Il giudice Margara: la legalità costituzionale nel carcere di Beniamino Deidda stamptoscana.it, 11 febbraio 2019 Pubblichiamo l’intervento del magistrato Beniamino Deidda, già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze al convegno “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione - rileggendo Alessandro Margara”, che si è svolto nei giorni scorsi nelle sedi del Consiglio Regionale della Toscana. Ho voluto seguire anch’io il suggerimento proposto dal programma di questo convegno e mi sono messo nei giorni scorsi a rileggere Margara. E anche questa volta, come sempre mi succede ogni volta che sfoglio le pagine di Sandro, è accaduto che la lettura ha acquistato un sapore nuovo, quasi fosse una prima lettura. Come se il tempo che passa conferisse alle intuizioni e alle osservazioni di Margara un nuovo smalto, una nuova forza e un significato nuovo, adatto ai tempi che viviamo. Certo non posso dire che le vicende di Sandro e le posizioni da lui assunte in tanti anni di lavoro mi siano nuove. Ci siamo frequentati per 50 anni, eppure mi pare che, anche ora che non c’è più, continui a parlare e a dir cose nuove. Non dirò delle tante cose che Sandro Margara ha elaborato sulla pena, sul 41 bis, sul recupero dei condannati, sul carcere e sulla droga. Ci sono troppi più esperti di me che in questi due giorni ne parleranno magistralmente. Se mi capiterà di accennare a questi temi sarà solo un pretesto per parlare di Sandro. La mia amicizia con Margara è cominciata quando i magistrati e l’ufficio della sorveglianza non esistevano. Infatti Sandro per molti lustri si è occupato di altro ed è una parte importante della sua vita che di solito non viene ricordata anche perché da allora è passato molto tempo. Proverò perciò a dire qualcosa anche di quel periodo. Lo conobbi nel 1965, io stavo in Pretura a Firenze e Sandro era arrivato in Tribunale come giudice, dopo una permanenza di qualche anno al Tribunale di Ravenna. A Ravenna fu messo a fare il giudice istruttore. Vigeva allora il processo inquisitorio e il giudice istruttore nelle istruttorie formali si incaricava di fare le indagini sui delitti che gli venivano assegnati. Indagini che poco avevano a che fare con l’esecuzione della pena e il mondo dei carcerati. Eppure anche in quegli anni il carcere incuriosiva Margara. Lui stesso racconta: “Se ricerco tra i primi ricordi della galera, trovo un detenuto sul letto di contenzione, nel carcere di Ravenna… Ricordo come si chiamava, lo rivedo allampanato, disteso su quell’attrezzo che veniva chiamato “la balilla”: un uomo, un crocifisso plebeo (l’iconografia dei crocifissi dà generalmente sul signorile) che viveva la sua passione con un’aria di sfida sarcastica, rifiutando la soddisfazione della sua sofferenza a chi l’aveva messo in quelle condizioni”. Sandro allora aveva poco più di trent’anni, ma c’è già tutto l’interesse e la passione per il carcere; o meglio, per gli uomini che popolano il carcere, la stessa passione che porterà con sé per tutta la vita. In quegli anni il mondo della giustizia era in ebollizione e Sandro non era il tipo che potesse stare a guardare. Voglio ricordare che allora noi magistrati applicavamo i codici fascisti del 1930, ai quali la Corte Costituzionale non aveva ancora inferto i tanti colpi che avremmo visto nei lustri successivi. Ma proprio a metà degli anni ‘60 era nata Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dell’Associazione Nazionale Magistrati, i cui aderenti non erano molto popolari tra i capi degli uffici e tra i colleghi più attaccati alle tradizioni. Sandro non partecipò da subito alle riunioni di MD. Preferiva starsene tutto il giorno nel Tribunale di piazza San Firenze dove la sua simpatia umana gli rendeva facili i rapporti con i colleghi e il personale. Già allora Sandro era in possesso di un’ironia finissima, capace di cogliere il ridicolo di cose e persone senza urtarne la suscettibilità, un’ironia affettuosa e complice. Si portava appresso in quegli anni una naturale allegria che, insieme all’acutezza delle sue osservazioni, lo facevano apprezzare anche da chi era lontanissimo dalle sue idee. Intanto si dedicava al suo lavoro con un approccio che già in quegli anni veniva definito garantista. Dentro un codice fascista che di garanzie ne prevedeva poche, Sandro si ricavava uno spazio tutto sostenuto dalle aperture della Costituzione. Il giudice istruttore, come lo faceva Sandro, somigliava più ad un giudice che ad un inquisitore. Era il risultato della sua attenzione alle garanzie degli imputati, come avremmo capito meglio nei decenni successivi. Tutto questo era in straordinaria sintonia con quello che andava elaborando MD, che pure Sandro non frequentava ancora. Credo che da questa frequentazione lo trattenesse una certa fama di estremismo che MD si portava dietro, specie in Toscana. Una convinzione non del tutto gratuita, dal momento che nelle nostre riunioni della sezione toscana c’erano personaggi come Marco Ramat, Salvatore Senese, Luigi Ferraioli, Vincenzo Accattatis, Pino Borrè, che talvolta da La Spezia veniva fino a Pisa, Pierluigi Onorato, Gianfranco Viglietta, Silvio Bozzi e altri che hanno fatto la storia della giurisdizione costituzionalmente avanzata di questo paese. Tuttavia, pur non iscritto ancora ad MD, Sandro si era rapidamente conquistato un’autorevolezza che gli veniva da una pratica giudiziaria aperta, rigorosamente segnata dai principi costituzionali. Verso la fine degli anni 60, non ancora quarantenne, Sandro era ritenuto uno dei giudici più bravi ed influenti del Tribunale fiorentino, tanto che veniva massicciamente votato per il Consiglio giudiziario della Toscana anche da colleghi di diverse correnti, unico magistrato, per così dire, “di sinistra” in un Consiglio giudiziario nel quale figuravano colleghi quasi tutti appartenenti alla corrente di MI. Questo apprezzamento per Sandro da parte dei colleghi che simpatizzavano per altre correnti della magistratura non deve stupire, perché ci permette di cogliere un tratto fondamentale della sua personalità. Sandro era, vorrei dire naturalmente e istintivamente, libero dalle ideologie. Sapeva considerare i fatti e i problemi per quello che erano, guidato solo dal rispetto della verità e del buon senso. Per questo era affidabile e ispirava rispetto. Qualche tempo dopo finalmente Sandro cominciò a partecipare assiduamente alle nostre riunioni di MD e nessuno se ne meravigliò: tutti lo ritenevamo già a pieno titolo uno di noi. Ma la sua partecipazione alla vita della corrente fu atipica: fedeltà alle ragioni di fondo di MD, una militanza attiva e impegnata, ma nessuna carica o impegno esterno per la corrente. Non aveva tempo e quello che aveva era speso, da un lato, nelle impegnative istruttorie formali dei processi che gli venivano assegnati e, dall’altro lato, in un’altra funzione che timidamente in quegli anni si andava affiancando a quella tipica del Giudice Istruttore: vigeva infatti la prassi che un giudice istruttore del Tribunale si occupasse dell’esecuzione delle pene e del carcere. Sandro si rese conto subito che quel terreno era assai poco arato e soprattutto avvertì l’estrema importanza che in uno stato di diritto rivestiva il tema della pena e della sua esecuzione. Pochissimi magistrati in Italia, per quel che si sapeva, si occupavano di questi temi, Sandro cominciò a lavorarci passando da una iniziativa all’altra. Furono anni di presenza attiva nel carcere e di attente elaborazioni sul tema della pena. In sostanza Sandro si stava inventando un mestiere del tutto nuovo, quello del magistrato di sorveglianza. Quando finalmente la legge di riforma penitenziaria istituì la sorveglianza, Sandro Margara era già molti passi avanti. Comincia con l’istituzione dei Tribunali di sorveglianza un periodo di straordinaria elaborazione sui temi attinenti al carcere e all’esecuzione delle pene che vede Sandro in prima linea, prima a Bologna e poi a Firenze, dove sarà presidente dei rispettivi tribunali di sorveglianza, e infine a Roma dove gli verrà affidato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dopo pochi mesi di permanenza romana aveva già buttato all’aria il vecchiume che si era accumulato al dipartimento in materia di esecuzione. Uno così al ministero non poteva durare. E infatti il Ministro Diliberto lo licenziò in tronco, a riprova del fatto che per essere illuminati non basta essere di sinistra. In quei giorni si apriva il concorso per il posto di presidente della corte di Appello di Firenze, la carica più alta della magistratura in Toscana. Insistetti in ogni modo perché presentasse la domanda, lo subissai di telefonate, andai a trovarlo a casa per convincerlo. Mi guardava con quel suo sorriso ironico come si guarda uno che non è completamente in sé e naturalmente non presentò la domanda. Al suo ritorno a Firenze andò a fare ciò che sapeva fare meglio di ogni altra cosa, il semplice giudice di sorveglianza. E da allora la sua voce, le sue ordinanze, i suoi scritti sull’esecuzione e sul carcere acquistarono un’autorevolezza che nessun altro poi ha più avuto. Ma ho promesso che non parlerò dei temi relativi all’esecuzione delle pene. Vorrei però dimostrare come vi sia una straordinaria continuità di posizioni tra il Margara giudice istruttore nei primi suoi 15 anni in Magistratura e il Margara della sorveglianza e perfino il Margara direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La ragione di questa continuità sta in una visione straordinariamente lucida del rapporto tra leggi e Costituzione e del rapporto tra la legge e la realtà a cui le norme devono essere applicate. È in questa complessa rete di rapporti che per Margara trovano la loro esatta collocazione gli uomini, specie quelli più disgraziati e meno eguali. In questa cornice la prima intuizione di Sandro fu che occorreva affermare con decisione che i magistrati di sorveglianza non erano magistrati di serie B. E fino ad allora c’erano stati molti buoni motivi per crederlo. I magistrati erano tenuti sull’uscio dalla direzione del carcere, possibilmente con i piedi fuori, e non si accettava che mettessero il naso nella realtà del carcere. Si accettava il controllo giurisdizionale previsto per legge, inteso nel senso più formale possibile, ma che fosse chiaro che l’amministrazione del carcere aveva mano libera, anche quando dalle sue decisioni poteva derivare una lesione dei diritti dei detenuti. Sandro cominciò invece da subito a metter bocca, aiutato dalla straordinaria conoscenza delle norme dell’ordinamento penitenziario e dei meccanismi del carcere. La sua popolarità tra i detenuti, già enorme in quegli anni lontani, faceva il resto e i vari direttori del carcere capivano che non sarebbe stato saggio uno scontro frontale con un giudice di quel calibro. La seconda intuizione di Sandro ha segnato tutta la sua carriera di magistrato e si può riassumere in una proposizione semplice a dirsi: applicare la Costituzione nel carcere, da dove fino agli anni ‘70 era stata costantemente tenuta fuori. Se si leggono le ordinanze di Sandro, tanti tasselli preziosi di una costruzione straordinaria, in ciascuna si troverà un fondamentale riferimento alla stella polare della Costituzione. Si può dire che ciò che ha dato immensa forza alle posizioni di Sandro è stata non solo la sua visione del carcere, certamente avanzata, ma soprattutto la sua ostinata battaglia per la legalità costituzionale dentro il carcere. A questa battaglia Sandro non ha mai rinunziato neppure quando si è trattato di estenderla al carcere speciale o ai condannati all’ergastolo, due categorie per le quali entra in gioco nell’opinione pubblica (ma anche tra gli addetti ai lavori) il ricatto emotivo che viene dalla pericolosità di chi delinque o dall’efferatezza dei delitti commessi. La posizione di Sandro su questo punto era cristallina: lo Stato non può opporre la sua violenza alla violenza di chi delinque. Si legge in Memoria di trent’anni di galera: “… la violenza dell’istituzione non rende innocenti i colpevoli che ospita (anche se essi si sentono vittime, e lo sono soggettivamente e sovente anche oggettivamente). Ma la violenza che hanno espresso con i loro delitti…non giustifica mai la violenza della comunità, dello Stato, che non dovrebbe aggiungere alla forza necessaria per realizzare la reclusione alcun additivo di violenza gratuita, quando non compiaciuta” La terza fondamentale intuizione di Sandro si può riassumere così: la rieducazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione è il cuore della pena, essa vale per tutti i condannati di qualsiasi specie, per gli ergastolani come per quelli assoggettati al 41 bis. Per ribadire questo principio Sandro ha scritto ordinanze e articoli memorabili per la passione e per la chiarezza, tanto che di lui spesso si è detto che è stato fondamentalmente il “giudice della rieducazione”. Certamente lo è stato, anzi la mia convinzione personale è che, prima di tutto, Sandro Margara sia stato il giudice dei diritti inviolabili dei carcerati, compreso, certo, anche il diritto incomprimibile alla rieducazione. Sulla finalità rieducativa di qualsiasi pena Sandro non aveva tentennamenti, nemmeno di fronte all’ergastolo ostativo. E ricavava implacabilmente dalla Costituzione il diritto di ogni condannato, anche dell’ergastolano, a pretendere di vedere riesaminato un punto ineludibile: se cioè la pena fino ad allora espiata avesse già conseguito il suo effetto rieducativo. Da questi tre punti fermi Sandro faceva discendere corollari importantissimi: la legalità, come garanzia dei diritti della persona, doveva essere affiancata dalla flessibilità dell’intervento giudiziario nell’esecuzione della pena, come strumento essenziale per perseguire la rieducazione dei condannati, per restituirgli dignità e non togliere loro la speranza del reinserimento. Di qui il netto rifiuto degli automatismi nell’esecuzione delle pene. Su questo punto Sandro ebbe opposizioni e perfino scontri aspri con alcuni colleghi che pure stimava. Quelli che più gli pesarono avvennero dentro MD, che per lui è stata sempre l’orizzonte nel quale potevano essere messe in fila le tappe di un carcere più umano. Anche dentro MD molti colleghi furono conquistati dai miti illusori di talune interpretazioni della certezza della pena, dalle logiche dell’emergenza, dalle leggi speciali e dalle velleità securitarie. Sandro se ne dispiacque, ma non arretrò di un centimetro dalle sue posizioni. Vorrei anche ricordare che Sandro ha condotto per anni tante altre battaglie: quella contro la deriva securitaria che si è tradotta in leggi da lui considerate via via sempre più illiberali e quella contro la legislazione sulla tossicodipendenza. Osservava che le politiche securitarie colpiscono invariabilmente proprio le fasce più deboli della popolazione e che il diritto alla sicurezza “viene soddisfatto dall’arresto di più persone e dal placare, più che la paura, il cattivo umore della gente”. Ma non mi resta tempo per queste cose di cui spero altri parleranno. Voglio concludere osservando che rileggere Margara non è un’operazione che riguardi il nostro passato o solo le cose che Sandro ha realizzato nella sua lunga vita. Riguarda invece il nostro futuro perché ci fornisce le chiavi di ciò che oggi possiamo fare. C’è un testo di Sandro, comparso sul n. 2/2009 di Questione Giustizia, scritto non per essere pubblicato, ma solo per annotare alcune riflessioni. Riletto oggi, è un testo profetico, quasi che Sandro, con dieci anni di anticipo, intuisse la deriva politica e giuridica e che oggi viviamo. I temi di questo scritto sono le leggi ingiuste e razziste. Sandro per ragioni anagrafiche ha conosciuto Matteo Salvini, ma per fortuna gli è stata risparmiata l’odierna versione del leghismo. E tuttavia nel 2009 scriveva: “Ci sono certe dichiarazioni politiche indiscutibilmente razziste. Non occorre un particolare sforzo per ricercare dichiarazioni… di rappresentanti politici che, con la terminologia classica del razzismo e spesso del più rozzo ed esplicito, hanno dichiarato le loro intenzioni: cacciare, perseguire gli immigrati arrivati nel nostro paese, impedire la loro integrazione, sbarrare le frontiere il più efficacemente possibile. Se questa è la scelta politica esplicita, le leggi che l’attueranno non potranno che essere discriminatorie. E ancora: “Una caratteristica del razzismo è la quantità delle giustificazioni che è capace di darsi e la condivisione delle stesse da parte delle comunità. Ma il razzismo configura una situazione oggettiva nella quale il senso di umanità si degrada perché afferma la superiorità del cittadino rispetto allo straniero.. e la convinzione che il territorio è nostro, sono nostre le case, il lavoro, i servizi, i diritti, il futuro”. Certo Sandro non poteva immaginare che la politica sciagurata del nostro Governo facesse morire annegati o tenesse sequestrati per giorni su una nave decine di poveri disgraziati dalla pelle nera. Perché sempre, anche di fronte alle politiche più ingiuste, la sua intelligenza cercava soluzioni generose ed efficaci, senza attardarsi a immaginare il peggio. Negli ultimi anni è stato incessante il suo appello ad una politica più umana: dava suggerimenti, indicava soluzioni e soprattutto additava la via della saggezza costituzionale, non solo per il carcere e i detenuti, ma per tutti i disgraziati, gli emarginati e i diversi. E da ultimo ha lasciato scritto: “Dunque: vogliamo non cogliere le possibilità che si trovano nelle vite sbagliate, ma che possono avere ancora un percorso? Vogliamo fermare il responsabile al suo delitto, sotterrare i suoi talenti, i nostri talenti, dati a noi per fare rendere ancora i suoi? Possiamo farlo, possiamo optare per una società punitiva, …. che vuole mietere dove non semina, che vuole un risultato senza dare nulla di sé. Ma la società a cui pensiamo, che noi vorremmo per noi… non dovrebbe essere una società educativa, che spende i propri talenti e li spende anche per fare fruttare quelli di tutti? Questa società partecipa al dolore delle vittime, si fa carico di esse, ma sa che non può ignorare e dimenticare i colpevoli; sa, in particolare, che farsi carico delle vittime è qualcosa di più e di diverso e di più responsabile che punire più duramente e ciecamente i colpevoli”. Carceri, quello che le donne non sanno di Tania Careddu altrenotizie.org, 11 febbraio 2019 I sentimenti sono estremizzati. Le sofferenze sono quotidiane. Alcune sono madri. Sono Donne in transizione, raccontate nella ricerca de La società della regione, intervistate nelle carceri di Pisa e Sollicciano, che descrivono l’esperienza femminile della reclusione. Emerge la centralità del fattore emotivo: un’emotività a volte cieca, che spinge a conflittualità e aggressività: “Siccome in carcere non si sceglie con chi stare, c’è un problema di quotidiana gestione degli spazi e delle cose”, si legge. Perché la cella, sebbene debba essere condivisa, è sempre vissuta come spazio di privacy (anche simbolicamente). E “la perdita di controllo sugli spazi e sulle relazioni (…) può appesantire i rapporti che possono, però, anche essere coltivati” perché le celle degli istituti presi in esame sono aperte per dodici ore al giorno. Per sollevarsi dalla pervasività del carcere, le detenute fanno uno sforzo attivo per la cura dell’ambiente: oltre che per l’adattamento, prendersene cura diventa un fattore di protezione: “In media, le donne hanno risorse e questo permette che il tempo scorra abbastanza adeguatamente, fatta salva la privazione della libertà, il carcere è carcere ma sembrano più attrezzate a reggerlo”. Forse perché “in genere, le donne fanno gruppo e si oppongono a chi si isola”, rimandando all’importanza della dimensione collettiva e della cura dell’altra. Che “riempie di significato le relazioni”, diventando una risorsa fondamentale di resilienza al carcere. La cura dell’altra, infatti, non si esaurisce nell’accudimento ma libera “competenze di natura intellettiva, potenziando le capacità di stare al mondo”. Per esempio, in luogo “della dinamica caotica del rapporto fra donne, compare l’immagine di donne che sanno elaborare il conflitto e gestirlo in modo da non diventare violente”. Mentre la cura del sé è, più che altro, “un aggancio alla continuità col fuori carcere”. La loro più grande sofferenza deriva dal carattere totalizzante della dipendenza, non solo come conseguenza connaturata alla detenzione, ma anche per i meccanismi di “minorazione” che sono vissuti come mortificazione dell’identità. Perché non sono messe in grado di conoscere e comprendere e perciò di acquisire elementi per costruire la propria “mappa cognitiva”, conducendole a una “infantilizzazione”, incapaci di mettere all’opera le “abilità di vita” proprie dell’adulto. E “non sempre la domanda della donna detenuta è compresa nel suo reale e più profondo significato di ottenere una chiave di accesso agli imperscrutabili meccanismi che governano la propria esistenza”. Ad elevare il livello di disagio in carcere, la lontananza dai figli, che una certa cultura punitiva e segregante presente in molte istituzioni aggrava: i rapporti materni sono spesso possibili (solo) per il percorso premiale che sembra suggerire l’idea che il mantenimento di questo legame non rientri nei diritti ma nelle concessioni subordinate alla dimostrazione della detenuta di essere una buona madre altrimenti sospetta di non meritare i figli. E anche in carcere si fa sentire il peso delle impari opportunità: dalla carenza di percorsi formativi e ricreativi rivolte alle donne alle disparità economiche. Alla base, c’è da rimuovere una carenza strutturale di attenzione alle donne in carceri strutturalmente maschili. Insomma, “l’esperienza storica carceraria femminile acuisce la vista su alcuni aspetti che sono cruciali per progettare il cambiamento (…) e si rivela una fonte preziosa per pensare un carcere diverso e meno afflittivo: per donne, così come per uomini”. Lo sport nelle carceri minorili, la proposta della sen. Piarulli lostradone.it, 11 febbraio 2019 “Nei 17 istituti penitenziari minorili d’Italia ci sono attualmente 453 i ragazzi, per i quali istruzione, sport e cultura possono rappresentare un aiuto impor­tante, uno stru­mento di crescita culturale e soprattutto umana” si legge nella nota. Un disegno di legge sulla promozione dell’attività fisica e sportiva negli istituti penitenziari minorili. Lo ha presentato la senatrice coratina Angela Bruna Piarulli. “L’assetto della riforma dell’ordinamento penitenziario è volto all’attuazione del principio contenuto all’articolo 27 della Costitu­zione, che prevede un rapporto inseparabile tra la pena e la rieducazione del condannato. Un problema pressante nelle carceri italiane e soprattutto negli istituti minorili è costituito dall’occupazione del tempo da parte dei giovani reclusi. La limitazione della libertà, soprattutto nei giovani, produce profondi segni di sofferenza psicofisica, fa aumentare notevolmente i livelli di stress, in quanto richiede un incessante autocontrollo sull’auto­gestione della pena e sull’osservazione del proprio comportamento. I disturbi maggiormente riscontrati sono: claustrofobia, irritabilità permanente, riduzione del tono dell’umore, sintomi allucinatori, abbandono difensivo, disturbi psicosoma­tici, disturbi della personalità ed estraniamento. L’attività motoria e sportiva è universalmente riconosciuta come un mezzo insosti­tuibile per la prevenzione di molte patologie o disfunzioni legate alla sedentarietà. Inoltre le sono riconosciute capacità terapeutiche. La pratica sportiva inoltre è in grado di stimolare la socializzazione, lo spirito di gruppo, il rispetto e la condivi­sione delle regole. Il mio disegno di legge ha come finalità quello di rendere effettivo lo sport all’interno degli istituti minorili (circa 17) affinché la risocializzazione del detenuto passi attraverso la concretizzazione dei valori dello sport. L’insegnamento di una disciplina sportiva da parte di tecnici qualificati, in maniera continuativa e strutturata e non estemporanea diventa prevenzione alla criminalità. In questo modo potranno aversi campioni abbattendo le barriere dei pregiudizi. Si raggiungerà il macro-obbiettivo della legalità. Nei 17 istituti penitenziari minorili d’Italia ci sono attualmente 453 i ragazzi, per i quali istruzione, sport e cultura possono rappresentare un aiuto impor­tante, uno stru­mento di crescita culturale e soprattutto umana; un momento di confronto con per­sone diverse, di origini, culture e nazionalità diverse. Perché lo sport è in grado anche di abbattere ogni barriera. Le attività di gruppo svolgono un ruolo fondamentale nella socializzazione tra persone che condividono una situazione di “convivenza forzata” contribuendo alla creazione di un clima pacifico e sull’abbassamento del rischio di recidiva che, soprattutto in ambito di esecuzione penale minorile, rappresenta il pericolo maggiore. Trattandosi, inoltre, di iniziative già attive all’esterno, la loro estensione all’interno de­gli istituti risponde al principio di non discriminazione ed evita la marginalizzazione del detenuto in relazione al suo futuro reinserimento sociale”. Da ieri questa proposta di legge è stata caricata sulla piattaforma Rousseau, nella sezione Lex Parlamento. Gli iscritti avranno perciò 30 giorni di tempo per proporre modifiche e miglioramenti al testo e tali proposte verranno poi presentate e discusse in Senato. “Scrittore per forza grazie al carcere” di Elena Masuelli La Stampa, 11 febbraio 2019 Già imprenditore e consulente finanziario, Roberto Ceresa ha vinto la prima edizione di “Sognalib(e)ro”, concorso letterario riservato ai detenuti. Lo dice subito che la storia che racconta non è la sua. Che non è lui il bravo ragazzo affascinato da Machiavelli, abilissimo con i motori, un’esistenza e una famiglia normali, che diventa membro di una banda di rapinatori. Ma è tutta vita vissuta l’incipit di Accadde a Torino, con cui Roberto Ceresa ha vinto la sezione romanzo della prima edizione di “Sognalib(e)ro”, il concorso ideato e diretto da Bruno Ventavoli, responsabile di Tuttolibri, con l’assessorato alla Cultura del Comune di Modena e la Direzione generale del ministero della Giustizia, sostenuto da Bper Banca. Obiettivo, promuovere la diffusione dei libri all’interno delle carceri italiane e dimostrare che lettura e scrittura possono essere un importante strumento di riabilitazione. Il libro si apre con l’ingresso del protagonista nella sezione “nuovi giunti” del penitenziario torinese Lorusso e Cutugno, alle Vallette, lo stesso in cui è detenuto lui. Il rumore dei cancelli, le celle affacciate su un dedalo di corridoi da cui spuntano solo mani, il soffitto a volta da fissare, “uno degli orizzonti più intensamente osservati al mondo”. Ventisei gli inediti presentati dai carcerati-scrittori di otto istituti, coinvolti anche in un progetto di gruppi di lettura: oltre a Torino e Modena, Milano Opera, Trapani Cerulli, Brindisi, Pisa, Pozzuoli e Roma Rebibbia-Stefanini. A valutarli una giuria di autori di successo composta da Elena Ferrante, Walter Siti, Antonio Manzini e Antonio Franchini, direttore editoriale della casa editrice Giunti che pubblicherà il libro vincitore in e-book. Dopo sette romanzi (e uno in lavorazione), Roberto Ceresa, sessantacinquenne biellese, si definisce autore “per forza”, più che “per caso”: “Ho cominciato in cattività, dove il problema è ingannare il tempo lento e forse noi stessi. Durante la mia vita professionale di imprenditore e consulente finanziario avevo scritto migliaia di pagine a consigli di amministrazione o avvocati. In carcere invece ho potuto dare sfogo a quello che sentivo dentro. Lo stimolo è arrivato da una docente di lettere, quando ero detenuto a Cuneo, nell’agosto del 2015. Io scrivevo, tutto a mano, e lei leggeva. Poi sono andato avanti. Questa esperienza mi ha segnato profondamente e nei miei libri inserisco elementi autobiografici. Fa eccezione questo, Accadde a Torino, una storia che mi è stata raccontata da un altro carcerato. Dalla trama traspare il tessuto sociale in cui è cresciuto il protagonista”. La Torino di fine Anni 90, tra bowling di periferia e vie del centro, il Canavese e l’Astigiano. Territorio di colpi a banche e gioiellerie per una gang di ladri “gentiluomini”: non portano via nulla che non sia coperto da assicurazione, non sparano, rassicurano le vecchiette. Epoca di primi cellulari e di indagini condotte in modo ancora tradizionale da una squadra comandata da una affascinante e abile poliziotta (“se ne vedono non solo l’attitudine al comando e la spiccata personalità, ma anche la grande umanità”), indizi, appostamenti, colpi di fortuna. Per il ragazzo diventato ladro dopo la morte del padre, l’evento che ha cambiato tutto, un crescendo di assalti condotti con una calma di cui non si sarebbe creduto capace, l’ebbrezza di contare i soldi, le serate al night, l’adrenalina nel leggere le proprie gesta sulla prima pagina della Stampa, dopo ogni rapina. Nella vita precedente, Ceresa ha studiato Scienze politiche ed Economia, adesso è iscritto a Giurisprudenza nel Polo Universitario del Lorusso e Cutugno, ma dice di non riuscire a immaginare un futuro. Parla di ricordi del passato che si accavallano e rintronano: “Il naufragio della speranza è un bellissimo quadro del pittore tedesco Caspar David Friedrich. Ecco, la mia speranza è naufragare”. Tra i libri del cuore Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e quelli di Herman Melville, però la passione sono i gialli, Rex Stout, Agatha Christie, Camilleri, Piero Chiara, ma anche l’Ellroy di L.A. Confidential e John Grisham. In Accadde a Torino cita Machiavelli e L’arte della guerra di Sun Tzu: “Li ho letti molto prima di entrare qui. Ho anche tradotto Il Principe dall’italiano antico a quello moderno. Mi pare che dicano le stesse cose”. Del suo presente “desertificato” quello che salva è la biblioteca del carcere: “Ha un valore immenso. La lettura è la cosa che più avvicina alla libertà”. Bongiorno: “Un test psicologico per reclutare i giudici” di Andrea Morigi Libero, 11 febbraio 2019 Il ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, vuole un nuovo metodo di selezione per le toghe. Magistratura Indipendente è d’accordo. Occorre una svolta nei criteri di selezione dei magistrati. La invoca Giulia Bongiorno, celebre avvocato e ora ministro della Pubblica Amministrazione. Ieri, durante il suo intervento alla scuola di formazione politica della Lega a Milano, ha proposto di cambiare: “Spero ci possa essere una nuova riflessione sul metodo di reclutamento della magistratura perché ci servono dei magistrati che siano sempre all’altezza dei loro compiti. Oggi come oggi i magistrati hanno un tipo di concorso solo nozionistico”. Invece, a suo parere, “bisognerebbe cercare di fare in modo che ci sia un percorso di tirocinio fatto in modo anticipato rispetto all’esame. Prima si fa il corso di tirocinio e poi si supera l’esame un po’ come avviene con gli avvocati”. Al termine, insomma, chi ha in affidamento il tirocinante esprime un parere sulle attitudini di quest’ultimo. Inoltre, il ministro ritiene che “bisogna cercare di verificare anche l’attitudine a giudicare, non solo la conoscenza delle norme”. Come? L’orientamento del ministro pare sia favorevole a procedere a una valutazione delle caratteristiche psico-caratteriali degli aspiranti giudici, pm, gip e di tutti i candidati a indossare la toga. Per ora, soltanto la corrente più moderata dell’Associazione Nazionale Magistrati accoglie favorevolmente la proposta. Magistratura Indipendente (Mi), guidata da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano, ha visto da tempo quel che non funziona e afferma: “Registriamo con attenzione le parole del ministro Giulia Bongiorno sulla riforma dell’accesso in magistratura. Da tempo riteniamo necessario riflettere su opportune modifiche al sistema di accesso in magistratura”. L’elenco delle criticità del sistema è pronto: “Oggi si entra in magistratura troppo tardi, con evidenti problemi dal punto di vista previdenziale per i futuri magistrati e attraverso un percorso che non appare del tutto adeguato alle nuove sfide”: Perciò, MI invita “il ministro della Giustizia a promuovere una seria e tempestiva riflessione sul tema, coinvolgendo la magistratura, l’avvocatura e l’Università”, senza peraltro far cenno al mutamento delle procedure selettive. In realtà, c’è già un testo approvato dal governo nel dicembre scorso, che ha iniziato il suo iter ed è stato ideato proprio dalla Bongiorno, il disegno di legge “Deleghe al Governo per il miglioramento della Pubblica Amministrazione”. In particolare, sia nella fase di reclutamento sia negli avanzamenti di carriera, i servitori dello Stato dovranno misurarsi con test psico-attitudinali per comprenderne le capacità relazionali e l’attitudine al lavoro in gruppo. Non è la prima volta che si punta a introdurre una griglia di selezione più mirata a tutelare il pubblico. Lo aveva già pensato il ministro della Giustizia Roberto Castelli, in carica fra il 2001 e li 2006, nella sua riforma dell’ordinamento, prevedendo proprio un test psico-attitudinale. Ma allora, era il 2002 e la bozza non entrò in vigore prima del 2005, le battute di Silvio Berlusconi contribuirono ad avvelenare ancora più il clima fra politica e giustizia. Il Cavaliere, come presidente del consiglio dei ministri, il 3 settembre del 2003, aveva detto di ritenere che i giudici sono “doppiamente matti”, aggiungendo che “per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato”. Una generalizzazione forse spiegabile con l’accanimento giudiziario nei suoi confronti, ma che nel 2008 gli fece avanzare l’ipotesi che i pubblici ministeri “siano periodicamente sottoposti ad esami che ne attestino la sanità mentale”. Intanto il Guardasigilli del secondo governo Prodi, Clemente Mastella, nel 2007 aveva già provveduto a stravolgere con modifiche profonde la riforma Castelli, abrogando anche “il test psicoattitudinale, che peraltro non era mai stato applicato”, ricorda Castelli, parlando con Libero. In realtà, fa notare, “non si trattava affatto di una norma offensiva od oltraggiosa nei confronti dei magistrati e nemmeno soltanto di una garanzia per i cittadini, ma di un’esigenza che vale per molte altre categorie che esercitano grandi responsabilità, che quindi riguarda anche l’immagine della magistratura”. Verini (Pd): “Una legge per difendere i giornalisti” di Giovanna Casadio La Repubblica, 11 febbraio 2019 Verini, primo firmatario della riforma sulla diffamazione: “Il Parlamento tuteli la libertà di stampa”. Eppure una proposta di legge c’è, in difesa del giornalismo d’inchiesta e che scioglierebbe il “caso Unità” di cui ha parlato ieri Concita De Gregorio sulle pagine di Repubblica. Non una legge per pochi, ma per la libertà di tutti e per mettere in salvaguardia un principio fondamentale: non si minacciano i giornalisti né con la pistola puntata e neppure con l’avvertimento economico che suona: “Ti tolgo tutto così vediamo se hai ancora la voglia di parlare”. La legge semplicemente riforma la diffamazione a mezzo stampa. Nella passata legislatura, per l’esattezza nel 2015, fu approvata dalla Camera, d’accordo anche i forzisti e la Lega astenuta. Ma poi si è arenata al Senato, come d’altra parte in quello scorcio di legislatura accadde per lo Ius soli o per la legge contro l’omofobia (appena riproposta da Ivan Scalfarotto). “L’ho ripresentata nel marzo scorso, appena è stato possibile - spiega Walter Verini, dem, primo firmatario della proposta di riforma sulla diffamazione sin dalla passata legislatura -. Non è cucita addosso al “caso Unità”, ma a partire anche da quello, però, ricorda a tutti che così muore un pezzo di libertà”. “E allora, stiamo attenti”, aggiunge Verini. Se un editore infatti è desaparecido - nel senso che non edita più, non c’è più - la scure della richiesta di risarcimento si abbatte solo su cronista e direttore che pagano per tutti. Quindi un cronista che denuncia la tratta di esseri umani, le mafie, la corruzione politica ed è un free lance, pagato a pezzo - ricorda De Gregorio - è facile e isolato bersaglio dei poteri che denuncia. Nella “legge Verini”, sin dall’inizio appoggiata dalla Fnsi, si toglie il carcere per i giornalisti e si disincentivano le cosiddette querele temerarie che sono l’arma alla tempia di giornalisti e siti, soprattutto nella zone più a rischio del paese. Il Pd ha chiesto che il dossier sulla diffamazione sia riaperto e al presidente della Camera Roberto Fico e alla presidente della commissione Giustizia, Giulia Sarti ha posto l’urgenza della calendarizzazione. “Riparliamone e al più presto”, è il leitmotiv di Verini e degli altri parlamentari che la sostengono. E il 20 marzo prossimo la manifestazione a 25 anni dall’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarà un’occasione per parlare anche di questo. Il monito di Papa Francesco per una giustizia giusta e sollecita per gli ultimi di Carlo Di Cicco notizie.tiscali.it, 11 febbraio 2019 Il Papa sottolinea la situazione di criticità nel lavoro dei magistrati, la cultura dell’illegalità che richiede loro una più specchiata coerenza e una rafforzata indipendenza. Onore ai magistrati uccisi nell’adempimento del loro servizio. Ai teologi segnala nuovo peccato ecologico. Anche Francesco ha le sue attese nei confronti della giustizia in Italia che auspica più attenta agli ultimi, con magistrati virtuosi, indipendenti e risorse maggiori per aiutare il Paese a uscire da una diffusa cultura dell’illegalità. Le parole rivolte all’Associazione Nazionale Magistrati che raccoglie l’adesione del 90% degli iscritti ricevuta in occasione dei 110 anni dalla sua fondazione sono apparse un chiaro segno di vicinanza del papa alla vita dei magistrati cui è richiesta una testimonianza specchiata dei valori costituzionali e una piena consapevolezza del momento particolarmente difficile che la giustizia come virtù e come macchina amministrativa attraversa nel nostro Paese. Un contesto “attraversato da tensioni e lacerazioni, che rischiano di indebolire la tenuta stessa del tessuto sociale e affievoliscono la coscienza civica di tanti, con un ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità”. Forte rivendicazione dei diritti e una scarsa percezione dei doveri, una diffusa “insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone”. Anche parlando di giustizia Francesco non dimentica i disagi dei poveri e chiede alla giustizia di occuparsi con particolare attenzione e sollecitudini della loro condizione. “La giustizia che amministrate diventi sempre più “inclusiva”, attenta agli ultimi e alla loro integrazione: infatti, dovendo dare ad ognuno quanto gli spetta, non può dimenticare l’estrema debolezza che riveste la vita di tanti e ne influenza le scelte”. La società non può fare a meno della giustizia anzitutto come virtù coltivata da tutti e specialmente dai magistrati poiché “senza giustizia tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso. Al conseguimento della giustizia devono quindi concorrere tutte le energie positive presenti nel corpo sociale, perché essa, incaricata di rendere ad ognuno ciò che è suo, si pone come il requisito principale per conseguire la pace”. Ma per un traguardo così ambizioso e sperato occorre crearne le condizioni. È a questo punto concreto che Francesco condivide le richieste dei magistrati per essere messi in condizione di amministrare meglio la giustizia. Criticità nella giustizia italiana “Sono consapevole delle mille difficoltà che incontrate nel vostro quotidiano servizio, ostacolato nella sua efficacia dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale, e dalla crescente complessità delle situazioni giuridiche. Ogni giorno dovete poi fare i conti, da un lato, con la sovrabbondanza delle leggi, che può causare una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali; e, dall’altro, con vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati. Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore”. In un tempo nel quale “così spesso la verità viene contraffatta, e siamo quasi travolti da un vortice di informazioni fugaci, è necessario che siate i primi ad affermare la superiorità della realtà sull’idea. Il vostro impegno nell’accertamento della realtà dei fatti, anche se reso più difficoltoso dalla mole di lavoro che vi è affidata, sia quindi sempre puntuale, riportato con accuratezza, basato su uno studio approfondito e su un continuo sforzo di aggiornamento. Esso saprà avvalersi del dialogo con i diversi saperi extra-giuridici, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società e nella vita delle persone, ed essere in grado di attuare con sapienza, ove necessario, un’interpretazione evolutiva delle leggi, sulla base dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione”. Il valore dell’indipendenza dei magistrati E alla luce della Costituzione Francesco indica anche la fedeltà allo Statuto che richiede dedizione e indipendenza sulla quale occorre vigilare. Indipendenza “esterna”, che porta ad affermare con forza il suo carattere non politico, tenga lontani da voi i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine; e l’indipendenza “interna” che libera dalla ricerca “di vantaggi personali, capaci di respingere “pressione, segnalazione o sollecitazione diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi di amministrazione della giustizia”. Infine una sensibilità alla condizione della gente e quindi una giustizia che giudica con uno sguardo di bontà. “Proprio i tempi e i modi in cui la giustizia viene amministrata toccano la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti, e lasciano in essa segni di sollievo e consolazione, oppure ferite di oblio e di discriminazione. Pertanto, nel vostro prezioso compito di discernimento e di giudizio, cercate sempre di rispettare la dignità di ogni persona, “senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione”. Il vostro sguardo su quanti siete chiamati a giudicare sia sempre uno sguardo di bontà. “La misericordia infatti ha sempre la meglio nel giudizio” ci insegna la Bibbia, ricordandoci che uno sguardo attento alla persona e alle sue esigenze riesce a cogliere la verità in modo ancora più autentico”. Un’eco di questa attenzione alle persone Francesco lo ha fatto presente anche ai teologi moralisti dell’Accademia Alfonsiana ricevuti dopo i magistrati. Ispirandosi con molta chiarezza al concilio Vaticano II che ha in qualche modo aggiornato la morale e sapendo di parlare a docenti e studenti della più prestigiosa università cattolica di teologia morale Francesco ha tra le altre cose suggerito di approfondire lo studio sui nuovi contesti del matrimonio e sui peccati legati alla coscienza ecologica sempre più diffusi. “Mi fa riflettere il fatto che quando amministro la Riconciliazione - anche prima, quando lo facevo - raramente qualcuno si accusa di aver fatto violenza alla natura, alla terra, al creato. Non abbiamo ancora coscienza di questo peccato. È compito vostro farlo. La teologia morale deve fare propria l’urgenza di partecipare in maniera convinta a un comune sforzo per la cura della casa comune mediante vie praticabili di sviluppo integrale. Un dialogo e un impegno condiviso la ricerca morale è chiamata a compiere anche nei riguardi delle nuove possibilità che lo sviluppo delle scienze biomediche mette a disposizione dell’umanità. Non dovrà però mai venir meno la franca testimonianza del valore incondizionato di ogni vita, ribadendo che proprio la vita più debole e indifesa è quella di cui siamo chiamati a farci carico in maniera solidale e fiduciosa”. Reddito di cittadinanza: carcere fino a sei anni per chi mente di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2019 Il raffronto con le altre disposizioni. Nella “Gazzetta Ufficiale” del 28 gennaio 2019 n. 23, è stato pubblicato il decreto legge 28 gennaio 2019 n. 4, entrato in vigore il 29 gennaio scorso; la decretazione d’urgenza introduce disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni. La struttura e il trattamento sanzionatorio - La struttura dell’articolato segue una sequenza logica. La prima parte è dedicata al beneficio (il reddito di cittadinanza: Rdc), i beneficiari e gli strumenti per conseguire l’emolumento; la seconda parte si occupa delle sanzioni; l’ultima parte tocca le misure incentivanti e il monitoraggio. Il beneficio introdotto con il Dl 4/2019 costituisce una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, utile ad assicurare un livello minimo di sussistenza, incentivando la crescita personale e sociale dell’individuo; ecco perché l’accesso a questo tipo di beneficio, in difetto dei requisiti, si rivela riprovevole perché si rischia di mandare in “corto-circuito” l’intero sistema introdotto e, soprattutto, si sottrae denaro che spetta a persone in condizioni di bravissima emarginazione sociale. La mancata distinzione delle diverse fattispecie - Per “dissuadere” chiunque da una tal condotta, la decretazione d’urgenza introduce una trama di sanzioni, enucleate nell’articolo 7: vengono inserite anche sanzioni penali, istituendo nuove fattispecie incriminatrici. In particolare, ai sensi dell’articolo 7, comma 1, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il [Rdc], rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni”. Il trattamento sanzionatorio riservato a chi acceda illecitamente al Rdc è, quindi, severo, comportante la reclusione da due a sei anni. La severità discende dal fatto che la norma non punisce il fatto di aver conseguito illecitamente i fondi, ma il solo fatto di aver presentato documenti infedeli al fine di ottenerli. Non si distingue, insomma, tra colui che abbia provato (illecitamente) a ottenere il Rdc e colui che vi sia riuscito, quanto a dire tra due condotte entrambe riprovevoli, ma distinte sul piano del bene giuridico effettivamente leso e della carica di offensività. Inoltre, se si guarda al Rdc, la condotta di rappresentazione infedele, non seguita da concessione del beneficio, è “pericolosa”; quella seguita da conseguimento illecito del bene, è “dannosa”. Qualche dubbio potrebbe sorgere, dunque, il merito alla proporzionalità della pena prevista. L’articolo 7 del Dl 4/2019 alla luce del principio di proporzionalità - Il principio di proporzionalità governa la materia penale e ha radice costituzionale ed eurounitaria. Quanto al primo aspetto, il principio di proporzionalità discende dall’articolo 3 della Costituzione, ove il costituente esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità, nel campo del diritto penale, conduce a “negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni” (Corte costituzionale, sentenze n. 341 del 1994 e n. 409 del 1989). Quanto al secondo aspetto, va ricordato l’articolo 49, numero 3), della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e che ha ora lo stesso valore giuridico dei trattati, in forza dell’articolo 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea (Tue), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 - a tenore del quale “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”. La sproporzione della pena compromette anche il processo rieducativo, violando così pure il parametro costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione; giova ricordare che “il contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena ingenera nel condannato la convinzione di essere vittima di un ingiusto sopruso, sentimento che osta all’inizio di qualunque efficace processo rieducativo, in violazione dell’art. 27 Cost.” (Corte costituzionale, sentenza n. 236 del 2016). La proporzionalità è il frutto di un test che può essere condotto almeno in due modi: 1) attraverso il ricorso al tertium comparationis (in questo caso è possibile dimostrare il difetto di proporzionalità non evidenziando che la pena prevista per il reato A è ingiustificatamente più severa di quella prevista per il reato B); 2) attraverso l’analisi autonoma (in questo caso è possibile dimostrare che la pena prevista per il reato A è sproporzionatamente severa in termini assoluti, in quanto implicante una limitazione dei diritti fondamentali del condannato eccessiva rispetto alle finalità perseguite dalla norma incriminatrice). L’esito di questo test deve far emergere la manifesta sproporzione della cornice edittale, se considerata alla luce del reale disvalore della condotta punita. Come si può vedere, infatti, dalla tabella allegata abbiamo comparato il trattamento sanzionatorio penale del reddito di cittadinanza con altre disposizioni. Più in particolare, un raffronto può essere fatto tra il reato previsto e punito dall’articolo 316-ter del codice penale (“indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”) e quello introdotto con l’articolo 7, comma 1, del Dl 4/2019. Entrambi puniscono la condotta di chi rappresenti una falsa realtà, mediante documenti falsi o attestanti cose non vere oppure con omissioni antidoverose; entrambi pure hanno riguardo a fondi pubblici. Tuttavia, nel reato ex articolo 316-ter del Cp,la pena fino a 3 anni è prevista in quanto il denaro erariale è stato conseguito (e, quindi, si è consumato un danno effettivo a carico dello Stato); al contrario, come detto, il reato previsto dall’articolo 7 del Dl 4/2019, prescinde dalla sottrazione effettiva dell’emolumento di Stato. Ai sensi dell’articolo 316-ter del Cp: “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Peraltro, ai sensi del comma 2, quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito. Motivi razziali, ma l’ingiuria non è reato Italia Oggi, 11 febbraio 2019 Il reato di ingiuria aggravato da motivi razziali non è più reato. Lo spiega, in punto di diritto, la quinta sezione penale della suprema Corte di cassazione, nella sentenza 246112019 di gennaio. Rendendo atto delle modifiche del decreto svuota carceri n. 7 del 2016, la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio una decisione di secondo grado della corte di appello di Firenze, che condannava il ricorrente per il reato d’ingiuria aggravato da motivi razziali, perché l’ingiuria per il nostro ordinamento non costituisce più un illecito penale. Non solo, alla luce della sentenza delle Sezioni unite n. 46688/2016, una volta che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, al giudice dell’impugnazione spetta anche revocare i capi della sentenza relativi agli interessi civili, pronuncia che, tuttavia, non fa venire meno la possibilità per la parte civile, di agire per il risarcimento danno, nella sua sede naturale, presentando domanda “ex novo”. In particolare gli ermellini spiegano che il fatto “si riverbera anche sui capi concernenti gli interessi civili, ossia sull’intervenuta condanna al risarcimento del danno, determinando il venir meno del nesso sostanziale tra un fatto penalmente rilevante e l’accusato la preclusione a decidere in merito agli effetti civili, in considerazione della regola generale del collegamento necessario tra condanna e statuizioni civili del giudice penale, della tassatività della deroga prevista dall’articolo 578 del codice di procedura penale e della diversa disciplina sancita dall’art. 9 del decreto legislativo n. 8 del 2016 per gli illeciti oggetto di depenalizzazione, non prevista per le ipotesi di abolitio criminis dal decreto legislativo n. 7 del 2016, né ad esse applicabile in via analogica”. Infine gli ermellini, interpretando la sentenza, citano anche i passi in cui viene recitato che “in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del dlgs 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili”. Guida in stato di ebbrezza: con estinzione del reato prefetto decide su sospensione patente di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 novembre 2018 n. 52125. Nel caso di sanzione amministrativa della sospensione della patente, la competenza all’irrogazione della stessa all’esito della positiva “messa alla prova” e dell’estinzione del reato, va individuata, ai sensi dell’articolo 224, comma 3, del codice della strada, in capo al prefetto. Lo ha detto la sezione IV penale della Cassazione con la sentenza 20 novembre 2018 n. 52125 . La sentenza ribadisce un orientamento ormai consolidato (cfr., tra le altre, sezione VI, 25 maggio 2017, Feraboli; sezione IV, 8 luglio 2016, Rossini; sezione IV, 23 giugno 2016, Conti; sezione IV, 17 settembre 2015, Pettorino), che, nella sostanza, si basa sulla valorizzazione della diversità della disciplina contemplata negli articoli 186, comma 9-bis, e 187, comma 8-bis, del codice della strada, relativa all’applicazione del lavoro di pubblica utilità da svolgersi quale sanzione sostitutiva di una pena irrogata conseguente a un’affermazione di penale responsabilità, laddove compete invece al giudice, in deroga alla previsione generale di cui all’articolo 224, comma 3, del Cds, la determinazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida (sia pure ridotta della metà). Tale disciplina, invece, non è ritenuta applicabile all’ipotesi della sospensione del procedimento con messa alla prova, che configura un’ipotesi di estinzione del reato e, a tal fine, non prevede un preventivo accertamento della responsabilità penale. Quindi, coerentemente, nell’ipotesi dell’esito positivo della messa alla prova e della conseguente estinzione del reato deve trovare applicazione la disposizione generale dell’articolo 224, comma 3, del Cds, secondo cui, appunto, nel caso di estinzione del reato, è il prefetto a dover procedere all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della patente di guida. In questa prospettiva, si spiega, proprio per consentire l’applicazione della sanzione amministrativa, il disposto dell’articolo 223, comma 4, del Cds, laddove si dispone - strumentalmente a tale finalità - che la sentenza, una volta irrevocabile, venga trasmessa al prefetto entro i successivi quindici giorni a cura del cancelliere competente. Infortuni sul lavoro, comportamento eccentrico “interrompe” il nesso tra condotta ed evento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 dicembre 2018 n. 54813. In tema di infortuni sul lavoro e di responsabilità del titolare della posizione di garanzia, è interruttiva del nesso di condizionamento tra la condotta di questi e l’evento lesivo per il lavoratore la condotta abnorme del lavoratore, quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso: tale comportamento è “interruttivo”, cioè, non perché “eccezionale”, ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare . Il principio viene ribadito dalla sezione IV penale con la sentenza 7 dicembre 2018 n. 54813. È principio consolidato quello secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, l’addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio, giacché al datore di lavoro, che è “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore, è imposto (anche) di esigere da quest’ultimo il rispetto delle regole di cautela (cfr. articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81). A tale regola, si fa unica eccezione, in coerente applicazione dei principi in tema di interruzione del nesso causale (articolo 41, comma 2, del codice penale), in presenza di un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile del lavoratore: in tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell’evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile (e come tale inevitabile) del lavoratore, finisce con l’essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento dannoso (l’infortunio), che, per l’effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore. Ciò può verificarsi in presenza (solo) di comportamenti “abnormi” del lavoratore, come tali non suscettibili di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In questa prospettiva, secondo la lettura più recente e accreditata (cfr. anche, in parte motiva, sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn e altri), il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subito dal lavoratore non solo quando il comportamento di quest’ultimo risulti definibile come “abnorme” e quindi non suscettibile di controllo da parte del titolare della posizione di garanzia (dovendosi considerare abnorme non solo il comportamento posto in essere in una attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, ma anche quello “connesso” con lo svolgimento delle mansioni lavorative, ma consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro), ma anche quando il comportamento del lavoratore, pur non abnorme di per sé, risulti “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il titolare della posizione di garanzia è chiamato a “governare”. In termini, di recente, sezione IV, 5 ottobre 2018, Baglietto e altri, dove, peraltro, dopo essersi ribadito che è “interruttivo” il comportamento eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare, si è escluso che ciò possa verificarsi quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità (come nella specie, in cui l’infortunio si era verificato per l’utilizzo di uno strumento di lavoro del tutto improprio e potenzialmente pericoloso). Reati alimentari: l’accertamento della pericolosità per la salute dei consumatori Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2019 Disciplina igienica degli alimenti - Reati alimentari - Reati di pericolo - Tutela della salute pubblica - Lesione - Elementi di valutazione della pericolosità. In tema di reati alimentari, la fattispecie prevista all’art. 5, c. 1, lett. d), della legge 283/1962 ha natura di reato di pericolo, per cui è sufficiente l’idoneità della sostanza alimentare a produrre effetti di tossicità e a porre in pericolo la salute degli eventuali consumatori. Tale pericolosità è desumibile dal giudice non soltanto nell’ipotesi di superamento dei limiti massimi di concentrazione dei contaminanti alimentari stabiliti dalla legge - che è comunque un valido elemento indiziario in ordine alla idoneità della sostanza a determinare un vulnus alla salute dei potenziali consumatori degli alimenti - ma anche da altri elementi, purché il relativo apprezzamento sia adeguatamente e logicamente motivato. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 31 gennaio 2019 n. 4878. Produzione, commercio e consumo - Prodotti alimentari (in genere) - Reati - In genere - Sostanze nocive - Nozione - Reato di cui all’art. 5, lett. d), legge n. 283 del 1962 - Fattispecie. In tema di reati alimentari, la previsione di cui all’art. 5, lett. d), della legge 30 aprile 1962, n. 283 costituisce una norma di chiusura con la quale il legislatore ricomprende nell’ambito della disposizione incriminatrice le sostanze alimentari “comunque” nocive, indipendentemente dall’essere le stesse insudiciate, già alterate o invase da parassiti, al fine di evitare che il prodotto giunga al consumo con gli attributi della nocività per non essere state assicurate le cure igieniche imposte dalla sua natura. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 13 novembre 2017 n. 51591. Produzione, commercio e consumo - Prodotti alimentari - Sostanze nocive - Nozione - Presenza di mercurio - Superamento del triplo del limite massimo di concentrazione previsto dalla legge - Attitudine a provocare danno alla salute - Sussistenza. Per sostanze alimentari “comunque nocive” ai sensi dell’art. 5, lett. d), della legge n.283 del 1962, devono intendersi quelle che possono arrecare un concreto pericolo alla salute dei consumatori, desumibile dal giudice non soltanto nell’ipotesi di superamento dei limiti massimi di concentrazione dei contaminanti nocivi imposti dalla legge - che costituisce un solido elemento indiziario in ordine alla idoneità della sostanza rinvenuta a determinare un “vulnus” alla salute degli eventuali fruitori del prodotto - ma anche da una pluralità di altri elementi, oggetto di valutazione e di apprezzamento giudiziale. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 marzo 2017 n. 14483. Reati speciali - Disciplina igienica degli alimenti - Legge n. 283/1962 - Norma penale in bianco - Non configurabilità. L’art. 5, lett. d), della Legge n. 283/1962 in materia di disciplina igienica degli alimenti non può essere considerata una norma penale in bianco perché contiene la nozione di “nocività”, intesa con riferimento a quelle sostanze alimentari che possono creare un pericolo alla salute pubblica per non essere genuine, nonché quella di “alterazione” intesa come presenza di un processo modificativo dell’alimento che diviene altro da sé per un fenomeno di spontanea degenerazione. Ciononostante, l’alterazione del prodotto alimentare, tale da determinare la sussistenza del reato in questione, può essere desunta anche dal superamento dei livelli consentiti in circolari del Ministero della Sanità appositamente emanate. - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 31 gennaio 2017 n. 4522. Reati alimentari - Detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione - Interesse protetto - Ordine alimentare - Lesione - Accertamento - Criteri - Fattispecie. Il reato di detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, previsto dall’art. 5, lett. b), della legge 30 aprile 1962, n. 283, è configurabile quando è accertato che le concrete modalità di conservazione siano idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento, senza che rilevi a tal fine la produzione di un danno alla salute, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che correttamente la sentenza impugnata avesse ravvisato gli estremi del reato in questione in una fattispecie di detenzione di 50 kg di hamburger freschi all’origine sottoposti irregolarmente a surgelazione in assenza di un piano di autocontrollo, dell’abbattitore termico e del termometro esterno). - Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 ottobre 2015 n. 40772. Toscana: “sicurezza e dignità” nelle carceri notizieinunclick.it, 11 febbraio 2019 Queste le parole chiave alla base dell’operato dei nostri Consiglieri regionali Andrea Quartini e Gabriele Bianchi nelle visite ispettive in quello che è stato soprannominato il “tour carceri”, nelle varie strutture toscane. Da Firenze a Prato, da Lucca a Livorno. Sicurezza per chi lavora nei penitenziari, dignità per chi è detenuto. Esigenze fondamentali e purtroppo non rispettate: strutture fatiscenti, turni di lavoro massacranti per carenza di organico, sovraffollamento e mancanza di progettazione rieducativa, se non fosse per l’incredibile impegno delle associazioni che si occupano, anche con progetti di volontariato, della rieducazione del detenuto. I detenuti stranieri costituiscono una larga parte dei carcerati anche nelle strutture toscane, e la mancanza di personale (dagli educatori ai mediatori culturali) non aiuta a garantire i diritti fondamentali di molti. Un ambiente penitenziario non idoneo oltre ad aggiungere sofferenza psicologica non aiuta al recupero del detenuto, provocando alte percentuali di recidiva, che costano alla collettività in termini sociali ed economici. Le donne sono in una situazione di ancor più grave disagio, se si considera anche l’esigenza della convivenza con i figli piccoli. Sono però numerosi anche gli esempi di buone pratiche, da percorsi di rieducazione a veri e propri programmi come il Cec, la Comunità Educante Carcerati, ispirata al modello Apac. Lunedì sarò in visita proprio presso una delle strutture toscane della Comunità Papa Giovanni XXIII che su quel modello ha fondato il lavoro della propria cooperativa, già famosi per essere stati oggetto di un servizio de Le Iene, lo scorso anno. Un detenuto rieducato è un nuovo cittadino integrabile nella società, con costi molto minori rispetto alle attuali, ed insufficienti misure detentive nelle strutture carcerarie “classiche”. Su questi modelli vogliamo costruire le basi di un nuovo modello sociale. Torino: l’ingegnere imam che insegna ai detenuti a non farsi conquistare dall’islam radicale di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 11 febbraio 2019 Da tre anni il venerdì entra in carcere per guidare la preghiera accreditato dal ministero. Due o tre volte al mese da tre anni, il venerdì, Walid Dannawi, vice presidente della moschea Omar di via Saluzzo, ingegnere elettrotecnico laureato al Politecnico, nell’ora di pranzo esce dall’azienda in cui lavora e raggiunge la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno per guidare la preghiera, accreditato dai ministeri della Giustizia e degli Interni. Il progetto, in cui si alterna con altri imam, ha l’obiettivo di portare ai detenuti una visione dell’islam corretta, che contrasti con eventuali spinte radicali. Dannawi, è arrivato dal Libano nel 1984, ha un figlio laureando e una figlia studentessa, entrambi al Poli, la moglie, siriana, è mediatrice di lingua araba alla Città della Salute. “A Torino volevo fermarmi solo il tempo di laurearmi e per cinque anni non ho fatto altro che studiare. Appena laureato, il lavoro mi ha rincorso, nel vero senso della parola”. L’ingegnere si è fermato ed è poi diventato anche punto di riferimento della comunità. “In carcere il lavoro da fare sarebbe infinito: i detenuti sono in media quattrocento, un terzo della popolazione, con pene lunghe o passaggi di pochi giorni. I reati che hanno commesso sono molto diversi, ma tutti avrebbero bisogno di essere seguiti”, racconta Dannawi. “So che quelli ritenuti a rischio di radicalizzazione sono pochissimi, due, tre. La religione è un buono strumento per la riabilitazione e la nostra si basa molto sull’educazione. Un versetto del Corano dice che il buon comportamento nei confronti del prossimo è essenziale. Le preghiere nell’Islam sono numerose, ma se dal pregare non esce niente nel comportamento, è come non farle. Nel sermone noi puntiamo proprio su questi concetti. Spesso parliamo della droga, con gli scippi la ragione più frequente di detenzione, insistiamo sul fatto che è esplicitamente vietata nella religione islamica”. L’ingegner Dannawi si sta specializzando: “Seguo dei corsi di formazione. Di recente sono stato a Brescia per una giornata in cui è stato coinvolto un integralista pentito venuto dall’Inghilterra, uno che aveva incontrato gente dell’Isis”. L’amministrazione carceraria a Torino crede molto a questo strumento di educazione. “Ma i mezzi sono pochi. Finché vado io, che ho un lavoro, nel mio tempo libero, va bene. Ma se devo mandare una persona dedicata, e ne servirebbe più d’una, bisogna pagarla. Servirebbero risorse economiche, nemmeno molte. Ho visto esperienze in altri Paesi. In Belgio ci sono persone pagate dallo stato che vanno in carcere e ci restano otto ore, sono indicate dalla comunità hanno solide conoscenze religiose”. Con l’amministrazione è stato concordato di diffondere tra i detenuti la possibilità di ottenere dei colloqui privati. “Non so quanto sia stata pubblicizzata davvero questa opportunità. Qualche volta vado a fare un colloquio dopo il lavoro, mi è permesso entrare fino all’ora di cena. In molti cercano soprattutto di parlare alla fine della preghiera del venerdì, anche se in quel momento non è possibile fermarsi a lungo. Noi non andiamo a cercare le persone, l’idea è essere a disposizione di chi ha bisogno. I detenuti chiedono piccole cose, un aiuto per poter fare una telefonata ai parenti, chiedono un tappetino per la preghiera. Noi non siamo in grado di dare aiuti economici, se non in casi rarissimi. Molti sono soli, non hanno famiglia, genitori, in grande maggioranza sono giovani ma c’è chi ha 50, 60 anni”. Nei colloqui, Dannawi incontra persone con storie e difficoltà diverse. “Il detenuto straniero spesso non sa perché è stato portato in carcere, non comprende il suo reato. Il maltrattamento, per esempio: in molti Paesi non è reato, stessa cosa per lo stupro all’interno del matrimonio, obbligare la moglie ad avere rapporti sessuali. Neppure qui anni fa era reato, ma la religione islamica su questi aspetti è molto precisa: non si può. Ma altra cosa sono le abitudini. Gli agenti non lo percepiscono, sono spesso arrabbiati, è un ambiente difficile. Poi c’è il problema della comunicazione. Bisognerebbe spiegare molte cose ai detenuti. Il direttore Minervini e il comandante hanno una visione molto aperta, il loro obiettivo è certamente di recuperare le persone. Il problema sono i pochi mezzi a disposizione”. San Gimignano (Si): lettera dei detenuti, chiedono incontro a Magistrato di Sorveglianza osservatoriorepressione.info, 11 febbraio 2019 Pubblichiamo la lettera aperta, che i detenuti del carcere di San Gimignano hanno fatto recapitare all’Associazione Yairaiha Onlus attraverso i propri familiari con il timore che diversamente non sarebbe arrivata e che l’associazione Yairaiha ha già inoltrato a tutti i destinatari. Da diverso tempo attraverso questa pagina vengono denunciate diverse violazioni in merito alla gestione del carcere di via Ranza, da ultimo le violenze ai danni di un detenuto nella sezione di isolamento a cui seguirono altri episodi di violenza e trasferimenti punitivi a carico dei detenuti che hanno assistito, impotenti, al pestaggio documentato dalle telecamere di sorveglianza e che oggi sono al vaglio degli inquirenti. In questa lettera chiedono un incontro mediato dai garanti locali e nazionali con la direzione affinché possano essere ristabiliti gli spazi minimi di vivibilità e dignità. Al Provveditore della Regione Toscana al Magistrato di Sorveglianza di Siena al Garante Nazionale dei detenuti - dott. Mauro Palma al Garante regionale - dott. Corleone al Garante cittadino alla direzione della C.R. San Gimignano all’On. Eleonora Forenza all’Associazione Yairaiha Onlus Oggetto: Richiesta di incontro I sottoscritti detenuti della Casa di reclusione di San Gimignano dal giorno 8.1.2019 stiamo attuando uno sciopero pacifico avverso quelli che noi riteniamo atti vessatori nei nostri confronti. Come da istanza allegata, la nuova direzione ha ritenuto opportuno apportare delle modifiche ai regolamenti vigenti in questa struttura che altre direzioni precedenti avevano, invece, ritenuto concedere. Fermo restando che nessuno chiede la libertà, riteniamo che se la precedente direzione ha concesso qualche agevolazione di sicuro era permessa dal regolamento penitenziario e dalle leggi vigenti. Non sono andate, pertanto, contro la legge bensì hanno applicato la normativa tenendo conto dell’aspetto rieducativo e trattamentale per le persone private della libertà che scontano la pena in una casa di reclusione. Chi è qui da tempo aspetta una direzione fissa e non il solito direttore/trice in missione che modifica il regolamento interno a proprio piacimento restringendo ulteriormente le concessioni dei predecessori, anzi, fino ad ora, tutti i direttori si sono prodigati affinché, nei limiti del possibile e del consentito, le persone che versano in condizioni particolarmente precarie venissero agevolate (svincolo del peculio, telefonate supplementari a chi, per motivi che non è necessario spiegare, non effettua regolarmente colloqui visivi, agevolando quello che è previsto dal trattamento rieducativo o, semplicemente, umano che ci sentiamo propinare ogni volta che si parla di carcere in tv o sui giornali. La nostra protesta pacifica voleva solo creare i presupposti per aprire un dialogo civile tra noi detenuti e la direzione. Molti di noi, nonostante la miriade di domandine presentate per poter avere un colloquio con la nuova direttrice, lo hanno ottenuto solo dopo che abbiamo iniziato la protesta. Capiamo benissimo che la direttrice ha molteplici impegni (che non deve certo rendicontare a noi!) ma sarebbe bastata mezz’ora del suo preziosissimo tempo per passare dalle sezioni per evitare una montagna di domandine mod. 393 e di istanze che rimangono inevase. Visto il prosieguo dell’iniziativa di protesta, da parte della direzione pervengono minacce più o meno velate di ripercussioni sulla liberazione anticipata (art. 54 O.P.) oltre ad altre restrizioni sui diritti e benefici già concessi. È normale che noi non vogliamo fare un braccio di ferro con la direzione, perderemmo perché, a lungo andare, con lo sciopero della fame, molti di noi dovranno essere ricoverati. Ma perderà anche lo Stato che impegna tante risorse per far si che centinaia di persone private della libertà per aver commesso reati, invece di continuare il percorso rieducativo e di reinserimento, si sentono vessati dal modo di gestire una struttura come una casa di reclusione. In virtù di tutto ciò, chiediamo alle SS.VV. un incontro da tenersi nella sala polifunzionale, alla presenza delle autorità avvisate, affinché si possa avere un confronto civile con la direzione grazie alla vostra mediazione, sempre che ciò sia consentito da questa direzione. Con osservanza. Tutti i detenuti della C.R. di San Gimignano Fossombrone (Pu): la positiva esperienza del Polo universitario di Guido Giovagnoli flaminiaedintorni.it, 11 febbraio 2019 “Il punto di riferimento deve essere sempre la nostra Carta Costituzionale. Pari dignità di tutti i cittadini e pena come strumento di rieducazione del condannato”. Lo ha sottolineato il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, intervenendo presso l’istituto “Matteo Ricci” di Macerata nell’ambito del convegno su “Il recupero e la responsabilizzazione dei detenuti attraverso l’inserimento lavorativo”, organizzato dall’”Accademia Georgica” di Treia. Nel suo intervento, presenti gli studenti delle classi terze e quinte dello stesso istituto, il Presidente ha fatto riferimento all’importanza delle attività trattamentali, contemplate nella legge regionale del 2008, dell’istruzione e della formazione professionale da attivare in carcere, non mancando di ricordare la positiva esperienza del Polo universitario di Fossombrone, che vede direttamente coinvolti Università di Urbino, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche e Garante dei diritti e la prevista attivazione di un Polo professionale a Barcaglione (protocollo siglato da Regione, Prap e Garante). Mastrovincenzo ha anche parlato del significativo contributo fornito dal volontariato e non ha mancato di evidenziare le molteplici problematiche che gravano sugli istituti penitenziari marchigiani. “Il Consiglio - ha detto - segue costantemente l’evolvere della situazione, anche alla luce dei dati che emergono dall’azione di monitoraggio effettuata dal Garante regionale. Nei mesi scorsi abbiamo approvato uno specifica mozione e prossimamente torneremo sull’argomento attraverso un nuovo atto d’indirizzo per chiedere un impegno concreto affinché si intervenga su alcune delle maggiori criticità, a partire da quelle strutturali, degli organici e dell’attuale assetto del Prap, chiamato ad intervenire con una sola dirigenza su Emilia Romagna e Marche”. Venezia: pastorale nelle carceri e il rapporto tra pena, recupero e riparazione patriarcatovenezia.it, 11 febbraio 2019 A Zelarino (13 febbraio) incontro di formazione e presentazione del testo base “Per una pastorale della giustizia penale”. Sarà presentato nel pomeriggio di mercoledì 13 febbraio 2019, nel corso di un convegno di formazione a Zelarino (Venezia), il documento base “Per una pastorale della giustizia penale” (edizioni Marcianum Press). Scritto a più mani e curato dall’Ispettorato dei Cappellani delle Carceri, “vuole offrire a tutti coloro che operano nella pastorale carceraria uno strumento di lavoro per comprendere la necessità ed esercitare ancora di più la vicinanza e l’attenzione materna della Chiesa a tanti uomini e donne ristretti nelle strutture penitenziarie”. Così scrive, nella prefazione, mons. Nunzio Galantino - fino a pochi mesi fa segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana ed oggi presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica - che così continua: “Il documento base di pastorale nell’ambito del penale vuole essere un percorso di accompagnamento e di conoscenza di tutte le dinamiche che si incontrano tra le mura dei nostri centri penitenziari. È un aiuto per formare operatori che siano sempre di più “tessitori di giustizia”, capaci di offrire percorsi di riconciliazione che contribuiscano a rimarginare le ferite. È un sostegno e un incoraggiamento a promuovere la cultura del servizio, dell’incontro e della condivisione”. Se ne parlerà durante il convegno di mercoledì 13 febbraio, dalle ore 16.00 alle ore 19.00, sul tema “Pena, recupero, riparazione. Fatiche degli operatori ed impegno sociale”, promosso dall’Ispettorato Generale dei Cappellani delle Carceri, dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani e dalla Camera Penale Veneziana, con la collaborazione della Scuola Grande di S. Rocco in Venezia) e della Fondazione Archivio Vittorio Cini. All’inizio dell’incontro interverranno il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia, il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Venezia Giuseppe Maria Sacco e don Raffaele Grimaldi (napoletano, da due anni ispettore generale dei cappellani delle carceri e impegnato per ben 23 anni nel carcere di Secondigliano). Seguiranno poi alcune relazioni e testimonianze di operatori nell’ambito carcerario (v. nel dettaglio la locandina in allegato) che approfondiranno vari temi: i fondamenti etico-filosofici della pena, alcuni profili di giustizia riparativa, la riforma dell’ordinamento penitenziario, l’organizzazione carceraria e il recupero. A proposito della “giustizia riparativa” e della necessità di cammini di riconciliazione con le vittime e di dialogo con chi ha sbagliato, don Grimaldi afferma: “Significa recuperare la centralità della vittima, ma senza escludere il reo, a cui si offre la possibilità di rialzarsi, capire il suo errore e soprattutto far sì che il suo percorso nuovo possa dare fiducia all’altro. Ma non si tratta di banalizzare il male commesso, che andrà risarcito. Tutti vogliamo il recupero del reo, ma siamo capaci di accogliere?”. Torino: materiale incendiario lanciato dentro il perimetro del carcere, attimi di tensione obiettivonews.it, 11 febbraio 2019 L’incendio ha avvolto un capannone e diverso materiale abbandonato, di tutti i tipi. Tensione ieri, domenica 10 febbraio, al carcere delle Vallette per un incendio divampato a causa di una torcia incendiaria lanciata da manifestanti. La zona era blindata per permettere a Casa Pound di manifestare in memoria delle vittime delle Foibe ed evitare che si scontrassero con gli anarchici. Le fiamme hanno avvolto un capannone causando un’esplosione, e altro materiale situato in un’isola ecologica: materassi plexiglas, legno, materiale abbandonato nel cortile, aldilà del muro. E subito giungono le dichiarazioni di Leo Beneduci, Segretario Generale dell’Osapp: “L’episodio accaduto questa sera è stato fronteggiato con la massima professionalità da parte di tutto il personale di polizia penitenziaria che prestava servizio nel serale, evitando che la situazione divenisse pericolosa per tutti”. E arriva anche il commento di Donato Capece, Segretario Generale del Sappe: “Il personale di Polizia è intervenuto prontamente, cercando di tranquillizzare i detenuti e dandosi da fare per spegnere le fiamme, alte e pericolose. La situazione è comunque monitorato e sotto controllo”. Volterra (Pi): ad aprile tornano le Cene galeotte di Claudio Zeni golosoecurioso.it, 11 febbraio 2019 Dal 5 aprile al 9 agosto 2019 torna l’attesissimo appuntamento con le cene galeotte (cenegaleotte.it), progetto ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra (PI) e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus che dal 2006 fa della struttura toscana non solo un luogo unico di integrazione e solidarietà, ma anche un punto di riferimento per tanti altri Istituti italiani che propongono oggi analoghi percorsi rieducativi. Un successo crescente raccontato dai numeri, con oltre 1.000 partecipanti la scorsa edizione e più di 16.000 visitatori dall’esordio di un’iniziativa che propone ai detenuti un percorso formativo attraverso cene mensili aperte al pubblico e realizzate con il supporto - a titolo gratuito - di chef professionisti. Le Cene Galeotte confermano la loro natura solidale : il ricavato di ogni serata - circa 120 i posti disponibili - è interamente devoluto dalla Fondazione Il cuore si scioglie Onlus (ilcuoresiscioglie.it) a progetti di beneficenza realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Questa edizione in particolare andrà a sostenere organizzazioni Onlus e iniziative di solidarietà di respiro nazionale ed internazionale dedicate al mondo dell’infanzia. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori , ma anche un momento vissuto con grande coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al lavoro di sala e cucina acquisiscono un vero e proprio bagaglio professionale. In oltre trenta casi questa esperienza si è infatti tradotta in impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Le Cene Galeotte sono possibili grazie al sostegno economico di Unicoop Firenze, al fianco della struttura carceraria di Volterra fin dalla nascita del progetto, che oltre a fornire gratuitamente le materie prime necessarie alla preparazione dei menu assume regolarmente i detenuti per le giornate in cui sono impegnati nella realizzazione dell’evento. L’iniziativa è realizzata dalla Casa di Reclusione di Volterra con la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. Ogni serata vede la partecipazione di importanti cantine, i cui vini - offerti gratuitamente - sono abbinati e serviti ai tavoli con il supporto dei sommelier della Fisar-Delegazione Storica di Volterra, dal 2007 partner storico del progetto impegnato anche nella realizzazione di corsi di avvicinamento al vino tesi a favorire il reinserimento dei carcerati. Per prenotazioni: Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (Gruppo Robintur), Tel. 055.2345040. Costo: 35 euro Soci Coop, 45 euro per i non soci. Web: cenegaleotte.it. Saraceni: “Quel giorno in cui ho scoperto di avere una figlia nelle Br” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 febbraio 2019 La “toga rossa” Saraceni racconta la sua vita. La scoperta arrivò nell’ottobre 2003, nel mezzo di una vacanza in Giamaica, quando l’ex giudice ed ex parlamentare Luigi Saraceni - una “toga rossa” che ha sempre rivendicato la sua militanza nella sinistra e la funzione sociale della magistratura che amministra giustizia in nome della Costituzione, divenuto avvocato - venne a sapere che sua figlia Federica era stata arrestata. Con la più grave delle accuse: appartenenza alle “nuove” Brigate rosse responsabili dell’omicidio del professor Massimo D’Antona, ucciso nel 1999. “La cosa mi sembra inverosimile, assurda”, racconta Saraceni. Poi l’immediato rientro in Italia, l’incontro in carcere e la conferma che è tutto molto serio e fondato: “Il problema è capire quanto sia coinvolta Federica in questa follia. Come sia potuto accadere, se è accaduto, che su mia figlia non abbiano funzionato gli anticorpi di carattere umano, morale, politico che costituiscono il patrimonio del mondo a cui ritengo di appartenere. Vediamo le carte. Mentre vado avanti nella lettura mi accorgo, con dolore, che mia figlia con quel gruppo di dissennati, in qualche modo ha avuto a che fare. Ma fino a che punto?”. La terza parte dell’appassionata e appassionante autobiografia di Luigi Saraceni, che abbraccia “Un secolo e poco più” come recita il titolo, è la più drammatica. Dopo aver raccontato le gesta del padre anarco-comunista - difensore di braccianti e contadini nella Calabria del primo Novecento, arrestato sotto il fascismo e nell’interregno pre-repubblicano fino all’assoluzione per aver agito in difesa della popolazione ridotta alla miseria - e poi la propria avventura di magistrato, deputato e avvocato nella seconda metà del secolo, quando non era in discussione che sinistra e garantismo fossero sinonimi, le ultime pagine sono dedicate al tormento vissuto con le accuse e le condanne subite dalla figlia. Che si somma ai ricordi dolorosi degli amici e colleghi di Saraceni ammazzati dalle Br di prima generazione, come Riccardo Palma e Girolamo Minervini, uomini ridotti a simboli eliminati con “ferocia disumana”; agli interventi che lo stesso Saraceni pronunciò, rivolto alla sinistra extra-parlamentare più vicina alla lotta armata, contro la deriva del terrorismo, che indussero un gruppo eversivo a progettare un attentato contro di lui; all’incontro in Parlamento con D’Antona, giurista e consulente del governo sostenuto dal suo voto di fiducia, un altro “simbolo” assassinato perché portatore di idee che, “condivisibili o meno, erano comunque ispirate a favore del lavoratore”. Un miscuglio di considerazioni, inquietudini e realtà nascoste, emozioni e sentimenti con cui il padre (dilaniato tra l’amore per la figlia e la solidarietà verso i familiari della vittima) deve fare i conti quando decide di assumere, su richiesta dell’interessata, la difesa di Federica. Dopo essersi convinto che con l’omicidio non c’entra. In primo grado la condanna si limita alla banda armata, mentre in appello arriva anche per il delitto D’Antona. “Come si sa, il giudicato non si discute, gli si deve ossequio e obbedienza - scrive il giurista Saraceni. Ovviamente non voglio sottrarmi a questo dovere, ma so anche che esiste l’errore giudiziario, che è la verità che sopravvive al giudicato”. Dunque resta l’intima convinzione di un padre che va oltre le sentenze da rispettare, e la presa d’atto delle sciagurate scelte che hanno trascinato la figlia dentro una formazione terroristica. E un rapporto personale che durante e dopo il carcere ha preso una piega diversa, anche grazie alla laurea conseguita da Federica dietro le sbarre e ai nuovi impegni che ha preso su di sé dopo la condanna, grazie alle opportunità concesse ai detenuti da quello Stato che le Br volevano abbattere. Lo stesso che invece non è riuscito a salvare dalla persecuzione il leader curdo Abdullah Ocalan, a cui l’Italia ha concesso asilo politico solo dopo che era stato mandato via e rinchiuso in un carcere turco, dove langue da vent’anni; un altro capitolo avvincente e dolente della vita e del libro di Luigi Saraceni. Lezioni pericolose di Maria Giovanna Cogliandro larivieraonline.com, 11 febbraio 2019 Dicono che gli opposti si attraggano. Ma ci sono opposti che sottraggono, sottraggono moralità a questo Paese. In particolare, questa settimana, c’è stata una coppia di opposti che mi ha lasciata turbata: da un lato la senatrice Daniela Santanché e dall’altro Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo. Daniela Santanché è stata ospite di “Alla lavagna”, trasmissione di Rai 3 nella quale 18 studenti dai 9 ai 12 anni rivolgono quesiti a personaggi della politica, della cultura e dello spettacolo. “Cosa vuol dire per lei il denaro?” - le ha chiesto una bambina. Al che la senatrice risponde senza esitare: “È l’unico vero strumento di libertà. I soldi servono per essere liberi. E poi mio papà ha insegnato a me e ai miei fratelli che chi paga comanda. E lo dico a te che sei una donna. Pagare i propri conti significa anche comandare. È un grande strumento di libertà il denaro”. Essere economicamente autonomo ti darebbe la libertà di comandare. Puoi dare ordini in base a quanti soldi hai sul conto. La Santaché con spietata franchezza ha illustrato come - purtroppo - gira il mondo. Il problema, però, è che ha ridotto la libertà al comando. Potente uguale libero. E quel che è più drammatico è aver spiattellato quest’equazione pericolosa in faccia a dei ragazzini: che libertà triste e senza speranza si prospetta ai loro occhi. Il denaro considerato “unico” e “vero” strumento di libertà. Con “unico” la Santanché ha spazzato via ogni altra possibilità - che sia la cultura, l’integrità morale, la sete di conoscenza, l’immaginazione, il coraggio - con “vero” ha espresso un giudizio di merito che conferisce alla sua opinione una validità inconfutabile. La lezione della Santanché è di quelle che ai bambini fanno solo del male. Chi tra loro non riuscirà a diventare ricco, non si sentirà libero. E non è un’esagerazione: a quell’età ciò che ti viene trasmesso dai grandi te lo porti dietro tutta la vita. Ascoltandola ho ripensato e ringraziato la mia professoressa d’italiano delle medie, una santa donna che mi ha insegnato tanto. Parlandoci della libertà ci aveva fatto leggere una poesia di Paul Éluard. Riporto solo l’ultima strofa che rimbomba nella mia testa ogni qualvolta l’aria inizi a farsi asfissiante: “E in virtù d’una parola, ricomincio la mia vita. Sono nato per conoscerti, per chiamarti Libertà”. Giuro, mi ha aiutato tantissime volte. Molte più di quante lo abbia fatto il denaro. Alla Santanché, come dicevo, sento di contrapporre questa settimana Fiammetta Borsellino, ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. Per lei libertà significa arrivare a una verità che faccia luce sull’uccisione del padre. Non si è lasciata mettere in catene dai depistaggi, iniziati sin da subito, orditi dai vertici investigativi e accettati da schiere di giudici. Non si è sentita meno libera solo perché ha avuto contro i potenti, quelli che comandano perché hanno i soldi. Per lei libertà è poter dire in prima serata davanti a tutta Italia: “Non mi fido di chi si espone alla liturgia che offre la religione dell’antimafia per ricevere devozione”. Una presa di distanza forte dai falsari dell’antimafia che speculano sulla vita di chi soffre promettendo verità manipolate e libertà bugiarde. Per Fiammetta Borsellino libertà è recarsi nelle carceri a incontrare i figli dei boss per aprire loro un’altra strada: “Mio padre ci ha insegnato che si può morire con dignità quando si vive con dignità. E si può morire con dignità anche quando, dopo aver fatto cose gravissime, si arriva a riconoscere i propri sbagli, a prendere le distanze e a cercare di riparare”. Libertà è un altro finale possibile. Ed ecco risbucare Paul Éluard: “E in virtù d’una parola, ricomincio la mia vita. Sono nato per conoscerti, per chiamarti Libertà”. Per fortuna anche Fiammetta Borsellino incontra spesso i ragazzi delle scuole. Spero riesca a passare da quegli studenti che hanno dovuto assistere, sottostando loro malgrado alla dura legge dell’audience, a una lezione sbagliata. Chissà che un giorno, rincontrando la senatrice Santanché, riescano a dare atto alla raccomandazione di Gianni Rodari: “Bambini, imparate a fare cose difficili: liberare gli schiavi che si credono liberi”. Israele. “Pena di morte per il palestinese che ha ucciso la ragazza ebrea” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 11 febbraio 2019 Ori Ansbacher, 19 anni, figlia di un rabbino, è stata assassinata giovedì notte da un giovane di Hebron in un bosco vicino a Gerusalemme. L’assassinio è stato definito dallo Shin Bet “un atto di terrorismo”. L’uccisione di una giovane israeliana, giovedì notte in un bosco vicino Gerusalemme, sta provocando in Israele una nuova fiammata di odio fra ebrei e palestinesi. Ieri sera la ministra della Giustizia Ayelet Shaked ha invocato la pena di morte per Arafat Irfaya, il palestinese accusato di aver brutalmente assassinato Ori Ansbacher, 19 anni, figlia di un noto rabbino. La ministra, esponente del Likud molto vicina al primo ministro Benjamin Netanyahu, ha sostenuto che “una volta sotto processo in un tribunale militare la pubblica accusa dovrebbe chiedere per lui la pena di morte”, che in Israele è prevista appunto dai tribunali militari, ma finora non è mai stata applicata. “Non dobbiamo nasconderci la verità: ha ucciso Ori in quanto ragazza ebrea”, ha detto la ministra. Venerdì pomeriggio l’esercito israeliano assieme alla polizia ha arrestato Irfaya mentre si trovava a Ramallah. Il palestinese è originario di Hebron, dove vive la sua famiglia, ed è stato bloccato in un’operazione congiunta dell’unità speciale “Yamam” della polizia insieme allo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele. Nella notte l’esercito ha visitato la casa di Irfaya, dove vive la famiglia: esperti del genio militare hanno compiuto un’ispezione per preparare una possibile demolizione della casa, la punizione che Israele accompagna agli atti terroristici in cui rimangono uccisi suoi cittadini. I dettagli dell’omicidio sono ancora mantenuti riservati dalla polizia: l’assassino potrebbe aver commesso anche violenza sessuale contro la ragazza e la polizia comprensibilmente non divulga questi particolari. Dopo lunghi interrogatori da parte dei servizi di sicurezza e dalla polizia, l’uccisione della ragazza è stato definito dallo Shin Bet “un attacco terroristico”. Paradossalmente, se si fosse trattato di un omicidio “criminale”, la situazione del palestinese sarebbe stata meno grave, e forse la casa della sua famiglia non sarebbe stata demolita dall’esercito. Ma lo stesso giovane palestinese, che è membro di una famiglia di cui fanno parte simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania, troverà conveniente rivendicare il carattere “politico” del suo gesto: i terroristi arrestati da Israele, o perlomeno le loro famiglie, ricevono supporto finanziario da Hamas e anche dall’Autorità Palestinese. Sui social media il caso fa già discutere la popolazione israeliana, tanto che la ministra della Giustizia e altri esponenti politici hanno iniziato a parlare di pena di morte. Hamas negli ultimi mesi aveva provato a innescare una serie di omicidi di ebrei anche nella Cisgiordania controllata dall’Autorità palestinese, per scatenare una reazione di Israele che indebolisse i loro rivali dell’Anp guidata da Abu Mazen. E l’assassinio della Ansbacher (che viveva nell’insediamento di Tekoa, vicino Betlemme) potrebbe comunque servire agli estremisti per rilanciare le violenze nella West Bank. In Israele si vota il 9 aprile, e uno dei temi sarà proprio il rapporto fra Israele e la Cisgiordania palestinese, ancora occupata militarmente ma in parte affidata all’amministrazione dell’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen. Nei giorni scorsi il primo rivale del premier Netanyahu, l’ex generale Benny Gantz, ha annunciato che la sua idea sarebbe quella di negoziare per chiudere l’occupazione militare di Israele in Cisgiordania, seguendo l’esempio di Ariel Sharon che decise di ritirare i soldati che occupavano la Striscia di Gaza. Il problema è che da allora Gaza si è trasformata in un luogo da cui partono di continuo attacchi contro Israele, che a sua volta assedia la Striscia creando una crisi umanitaria di notevoli proporzioni, per non dare respiro ad Hamas ma contribuendo a soffocare la popolazione palestinese. Dopo le dichiarazioni di Gantz, il premier Netanyahu e i suoi ministri hanno attaccato l’ex capo di stato maggiore accusandolo di essere di fatto alleato di Abu Mazen e di voler indebolire la sicurezza di Israele. Lasciando intendere che se Netanyahu riuscisse ad essere confermato primo ministro, il governo non andrà avanti con il processo politico e con i negoziati per attuare il piano politico che prevede “due popoli, due Stati”. Afghanistan. I talebani: “assieme agli americani anche le truppe italiane si ritireranno” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 11 febbraio 2019 Parla Nazar Mutmain, membro della delegazione ai colloqui di Mosca: “Nessuna limitazione per le donne, ma la legge islamica si rispetta”. Il ritiro di metà dei 14.000 soldati americani inizierà il 15 febbraio. Quindi dai primi di aprile, partirà il negoziato per il ritiro dell’altra metà e con loro anche quello degli altri contingenti arrivati in Afghanistan con la Nato nel 2002. “Ovvio, anche gli italiani. Nessuno può immaginare che gli italiani possano restare qui se gli americani se ne vanno”. Infine i talebani torneranno in forze in tutto il Paese, capitale inclusa, con la speranza che le elezioni presidenziali previste il 20 luglio vengano cancellate, creando magari un governo talebano ad interim, “perché comunque è ovvio che noi rappresentiamo la maggioranza e vinceremmo se non ci fossero i consueti brogli elettorali”. Ad ascoltare i desiderata dei talebani coinvolti nei negoziati con gli americani a Dubai non è difficile comprendere le inquietudini di chi in Afghanistan denuncia l’imminenza del ritorno alla teocrazia islamica precedente il 2001. La questione femminile - “Le donne andranno a scuola, frequenteranno l’università, ma sempre nel pieno rispetto della legge coranica, che negli ultimi anni è stata troppo spesso violata”, spiega il 46enne Nazar Mutmain, che ai tempi del Mullah Omar fu capo dell’ufficio informazioni nella provincia di Helmand, la loro roccaforte storica, e oggi funge da loro intellettuale organico a Kabul. Pochi giorni fa ha fatto parte della delegazione di dieci talebani ai colloqui di Mosca dove hanno dialogato con una quarantina di esponenti della società civile non legati al governo di Ashraf Ghani. Il rappresentante americano Zalmay Khalizad sostiene che non ci potrà essere ritiro senza pace, la quale va negoziata tra talebani e governo Ghani. Siete pronti? “I talebani non si fidano di Ghani. È un corrotto che mira al potere personale. Sarebbe meglio creare un governo transitorio senza di lui. Allora noi parleremo con altri esponenti della società civile come abbiamo fatto a Mosca”. Per esempio con l’ex presidente Karzai, che era a Mosca, ma con cui non volevate trattare quando era al potere e lo accusavate di essere burattino degli americani? “Karzai pare cambiato, si offre come mediatore e paciere. Ma il cambiamento principale è la determinazione con cui il presidente Trump lavora ora per ritirare le sue truppe, più di Bush e Obama. Noi siamo qui per aiutarlo. Gli renderemo facile l’uscita dall’Afghanistan. Ma se non rispetta gli accordi, tutto si ferma”. Davvero non darete asilo a Isis, come invece faceste con Al Qaeda nel passato? “Certo che no. Ma la comunità internazionale e gli Stati Uniti questa volta devono ascoltarci e aiutarci, non come negli anni 90 quando rifiutarono ogni contatto”. Le donne temono di trovare le scuole chiuse. “Non accadrà. Negli anni Novanta il Paese era in ginocchio, le scuole erano spesso chiuse anche per i bambini. Nel futuro potranno studiare liberamente, però non permetteremo le classi miste. Programmi, modi di vestire, comportamenti dovranno rispettare i dettami dell’Islam oltre le nostre tradizioni nazionali. Lo stesso varrà per i media. Per esempio saranno vietati programmi sulla blasfemia, l’omosessualità tra maschi come tra femmine”. Sta già enunciando le regole della censura? “Non si tratta di censura, solo di rispetto legale delle nostre tradizioni. Già oggi un giornalista che predica lo Stato laico o l’abiura all’Islam per un musulmano merita la pena di morte. Coi talebani verrà rigorosamente messa in pratica. Non saremo certo meno rigidi della legge vigente”.