa dei lavori per il 110° anniversario dell’Associazione Nazionale Magistrati. Si è trattato della celebrazione del ruolo centrale che la magistratura italiana ha saputo raggiungere nella società italiana, nell’arco di poco più di un secolo, segnato da una trasformazione radicale, sotto tutti i profili, di quest’ultima. Soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la magistratura associata ha espresso, attraverso un presidio costante dei valori della autonomia e dell’indipendenza, una capacità di interlocuzione estremamente significativa sia con i poteri dello Stato sia con la società civile. Ha, così, sostenuto in modo efficace i singoli magistrati in quel processo di adattamento dell’ordinamento ai mutamenti sociali, contro le inevitabili reazioni di chi restava ancorato alle incrostazioni del passato. A ben vedere, l’ordine giudiziario e l’Anm sono stati i veri protagonisti dello sforzo teso, nel secolo scorso, a dare concreta attuazione al principio di uguaglianza e di tutela della persona umana. Man mano, tuttavia, un altro ruolo è diventato predominante: quello di guardiani del potere e, come tali, di garanti della legalità. Ed anche in questo caso ordine giudiziario e Anm hanno marciato affiancati: basta ricordare l’appoggio incondizionato dato da quest’ultima alla rivoluzione di Mani pulite. Ed è questo il ruolo che, oggi, è percepito dalla stessa Anm, oltre che dall’opinione pubblica, come quello centrale e decisivo dell’ordine giudiziario. È questo il tema su cui con più attenzione si è incentrato l’evento celebrativo. Il che è del tutto coerente con quanto quotidianamente avviene nel dibattito pubblico e nella cronaca giornalistica: tutto è focalizzato su quel controllo di legalità che la magistratura rivendica di dover esercitare sulla gestione della cosa pubblica. E, tuttavia, si deve constatare che, in questa prospettiva, finisce con l’essere estromesso dall’orizzonte della giustizia il cittadino. Ciò avviene sotto molteplici profili, tutti riconducibili ad un dato essenziale: al cittadino non è consentito avere diritti nei confronti dell’apparato giudiziario. Cercare di far valere quei diritti significa urtare contro la muraglia insuperabile della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza, anche quando l’autonomia e l’indipendenza non c’entrano nulla. Il cittadino, nei palazzi di giustizia, è un suddito. Basta prendere in considerazione l’andamento della giustizia civile, ormai da decenni del tutto negletta e fuori dall’area dell’intervento più incisivo dell’Anm, per rendersi conto che proprio l’ambito di elezione dei diritti individuali è diventato la cenerentola della giustizia. Un dato? Basta constatare la nettissima prevalenza di magistrati del pubblico ministero che hanno ricoperto i ruoli di vertice dell’Anm da Mani pulite in poi. Ma anche nell’ambito della giustizia penale troppo spesso la situazione non è diversa. Significativo, a questo riguardo, è il disinteresse che specie pubblici ministeri e Gup manifestano per il diritto, che dovrebbe avere il cittadino innocente, ad essere lasciato in pace al più presto. La soggezione al processo penale è una pena essa stessa. Dunque, una giustizia rispettosa dei diritti dei cittadini dovrebbe limitarsi a intervenire lo stretto indispensabile. E, invece, è esperienza quotidiana quella di cittadini innocenti rinviati a giudizio per una totale mancanza di attenzione al loro diritto di non subire la pena di un processo inutile. Il 50% di assoluzioni in primo grado ne è la conferma. Per ovviare a tale evidente stortura si sta facendo strada l’ipotesi di chiedere, in sede di riforma della giustizia, un rafforzamento dei poteri del Gup. Senza considerare che il tema è essenzialmente culturale: si tratta di riscoprire la presunzione di innocenza abbandonando l’idea che davanti vi siano solo colpevoli in libertà, per i quali è inutile applicarsi con diligenza. Su tutto questo la celebrazione è stata sostanzialmente silente, troppo presa dalla attenzione prestata al ruolo di cane di guardia del potere. Ma si tratta di un cambio di prospettiva che prima o poi dovrà arrivare. Se anche la giustizia perde definitivamente il contatto con la società, il degrado delle istituzioni diventa irreversibile. Appello di pm e avvocati: “Basta con la barbarie del processo mediatico” di Errico Novi Il Dubbio, 12 febbraio 2019 Un pm, un avvocato e un presidente della Scuola superiore della magistratura. Sono sul palco allestito lo scorso fine settimana nell’Aula Magna della Sapienza di Roma, dove si celebra l’evento per i 110 anni dell’Anm. Tutti e tre si impegnano a spiegare che “il processo mediatico è una carnevalata, pericolosa perché disabitua l’opinione pubblica rispetto all’effettivo funzionamento della giustizia”. Rispondono alle domande e alle provocazioni di due brillanti giornaliste Rai: Serena Bortone e Franca Leosini, che ha letteralmente inventato un genere tv con la sua “Storie maledette”. I tre sul palco sono l’ex presidente dell’Associazione magistrati Rodolfo Sabelli, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e appunto l’attuale vertice della scuola che forma le toghe, Gaetano Silvestri. L’attacco è multipolare e concentrico: è rivolto al processo mediatico, alla spettacolarizzazione della giustizia penale, e suscita la reazione persino sorpresa soprattutto di Bortone, che modera il dibattito. La scena è significativa ma non sorprendente. E riferisce soprattutto una cosa: la preoccupazione sempre più profonda fra gli attori del processo per la deriva che ha preso, nell’opinione pubblica, la “perenne ricerca di un colpevole” come la definisce Mascherin. Deriva pericolosa perché mette in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, come ricorda Sabelli, che si definisce “rigoroso sul lavoro” eppure “consapevole che sarebbe necessario avere giornalisti in grado di raccontare la giustizia, fare da divulgatori dei suoi complessi tecnicismi e fare così comprendere come un magistrato o un avvocato compiano le loro scelte innanzitutto in osservanza della Costituzione”. Significativo è anche il fatto che per i propri 110 anni l’Anm abbia voluto impegnare il dibattito conclusivo della propria ricca due giorni a un confronto su “Raccontare la giustizia: alla ricerca di un linguaggio comune al servizio dei cittadini”. È rilevante perché attesta come l’allarme per gli attacchi alle toghe, spesso innescate proprio dalle degenerazioni mediatiche, siano una delle prime preoccupazioni per la magistratura. E ancora, non appare casuale l’aver scelto che proprio su un tema simile intervenisse il rappresentante della massimo organismo dell’avvocatura, Mascherin appunto. Poco prima di passargli il microfono, Sabelli segnala l’urgenza di far comprendere ai cittadini che “la magistratura e l’avvocatura saranno sempre l’estrema barriera contro la violazione dei diritti”. E che dunque banalizzare il processo e rovesciarlo in vendetta forcaiola è un pericolo per tutti, mentre lo Stato di diritto è l’unica garanzia che mette al riparo. Ma siamo al punto da trasformare il giudice in un terminale condizionabile dal processo mediatico? Secondo Mascherin “la magistratura e l’avvocatura italiane esprimono uno straordinario grado di professionalità, nettamente superiore a quelle degli Stati Uniti, per esempio, da cui non mi farei certo giudicare. Tale spessore allontana il rischio di essere condizionati, eppure un simile pericolo esiste. E in ogni caso il giudice non deve essere sottoposto alla giuria mediatica, non deve vedersi travolto dalle accuse, e magari trovare i familiari delle vittime che inveiscono contro di lui, per via delle aspettative create intorno a una sua decisione”. È quella che Silvestri definisce “intossicazione provocata dal processo spettacolarizzato: se la giustizia finta radica nell’opinione pubblica una determinata convinzione attorno a un fatto, le persone finiranno per non credere al processo vero e ai suoi esiti. Ed è per questo”, avverte il presidente della Scuola superiore della magistratura, “che magistrati e avvocati dovrebbero astenersi dal partecipare a trasmissioni paragonabili a vere e proprie carnevalate”. Sottrarre il giudice dalla morsa delle pressioni forcaiole significa, per Mascherin, “mettere fine a una barbarie, che si traduce ormai nella contestazione pubblica di ogni pronuncia di assoluzione, vissuta come il fallimento dello Stato. E invece”, ricorda il presidente del Cnf tra gli applausi dei quasi mille magistrati che seguono il dibattito in platea, “l’assoluzione è l’affermazione massima dello Stato di diritto, perché nel dubbio il giudice evita il rischio di condannare un innocente”. Una delle circostanze in cui più spesso si rivela lo scarto fra aspettative deluse del pubblico e corretta interpretazione del giudice è, nota Mascherin, “la qualificazione come omicidio colposo di casi in primo grado definiti e condannati come volontari”. E infatti, segnala Sabelli, “proprio alla comprensione degli elementi che distinguono il dolo dall’omicidio colposo dovrebbe rivolgersi l’opera di divulgazione degli operatori nei confronti dell’opinione pubblica, che va educata ai valori della Costituzione”. E non trasformata in una platea di consumatori della giustizia come spettacolo vendicativo, deformazione utile solo ad occultare colpe diverse da quelle di una persona accusata ma innocente. Il Papa ai magistrati: “Non c’è giustizia senza misericordia” Il Dubbio, 12 febbraio 2019 L’incontro di Francesco con l’Associazione Nazionale Magistrati: occasione per sottolineare l’importanza di un ruolo centrale per la vita democratica: “proprio i tempi e i modi in cui la giustizia viene amministrata toccano la carne viva delle persone. rispettate la loro dignità”. “Illustri Signore e Signori, rivolgo un cordiale saluto a voi, al vostro Presidente, che ringrazio per le sue parole, al Comitato Direttivo Centrale e a tutta l’Associazione Nazionale Magistrati. Essa compie centodieci anni: una ricorrenza che diventa occasione di riconoscenza e di bilancio, un momento in cui confermarvi nei vostri intenti e ricalibrare gli obiettivi, alla luce del mutato contesto. Da più di un secolo, attraverso iniziative di carattere culturale, assistenziale e previdenziale, l’Associazione Nazionale Magistrati vigila sul corretto svolgimento della delicata e preziosa funzione del magistrato. Al tempo stesso adempie a un importante compito di sorveglianza sulle regole democratiche e di promozione dei valori costituzionali, a servizio del bene comune. Promuovendo tali valori, attraverso il dibattito interno e i comunicati, i congressi nazionali, la rivista e il dialogo con le istituzioni, offrite un contributo significativo nelle questioni più rilevanti che riguardano l’amministrazione della giustizia. L’adesione alla vostra Associazione di circa il 90% dei magistrati italiani vi rende interlocutori privilegiati, in particolare per gli organi legislativi dello Stato, perché vi permette di attingere a un amplissimo bagaglio di esperienze professionali, dandovi una conoscenza diretta della vita dei cittadini e delle sue criticità. Viviamo in un contesto attraversato da tensioni e lacerazioni, che rischiano di indebolire la tenuta stessa del tessuto sociale e affievoliscono la coscienza civica di tanti, con un ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità. La rivendicazione di una molteplicità di diritti, fino a quelli di terza e quarta generazione connessi alle nuove tecnologie, si affianca spesso a una scarsa percezione dei propri doveri e a una diffusa insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone. Per questi motivi, va riaffermato con costanza e determinazione, negli atteggiamenti e nelle prassi, il valore primario della giustizia, indispensabile per il corretto funzionamento di ogni ambito della vita pubblica e perché ognuno possa condurre una vita serena. La tradizione filosofica presenta la giustizia come una virtù cardinale, e la virtù cardinale per eccellenza, perché alla sua realizzazione concorrono anche le altre: la prudenza, che aiuta ad applicare i principi generali di giustizia alle situazioni specifiche; la fortezza e la temperanza, che ne perfezionano il conseguimento. La giustizia è dunque una virtù, cioè un abito interno del soggetto: non un vestito occasionale o da indossare per le feste, ma un abito che va portato sempre addosso, perché ti riveste e ti avvolge, influenzando non solo le scelte concrete, ma anche le intenzioni e i propositi. Ed è virtù cardinale, perché indica la giusta direzione e, come un cardine, è punto di appoggio e di snodo. Senza giustizia tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso. Al conseguimento della giustizia devono quindi concorrere tutte le energie positive presenti nel corpo sociale, perché essa, incaricata di rendere ad ognuno ciò che è suo, si pone come il requisito principale per conseguire la pace. A voi, magistrati, la giustizia è affidata in modo del tutto speciale, perché non solo la pratichiate con alacrità, ma anche la promuoviate senza stancarvi; non è infatti un ordine già realizzato da conservare, ma un traguardo verso il quale tendere ogni giorno. Sono consapevole delle mille difficoltà che incontrate nel vostro quotidiano servizio, ostacolato nella sua efficacia dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale, e dalla crescente complessità delle situazioni giuridiche. Ogni giorno dovete poi fare i conti, da un lato, con la sovrabbondanza delle leggi, che può causare una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali; e, dall’altro, con vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati. Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore. In un tempo nel quale così spesso la verità viene contraffatta, e siamo quasi travolti da un vortice di informazioni fugaci, è necessario che siate i primi ad affermare la superiorità della realtà sull’idea (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 233); infatti, “la realtà semplicemente è, l’idea si elabora” (ibid., 231). Il vostro impegno nell’accertamento della realtà dei fatti, anche se reso più difficoltoso dalla mole di lavoro che vi è affidata, sia quindi sempre puntuale, riportato con accuratezza, basato su uno studio approfondito e su un continuo sforzo di aggiornamento. Esso saprà avvalersi del dialogo con i diversi saperi extra- giuridici, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società e nella vita delle persone, ed essere in grado di attuare con sapienza, ove necessario, un’interpretazione evolutiva delle leggi, sulla base dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione. In un contesto sociale nel quale sempre di più si percepisce come normale, senza alcuno scandalo, la ricerca dell’interesse individuale anche a scapito di quello collettivo, siete chiamati ad offrire un segno della dedizione disinteressata che il vostro Statuto richiama fin dal suo primo articolo, e resa possibile dall’importante prerogativa dell’indipendenza, sulla quale da sempre vigilate come Associazione Nazionale. L’indipendenza esterna, che porta ad affermare con forza il suo carattere non politico (cfr Statuto, art. 2), tenga lontani da voi i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine; e l’indipendenza interna (cfr Statuto, art. 1) vi renda invece liberi dalla ricerca di vantaggi personali, capaci di respingere “pressione, segnalazione o sollecitazione diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi di amministrazione della giustizia” (Statuto, art. 2). Proprio i tempi e i modi in cui la giustizia viene amministrata toccano la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti, e lasciano in essa segni di sollievo e consolazione, oppure ferite di oblio e di discriminazione. Pertanto, nel vostro prezioso compito di discernimento e di giudizio, cercate sempre di rispettare la dignità di ogni persona, “senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione” (Statuto, art. 9). Il vostro sguardo su quanti siete chiamati a giudicare sia sempre uno sguardo di bontà. “La misericordia infatti ha sempre la meglio nel giudizio” (Lettera di Giacomo 2,13), ci insegna la Bibbia, ricordandoci che uno sguardo attento alla persona e alle sue esigenze riesce a cogliere la verità in modo ancora più autentico. La giustizia che amministrate diventi sempre più “inclusiva”, attenta agli ultimi e alla loro integrazione: infatti, dovendo dare ad ognuno quanto gli spetta, non può dimenticare l’estrema debolezza che riveste la vita di tanti e ne influenza le scelte. L’elevato afflato morale, espresso con limpidezza dal vostro Codice etico, animi sempre la vostra azione, perché siete ben più che funzionari, ma modelli di fronte a tutta la cittadinanza e in particolare nei confronti dei più giovani. Per questo mi congratulo con voi perché fate memoria dei magistrati che hanno sofferto e perso la vita nel fedele svolgimento della loro mansione. A ciascuno di loro rivolgo anch’io, oggi, un particolare e riconoscente ricordo. Il Signore benedica tutti voi, il vostro lavoro e le vostre famiglie. Grazie”. Foibe, il ricordo che divide di Mario Baudino La Stampa, 12 febbraio 2019 Il 10 febbraio è stato scelto, a partire dal 2005, dal Parlamento italiano come “il Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, costretti ad abbandonare le loro case dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia, a seguito della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Le foibe sono grotte carsiche, con un ingresso a strapiombo, dove i partigiani comunisti titini gettarono, tra il 1943 e il 1945, più di 3.000 italiani. Non appena la Quarta armata jugoslava entrò in Trieste, gli agenti della polizia politica di Tito si dettero da fare: la loro prima preoccupazione fu di arrestare e eliminare i membri del Comitato di Liberazione Nazionale, i leader italiani della Resistenza. Sul confine orientale l’unico antifascismo doveva essere quello dell’esercito vincitore, dei croati, degli sloveni e dei serbi. L’equazione italiano-fascista era funzionale alla geopolitica, e attecchì bene: la marea dei profughi giuliano-dalmati, che per anni si riversarono al di qua del confine abbandonando terre e proprietà, venne spesso accolta in modo oltraggioso dagli esponenti della nostra sinistra (non a Torino, però, dove il sindaco comunista Celeste Negarville organizzò accoglienza e aiuti). Alla Spezia, durante la campagna per le elezioni politiche del 1948, un dirigente della Camera del Lavoro si abbandonò durante un comizio a un gioco di parole piuttosto agghiacciante: “In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani”. La tragedia delle foibe si ripeté due volte: i partigiani jugoslavi erano infatti dilagati in Venezia Giulia nel settembre del 1943 (con l’eccezione di Pola, Fiume, Trieste), per essere poi ricacciati dai tedeschi nell’ottobre nello stesso anno. Ma subito erano cominciate le esecuzioni sommarie (rese pubbliche dalla propaganda bellica della Rsi, e destinate a ripetersi in misura assai maggiore nel 1945) in base all’identificazione dei italiani come nemici, con le vittime annegate in mare o gettate nelle profonde cavità carsiche. E quella tragedia a lungo rimossa in un’Italia che non voleva ammettere né la sua sconfitta né le violenze commesse nei Balcani, ignorata a sinistra fino al 2002 quando un libro molto fortunato di Gianni Oliva affrontò il tabù, ancora divide, nonostante l’istituzione - anch’essa nata da una tormentatissima discussione - del “Giorno del Ricordo”. Aveva appunto lo scopo di conciliare le memorie: in parte raggiunto, in parte no. È di questi giorni la polemica innescata a destra - da Fratelli d’Italia a Casa Pound, proprio gli eredi di quel fascismo che con la sua politica di aggressione e nazionalizzazione è uno dei protagonisti del dramma - contro alcuni convegni, da Parma a Trieste, definiti “negazionisti”. È stata diffusa una dichiarazione di Matteo Salvini che chiedeva di rivedere i contributi alle associazioni, “come l’Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra”. Il clima si è surriscaldato all’insegna, come ormai accade puntualmente, della competizione politica. Nel mirino gli storici, che col procedere della ricerca hanno puntualizzato ad esempio le cifre del massacro di italiani, indagato sui silenzi del Pci e di Togliatti e anche su quelli imbarazzati dei governi post bellici. Le foibe rimangono uno spaventoso episodio di pulizia etnica - a lungo rimosso - qualunque ne sia la portata “numerica”. Farne oggetto di propaganda è un insulto alla memoria delle vittime. Ne discutono due storici, al di là delle polemiche contingenti. Foibe, gonfiare le cifre serve solo a alimentare l’odio, di Eric Gobetti La battaglia sul numero delle vittime va avanti da anni, ma i dati sono noti da tempo: c’è qualcuno che li moltiplica per ragioni politiche. Si è parlato in questi giorni di “negazionismo delle foibe”, accusando Anpi e amministrazioni locali di offrire tribune pubbliche a storici schierati politicamente per sminuire la tragedia delle foibe e dell’esodo. La colpa di questi studiosi sarebbe quella di voler contestualizzare il fenomeno, spiegandone le radici con la violenza fascista e la guerra, analizzando puntualmente i fatti, cercando spiegazioni, non giustificazioni. Purtroppo però la terribile tragedia vissuta dalle popolazioni dell’Alto Adriatico in quegli anni è sempre più spesso strumentalizzata. Si è imposta, a livello politico e mediatico, una versione distorta e in gran parte errata dei fatti. Si tende a semplificare forzatamente le “complesse vicende del confine orientale” menzionate nella legge istitutiva del Giorno del Ricordo, parlando sbrigativamente di massacri e di pulizie etniche, senza alcuno sforzo di comprensione. Con analoga sufficienza si tratta il conteggio delle vittime delle foibe e dell’esodo. Ovviamente non importa quante siano state le vittime: anche solo due sono troppe, quando si tratta di vittime innocenti o di violenze gratuite. Tuttavia gonfiare le cifre a dismisura, raddoppiando o triplicando il numero dei morti, non rende giustizia alle vittime e finisce con l’alimentare un dibattito sterile, basato su dati falsati. Nonostante infatti le comprensibili differenze interpretative tra studiosi di diversa estrazione e orientamento politico, sui dati di fatto c’è ampia concordanza di vedute. Nel “vademecum” scaricabile on line dal sito dell’Istituto storico della Resistenza di Trieste (prodotto con l’ausilio di numerosi storici riconosciuti a livello nazionale, tra cui spicca Raoul Pupo) si parla di tremila-quattromila uccisi. Secondo la stessa fonte sarebbero circa 250.000 i profughi da quelle regioni. Non sono cifre esatte, per una serie complessa di ragioni, ma rendono l’idea della grandezza del fenomeno. Discostarsi da queste cifre, come viene spesso fatto sui molti media e purtroppo anche ad alto livello istituzionale, è un errore storico grossolano. Perché dunque si continua a sbagliare? Perché la fiction prodotta dalla Rai Il cuore nel pozzo parla di 10.000 morti? Perché il più recente Rosso Istria, andato in onda venerdì su Rai 3, continua a parlare di 7000 vittime? Perché la cifra di 300.000 o 350.000 esuli continua a essere la più usata quando tutte le ricerche serie hanno appurato la verità? Purtroppo questo uso strumentale della storia non serve a nessuno e finisce solo col suscitare nuovo odio. Capire è molto più difficile che odiare. Negare la verità, ignorare il pensiero complesso, covare la rabbia… ci siamo già passati molte volte, in passato, ed è sempre finita male. Foibe, la storia utilizzata come un randello nel confronto politico, di Giovanni De Luna Nel dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati in secondo piano; è sempre stato così, a partire dalle polemiche che accompagnarono l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del Ricordo, approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on. Roberto Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla data: il centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il centrosinistra aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza dell’ultimo convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello (ex Msi) a illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10 febbraio era “il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche”. Il fatto che nessuna delle due date fosse legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse. Menia citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido dell’Istria: “Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia”. Non le foibe bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’”infame diktat di Parigi”. Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul Corriere della Sera (“Ci viene riferito che in tutto i partigiani jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe”). Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti dell’Oss, dai quali “risultava evidente che gli alleati, americani e inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul fronte antinazista”. A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era tutto. Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne citava un brano usandolo per denunciare il mito “autoassolutorio” della Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero considerate “un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano”. Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti. Napoli: detenuto ucciso da un malore, giallo sui soccorsi a Poggioreale di Luigi Nicolosi Il Roma, 12 febbraio 2019 Ancora un decesso in cella e sulla casa circondariale di Poggioreale si abbatte una nuova ondata di polemiche. A perdere la vita, stroncato da un malore, è stato la notte scorsa il 34enne Claudio Volpe, detenuto dal giugno del 2017 dopo essere stato sorpreso dalle forze dell’ordine a smerciare droga in una delle “basi” del clan Puccinelli-Petrone, al rione Traiano. Il detenuto, stando a una prima ricostruzione dei fatti, già da qualche giorno non godeva di buona salute. Aveva febbre alta e difficoltà deambulatone, tanto essere stato accompagnato più di una volta in infermeria. Il suo quadro clinico non è però mai migliorato, anzi: domenica notte è quindi arrivato il drammatico epilogo. Claudio Volpe, 34 anni, sarebbe stato stroncato da un infarto. Il primo a dare notizia dell’episodio è stato il garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che ha invitato gli organi preposti a verificare se i defibrillatori nel carcere di Poggioreale e anche nel carcere di Secondigliano siano funzionanti: “Lo chiediamo - spiega il professore - perché ci giunge notizia che manchino le placche oppure che sono scadute”. Volpe era ristretto nel padiglione Milano. Aveva la lebbre molto alta. Le sue condizioni di salute si sono ulteriormente aggravate e il personale medico non ha fatto in tempo a chiamare il 118. Quello appena trascorso è stato un fine settimana a dir poco complicato per il carcere di Poggioreale. Sempre nella giornata di domenica, infatti, un 21 enne detenuto nel padiglione Avellino, nella cosiddetta sezione “Protetti”, si è ferito volontariamente dopo avere dato fuoco alla propria cella. Dopo aver incendiato la stanza è stato trasferito nel padiglione Livorno dove si è procurato delle ferite sul corpo. “Gli episodi di autolesionismo nelle carceri - commenta Ciambriello - sono ormai quotidiani. Casi analoghi si sono verificati in questi giorni a Santa Maria Capua Vetere e nel carcere di Salerno”. Il Garante chiede, dunque, “un aumento, immediato, del numero di agenti di polizia penitenziaria: di pomeriggio e di notte il personale è ridotto ai minimi termini e un potenziamento del numero di infermieri e medici, soprattutto dopo le 14,30”. Anche per il segretario dell’Uspp, Ciro Auricchio, “il potenziamento del personale non è più procrastinabile: gli agenti ormai lavorano in condizioni di enorme stress, lo denunciamo da anni ma finora non ci è ancora giunta alcuna risposta”. Quanto a Claudio Volpe, il suo era un volto ben noto agli archivi delle forze dell’ordine. Pregiudicato per reati di droga, l’ultima volta in cui il 34enne di Fuorigrotta è finito in manette risale all’11 giugno del 2017. In quella circostanza il pusher venne “pizzicato” in una delle piazze di spaccio del rione Traiano con 530 grammi di marijuana e 62 di cocaina: la zona in cui fu eseguito l’arresto, oggi come all’epoca, è considerata una delle rocca forti del clan Puccinelli-Petrone. Ma Volpe stava scontando la sua pena e il tragico epilogo della notte scorsa poteva forse essere evitato. Ne è convinto Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex Don. che attacca: “Il detenuto, che era sofferente già da tre giorni, doveva essere ricoverato in ospedale. Sarebbe bastato poco per evitare questa tragedia e invece ci ritroviamo ancora una volta a piangere un morto a Poggioreale. La malasanità in quell’istituto di pena è diventata ormai una vera e propria piaga”. Da oggi i detenuti del padiglione Milano hanno indetto una protesta che andrà avanti per i prossimi tre giorni. Padova: perquisizione al Due Palazzi, sanzioni alla coop Giotto di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 12 febbraio 2019 I controlli nel carcere effettuati da 140 uomini dopo alcune segnalazioni. Riscontrate violazioni di natura amministrativa nel laboratorio di pasticceria. Appena 1,6 grammi di marijuana trovati in qualche cella con un porta sim card vuoto. E, nel laboratorio gestito dalla pasticceria Giotto, riscontrato il mancato rispetto del protocollo previsto per garantire sicurezza e igiene negli alimenti in particolare nella fase di preparazione, lavorazione e confezionamento dei prodotti. Il che si tradurrà in una serie di sanzioni amministrative a carico del presidente della coop Nicola Boscoletto. Ecco il bilancio della maxi-blitz messo a segno sabato tra le 15 e le 20 nella casa di reclusione Due Palazzi in seguito a un decreto di perquisizione ordinato dal procuratore aggiunto Valeria Sanzari e dal pm Sergio Dini. La procura ha fatto scattare l’operazione in seguito ad alcune segnalazioni che hanno portato all’apertura di un’inchiesta a carico di ignoti: c’era il sospetto che la droga continuasse a circolare nel penitenziario al centro di un’indagine nel luglio 2014. Indagine che aveva portato a una valanga di arresti (tra detenuti, agenti e conniventi esterni tra cui un legale) e alla scoperta di una struttura-colabrodo dove entrava di tutto (dagli stupefacenti ai cellulari per comunicare con l’esterno in totale libertà). In più tra i reclusi, esponenti della camorra e della Sacra Corona Unita erano pronti a dare ordini ai sodali del loro gruppo criminale. Da allora a oggi ci sono stati altri procedimenti penali con il ritrovamento sempre di droga, di qualche cellulare e scheda sim con chiavette usb. Così sono stati messi in campo ben 140 tra uomini e donne appartenenti a Polizia con unità cinofile, Squadra mobile, Carabinieri del Nas e del Reparto operativo, i reparti specializzati di Trento e Tolmezzo della polizia penitenziaria, agenti del Reparto mobile della polizia e la polizia giudiziaria, tutti coordinati dal generale di Brigata della Polizia penitenziaria Lorenzo Silvestrelli, comandante dell’Ufficio sicurezza del Provveditorato alle carceri del Triveneto. Al setaccio sono passate alcune sezioni, in particolare quella al quinto piano, dove si trovano i detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza. È qui che, fino al 2014, alcuni detenuti pagavano e ottenevano quello che volevano. Anche altri piani sono stati perquisiti, come la biblioteca, gli spazi utilizzati dalla redazione della rivista Ristretti Orizzonti, altre stanze adibite a laboratori e aule di studio, alcuni uffici e aree della Penitenziaria, altri spazi comuni e i laboratori al piano terra della pasticceria Giotto, insieme al call center nel quale lavorano i reclusi per alcune aziende (tra queste l’Azienda ospedaliera). Ieri il generale Silvestrelli ha consegnato in procura il rapporto sulla giornata. Positivi i risultati: solo minimi quantitativi di marijuana sequestrati. Segno - confermano in procura - che i controlli hanno sortito gli effetti sperati. E le violazioni di tipo amministrativo riscontrate nel laboratorio della coop Giotto? Si tratta del mancato rispetto del cosiddetto manuale di autocontrollo o manuale Haccp che contiene le indicazioni per prevenire e risolvere i rischi alimentari in ogni fase del processo produttivo. Violazioni amministrative. Il direttore: “Il lavoro svolto sulla sicurezza dà buoni risultati” “Il blitz voluto dalla procura non ha evidenziato nulla, il che significa che il lavoro che stiamo facendo sulla sicurezza ha dato buoni risultati”. È soddisfatto Claudio Mazzeo, direttore del Due Palazzi. “Condivido l’idea dei sindacati di mettere in atto attività di controllo periodica assieme ad altre forze di polizia per testare con continuità la tenuta della sicurezza e sono contento che non siano emerse criticità. Ora stiamo lavorando bene anche con il territorio, in sintonia con il Comune per svariate attività interne al carcere che un istituto trattamentale offre ai detenuti come possibilità di lavoro e di svolgere attività”. Carcere Due Palazzi, pezzi di marijuana nelle celle dei detenuti (Il Gazzettino) Perquisito palmo a palmo il quinto piano dell’istituto dove funzionano i dispositivi di massima sicurezza. É stato un blitz in grande stile. Sabato pomeriggio, per cinque ore la Casa di Reclusione di via Due Palazzi è stata letteralmente invasa dalle forze dell’ordine. Centoquaranta uomini diretti dal generale Lorenzo Oscar Silvestrelli, direttore dell’ufficio sicurezza del Provveditorato di polizia penitenziaria, hanno setacciato palmo a palmo celle e spazi comuni dell’istituto. Con i decreti di perquisizione firmati dal procuratore Valeria Sanzari e dal sostituto Sergio Dini, i carabinieri del Reparto operativo e del Nas, i poliziotti della Squadra mobile con i colleghi del Reparto Mobile, militari e agenti delle squadre di polizia giudiziaria della Procura si sono messi alla ricerca di droga, telefoni cellulari e chiavette usb. Nelle settimane passate erano infatti giunte in Procura alcune segnalazioni di traffici illeciti, in particolare di sostanze stupefacenti, tra le celle dei detenuti. Interi piani del carcere sono stati quindi passati al setaccio, con l’ausilio di reparti specializzati della polizia penitenziaria, provenienti dagli istituti di Trento e Tolmezzo. Agenti abituati a smontare letteralmente una cella in pochi attimi con un cacciavite e a perlustrarla in ogni angolo. I detenuti, d’abitudine un paio per cella, venivano perquisiti e trasferiti nello spazio comune. Poi scattava la perlustrazione. Un meticoloso e accurato lavoro di bonifica che ha richiesto diverse ore. É stato passato al setaccio in particolare il quinto piano della Casa di Reclusione, quello che ospita i detenuti in regime di massima sicurezza, con una cospicua presenza di ergastolani. Il grande sforzo prodotto dalle forze dell’ordine non ha però fornito risultati incoraggianti sotto il profilo investigativo: in alcune celle sono stati scoperti e recuperati piccoli quantitativi di marijuana. Di telefoni, sim card e chiavette usb invece nessuna traccia. Da ambienti vicini alla Procura filtrano comunque parole di soddisfazione. Dopo le maxi inchieste degli anni passati che hanno dipinto il Due Palazzi come un parco divertimenti (nel 2014 fu accertato un diffuso sistema di corruzione interna, ndr), per la prima volta non si registrano sequestri importanti. Con tutta probabilità l’intensificazione dei controlli ha scoraggiato molti detenuti dal proseguire con i traffici illeciti. Oltre alle celle e ai corridoi sono stati perquisiti a fondo gli spazi abitualmente frequentati durante le attività ricreative, come la biblioteca, la sede della rivista Ristretti Orizzonti, e i laboratori di manualità, tra cui la rinomata pasticceria dove vengono prodotti i famosi panettoni della cooperativa Giotto. É qui che i militari del Nucleo Anti Sofisticazione hanno rilevato alcune irregolarità di natura amministrativa. Al punto da convocare d’urgenza al Due Palazzi il legale rappresentante della Giotto Nicola Boscolo Boscoletto. I Nas hanno riscontrato alcune violazioni del cosiddetto manuale di autocontrollo Haccp, ovvero le rigide regole di conservazione degli alimenti sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza. In particolare non sarebbe stato adeguatamente controllato il rispetto delle temperature necessarie alla conservazione dei prodotti utilizzati nelle lavorazioni di pasticceria. La cooperativa Giotto se la caverà con alcune sanzioni di natura amministrativa. Arienzo (Ce): un laboratorio di scrittura nel carcere edizionecaserta.com, 12 febbraio 2019 Un laboratorio di scrittura creativa è stato inaugurato nell’Istituto Penitenziario di Arienzo nel quale sono detenute 78 persone. L’iniziativa è stata promossa dal Garante dei Detenuti Samuele Ciambriello e realizzata dall’associazione Less Società Cooperativa Sociale. Less è nata a Napoli nel 1999 ed opera a livello locale, regionale, nazionale ed internazionale per garantire tutela, diritti e pari opportunità ai soggetti svantaggiati, con particolare riguardo alla popolazione migrante, ai detenuti, agli ex detenuti ed alle loro famiglie, attivando nel corso degli anni una vasta gamma di progetti e programmi di intervento finalizzati all’integrazione socio-culturale e al contrasto dell’esclusione sociale. All’evento erano presenti la direttrice dell’Istituto Mariarosaria Casaburo, il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello e gli operatori di Less che realizzeranno le attività. Il laboratorio, rivolto ad un massimo di 15 partecipanti, sarà articolato in due fasi: la prima incentrata sulla lettura di racconti scritti da persone recluse nelle carceri italiane, la seconda in cui si apprenderanno le tecniche di scrittura creativa. Ciambriello ha spiegato il senso di queste e di altre iniziative promosse dal suo ufficio in questo ed in altre carceri della Campania: “Come garante, all’interno di un programma oltre le mura, ho inteso mettere in campo iniziative di sportelli di ascolto, sostegno alla genitorialità, arte terapia, spazi relazionali genitori-figli, corsi di alfabetizzazione per detenuti stranieri. Lo spirito di questi progetti, che operano in modo integrato e sinergico con gli istituti, è quello di aiutare le persone diversamente libere a rieducarsi ed inserirsi gradualmente nella società. Per fare questo mi avvalgo di short list, di cui fanno parte molteplici Associazioni e Cooperative con comprovata esperienza nell’ambito penale Rimini: le volontarie di “Libera” in carcere per parlare di mafia newsrimini.it, 12 febbraio 2019 Hanno accolto le volontarie del Coordinamento Libera con biscotti e un tiramisù, un dolce benvenuto da parte dei detenuti della Sezione a custodia attenuata (Seat) della Casa circondariale di Rimini, per iniziare nel migliore dei modi due laboratori su temi che certo di dolce hanno ben poco: la Mafia e la sua presenza nella società. Da una parte per Libera Alice Gaudenzi e Gaia Trunfio, quest’ultima responsabile formazione, accompagnate da Eugenio Pari della Cooperativa Sociale Cento Fiori, che attualmente gestisce il progetto Andromeda all’interno della Seat. Dall’altra un pubblico certo inconsueto, di sicuro molto partecipe secondo Gaia Trunfio: “come dico sempre, la presenza è obbligatoria (visto il contesto dove abbiamo operato), la partecipazione no. E invece hanno partecipato molto attivamente. Anzi, devo registrare che ci sono stati dei momenti molto emozionanti per alcuni di loro”. Molti dei detenuti non conoscevano le differenze tra le diverse organizzazioni mafiose, ne l’attività di Libera. “Abbiamo cominciato col parlare di come il Coordinamento cerca di cambiare la realtà - dice Gaia Trunfio - sia attraverso il ricordo delle vittime il 21 marzo, sia attraverso l’utilizzo dei beni confiscati, che sono un modo tangibile per far restituire alle mafie il maltolto. Abbiamo fatto vedere che ci sono dei beni confiscati in provincia di Rimini: oltre una decina tra beni mobili immobili e aziende. E abbiamo anche parlato delle esperienze dei riminesi a proposito dei beni confiscati in Campania, dove quest’anno un gruppo nutrito di giovani e di pensionati si è recato per lavorare. Non sono state le uniche esperienze, ogni anno volontari riminesi partono per aiutare nelle attività delle imprese collegate con Libera in Calabria, in Puglia, in Sicilia”. I laboratori si sono basati su tecniche di educazione non formali. Non sono i primi che vengono tenuti nella Sezione di custodia attenuata del carcere riminese, sono cominciati alcuni anni fa sotto l’egida della cooperativa Madonna della Carità, “ma non solo abbiamo creduto che siano un ottima esperienza - dice Eugenio Pari, educatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e referente del progetto Andromeda - ma prossimamente esporteremo questi laboratori anche alla Comunità terapeutica di Vallecchio, che abbiamo fondato oltre 35 anni fa. Queste “merende della legalità”, come le chiamiamo, riservano a tutti qualcosa di molto buono”. Trieste: il 16 febbraio incontro letterario alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 12 febbraio 2019 Il 16 febbraio 2019 ad ore 10.00 l’avv. Alberto Kostoris presenterà la nuova pubblicazione del libro del padre - il prof. avv. Sergio Kostoris - “Processo alle barbarie. Per non dimenticare” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. Il libro riporta il lavoro del prof. avv. Sergio Kostoris, difensore di alcune parti civili nel processo per i crimini della Risiera. Processo celebrato nel 1976 e nel quale vennero rievocati, dopo aver affrontato alcune questioni, la più rilevante delle quali, inerente la giurisdizione, risolta - ad opera della Suprema Corte di Cassazione - a favore della Magistratura ordinaria e non militare sulla base della considerazione che gli imputati - pur rivestendo la qualità di militari - agirono con “l’uso della violenza perseguendo attività repressive collegate a ragioni di persecuzione politica e razziale in aderenza ad un programma del regime già enunciato sin dal tempo di pace e talune furono addirittura ispirate a motivi di lucro personale o ad arbitrarie quanto inumane motivazioni di personale comodo”. Negli spazi della Risiera tra l’ottobre del 1943 e la primavera del 1945 vennero uccise tra 3.000 e 5.000 persone, moltissime anche quelle che vennero inviate ad Auschwitz e ad altri campi di sterminio dai quali non fecero ritorno; nei medesimi spazi venne inoltre costruito un forno crematorio (unico in Italia durante l’oppressione nazifascista). L’avv. Alberto Kostoris ricorda come fu anche grazie al lavoro del padre che venne recepita in Italia la convenzione ONU sull’imprescrittibilità dei reati di genocidio che consentì di processare uno dei comandanti della Risiera. Un importante incontro, un ulteriore passo, dopo la presentazione del film documentario della prof. Benussi “1938. Vita Amara”, in un percorso culturale sulla Memoria. Per non dimenticare. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Rileggere Sandro Margara per capire la versione odierna del leghismo di Adriano Sofri Il Foglio, 12 febbraio 2019 Firenze ha ospitato, l’8 e il 9 scorsi, un convegno affollato (per una volta scriverei volentieri: sovraffollato) dedicato a “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione”. “Rileggendo Margara”, completava il titolo. Sandro Margara, autore lungimirante e affabile della magistratura di sorveglianza, parlava del carcere dopo Cristo: intendendo non dopo la nascita, ma dopo la scomparsa di Cristo. È morto nel 2016 dopo una lunga vita dedita alla giustizia, al riscatto delle galere, dei detenuti e, impresa non meno ardua, dei carcerieri. Riporto qui un paio di passi di Margara riletto da Beniamino Deidda, già procuratore generale a Firenze e suo amico. “Rileggere Margara non riguarda solo il nostro passato o le cose che Sandro ha realizzato nella sua lunga vita. C’è un suo testo del 2009, scritto non per essere pubblicato, ma solo per annotare alcune riflessioni. A Sandro è stata risparmiata l’odierna versione del leghismo. E tuttavia dieci anni fa scriveva: “Ci sono rappresentanti politici che, con la terminologia classica del razzismo e spesso del più rozzo ed esplicito, hanno dichiarato le loro intenzioni: cacciare, perseguire gli immigrati arrivati nel nostro paese, impedire la loro integrazione, sbarrare le frontiere il più efficacemente possibile. Se questa è la scelta politica esplicita, le leggi che l’attueranno non potranno che essere discriminatorie”. E ancora: “Una caratteristica del razzismo è la quantità delle giustificazioni che è capace di darsi e la condivisione delle stesse da parte delle comunità. Ma il razzismo configura una situazione oggettiva nella quale il senso di umanità si degrada perché afferma la superiorità del cittadino rispetto allo straniero... e la convinzione che il territorio è nostro, sono nostre le case, il lavoro, i servizi, i diritti, il futuro”. Certo Sandro non poteva immaginare che la politica sciagurata del nostro governo facesse morire annegati o tenesse sequestrati per giorni su una nave decine di poveri disgraziati dalla pelle nera. Negli ultimi anni è stato incessante il suo appello ad una politica più umana: indicava soluzioni e soprattutto additava la via della saggezza costituzionale, non solo per il carcere e i detenuti, ma per tutti i disgraziati, gli emarginati e i diversi. E da ultimo ha lasciato scritto: “Dunque: vogliamo non cogliere le possibilità che si trovano nelle vite sbagliate, ma che possono avere ancora un percorso? Vogliamo fermare il responsabile al suo delitto, sotterrare i suoi talenti, i nostri talenti, dati a noi per fare rendere ancora i suoi? Possiamo farlo, possiamo optare per una società punitiva, che vuole mietere dove non semina, che vuole un risultato senza dare nulla di sé. Ma la società a cui pensiamo, che noi vorremmo per noi... non dovrebbe essere una società educativa, che spende i propri talenti e li spende anche per fare fruttare quelli di tutti? Questa società partecipa al dolore delle vittime, si fa carico di esse, ma sa che non può ignorare e dimenticare i colpevoli; sa, in particolare, che farsi carico delle vittime è qualcosa di più e di diverso e di più responsabile che punire più duramente e ciecamente i colpevoli”. La trappola del pensiero liofilizzato di Glauco Giostra La Lettura - Corriere della Sera, 12 febbraio 2019 La politica si è ridotta a espedienti retorici da tour operator. La democrazia, che pure è il migliore dei sistemi di governo sinora sperimentati, è un “organismo” politico affetto da una severa “malattia autoimmune”: affida le sue funzioni vitali a chi ottiene più consensi; ma coloro che sanno procacciarsi il consenso spesso non sono i migliori e i migliori spesso non sanno procacciarsi il consenso. Le doti congeniali per convincere non sono le stesse necessarie per governare la cosa pubblica: raramente coabitano nella stessa persona. Un tour operator specializzato in crociere di norma non ha anche la perizia di un comandante di nave: un conto è saper intuire le esigenze dei potenziali viaggiatori per indurli a imbarcarsi, un conto è avere le capacità necessarie per condurre il bastimento conoscendone le caratteristiche tecniche, le potenzialità e i limiti. Riuscire a cogliere i bisogni e le speranze dei possibili passeggeri, promettere sistemazioni di prima classe, favoleggiare di intrattenimenti e comfort di impareggiabile livello, garantire una sicurezza senza confronti, magnificare i luoghi di approdo, presuppone determinate capacità; governare la nave evitando pericoli, interpretare con perizia le carte nautiche, assicurare a tutti un viaggio più che dignitoso e sicuro, conoscere le rotte e gli attracchi migliori, implica tutt’altre competenze. È sempre stato così, ma gli attuali strumenti della comunicazione, in particolare i social media, sembrano fatti apposta per esaltare quelle capacità e svalutare queste competenze. Sono veicoli angusti di rapidissima e capillare diffusività, particolarmente adatti a trasmettere slogan, invettive, dileggi, mirabolanti promesse, affermazioni stentoree, ma del tutto inidonei a ospitare un ragionamento. Tali strumenti rendono oggi irresistibilmente efficaci vecchissime strategie retoriche, studiate per ottenere ragione anche quando non la si ha. Basta ricordarne alcune. L’argumentum ad hominem (contro l’uomo): attacco non pertinente e malevolo alla persona dell’avversario per distogliere l’attenzione dalle solide ragioni della critica subita (è un ubriacone; è ora che vada in pensione; è un sindaco incapace; è di parte; si candidi se vuol giudicarmi). L’argumentum ad baculum (del bastone): tono intimidatorio nei confronti di chi si ostina a non cambiare idea, minacciando gravi conseguenze (il licenziamento; l’impeachment; il blocco di investimenti pubblicitari, di fondi o di finanziamenti; la “fine della pacchia”). L’argumentum ad populum (l’appello al popolo o alla maggioranza): affermazione fondata non su argomenti, ma sul fatto che è condivisa dal popolo. Affermazione, peraltro, quasi sempre espressa con un linguaggio emotivamente carico per suscitare tale condivisione (con questa mia idea difendo i cittadini e non retrocedo di un millimetro; con tale provvedimento abolirò la povertà; la difesa è sempre legittima; non permetto all’Europa di mettere le mani nelle tasche degli italiani). In un dibattito ridotto al frastornante brulicare di temi liofilizzati in hashtag e di pensieri sincopati, la battuta efficace conta più di un discorso documentato; la promessa dell’impossibile più del progetto realistico; le soluzioni manichee più della disamina dei pro e dei contro; il fiuto del tour operator molto più delle competenze del comandante. Certo, una volta sulla plancia del transatlantico, il tour operator non tarda poi a incontrare gravi difficoltà, ma almeno per un tratto, la cui lunghezza dipende dalla sua capacità di attribuirne la responsabilità a fattori esterni (alle onde anomale sollevate dagli altri bastimenti, alle carte nautiche poco precise; alle inadeguatezze tecniche della nave dovute all’armatore; al comandante precedente; ad alcuni indesiderati passeggeri; al disfattismo di altri...), la nave va, pur seguendo rotte spesso rovinose. Quando il divario tra la realtà e la sua narrazione non è più dissimulabile, si torna a scegliere, sempreché la situazione sia ancora reversibile, un altro comandante. Talvolta, purtroppo, con gli stessi criteri. Infatti, non si riesce quasi mai a far tesoro dell’esperienza pregressa. Forse anche perché, spiegava Mark Twain, “è molto più facile ingannare la gente, piuttosto che convincerla che è stata ingannata”. Per questa “malattia democratica”, dunque, non ci sono antidoti risolutivi. Esistono, tuttavia, precondizioni per una seria riduzione del danno. Affinché il popolo abbia gli strumenti per togliere la maschera alle bugiarde parole dell’imbonitore di turno ci sarebbe bisogno, da un lato, di una informazione libera e plurale; dall’altro, di più istruzione e di più cultura: per questo la politica dei tour operator divenuti comandanti, con astuta lungimiranza, in genere osteggia la prima e mortifica le seconde. Il governo e l’export delle armi di Francesco Grignetti La Stampa, 12 febbraio 2019 Il caso Turkmenistan, Paese caucasico retto da un dittatore, ricchissimo di gas, e con arsenali zeppi di armi italiane, convince ancora di più i grillini che è arrivato il tempo di riscrivere la legge che sovrintende a quel business. Un ddl è stato appena presentato dal senatore Gianluca Ferrara, M5S. Dietro il parlamentare, in posizione defilata, ci sono Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, e Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri. La corsa del Turkmenistan alle armi italiane, come ricostruito dalla “Stampa” e dal collettivo pacifista “Italian Arms”, è perciò finita all’attenzione del governo. Dove però ci sono sensibilità diverse. Dall’entourage della Trenta si auspica “che la riscrittura della vecchia legge de11990, troppo spesso aggirata, sia appoggiata in Parlamento dalla più larga maggioranza possibile”. Quella legge vieta le vendite a Paesi belligeranti e a chi viola i diritti umani. “Mentre il primo caso è ben chiaro, - spiega il senatore Ferrara - il secondo è più sfuggente. Io propongo regole restrittive, estendendo i divieti alle armi leggere qualora non siano rispettati i diritti umani. E sarebbe bene che anche “altri organismi”, non solo l’Onu o la Ue, certifichino le violazioni”. L’idea grillina si impernia su quattro capitoli: affidare al premier una Relazione previsionale da presentare al Parlamento, in cui il governo si prenda la responsabilità di delineare quali conseguenze sociali e geopolitiche potrebbe avere la vendita di armi ad un dato Paese; stabilire che le commissioni parlamentari debbano esaminare la Relazione e dare un indirizzo politico; trasferire dalla Farnesina a un nascente Comitato interministeriale scambi difese la facoltà di autorizzare le vendite, prevedendo che si possano sospendere; infine prevedere una riconversione industriale dell’industria militare. “Penso che occorrono criteri più restrittivi degli attuali - dice il sottosegretario Di Stefano. Però il Turkmenistan ci pone di fronte a un problema: quel Paese non è coinvolto in conflitti, perciò la legge non vieta le vendite. E, secondo me, anche la legge futura non le vieterà. Mi guardo bene dal definire il Turkmenistan una democrazia compiuta, ma che ci siano violazioni dei diritti umani va conclamato dagli organismi internazionali, non si può andare a sensazioni. Altrimenti possiamo rinunciare a una nostra industria della difesa”. Migranti. Dai dati biometrici alle motovedette: ecco il business della frontiera di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 12 febbraio 2019 La gestione delle frontiere europee è sempre di più un affare per le aziende private. Dai Fondi per la difesa a quelli per la cooperazione e la ricerca: l’Ue implementa le risorse per fermare i flussi. Sono 33 i miliardi che l’Europa ha intenzione di destinare dal 2021 al 2027 alla gestione del fenomeno migratorio e, in particolare, al controllo dei confini. La cifra, inserita nel Mff, il Multiannual Financial Framework, (ed ora in discussione tra Commissione, Parlamento e Consiglio) rappresenta il budget complessivo Ue per la gestione delle frontiere esterne, dei flussi migratori e dei flussi di rifugiati. E viene notevolmente rafforzata rispetto al periodo precedente (2016-2020) quando i miliardi stanziati erano 12,4. Meno della metà. A questo capitolo di spesa contribuiscono strumenti finanziari diversi: dal fondo sulla sicurezza interna (che passa da 3,4 a 4,8 miliardi) a tutto il settore della cooperazione militare, che coincide sempre più con quello dell’esternalizzazione, come accade già per le due missioni italiane in Libia e in Niger. Anche una parte dei 23 miliardi del Fondo Europeo alla Difesa e di quello per la Pace saranno devoluti allo sviluppo di nuove tecnologie militari per fermare i flussi in mare e nel deserto. Stessa logica per il più conosciuto Fondo Fiduciario per l’Africa che, con fondi proveniente dal budget allo sviluppo, finanzia il progetto di blocco marittimo e terrestre nella rotta del Mediterraneo Centrale. Un grande business in cui rientrano anche i Fondi alla ricerca. La connessione tra gestione della migrazione, lobby della sicurezza e il business delle imprese private è al centro di un’indagine di Arci nell’ambito del progetto Externalisation Policies Watch, curato da Sara Prestianni. “Lo sforzo politico nella chiusura delle frontiere si traduce in un incremento del budget al capitolo della sicurezza, nella messa in produzione di sistemi biometrici di identificazione, nella moltiplicazione di forze di polizia europea ai nostri confini e nell’elaborazione di sistemi di sorveglianza - sottolinea Prestianni. La dimensione europea della migrazione si allontana sempre più dal concetto di protezione in favore di un sistema volto esclusivamente alla sicurezza, che ha una logica repressiva. Chi ne fa le spese sono i migranti, obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe, a beneficio di imprese nazionali che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e propri o business”. Tra gli aspetti più interessanti c’è l’utilizzo del Fondo alla ricerca Orizon 20-20 per ideare strumenti di controllo. “Qui si entra nel campo della biometria: l’obiettivo è dotare i paesi africani di tutto un sistema di raccolta di dati biometrici per fermare i flussi ma anche per creare un’enorme banca dati che faciliti le politiche di espulsione - continua Prestianni. Questo ha creato un mercato, ci sono diverse imprese che hanno iniziato ad occuparsi del tema. Tra le aziende europee leader in questi appalti c’è la francese Civipol, che ha il monopolio in vari paesi di questo processo. Ma l’interconnessione tra politici e lobby della sicurezza è risultata ancor più evidente al Sre, Research on Security event, un incontro che si è svolto a Bruxelles a dicembre, su proposta della presidenza austriaca: seduti negli stessi panel c’erano rappresentanti della commissione europea, dell’Agenzia Frontex, dell’industria e della ricerca del biometrico e della sicurezza. Tutti annuivano sulla necessità di aprire un mercato europeo della frontiera, dove lotta alla sicurezza e controllo della migrazione si intrecciano pericolosamente”. In questo contesto, non è marginale il ruolo dell’Italia. “L’idea di combattere i traffici e tutelare i diritti nasce con Tony Blair, ma già allora l’obiettivo era impedire alle persone di arrivare in Europa - sottolinea Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci. Ed è quello a cui stiamo assistendo oggi in maniera sempre più sistematica. Un esempio è la vicenda delle motovedette libiche, finanziate dall’Italia e su cui guadagnano aziende italianissime”. Il tema è anche al centro dell’inchiesta di Altreconomia di Gennaio, curata da Duccio Facchini. “L’idea era dare un nome, un volto, una ragione sociale, al modo in cui il ministero degli Interni traduce le strategie di contrasto e di lotta ai flussi di persone” spiega il giornalista. E così si scopre che della rimessa in efficienza di sei pattugliatori, dati dall’Italia alla Tunisia, per il controllo della frontiera, si occupa in maniera esclusiva un’azienda di Rovigo, i Cantieri Navali Vittoria: “Un soggetto senza concorrenti sul mercato, che riesce a vincere l’appalto anche per la rimessa in sicurezza delle motovedette fornite dal nostro paese alla Libia”, sottolinea Facchini. Motovedette fornite dall’Italia attraverso l’utilizzo del Fondo Africa: la questione è al centro di un ricorso al Tar presentato da Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione). “Il Fondo Africa di 200 milioni di euro viene istituito nel 2018 e il suo obiettivo è implementare le strategie di cooperazione con i maggiori paesi interessati dal fenomeno migratorio: dal Niger alla Libia, dalla Tunisia alla Costa d’Avorio - spiega l’avvocata Giulia Crescini. Tra le attività finanziate con questo fondo c’è la dotazioni di strumentazioni per il controllo delle frontiere. Come Asgi abbiamo chiesto l’accesso agli atti del ministero degli Esteri per analizzare i provvedimenti e vedere come sono stati spesi questi soldi. In particolare, abbiamo notato l’utilizzo di due milioni di euro per la rimessa in efficienza delle motovedette fornite dall’Italia alla Libia - aggiunge -. Abbiamo quindi strutturato un ricorso, giuridicamente complicato, cercando di interloquire col giudice amministrativo, che deve verificare la legittimità dell’azione della Pubblica amministrazione. Qualche settimana fa abbiamo ricevuto la sentenza di rigetto in primo grado, e ora presenteremo l’appello. Ma studiando la sentenza ci siamo accorti che il giudice amministrativo è andato a verificare esattamente se fossero stati spesi bene o meno quei soldi - aggiunge Crescini. Ed è andato così in profondità che ha scritto di fatto che non c’erano prove sufficienti che il soggetto destinatario stia facendo tortura e atti degradanti nei confronti dei migranti. Su questo punto lavoreremo per il ricorso. Per noi è chiaro che l’Italia oggi sta dando strumentazioni necessarie alla Libia per non sporcarsi le mani direttamente, ma c’è una responsabilità italiana anche se materialmente non è L’Italia a riportare indietro i migranti. Su questo punto stiamo agendo anche attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo”. Migranti. Palermo, in cattedrale preghiera e riflessione contro la tratta di persone Redattore Sociale, 12 febbraio 2019 Arcivescovo Corrado Lorefice: “Commozione, condivisione e compassione siano al centro della nostra vita per le azioni concrete di aiuto alle vittime”. Testimonianze, canti e preghiere per riflettere sulla tratta di persone nel mondo e attivarsi ancora di più per fronteggiare il fenomeno. In questo modo ieri sera in Cattedrale si è svolta la giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone voluta da Papa Francesco in memoria di santa Giuseppina Bakhita, la giovane schiava sudanese, liberata e divenuta religiosa canossiana, canonizzata nel duemila. La quinta giornata, curata dall’USMI Sicilia è stata guidata dalla giornalista paolina suor Fernanda Di Monte. La serata si è conclusa con il canto finale “One love” del coro gospel The Nightingales Singers Ensemble. La tratta di esseri umani è una delle peggiori schiavitù del XXI secolo che riguarda il mondo intero. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) circa 23 milioni di persone, spesso povere e vulnerabili, sono vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavoro forzato, espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimonio forzato, adozione illegale e altre forme di sfruttamento. Le vittime di traffico di esseri umani e riduzione in schiavitù per il 60 % sono donne e minori. Per trafficanti e sfruttatori la tratta di esseri umani è una delle attività illegali più lucrative al mondo: rende complessivamente circa 32 miliardi di dollari l’anno ed è il terzo “business” più redditizio, dopo il traffico di droga e di armi. L’obiettivo della serata di riflessione e preghiera - a cui hanno partecipato l’arcivescovo Corrado Lorefice, il pastore valdese Peter Ciaccio con i valdesi, diversi consacrati di parecchi ordini religiosi, laici impegnati sul tema e pure il sindaco Orlando - è stato quello di creare maggiore consapevolezza del fenomeno che colpisce tante persone, che non hanno voce, non contano, non sono nessuno: sono semplicemente ‘schiavi’ di un sistema. Al contempo l’auspicio è quello di provare a dare risposte attraverso azioni concrete. La comboniana suor Valeria Gandini ha ricordato l’impegno della rete internazionale di consacrati/e Talitha Kum per il contrasto della tratta, presente in 77 paesi del mondo. A livello locale, invece, Margherita Maniscalco del Ciss ha ribadito le diverse attività, svolte a vario livello, del Coordinamento anti-tratta Favour e Loveth nato nel 2012. Durante la celebrazione sono state fatte cinque richieste di liberazione: da ogni forma di sfruttamento, dalla discriminazione razziale, dall’avidità di possedere, dal senso di superiorità e voglia di dominare e dall’indifferenza e dalla paura. In ogni momento è stato portato un cero e consegnato ad un giovane che portava una maschera che poi è stata tolta. A parlare in maniera commossa della sua storia e del suo nuovo percorso di vita è stato il giovane immigrato di 18 anni Mussa ospite di una comunità per minori. “Vengo dal Mali e sono in Italia da 7 mesi - racconta. Sono scappato dal mio Paese in guerra dove hanno massacrato mio zio e violentato mia zia sotto miei occhi. Prima di arrivare in Italia sono passato dall’Algeria e poi dalla Libia, dove ho lavorato e poi sono finito in prigione. Oggi la mia vita, grazie a chi mi ha aiutato è cambiata. Studio e cerco di fare una vita normale come quella di tutti voi. Dopo avere visto tanta sofferenza e violenza, il mio desiderio è quello di diventare una persona sempre più capace di aiutare gli altri. Ringrazio Dio se sono vivo e posso essere qua stasera con voi”. “Compassione, commozione e condivisione siano sempre più al centro della nostra vita di persone vere - dice l’arcivescovo Corrado Lorefice - in grado di organizzare la resistenza contro ogni male. Oggi più di ieri dobbiamo custodire un cuore desto capace, come Gesù ci insegna, di prendere realmente in carico la vita di chi incontriamo coinvolgendoli in un processo di liberazione. Purtroppo nel caso della tratta prevale uno stile di vita occidentale che incide a livello mondiale che ha idolatrato l’economia dell’accumulo del capitale. Tutto questo crea inevitabilmente dipendenza e schiavitù. Si tratta allora di pensare al nostro modo di stare nel mondo, valorizzando le relazioni e rifiutando ogni forma di sopraffazione dei più deboli”. “La tratta esiste perché c’è chi ne trae profitto - continua l’arcivescovo. A Palermo ma non solo esistono parecchie realtà come le unità di strada che cercano di attivarsi per aiutare le vittime. Sensibilità, cambiamento di stile di vita e prossimità possono essere alla base delle comunità che oggi cercano di dare risposte ad ogni forma di sfruttamento. Abbiamo belle esperienze anche di chi inizia percorsi di riscatto sociale. Questo aspetto è quello su cui oggi bisogna puntare di più se vogliamo pensare ad un futuro diverso di liberazione delle vittime della tratta. Questo è un grande compito richiesto a tutte le nostre comunità se vogliamo vivere un cristianesimo autentico attraverso cammini e azioni concrete di assunzione di responsabilità”. Italia in missione segreta: base in Niger e guerra ai migranti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 12 febbraio 2019 Il trattato con Niamey mai passato per il parlamento come altri accordi bilaterali siglati in questi mesi da Roma con paesi africani. Servirà a facilitare l’export di armi e a esternalizzare le frontiere. Francia in fibrillazione. Ha il marchio di uno zebù dalle eleganti corna ritorte e il motto ciceroniano “Non nobis solum” - sul sito del ministero della Difesa - la nuova missione “umanitaria” che il governo italiano ha avviato in Niger in gran segreto. “Umanitaria” per modo di dire, visto che riguarda unicamente il dispiegamento di soldati, con compiti essenzialmente di intelligence, e la prossima probabile costruzione di una base militare italiana nel Sahel, tanto caro alla Francia, almeno a star dietro alle indiscrezioni del sito Africa Intelligence. La missione prevede un contingente militare di 470 effettivi, seguiti da mezzi e attrezzature pesanti, anche se per il momento i militari italiani dislocati sul suolo nigerino sono ancora solo un’ottantina. L’accordo bilaterale Italia-Niger è entrato pienamente in funzione, dopo essere stato bloccato per tre mesi fino a settembre, per un imbarazzante “equivoco” con le autorità nigerine, probabile riflesso del fastidio francese alla presenza italiana in quell’area. Il costo iniziale della missione Misin è di 30 milioni di euro, stanziati per il 2018 e non ancora esauriti visto che i soldati sono dovuti rimanere fermi, quasi nascosti per tre mesi, ma i fondi richiesti potrebbero dilatarsi a macchia d’olio. Si tratta in effetti di un “avamposto”. Nel frattempo il trattato che fa da cornice alla missione non è neanche stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Il Parlamento non ne sa nulla: l’iter di ratifica non è neppure iniziato e anche se la firma risale al 2017, al governo precedente e alla ministra Roberta Pinotti, l’attuale esecutivo ne ha protetto finché è stato possibile la riservatezza. Il contenuto del testo è stato reso pubblico solo questo fine settimana grazie a un ricorso al Tar per accesso agli atti presentato da un collegio legale per conto di Asgi (Associazione di studi giuridici sullimmigrazione) e Cild (Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili) in collaborazione con Rete Disarmo. Una volta letto, è risultato però generico. “Nient’altro che un copia-incolla”, secondo l’avvocato Salvatore Fachile del team legale, per il quale il vero contenuto dell’accordo è probabilmente scritto nelle due lettere che si sono scambiati i governi di Roma e Niamey e che, allegate al trattato, non sono ancora state rese pubbliche. Perciò Francesco Vignarca di Rete Disarmo, a nome anche di Asgi e Cild, chiede ora ai parlamentari che si attivino per renderle pubbliche. Le attuali missioni italiane all’estero, compreso quest’ultima, prevedono uno stanziamento annuale di 997 milioni di euro ma quest’anno non c’è stata alcuna discussione parlamentare sul loro rifinanziamento, perso nel grande marasma che ha accompagnato la presentazione della Legge di bilancio 2019. In barba ai compiti di “indirizzo e controllo” che spettano al Parlamento anche molti altri accordi bilaterali siglati soprattutto con Paesi africani varati da Palazzo Chigi nelle ultime settimane e che - in modo neanche molto celato - si propongono di facilitare l’export di armi e tecnologie per la sicurezza. Il Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo, ha “una valenza strategica per l’Italia”, come ha avuto modo di sottolineare il premier Giuseppe Conte nella sua recente visita di Stato in Niger e nel vicino Ciad appena un mese fa. Non ha riserve di oro o petrolio. Il miele qui sono i migranti e tutto l’apparato che serve a sorvegliarne gli spostamenti - recentemente ha attivato anche il lontano Giappone a contribuire con 27 milioni di euro alla forza G5 Sahel, costituito intorno a quello che i ricercatori indipendenti di State Watch chiamano “complesso securitario-industriale”, indirizzato a facilitare “l’export di armamenti e tecnologie verso regimi autoritari”. Capitanato dagli interessi delle multinazionali armiere e della cybersecurity americane e non solo, interessa anche le lobby di tre Paesi europei: Germania, Francia e Italia. In ballo ci sono soprattutto i 7,9 miliardi di euro stanziati per il periodo 2014-2020 dall’Ue con vari fondi, tra cui 3,1 miliardi del fondo per l’Asilo, le migrazioni e l’integrazione, che possono essere incanalati nel finanziamento alla ricerca sull’intelligenza artificiale e all’implementazione di nuove tecnologie, dai droni ai parametri biometrici tramite Dna, agli algoritmi per il riconoscimento facciale. Secondo il team Invisible Borders fanno perno su due agenzie europee: Frontex e Europol. Conviene alle industrie armiere, che drenano il 43% dei fondi europei, che la frontiera d’Europa si sposti là, ai confini del deserto e tanto più vicino ai concorrenti cinesi dell’hightech. I minori, carne da macello di Luciano Bertozzi Nigrizia, 12 febbraio 2019 Nel 2017 l’arruolamento e l’utilizzo dei più piccoli in combattimento è quadruplicato nella Repubblica Centrafricana e raddoppiato nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan. Il 12 febbraio si celebra la giornata Internazionale contro l’uso dei bambini soldato. Proprio in questo giorno, nel 2002, è infatti entrato in vigore il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, che vieta il reclutamento e l’utilizzo dei minori di 18 anni in combattimento. Nonostante l’impegno, sottoscritto da oltre 150 paesi, però, il drammatico fenomeno è ben lungi dall’essere terminato. Nel rapporto: “Le sorti dei bambini in tempi di conflitti armati”, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, elenca gli eserciti e le guerriglie che li hanno utilizzati. Nel 2017 i paesi coinvolti sono stati: Afghanistan, Colombia, Repubblica Centrafricana, Filippine, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo (RdC), Siria e Yemen. In totale oltre 50 milizie, oltre agli eserciti di Siria, Sud Sudan, Somalia e Yemen. Nelle guerre in corso l’utilizzo dei ragazzini come carne da macello è una cosa assai frequente, mentre le femmine sono usate prevalentemente come schiave sessuali o come cuoche. L’Onu sottolinea il rapimento dei minori su larga scala quale fattore che alimenta il fenomeno. Nel 2017 rispetto all’anno precedente, l’arruolamento e l’utilizzo dei più piccoli è quadruplicato nella Repubblica Centrafricana, è raddoppiato nella Repubblica democratica del Congo (oltre 1.000 casi), nel Sud Sudan (1.200 casi), in Siria (quasi 1.000 casi) e nello Yemen (850 casi), mentre rimane sempre molto alto in Somalia (oltre 2.000 casi). Nell’ex colonia italiana, il rapimento di 1.600 ragazzi da parte di al-Shabaab dimostra quanto sia diffuso il loro utilizzo in combattimento e nelle funzioni di sostegno ai combattenti. In Somalia hanno però arruolato minori sia l’esercito (oltre 100 casi), sia la polizia (11 casi). Resta inoltre elevato il numero di bambini detenuti in quanto considerati appartenenti alla guerriglia. In Iraq sono almeno un migliaio, carcerati in apposite prigioni per minori, poiché accusati di far parte dell’Isis. In Nigeria sono quasi duemila i fanciulli detenuti per la presunta appartenenza, loro o delle loro famiglie, a Boko Haram. Guterres ha ricordato alle autorità che i minori in precedenza associati alla guerriglia devono essere trattati come delle vittime e non come criminali. Il primo passo per far uscire i bambini dall’incubo è la smobilitazione, e gli sforzi delle Nazioni Unite nel 2017 hanno reso possibile la smobilitazione di oltre diecimila fanciulli utilizzati da varie guerriglie nel mondo. Ma separare i piccoli dalle armi è solo il primo passo, verso una nuova vita in paesi distrutti da guerre anche decennali. È indispensabile fornire aiuti psicologici ed educativi, per rompere il ciclo della violenza e consolidare la pace. Purtroppo nella RdC oltre ottomila fanciulli liberati dalle diverse forze guerrigliere non hanno avuto alcun aiuto per reintegrarsi nella vita civile, a causa della mancanza di fondi. Anche in Sud Sudan i fondi per il loro recupero sono stati dimezzati. È proprio questo un aspetto fondamentale per ripristinare una pace duratura, considerato anche che spesso le guerre sono combattute per il controllo di materie prime essenziali per le economie dei paesi occidentali. Spagna. La Catalogna “va a processo”: 12 leader ribelli alla sbarra di Paola Del Vecchio Avvenire, 12 febbraio 2019 Sono accusati di aver organizzato il referendum illegale e una rivolta violenta culminata nella dichiarazione unilaterale della “secessione”. Nove sono in carcere preventivo, Puigdemont rischia 25 anni. Siamo convinti che non ci saranno condanne per ribellione e nemmeno per sedizione. Il governo di Spagna non si può permettere che sia la corte di Strasburgo ad aprire le porte del carcere ai detenuti politici catalani”. Iordi Pina è l’avvocato difensore di tre dei 12 leader indipendentisti - nove dei quali in carcere preventivo da mesi - che oggi compariranno davanti al Tribunale Supremo a Madrid, per un processo che i media iberici definiscono storico. Sono accusati di aver organizzato il referendum illegale del primo ottobre 2017 e una ribellione violenta, culminata il 27 ottobre con la dichiarazione unilaterale della “secessione di una parte del territorio nazionale”. Tappa cruciale dei “tumulti” senza armi, secondo la pubblica accusa-che sollecita pene a 171 anni di carcere - l’assedio nella notte fra il 20 e il 21 settembre da parte dei manifestanti, guidati dai due leader indipendentisti, lordi Sanchez e lordi Cuixart, all’assessorato all’Economia della Generalitat, per impedire l’esecuzione di perquisizioni ordinate dalla magistratura. Con l’ex presidente Puigdemont “uccel di bosco” a Waterloo, per il suo ruolo di ex vicepresidente, Oriol Junqueras, rischia una condanna a 25 anni. 74 anni di reclusione quelli richiesti del partito di estrema destra Vox, che esercita l’accusa popolare al lato della pubblica accusa e dell’Avvocatura dello Stato. E pretende di convertire il processo nel suo megafono elettorale”. La mancanza di violenza è la chiave della difesa-spiega il difensore di Junqueras, Andreu Van den Eynde, che confida nel chiudere la partita a Strasburgo. Sono stati tutti atti conformi al diritto universale internazionale: per la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti umani, pur ammettendo che ci fu un blocco, non configura né ribellione né sedizione, per cui non possono comportare condanne al carcere”. La denuncia di “un giudizio politico contro la democrazia” e della “repressione giudiziaria del diritto all’autodeterminazione” sostenuta dagli imputati, si scontra frontalmente con la tesi della Procura. E con l’impegno del Tribunale Supremo a sgombrare il campo dalle ombre sull’effettività dello stato di diritto in Spagna, sollevate soprattutto dalla lunga carcerazione preventiva. In diretta W, le difese sosterranno che anche la dichiarazione di indipendenza fu simbolica, seppure con poco margine per dimostrarlo, date le rivendicazioni dell’attuale presidente della Camera catalana Quim Torra, che come il suo mentore Puigdemont, continua a reclamare la repubblica proclamata. Nel Paese diviso da un lato si invocano assoluzioni e dall’altro condanne esemplari per chi ha osato attentare all’unità del Paese. L’aggettivo storico è giustificato dal fatto che finora solo gli autori del tentato golpe militare del 23 febbraio 1981 in Parlamento sono stati condannati per ribellione. Di certo, è il processo più atteso e arriva in un clima di alta tensione. Quando non è ancora spenta l’eco della mobilitazione in piazza del Partido Popular, di Ciudadanos e del partito di estrema destraVox, per costringere il premier Pedro Sanchez a convocare le urne e commissariare “sine die” la Catalogna. E alla vigilia del cruciale voto in Parlamento della finanziaria, con il rifiuto finora espresso dai partiti indipendentisti catalani di appoggiarla, che condanna la legislatura a una fine prematura. Ancora ieri Torra ha vincolato il voto positivo in aula al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Di certo Pedro Sanchez mette a prova la sua capacità di resilienza, raccontata nel suo “Manual de resistencia” fresco di stampa, nel momento cruciale del suo mandato. Prende corpo l’ipotesi del “super-domingo”, la super-domenica elettorale, in cui convocare le politiche, assieme alle europee, regionali e municipali del 26 maggio. Si tratterebbe di una strategia per indurre gli indipendentisti a pila miti consigli. Se si votasse oggi, secondo le previsioni dei sondaggi, rinnoverebbero la maggioranza nella Camera catalana. Ma, a livello nazionale, si prospetta un governo delle destre: Pp, Ciudadanos sostenuti da Vox. E allora addio anche all’ipotesi di indulto, in caso di condanne. Israele. Direzione apartheid di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 febbraio 2019 Non è facile entrare sulla route 4370 arrivando dal centro di Gerusalemme. A nord-est, dopo l’insediamento israeliano della Collina Francese, si gira in direzione di Gerico. Lasciati sulla sinistra gli edifici di ogni dimensione, cresciuti uno sopra l’altro, del campo profughi palestinese di Shuaffat, si prende l’uscita di a-Tur. Infine seguendo strade quasi prive di segnaletica si giunge a un varco nel muro di cemento armato costruito da Israele intorno a Gerusalemme, inclusa la sua parte Est, araba, occupata nel 1967. Una grande porta scorrevole di metallo, aperta a chi viene da Gerusalemme e chiusa per chi vive nella Cisgiordania occupata, segna da alcune settimane la vita quotidiana di decine di migliaia di palestinesi. A presidiarla è la polizia. Dall’altra parte c’è la 4370 che collega la statale Tel Aviv-Gerusalemme all’insediamento coloniale di Geva Binyamin. Per le autorità israeliane è una “tangenziale” che permette al traffico di scorrere senza problemi all’ingresso orientale di Gerusalemme. Per i palestinesi e gli attivisti ebrei contro l’occupazione la route 4370 invece è la “strada dell’apartheid”, la prova dell’intenzione di Israele di sviluppare una doppia rete stradale, una per i palestinesi sotto occupazione e un’altra per gli israeliani. Osservando la 4370 dall’alto è difficile etichettarla in altro modo. La strada, concepita nel 2005 e di cui erano stati sospesi i lavori nel 2017, si sviluppa per circa 5 km ed è dotata di due corsie, separate da un muro di cemento alto in alcuni punti fino a otto metri. La corsia ovest è percorribile solo dai palestinesi, quella est è a disposizione esclusiva degli israeliani. Permette ai coloni che vivono negli insediamenti a sud di Ramallah di entrare più facilmente a Gerusalemme aggirando il posto di blocco militare nei pressi del villaggio di Hizma. La corsia palestinese al contrario preclude l’accesso alla città e prosegue verso il sud della Cisgiordania. I lavori sono ancora in corso e, una volta completata, la 4370 bloccherà definitivamente i palestinesi che si spostano dal sud della Cisgiordania a Ramallah passando per la route 1 che porta a Gerusalemme. Mazen Malhi, un venditore ambulante, da qualche giorno apre il suo banchetto sulla 4370 e vende caffè e tè agli automobilisti, quasi tutti alla guida di veicoli con la targa bianca, ossia immatricolati dall’Autorità nazionale palestinese. “Ogni tanto passano anche auto e autocarri con la targa gialla (di Israele, ndr) ma non sono israeliani, sono palestinesi di Gerusalemme che lavorano o vivono qui in Cisgiordania”, ci spiega servendoci un caffè caldo. Alle nostre spalle, dall’altra parte del muro di separazione tra le due corsie, sfrecciano veloci le auto degli israeliani dirette a Gerusalemme. “Questa nuova strada è una maledizione - esclama Mazen, nato e cresciuto nel campo profughi di Shuafat - Chi vive in questa zona per entrare a Gerusalemme oltre ad avere un permesso rilasciato dal jaish (l’esercito) dovrà anche fare 10 km ad andare e 10 a tornare. Eppure Gerusalemme è proprio qui, sopra le nostre teste, ci si può arrivare camminando in mezz’ora”. Sono nella stessa condizione i palestinesi del sobborgo di el Azzariye. Vivono alle porte di Gerusalemme e dai tetti delle loro case la moschea dalla cupola dorata, simbolo della città in tutto il mondo, appare così vicina. Ma dopo la costruzione del muro, iniziata 17 anni fa, quelli di el Azzariye per raggiungere Gerusalemme devono percorrere circa 12 km, girando intorno al Muro e alla colonia di Maale Adumim, la più grande della Cisgiordania e dove Israele presto potrebbe estendere l’area municipale di Gerusalemme. “Il prezzo per la 4370 che pagheranno i palestinesi è molto alto. Diversi villaggi vicini alla città rimarranno totalmente isolati”, avverte la ong Ir Amim che promuove Gerusalemme come città aperta a israeliani e palestinesi senza restrizioni. La costruzione della 4370 si inserisce nel progetto della “Grande Gerusalemme” che punta anche ad integrare la città con alcune colonie nell’area circostante, rendendole di fatto dei quartieri periferici della stessa. Il ministro israeliano della pubblica sicurezza, Gilad Erdan, è orgoglioso della nuova strada costata circa 9 milioni di euro. Per lui è “un esempio della nostra capacità di creare un terreno comune tra palestinesi e israeliani, tenendo presente le attuali sfide nel campo della sicurezza”. Per Yisrael Gantz, presidente del consiglio di 40 colonie israeliane, la 4370 è la “soluzione per gli israeliani che lavorano, studiano e vanno a divertirsi a Gerusalemme”. I palestinesi però non si divertono. Il centro B’Tselem a difesa dei diritti umani nei Territori occupati, sottolinea che per decine di migliaia di persone che vivono sotto occupazione “è giunta la segregazione stradale”. Jamal Jumaa, coordinatore della campagna Stop the Wall, esprime la sua amarezza: “Israele dimostra con questa strada che sta imponendo un regime di apartheid”. La 4370, aggiunge, “è la continuazione logica del progetto del Muro dell’apartheid (la barriera costruita da Israele in Cisgiordania a partire dal 2002, ndr). La totalità del Muro, le strade, gli insediamenti coloniali, le zone chiuse costituiscono i confini dei nostri Bantustan”. Jumaa sottolinea che la nuova strada è uno sviluppo dei piani israeliani di espansione e costruzione di colonie nell’area strategica E1, a est di Gerusalemme. Piani che se completati spezzeranno in due la Cisgiordania annullando le residue possibilità di costruire uno Stato palestinese con un territorio omogeneo e con capitale la zona Est di Gerusalemme. Senza dimenticare l’espulsione annunciata delle comunità beduine che vivono da decenni nell’area E1, in particolare quella di Khan al Ahmar; ordini di demolizione sono stati consegnati anche a famiglie palestinesi di Anata. Sino a due anni fa gli Stati uniti, stretti alleati di Israele, si opponevano allo sviluppo dei progetti in E1. L’amministrazione Trump ha cambiato rotta e, riconoscendo Gerusalemme capitale di Israele, di fatto ha dato il via libera a piani per il futuro della città rimasti congelati per anni. Due settimane fa decine di palestinesi e attivisti ebrei hanno bloccato la 4370 per diversi minuti, fino all’intervento della polizia. E hanno issato uno striscione con la scritta in arabo, ebraico e inglese “No all’apartheid, no all’annessione”. A questa protesta però non ne sono seguite altre. La “comunità internazionale” ha chiuso gli occhi e taciuto di fronte all’apertura della “strada dell’apartheid”. Turchia. La libertà di Abdullah Öcalan è indispensabile: manifestazione a Roma arci.it, 12 febbraio 2019 L’appello dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan e Comunità Curda in Italia. Sono 20 anni che il leader del popolo curdo Abdullah Öcalan è sequestrato nell’isola-carcere di Imrali, in condizioni di totale isolamento. Dal 2011 gli è negato l’incontro con i suoi legali e dal 2015 lo Stato turco impedisce ogni qualsivoglia contatto. Solo qualche giorno fa, per pochi minuti ha potuto riabbracciare il fratello, stante la pressione esercitata nel mondo dallo sciopero della fame a tempo indeterminato di migliaia di curde/i, in particolare nelle carceri turche. La deputata Hdp Leyla Güven è giunta a 80 giorni di sciopero insieme a centinaia di detenute/i con l’intento di “porre fine all’isolamento di Öcalan”. Dietro tanta ferocia c’è la volontà di screditare la sua personalità, di impedire la diffusione delle sue idee all’opinione pubblica: Öcalan, nonostante le condizioni terribili di detenzione e di isolamento, non ha mai rinunciato alla speranza per una risoluzione politica dei conflitti in Medio Oriente, ed in modo particolare della questione curda. I suoi scritti hanno delineato le basi teoriche per l’avvio della rivoluzione in Rojava, per la liberazione dei curdi ezidi a Shengal, per la democratizzazione in Turchia. Nella Siria del Nord ha ispirato la nascita di un sistema democratico multietnico basato sulla parità di genere, dove le curde e i curdi insieme agli altri popoli della regione non solo hanno combattuto la minaccia globale dello Stato Islamico portandolo alla sconfitta, pagando un prezzo elevato in termini di vite umane, ma hanno favorito nei territori liberati la diffusione di un modello amministrativo laico, democratico ed egualitario. Ciò rappresenta una speranza di cambiamento per tutti i popoli della regione e per l’intero Medio Oriente. Per questa ragione l’esperimento del Confederalismo Democratico nella Siria del Nord- Rojava va difeso e sviluppato. Il numero di persone nelle carceri turche è arrivato a 260.000. Organizzazioni per i diritti umani denunciano violazioni crescenti contro i prigionieri. L’isolamento è una delle più pesanti di queste violazioni. È davanti agli occhi del mondo intero, quanto il regime di Recep Tayyip Erdogan sta facendo in termini di repressione nei confronti del popolo curdo e di tutte le istanze democratiche in Turchia e in Medio Oriente. Favorendo così la diffusione del nazional-fascismo, del sessismo e del fanatismo religioso. Occupando interi territori in Medio Oriente, distruggendone la storia e l’identità culturale, provocando genocidi ed esodi di massa di intere popolazioni, anche attraverso l’appropriazione dei fiumi Tigri ed Eufrate - patrimoni dell’umanità - irreggimentati con dighe per lo sfruttamento elettrico a danno della sparizione di civiltà millenarie, come la città di Hasankyef. Catastrofi umanitarie di cui Afrin, invasa, saccheggiata e occupata dai turchi e alleati jihadisti, è un esempio, sono la dimostrazione della barbarie del regime di Erdogan, che, complici le superpotenze, sta dispiegando le forze armate per invadere i cantoni di Kobane e Jazire allo scopo di disperdere la rivoluzione del Rojava e decimare i combattenti curdi. La libertà di Abdullah Öcalan è indispensabile. Per molti anni lo Stato turco ha tenuto colloqui con lui per la risoluzione della questione curda. Egli infatti è in grado di svolgere un ruolo chiave essendo il leader che gode della fiducia di milioni di persone in Medio Oriente: porre fine al suo isolamento significa dare una prospettiva di pace e di democrazia a tutti quei territori martoriati da decenni di guerra, distruzioni e milioni di profughi. Per questa ragioni la manifestazione nazionale che si svolgerà a Roma il 16 febbraio, contemporanea con una manifestazione europea a Strasburgo, assume una particolare importanza e vedrà la partecipazione di tutta la comunità curda che vive in Italia e che lotta per la democrazia. L’Arci ha aderito e parteciperà alla manifestazione. Per aderire: info.uikionlus@gmail.com. Venezuela. Farmaci e accoglienza: la crisi vista dagli immigrati di Dario Paladini Redattore Sociale, 12 febbraio 2019 All’Associazione venezuelani in Lombardia arrivano ogni giorno richieste di medicinali, introvabili nel Paese Latino Americano. Nel giro di un anno inviati 200 chili di farmaci. E accolgono chi scappa dal Venezuela: circa mille le richieste d’asilo nel 2018. Ma ora che non c’è più la protezione umanitaria, rischiano di diventare irregolari. Le richieste dal Venezuela sono quotidiane, via mail, Facebook, Whatsapp. C’è un drammatico bisogno di medicinali. Introvabili, a Caracas come in ogni altro angolo del paese latino americano. E in poco più di un anno, la piccola comunità venezuelana di Milano ha inviato circa 200 chili di medicinali. “Parenti, amici, persone sconosciute ci mandano le prescrizioni dei loro medici e cerchiamo di procurare i farmaci di cui hanno bisogno -spiega Lucila Urbina, presidente dell’Associazione venezuelani in Lombardia-. Abbiamo fatto un invio specifico per i bambini con fibrosi cistica. Purtroppo invece non siamo in grado di procurare farmaci antitumorali: in Italia vengono somministrati in ambito ospedaliero e non è possibile mandarli oltre Oceano”. Per marzo l’associazione intende inviare un container di farmaci e per questo a presto inizierà una campagna di raccolta. “In Venezuela la distribuzione l’affidiamo alla Caritas o a persone fidate”, precisa Lucila Urbina. Vista da Milano, la crisi politica in Venezuela è scandita dai racconti di sofferenza, a volte di disperazione, di chi non riesce a procurarsi l’insulina per il diabete, oppure un anticoagulante, o le pastiglie per la pressione. “La nostra speranza è che presto le cose cambino, abbiamo una grande fiducia in Guaidò”, sottolinea. La crisi venezuelana vista da Milano ha anche il volto di chi decide di lasciare il paese sud americano e arriva in Italia. Le richieste d’asilo, a livello nazionale, sono più che quintuplicate nel giro di tre anni, secondo i dati del Ministero dell’Interno: dalle 143 del 2016 sono salite a 544 del 2017 e a 998 del 2018. “Come associazione li aiutiamo a sbrigare le pratiche -aggiunge Lucila Urbina. Spesso li ospitiamo in casa. Facciamo in modo che trovino un lavoro”. Ma con il decreto sicurezza del ministro Salvini, la vita in Italia dei venezuelani fuggiti dal loro Paese in crisi è diventata molto più difficile. Finora la maggior parte di loro ha ottenuto infatti un permesso di soggiorno per protezione umanitaria, che con il decreto sicurezza non esiste più. Chi ha un lavoro potrà cercare di convertirlo in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Gli altri rischiano di diventare irregolari, così come quelli che sono arrivati negli ultimi mesi e hanno appena presentato la domanda d’asilo. “Speriamo che le commissioni sappiano valutare per bene la situazione dei nostri connazionali, che fuggono da una situazione di oggettiva difficoltà -conclude Lucila Urbina. Spesso noi riusciamo a trovare loro un lavoro e mi auguro che questo sia preso in considerazione. Sono giovani che lavorano e che possono dare il loro contributo anche all’Italia”. L’inferno sui social. Torture e riscatti, gli sos via web dalla Libia di Paolo Lambruschi Avvenire, 12 febbraio 2019 Oltre cento eritrei rapiti dalla polizia a Tripoli. Dal carcere chiedono aiuto a parenti in Europa. Rapiti dalla polizia libica che minaccia i sequestrati di trasferimento nel lager di Bani Walid se i parenti non pagheranno. Ancora una volta il ricatto arriva via social media ai congiunti in Europa e in Israele. L’ennesima odissea di un gruppo di giovani profughi del Corno d’Africa, in maggioranza eritrei, poi somali ed etiopi, comincia il 3 febbraio scorso. I 72 sub sahariani sono appena stati liberati dai trafficanti eritrei che li avevano portati dal Sudan, li avevano rapiti e avevano chiesto riscatti di circa 5.000 dollari. Il gruppo vagava per Tripoli senza sapere dove andare ed è finito in una retata della polizia nel quartiere di Gergarish. Ma le celle di sicurezza sono poche e in 35 vengono inviati nel centro di detenzione di Tagiura mentre altri 10 sono stati liberati, dopo che si sono visti sequestrare dai poliziotti i cellulari e il denaro che avevano. Gli altri 27 vengono rinchiusi nelle celle di sicurezza del comando di polizia di Gergarish che minaccia di deportarli nel peggior inferno libico, stando alle testimonianze di chi ne è uscito e di chi vi è detenuto. A Bani Walid i prigionieri sono infatti sottoposti alle torture più efferate dalle guardie per odio razziale e religioso e per costringere i parenti a pagare i riscatti. Le foto delle persone minacciate con armi da fuoco o incatenate vengono postate su Facebook. Terrorizzati, gli stessi detenuti di Gergarish si sono messi in contatto con parenti in tutta Europa e in Israele grazie all’unico cellulare che sono riusciti a nascondere. In Italia la testimonianza è stata raccolta dal gruppo di rifugiati del Coordinamento Eritrea Democratica. “Per rilasciarci - hanno detto ai connazionali - le guardie pretendono 500 dollari da ciascuno di noi: se non riusciremo a pagare ci trasferiranno a Bani Walid”. Attraverso Eritrea democratica abbiamo contattato una rifugiata eritrea in Olanda. “Mia cugina ha 17 anni ed è una delle prigioniere. È arrivata in Libia due anni fa, è già stata rapita da trafficanti eritrei e ho pagato 5.000 dollari per liberarla. Ora non riesco a trovare 500 dollari perché in Olanda studio e non so come fare”, spiega Lydia, nome di fantasia. Le guardie libiche stanno premendo e minacciano di vendere ai boia di Bani Walid quello che considerano un carico di merce. Cui il 7 febbraio è stato aggiunto un altro gruppo di una trentina di sub sahariani che vagava nella capitale. Che il mercato della carne in Libia si svolga ormai senza pudore sui social media è stato confermato anche dal britannico Time in un articolo del 5 febbraio che utilizza foto mostrata anche da Avvenire il 26 gennaio scorso. Intanto da Khartoum arriva la conferma dai profughi che i trafficanti sub sahariani stanno offrendo formule nuove di pagamento differenziato ai giovanissimi eritrei, somali, etiopi e sudanesi che vorrebbero arrivare in Ue attraverso la Libia. Il viaggio all’inferno inizia così, poi arrivano le immagini raggelanti dei ragazzi e delle ragazze incatenati. Arabia Saudita. Difensori dei diritti umani in carcere candidati al Nobel per la pace Avvenire, 12 febbraio 2019 I candidati al Nobel per la pace 2019 hanno “rischiato” la loro vita per promuovere il rispetto dei diritti umani e sono “prigionieri di coscienza”. Ecco chi sono: tra loro due donne e un avvocato. Gli attivisti sauditi per i diritti umani, Loujain al Hathloul, Abdullah al Hamid e Nassima al Sada, attualmente detenuti in carcere, sono stati proposti per il Premio Nobel per la Pace. Lo hanno annunciato tre deputati norvegesi. I candidati hanno “rischiato” la loro vita per promuovere il rispetto dei diritti umani e sono “prigionieri di coscienza”, hanno sottolineato i promotori della candidatura, i socialisti Karin Andersen e Kari Elisabeth Kaski e la conservatrice Heidi Nordby Lunde. Il Nobel per la pace è considerato da alcuni il “Premio il più prestigioso al mondo a dispetto delle controversie che a volte lo hanno accompagnato”. Partendo dal testamento con cui Alfred Nobel, inventore della dinamite, istituì i suoi cinque premi (medicina o fisiologia, chimica, fisica, letteratura e pace), la presidente del Comitato per l’assegnazione del Nobel aveva ricordato in un’intervista al Sir che il requisito principale per il riconoscimento è “offrire il più grande beneficio all’umanità nel campo della fraternità delle nazioni, dell’abolizione delle armi e della promozione della pace”. Da qui l’assegnazione del Premio “a chi si è opposto all’apartheid, ai combattenti per la libertà come Martin Luther King, a chi a lottato per raggiungere la pace nei conflitti israelo-palestinese, irlandese, in Vietnam e in Colombia, fino a Madre Teresa di Calcutta, una delle icone del Premio”. Loujain al-Hathloul, attivista dell’Arabia Saudita per i diritti delle donne, è stata arrestata il 4 giugno all’aeroporto internazionale di Dammam. Da lì, è stata costretta a imbarcarsi su un volo per la capitale Riad, in attesa di interrogatori. Pare sia stata presa di mira per il suo pacifico impegno in favore dei diritti delle donne in Arabia Saudita. Il 30 novembre 2014 Loujain al-Hathloul aveva provato a entrare, alla guida di un’automobile, dalla frontiera degli Emirati arabi uniti. Per aver sfidato il divieto di guida per le donne, aveva trascorso 73 giorni in carcere. Nel novembre 2015 Loujain al-Hathloul si era candidata alle elezioni, nella prima occasione in cui la monarchia saudita aveva concesso alle donne l’elettorato attivo e passivo. Nonostante la sua candidatura fosse stata ufficialmente ammessa, il suo nome non era mai stato aggiunto alle liste dei candidati. Nassima Al Sada è co-fondatrice del Centro per i diritti umani di Al Adala: più volte è stata perseguitata, minacciata, aggredita e privata del diritto di viaggiare all’estero solo a causa del loro attivismo. Molte di loro restano in carcere senza che sia stata formalizzata alcuna accusa e rischiano fino a 20 anni di detenzione se processate dal tribunale anti-terrorismo. Ha portato avanti campagne nella provincia orientale del Paese in favore dei diritti civili e politici, dei diritti delle donne e di quelli della minoranza sciita che vive nell’est del Paese, mettendo a repentaglio la sua stessa incolumità. Si è candidata alle elezioni locali nel 2015 ma la sua candidatura è stata respinta. È stata anche protagonista della campagna per il diritto di guida delle donne e per la fine del sistema repressivo del tutore maschile. Il professor Abdullah al-Hamid è invece un avvocato saudita noto per essere uno dei più eminenti difensori dei diritti umani in patria, nonché uno dei promotori della Associazione saudita per i diritti civili e politici. L’anno scorso gli è stato assegnato il Nobel alternativo svedese, il Right Livelihood Award per il suo impegno in una serie infinita di campagne su libertà di espressione, diritti delle donne e la richiesta per l’instaurazione di una monarchia costituzionale. Non ha potuto però ritirare il premio, poiché con il suo lavoro ha parecchio infastidito la monarchia islamica, che lo ha imprigionato con sentenze di 15 anni di reclusione. Yemen. Le madri in piazza contro le sparizioni forzate di Martas Serafini Corriere della Sera, 12 febbraio 2019 Un gruppo di donne si sta battendo contro gli arresti e le torture degli oppositori. “Sosteniamo le madri, le mogli e le vedove, costrette a mesi se non anni di doloroso silenzio senza conoscere la sorte dei loro cari”. C’è la madre di Mohammed Anawm che si aggrappa ad una foto di due anni fa del figlio che lo ritrae in condizioni orribili. O la madre di Yasser Al-Kaladi cui una guardia ha detto che suo figlio è morto sotto tortura e che non si rassegna perché non le hanno mai fatto vedere il corpo. O ancora Samah, una donna che ha viaggiato per più di 600 chilometri per vedere suo figlio, un venditore di dolciumi arrestato durante la festa di fidanzamento e torturato con le scosse elettrice. E poi ci sono gli amici e gli studenti di Zakaria Qasim, un docente di cui non si hanno più notizie da mesi. Sono le donne di Abductees Mothers Association, un’organizzazione di stanza a Sana’a, Aden, Taiz, Al-Houdaida, Marib, Hajja e Ibb, in Yemen, che protestano contro le sparizioni forzate. “Siamo un’associazione femminile nata nel 2016, e con il sostegno di un gruppo di avvocati volontari stiamo dando supporto a 2000 famiglie”, spiegano via mail al Corriere. Non hanno ufficio, né - sottolineano - ricevono finanziamenti dall’estero. “Molte delle nostre famiglie hanno perso i loro cari nei bombardamenti (i raid della coalizione saudita, ndr) ma hanno anche visto trascinare via un figlio, un fratello o un marito senza un’accusa formale. Noi sosteniamo le madri, le mogli e le vedove, costrette a mesi se non anni di doloroso silenzio senza conoscere la sorte dei loro cari”. Sostegno psicologico, aiuto legale, a volte anche solo un abbraccio permette di andare avanti a lottare. Ma per le madri yemenite si tratta anche di rischiare in prima persona. “Abbiamo lavorato sulle sparizioni operate dai militari nella zona di Aden ma dobbiamo difenderci anche dagli attacchi e dalle minacce dei gruppi Houthi che controllano le zone in cui viviamo”. Dopo che gli Houti - i ribelli sciiti sostenuti dall’Iran - hanno conquistato Sana’a nel settembre 2014 e hanno cercato di consolidare il potere in tutto il Paese, le forze della coalizione a guida saudita sono intervenute nel marzo 2015 per cercare di ripristinare il controllo del governo di Aden sull’intero Paese. I raid aerei guidati dai sauditi hanno ucciso centinaia di civili, colpito case, mercati, ospedali e scuole. Dall’altra parte, Human Rights Watch ha accusato gli Houthi di sparizioni forzate, di aver torturato e detenuto arbitrariamente numerosi attivisti, giornalisti, leader tribali e oppositori politici. Spesso in gruppo, magari dopo essersi conosciute davanti ai cancelli delle prigioni in cui sono rinchiusi i loro cari, queste donne protestano in strada, con cartelli e fotografie, coperte dal niqab, contro le autorità che di volta in volta portano via i loro cari senza un motivo. “Le violenze settarie ormai dilaniano le nostre famiglie e le nostre vite”, sottolineano. A dare conto delle loro manifestazione è anche Al Jazeera che riporta la notizia di uno sciopero della fame degli oppositori nella prigione di Bir Ahmed, nel governatorato di Aden. “Sì, c’è stato uno sciopero della fame contro i ritardi nei processi. Il pubblico ministero ha emesso l’ordine di rilasciare alcuni detenuti, ma l’amministrazione penitenziaria non li ha attuati. Su 85 incarcerati ingiustamente ne hanno lasciati andare 15. Inoltre, le autorità di sicurezza stanno ritardando le procedure legali del resto degli altri detenuti”, spiegano sempre via mail. Nella prima metà dell’anno scorso, la ong ha documentato 1.866 casi di rapimenti, tra cui 35 donne e 48 bambini, in aree controllate dagli Houthi Si dice che 723 siano stati rilasciati. L’Associated Press ha riferito nel giugno scorso citando familiari e avvocati che quasi 2.000 uomini sono scomparsi in prigioni clandestine gestite dagli Emirati, partner della coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dal governo yemenita. Il governo degli Emirati ha smentito le accuse. Camerun. Rielezione e repressione, Biya sbatte in cella oppositori e giornalisti di Fabrizio Floris Il Manifesto, 12 febbraio 2019 Quasi 120 arresti in un giorno, tra loro il leader di Mrc Maurice Kamto. Washington riduce gli aiuti militari al presidente appena rieletto. Amnesty denuncia: “Autorità sempre meno tolleranti”. Sono trascorse due settimane da quando il leader del partito di opposizione Movimento per la rinascita Camerun (Mrc) Maurice Kamto è stato arrestato. Il 26 gennaio l’opposizione aveva organizzato una serie di manifestazioni di protesta in diverse grandi città del paese, non autorizzate, da qui l’arresto del leader e di 117 manifestanti. Tuttavia, come spiega il portavoce del Movimento, Olivier Bibou Nissack, “è dal 7 ottobre che presentiamo richieste per manifestare e ogni volta ci vengono negate, siamo arrivati a cento richieste cui hanno fatto seguito cento rifiuti”. Il partito di Kamto era risultato perdente alle elezioni del 7 ottobre 2018, anche se nei giorni successivi al voto si era dichiarato vincitore. Era stato poi smentito dal conteggio dei voti che avevano assegnato al presidente uscente Paul Biya oltre il 70% delle preferenze, ma per l’opposizione i risultati sarebbero stati alterati. Le proteste sono state bollate dal ministro della comunicazione, Rene Emmanuel Sadi, come “illegali, distruttive e infondate”. Ha poi precisato che “non è stato fatto uso di proiettili contro i manifestanti”. Ma le immagini delle persone ferite, tra cui l’avvocatessa Ndoki Michele, sembrano smentirlo. Reazioni anche in Europa dove gli anti-Biya hanno invaso le ambasciate del Camerun di Parigi e Berlino. Il 28 gennaio sono stati arrestati anche due giornalisti, Théodore Tchopa e David Eyengue, del quotidiano Le Jour. I due stavano intervistando uno stretto collaboratore di Kamto. Immediata la reazione di Arnaud Froger di Reporters sans frontières (Rsf): “L’arresto arbitrario di giornalisti che stanno facendo il loro lavoro da parte delle autorità camerunesi non fa che approfondire l’attuale crisi politica del paese. Chiediamo il rilascio immediato e incondizionato dei colleghi”. Il governo ha comunicato che la polizia aveva “confuso” i due giornalisti con sostenitori dell’opposizione, ma intanto i due restano in prigione. Secondo il World Freedom Index 2018 di Rsf, il Camerun è classificato 129° posto in termini di libertà di stampa su 180 paesi. Secondo Samira Daoud, vicedirettrice di Amnesty International in Africa occidentale, “l’arresto di Maurice Kamto segna un’escalation nel giro di vite contro i leader dell’opposizione e i difensori dei diritti. Invece di prendere provvedimenti per migliorare la situazione dei diritti umani del paese, siamo di fronte ad autorità che stanno diventando sempre meno tolleranti nei confronti delle critiche”. Il governo ribatte: l’opposizione vuole destabilizzare le istituzioni. La crescente violazione dei diritti umani avrebbe spinto, riporta la Cnn, il governo degli Stati uniti a tagliare milioni di dollari in aiuti militari: 17 milioni di dollari in aiuti alla sicurezza, inclusi fondi per radar, quattro motovedette della difesa, nove veicoli blindati, programmi di addestramento per aerei C-130 ed elicotteri. Tuttavia, sarebbero riconfermati gli aiuti militari per droni ScanEagle e aerei Cessna utilizzati per la difesa da Boko Haram nel nord. L’ambasciatore del Camerun negli Stati uniti, Henri Etoundi Essomba, ha dichiarato che i tagli all’assistenza militare sono il risultato del recente annuncio dell’amministrazione Trump di riduzione del numero delle truppe antiterrorismo statunitensi in Africa. Nega quindi il collegamento con presunte violazioni dei diritti umani. Eppure dal Dipartimento di Stato precisano: “Abbiamo informato il governo del Camerun che la mancanza di progressi e di chiarezza sulle azioni intraprese dal governo in risposta ad accuse credibili di gravi violazioni dei diritti umani potrebbe comportare una più ampia sospensione dell’assistenza degli Stati uniti”. Il 5 febbraio Peter Henry Barlerin, ambasciatore statunitense in Camerun ha dichiarato a Crtv che “gli Stati uniti non hanno intenzione di interrompere la cooperazione militare con il Camerun”, ma è parsa una dichiarazione più diplomatica che sostanziale. Il Paese vive in uno stato di crisi dal 2016 quando sono iniziate le manifestazioni di protesta nelle regioni di lingua anglofona a cui si sono susseguiti episodi crescenti di violenza da parte dei militari e di gruppi anglofoni, arrivati a proclamare la secessione dal Camerun: violenze continue, rapimenti e migliaia di sfollati. In questo contesto sono arrivate le elezioni di ottobre che potevano essere un momento di ricomposizione. Gli arresti di questi giorni sembrano però andare in senso contrario. Eppure il portavoce di Maurice Kamto, Olivier Bibou Nissack, ritiene che l’arresto non sia necessariamente una cattiva notizia: rafforza il Piano di resistenza nazionale. Per l’anziano giurista e membro dell’opposizione, Akere Muna, il cambiamento arriverà.