Carcere: la lezione di Margara contro le leggi ingiuste di Larissa Urfer stamptoscana.it, 10 febbraio 2019 “Le leggi ingiuste non vanno accettate, ma contrastate”. Sotto questo appello si è svolto il convegno “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione rileggendo Alessandro Margara” ieri in Sala delle Feste per discutere insieme sulla crisi attuale della giustizia. Franco Corleone, il garante dei detenuti della Toscana, ha aperto l’incontro mettendo in evidenzia l’importanza del manifesto per la costituzione intitolato La giustizia e il senso di umanità. Antologia di scritti su carcere, Opg, droghe e magistratura di sorveglianza: “Il libro di Margara rappresenta la base per la nostra sfida di rispondere ad alcune affermazioni fatte in questi mesi e che riteniamo gravi. Si tratta di affermazioni di una politica ingiusta e razzista che si serve di una terminologia aggressiva contro i socialmente indesiderati come i migranti, Rom e consumatori di sostanze fino ad usare anche il diritto penale contro loro. A questa retorica del popolo dobbiamo opporci lavorando sulla Costituzione, come ha proposto Margara”. Un messaggio che condivide anche Beniamino Deidda: “Il tempo è passato, ma quello che ha scritto Margara 10 anni fa è nel contesto politico-sociale di oggi più attuale che mai. La sua è una visione lucida che mette in rapporto la legge, la costituzione e la realtà. Quindi rileggere Margara non è un’operazione che riguarda il nostro passato, ma il nostro futuro, ciò che potremmo fare oggi. Quello di Margara è un testo profetico con 10 anni di anticipo, un appello a una politica più umana ed a una saggezza costituzionale.” Poi ha continuato Antonietta Fiorillo: “Margara si è battuto per la garanzia dei diritti e della legalità costituzionale in carcere. La violenza dei colpevoli non giustifica la violenza istituzionale. Secondo Margara che aveva fiducia nella dignità di ogni persona, la rieducazione e risocializzazione è il cuore della pena e vale per tutti.” Alla base di questi pensieri è stata posta la domanda seguente: Come tradurre la visione di Alessandro Margara in atti di fronte a leggi ingiuste, di fronte al fallimento della riforma? Per dare una risposta a questa domanda, i rappresentanti di 8 laboratori hanno presentato i loro progetti nonché i loro modi per trasformare la situazione intollerabile. Il primo laboratorio presentato, condotto da Patrizia Meringolo e Giancarlo Paba, si concentra sulla Città e “sicurezza” contrastando la falsa idea che il carcere debba essere un luogo chiuso per rendere la vita comune più sicura. In realtà, è l’isolamento che provoca insicurezza e quindi bisogna sostituire alla chiusura lo sviluppo di una rete tra carcere e città per fare tornare il soggetto nella collettività ed inserirlo nella società che deve accoglierlo. Una rete che è fondamentale anche per il laboratorio Alternative al carcere, giustizia di comunità e giustizia minorile di Saverio Migliori, Antonio Pappalardo e Susanna Rollino. Hanno spiegato che la pena non è il carcere. Invece è da perseguire un approccio per la responsabilizzazione perché la sicurezza è proprio legata alla responsabilità. Per questo ci vuole una giustizia di comunità con misure alternative invece di quelle classiche. Pensare alla rieducazione e risocializzazione per ridurre veramente i reati. Un altro elemento di interesse riguarda invece la domanda sulla pena stessa. Il laboratorio 41bis e ergastolo di Michele Passione, Emilio Santoro riflette su cosa vogliamo che sia la pena. Bisogna trovare una pena e degli strumenti che hanno un senso. Proprio questa riflessione è stata ripresa anche dal laboratorio droghe e carcere di Maria Stagnitta e Grazia Zuffa. Infatti, loro hanno individuato due problemi centrali della politica della droga: interpretare l’uso di droga e la dipendenza e capire perché alcuni programmi non sono adeguati. Secondo loro, la soluzione viene quindi trovata in una differenziazione tra le sostanze di fronte alla pena. Infine, anche il laboratorio immigrazione e “sicurezza” di Luca Bisori e Franco Maisto formula delle critiche chiedendo una riforma. Hanno detto i rappresentanti: “Con le leggi ingiuste sull’immigrazione facciamo clandestini. Queste leggi ingiuste sono l’espressione di una società di disuguaglianza e di discriminazione. Sono crimini di sistema. Diciamo persino di più: quella di oggi è la più grande deportazione dell’Italia sin dal dopoguerra”. “Troppi detenuti per reati minori”. Intervista a Luigi Pagano di Mario Consani Il Giorno, 10 febbraio 2019 La possibilità ci sarebbe. Anche senza la riforma carceraria che non si è voluta, anche senza provvedimenti di clemenza che non si faranno, anche così il sovraffollamento si potrebbe arginare nell’unico modo possibile: con le misure alternative al carcere. E lo dice Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore e oggi provveditore alle carceri di tutto il nord ovest. “Analizzo i dati. In Lombardia (ma il discorso a livello nazionale è analogo) su 8.500 detenuti, quelli con pena definitiva sono quasi 6 mila e di questi oltre la metà, più di 3 mila, scontano pene fino ai tre anni. In pratica tutti costoro, e mi sono fermato ai soli tre anni di fine pena, potrebbero ottenere misure alternative alla detenzione in base alle norme vigenti”. Discorso che vale, almeno in parte, anche per chi è in custodia cautelare... “Certo i numeri sono forse minori, ma in cella troviamo persone che potrebbero attendere il processo in libertà e anche non rientrare in carcere a pena definitiva. Penso ai detenuti tossicodipendenti ai quali la legge consente, in ogni stato e grado del giudizio, di seguire percorsi trattamentali anche all’esterno del carcere”. Invece restano o tornano ad affollare le celle... “È arduo poter credere che per tutti questi detenuti esistano sempre quelle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza o, per i condannati, condizioni di pericolosità tanto elevate da giustificare il protrarsi dello stato detentivo come unica misura adeguata di controllo”. E quindi? “La verità è che la loro possibilità di accedere ai circuiti alternativi rimane mera teoria poiché in buona parte non possiedono quelle referenze sociali, lavoro, casa, ritenuti dalla legge indispensabili. Non è che i giudici siano cattivi, ma se non hai casa, se non c’è chi paga una retta in comunità, come posso concederti i domiciliari? Restano in carcere non tanto per una dichiarazione di pericolosità quanto perché nella società non hanno una collocazione”. Il sovraffollamento è una conseguenza. “Sì, con i suoi effetti più negativi e perversi sulle persone, imputati o condannati che siano, e sullo stesso personale: la difficoltà di trovare idonea collocazione nelle celle, l’esposizione al rischio di malattie, via via sino ai trasferimenti in istituti con posti disponibili ma lontani chilometri dal proprio nucleo familiare”. Come se ne esce? “In primo luogo ripensando seriamente all’idea di un carcere perno centrale del sistema penale. Nel frattempo però con un coinvolgimento più convinto della società esterna, enti locali, terzo settore e la stessa magistratura perché si affronti in un tavolo comune la questione delle persone che potrebbero non rimanere in carcere se avessero una alternativa” Come convincerli? “Citando i dati e spiegando che un investimento del genere è economicamente conveniente e produce sicurezza. Ogni detenuto costa alla collettività circa 140 euro al giorno, ma le stime di recidiva post-detenzione dicono che l’80% rientra in carcere, mentre per le misure alternative la cifra dell’80% è quella dei risultati positivi. Il sistema attuale presenta, al netto di ogni sentimentalismo, evidenti profili di inefficacia, candidamente ammessi da tutti ma con rassegnazione, quasi come se il carcere, questo carcere, fosse una punizione divina e non già una nostra creazione e la prova di un nostro fallimento”. La sicurezza e il controllo delle “classi pericolose”. Intervista a Livio Pepino di Susanna Ronconi dirittiglobali.it, 10 febbraio 2019 Il povero come nemico. Il governo securitario delle città non è semplicemente un insieme di sanzioni in più contro soggetti fragili descritti come pericolosi: è una tappa di un processo complesso che cambia il volto del governo della società, e che sta via via disegnando un sistema di garanzie variabili, e cambiando lo stesso diritto. Il decreto Minniti e i successivi atti del nuovo governo giallo-verde mettono in scena questo passaggio, dallo “Stato sociale allo Stato penale”. Delle implicazioni e degli scenari di questo momento cruciale parliamo con Livio Pepino, giurista, ex magistrato, impegnato nei movimenti per la democrazia dal basso e per la difesa dell’ambiente. Tra le sue numerose pubblicazioni, Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli, in cui analizza la percezione sociale della paura del “diverso” e il suo uso politico. Redazione Diritti Globali: Il governo securitario delle città sotto il profilo normativo data dai primi anni 2000, dal 2009 i “Pacchetti sicurezza” hanno conferito ai sindaci nuovi poteri, è un processo che non si è mai interrotto, sotto diversi governi. Nel 2011 la Corte Costituzionale ha cercato di mettere un confine, limitando le ordinanze nella durata e ancorandole al carattere di urgenza. Il decreto Minniti è un passaggio che cambia significativamente poteri e modalità di intervento dei sindaci? Livio Pepino: Il salto, sia pratico che culturale, è netto. Il decreto, infatti, fornisce, dei riferimenti normativi che prima non c’erano e contribuisce a trasformare il sindaco in autorità preposta in modo diretto a sicurezza e ordine pubblico. Mi limito ad alcuni esempi: viene introdotto il concetto di “sicurezza integrata” (intesa come l’insieme degli interventi dello Stato-enti locali), “al fine di concorrere alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza”; si istituisce un comitato, copresieduto dal prefetto e dal sindaco metropolitano, per l’analisi, la valutazione e il confronto sulle tematiche di sicurezza urbana relative al territorio della città metropolitana; si fa riferimento a “patti sottoscritti tra il prefetto e il sindaco per prevenzione e contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, promozione e tutela della legalità, anche mediante mirate iniziative di dissuasione di ogni forma di condotta illecita, compresi l’occupazione arbitraria di immobili e lo smercio di beni contraffatti o falsificati, nonché la prevenzione di altri fenomeni che comunque comportino turbativa del libero utilizzo degli spazi pubblici”, eccetera. Ciò potrebbe sembrare, a prima vista, un semplice (e magari opportuno) coordinamento tra le competenze dei vari attori delle politiche territoriali, posto che nel decreto – grazie soprattutto alle integrazioni intervenute in sede di conversione in legge – si parla anche di interventi di carattere sociale, di lotta all’emarginazione, di riqualificazione delle aree degradate e persino di “benessere” dei cittadini. Ma così non è. Un passaggio del decreto lo dimostra in modo scolastico: mentre per l’installazione di sistemi di videosorveglianza si prevede una specifica autorizzazione di spesa (articolo 5), il successivo articolo 17 cala la scure su ogni possibile intervento migliorativo delle condizioni di vita dei cittadini disponendo che “dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” e che “le amministrazioni interessate provvedono con l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Superfluo dire che, nelle attuali condizioni economiche degli enti locali, la mancata previsione di risorse ad hoc significa impossibilità di realizzare gli interventi sociali previsti (che appaiono come un richiamo ipocrita, destinato, forse, a tranquillizzare una cattiva coscienza). Le conseguenze sono chiare. Fino a ieri, il titolare esclusivo delle politiche di sicurezza e ordine pubblico era lo Stato centrale, che le gestiva attraverso una catena formata da ministro dell’Interno, prefetti, questori e forze di polizia. Il sindaco aveva competenze diverse e anche la polizia urbana, a differenza che in altre realtà europee, aveva compiti limitati in settori quali traffico, mercati e simili. Oggi, all’esito di un processo culminato col decreto Minniti (e prossimo a essere ulteriormente incrementato) il sindaco è diventato uno dei protagonisti di quelle politiche nel proprio territorio e ciò determina, tra l’altro, il venir meno di una dialettica tra Amministrazione centrale ed enti locali un tempo proficua e un surplus di repressione e di interventi contenitivi. RDG: I bersagli si queste nuove norme sono per lo più i poveri e gli esclusi, quei soggetti che usano la città e il territorio per la propria sopravvivenza. I loro comportamenti non hanno rilevanza penale, dunque il solo codice penale non servirebbe a sanzionarli. E dove non arriva il penale arriva l’amministrativo, oltretutto con meno garanzie. Cosa sta succedendo, in questo passaggio? Cosa sta succedendo al sistema delle garanzie? LP: I bersagli sono all’evidenza i poveri (e, con essi, i migranti e i “ribelli”) nella prospettiva segnalata anni fa da Loïc Waquant quando denunciò la trasformazione in atto della guerra alla povertà, intrapresa (almeno sotto il profilo teorico) nei primi decenni del secondo dopoguerra, in guerra ai poveri. È in questo contesto che si inserisce la contrazione dei diritti e delle garanzie per le fasce marginali e la connessa riduzione dei controlli sugli apparati. L’esempio più eclatante è quello dei centri (CPT, poi CIE), introdotti dalla legge Turco-Napolitano per trattenere, senza alcun controllo di merito dell’autorità giudiziaria, gli stranieri sottoposti a decreto di espulsione, così realizzando una sorta di detenzione amministrativa. Orbene, il decreto Minniti aggiunge un tassello a questo processo: non tocca i poteri sulla privazione della libertà personale, che fanno capo in via esclusiva dell’autorità giudiziaria, ma incide sulle limitazioni della stessa, alcune delle quali vengono attribuite, in maniera sostanzialmente incontrollata, all’autorità amministrativa. Il riferimento è alla norma che introduce il cosiddetto “DASPO urbano”, con cui il sindaco può stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi “ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione” di infrastrutture di trasporto (strade, ferrovie e aeroporto). L’ampiezza della definizione ne consente potenzialmente – e ne ha consentito in concreto – un utilizzo assai ampio nei confronti di categorie eterogenee, dai mendicanti ai posteggiatori abusivi, dai clochard ai partecipanti a manifestazione di protesta. L’introduzione del DASPO urbano, inoltre, conferma una tendenza di sistema. Le pratiche e le norme repressive o limitative di libertà e garanzie sono quasi sempre sperimentate nei confronti di categorie sociali marginali; una volta entrate nel sistema, poi, vengono estese in modo sempre più vasto. Così è oggi per il DASPO (acronimo di “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive”), originariamente previsto per hooligans e ultras del calcio, invisi all’opinione pubblica di destra e di sinistra per le loro violenze gratuite. E lo stesso vale per altri divieti e scorciatoie processuali, come la “fragranza differita” (vero e proprio ossimoro, che autorizza l’arresto da parte della polizia a distanza di tempo dal fatto, erodendo la competenza esclusiva della magistratura in tema di libertà personale). RDG: Questi spostamenti di potere, da un lato, il processo di amministrativizzazione e le tipologie specifiche di soggetti che queste norme vanno a colpire, dall’altro: possiamo dire che configurino quello che va sotto il nome di “diritto penale del nemico”? LP: Certamente sì, anzi la definizione è molto felice. Essa descrive, infatti, assai bene la diversa declinazione delle garanzie per i cittadini a pieno titolo e per alcuni soggetti o gruppi identificati come estranei al contesto sociale, a prescindere dalla gravità dei loro comportamenti. Se si è cittadini si viene perseguiti, anche in caso di reati gravissimi (pensiamo all’omicidio o alla corruzione miliardaria), con il rispetto di tutte le garanzie previste dal sistema processuale. Per i nemici, invece, le garanzie deperiscono, nel perseguimento dei reati (anche se di media gravità o addirittura bagatellari) e in una dimensione più generale. Un esempio per tutti: in forza del decreto Minniti sull’immigrazione, i richiedenti asilo, in una procedura in cui può essere in gioco la loro stessa vita, non godono del diritto a un giudizio di appello, non devono necessariamente essere sentiti dal tribunale e via seguitando. I nemici, poi, sono una categoria in continua espansione comprendente i non integrati nel sistema, per ragioni sociali, economiche, politiche e addirittura razziali. Ciò sta introducendo modalità nuove di governo della società. Mentre ai confini si costruiscono muri (blindando porti e costruendo steccati) per impedire l’accesso e la “contaminazione” con chi approda nel Paese, al suo interno si creano muri metaforici mediante strumenti giuridici e amministrativi. Ed è alle porte per i migranti, anche stabilizzati da anni (e magari da decenni), una cittadinanza dimezzata, revocabile a seguito di condanna per reati gravi o di media gravità. Se i migranti sono i nemici per eccellenza, tale status è condiviso da altre categorie di cittadini in un percorso che consta, ormai, di molte manifestazioni. Paradigmatica quella della repressione ventennale del movimento No TAV in Val Susa, nella quale si è dispiegato l’intero armamentario del diritto del nemico, realizzato da una pluralità di attori e su diversi piani (amministrativo, legislativo e giudiziario): il prefetto di Torino ha reiterato decine di volte ordinanze emesse “per ragioni di necessità e urgenza” tese a limitare, nella zona circostante il cantiere per la costruzione di opere preliminari alla linea ferroviaria Torino-Lione, l’esercizio dei diritti di circolazione e di manifestazione; il Parlamento ha varato (nel 2011 e nel 2013) leggi ad hoc con cui il cantiere della Maddalena viene trasformato in “sito di interesse strategico” (con divieti penalmente sanzionati finanche di condotte ostruzionistiche, di riproduzione fotografica e via elencando); il territorio della valle è stato militarizzato nel senso letterale del termine, addirittura con ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all’estero. Per non dire della magistratura (in particolare la procura della Repubblica e i giudici della cautela torinesi), protagonista di un irrigidimento repressivo inedito, con la dilatazione a dismisura delle ipotesi di concorso di persone nel reato, il ricorso massiccio alla custodia cautelare in carcere (pur facoltativa) anche nei confronti di incensurati, la costruzione dell’antagonista radicale come “tipo di autore” pericoloso per definizione, l’uso di un linguaggio truculento per descrivere e ricostruire gli eventi, la predisposizione di una corsia privilegiata per i procedimenti a carico di esponenti del movimento, una cura particolare nei rapporti con la stampa in funzione di un processo mediatico parallelo e, addirittura, la contestazione del delitto di attentato per finalità terroristiche (con prolungata custodia in carcere duro per quattro imputati) con riferimento a un episodio poi definito dai giudici del merito come violenza aggravata a pubblici ufficiali. In questo modo si incide profondamente sul sistema giuridico, abbattendo selettivamente le garanzie, irridendo il principio di uguaglianza e introducendo una vastissima discrezionalità amministrativa. RDG: Letto così, è un processo ampio, radicale ed epocale, almeno sotto il profilo del ribaltamento sia dello Stato sociale come forma di governo della società sia del sistema di garanzie. Un cambiamento così importante sembra accompagnato da troppo silenzio. Dal tuo osservatorio, c’è un dibattito aperto su questo processo? Il dibattito, vivace fino a un paio di decenni fa, è oggi sostanzialmente assente. Ciò è il portato di una situazione nella quale la politica non ha altro interesse che la ricerca del consenso e i corpi intermedi sono in crisi o, comunque, silenti. Così lo Stato penale (o comunque le politiche di ordine) prende il sopravvento sostituendo lo Stato sociale. Intendiamoci. Non penso affatto che lo Stato sociale sia, di per sé solo, in grado di assorbire le molteplici forme di marginalità e devianza. Il problema è complesso e non si presta a semplificazioni. Ma è certo che interventi appropriati e continuativi sul piano sociale riducono le fasce di marginalità, consentono un maggior dialogo delle istituzioni con i (vecchi e nuovi) cittadini, restituiscono dignità anche agli ultimi. La cosa paradossale è che ciò era ben presente alla maggioranza politica che ha convertito in legge il decreto Minniti, tanto da indurla a introdurre nel testo, come ho già ricordato, molti significativi riferimenti al benessere dei cittadini e alla qualità della vita nei contesti urbani. Salvo non prevedere, per essi, risorsa alcuna. Mentre il vero problema sta proprio nelle scelte in tema di dislocazione delle risorse. Ha ragione chi sostiene che il disordine e il degrado urbano (il “vetro rotto” come dicono i teorici della tolleranza zero) vanno affrontati, se si vuole evitare ulteriore degrado. Ma essi possono essere affrontati con un surplus di repressione o, al contrario, con interventi di sostegno sul piano sociale. Per dirla con una battuta, di fronte al vetro rotto si può investire in poliziotti o in vetrai. E non è la stessa cosa. RDG: A leggere qualche dato si vede che i milioni per nuove assunzioni nella polizia municipale, per armarla, per acquistare i Taser e per installare telecamere si trovano… LP: È vero, c’è un investimento massiccio in strumenti repressivi. Che, pure, hanno, non diversamente da quelli sociali, costi elevati. Un criminologo – se ben ricordo Salvatore Palidda – ha calcolato che una videocamera attiva, cioè accompagnata dall’esame e dall’analisi costante delle immagini riprese, costa quanto un assistente sociale. Il problema è, dunque, la scelta sulle modalità di governo delle città: con politiche di inclusione o con politiche repressive e di rimozione. L’Italia, dal decreto Minniti in poi, ha scelto la seconda strada, accodandosi, con vent’anni di ritardo, alle politiche di “tolleranza zero” degli Stati Uniti d’America e a quelle seguite da Tony Blair nel Regno Unito. La tipologia di soggetti potenzialmente pericolosi, da reprimere o da espellere, si arricchisce sempre di più. In un libro di un paio di anni fa (Prove di paura. Barbari, marginali ribelli, Edizioni Gruppo Abele) ne ho abbozzato un elenco, pur ampiamente incompleto: poveri, tossicodipendenti, matti, alcolizzati, deformi, barboni, mendicanti, prostitute di strada, viados, lavavetri, posteggiatori abusivi, ambulanti senza licenza, inventori di mestieri, benzinai improvvisati della domenica, venditori di fiori o fazzoletti, ombrellai dei giorni di pioggia, zingari, giocolieri di strada, questuanti, oziosi, vagabondi, punkabbestia coi loro cani, vecchi che frugano nelle pattumiere e via elencando. Sono i resti, gli scarti da cui ? in forza di un pensiero che ha ridisegnato i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza e di democrazia ? la società deve difendersi con ogni mezzo. Il suo postulato è che la diversità di condizioni di vita delle persone è un dato inevitabile (o addirittura positivo) e che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei “non meritevoli”, degli sconfitti, dei marginali, appunto. Se mi è consentito un riferimento storico, l’elenco che ho provato a redigere non è così diverso da quello predisposto nel 1852, per descrivere il sottoproletariato, da Marx: “vagabondi, soldati destituiti, detenuti liberati, forzati evasi, truffatori, saltimbanchi, lazzaroni, borsaioli, prestigiatori, facchini, ruffiani, cantastorie, cenciaioli, arrotini, calderai ambulanti, accattoni, insomma la massa indecisa, errante e fluttuante che i francesi chiamano la Bohème” (Karl Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti). Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, se non le politiche… RDG: Il governo Lega-Cinquestelle sta avanzando rapidamente sulla stessa strada: l’ordinanza sugli sgomberi degli stabili occupati e il successivo decreto sicurezza di Salvini hanno perso quella parvenza di assistenza sociale che il decreto Minniti aveva, nuovi decreti sui migranti continuano sulla via delle minori garanzie, e poi la legittima difesa… LP: La legge sulla legittima è in realtà una legge che rende legittima l’offesa, posto che in essa sparisce ogni proporzione tra l’aggressione subita e la reazione attuata. Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante. Siamo di fronte all’introduzione nel sistema di una sorta di (possibile) pena di morte privata, cioè decisa dalla persona offesa (o presunta tale) e da essa direttamente inflitta. È la cancellazione, con un tratto di penna, del diritto penale moderno che ha come idea guida e ragion d’essere la sottrazione del reo alla vendetta privata e l’attribuzione esclusiva allo Stato del potere di punire le condotte illecite, all’esito di un processo garantito e a opera di un giudice imparziale. Ma c’è di più. C’è la rinuncia dello Stato al compito di difendere al meglio i propri cittadini, sostituito da un messaggio ambiguo e pericoloso: “arrangiatevi da soli, noi ci preoccupiamo di garantirvi, comunque, l’impunità”. Più in generale, i primi interventi del governo giallo-verde si collocano, sia sul versante migranti che su quello della sicurezza, nella scia di quelli varati dal governo precedente e dal suo ministro dell’Interno. Con due varianti: un’ulteriore radicalizzazione in chiave repressiva e il venir meno di ogni riferimento al quadro costituzionale, cioè al sistema dei diritti e delle garanzie. Per Salvini, in particolare, il riferimento alla Costituzione è sostituito da quello “alla volontà dei 60 milioni di italiani che mi hanno votato” (sic!). Di qui le sue ricorrenti affermazioni: “io tiro dritto” e “me ne frego”. RDG: La questione della insicurezza percepita dai cittadini è il cavallo di battaglia della destra e dei sindaci - bipartisan, per altro. Si è persa del tutto la possibilità e la capacità di un discorso razionale basato sulla realtà. Il fatto che i reati, anche quelli più gravi come l’omicidio, siano in costante calo da anni non fa presa sul senso comune. Come possiamo proporre un’altra narrazione, alternativa alla paura? LP: Salvini stesso, commentando i dati sull’andamento della criminalità, ha dovuto ammettere, nei giorni scorsi, che, nel Paese, i reati sono in diminuzione da anni: non solo gli omicidi, ma anche le rapine e persino i furti. Eppure, la percezione è diversa e il senso di paura e di insicurezza cresce. Ciò ha una prima ragione nelle caratteristiche dell’informazione e chiama in causa direttamente gli operatori del settore. Ecco i risultati di una accurata ricerca realizzata nel 2013, anno caratterizzato dal tasso di omicidi più basso dall’Unità d’Italia (destinato a scendere ulteriormente negli anni successivi). Ebbene, in quell’anno, l’insicurezza ha occupato il 16,1% delle notizie fornite nelle edizioni di prima serata dei telegiornali italiani. In tale tipologia di notizie, la criminalità si è confermata la componente principale. Sono stati i crimini violenti a dominare la scena dell’informazione. Particolarmente interessante è il confronto del numero di notizie di criminalità fornite nelle edizioni di prima serata dei diversi telegiornali: Studio Aperto, 1.369; Tg4, 1.153; Tg5, 1.006; Tg1, 724; Tg2, 226; Tg3, 206; La7, 125. Netta, dunque, l’enfatizzazione della criminalità nei telegiornali con maggiori indici di ascolto (Mediaset e Tg1). Va aggiunto che nei telegiornali italiani la percentuale di notizie di criminalità è la maggiore d’Europa. Un confronto, sempre relativo al 2013, tra le edizioni serali delle principali reti pubbliche evidenzia, a fronte delle già ricordate 724 notizie del Tg1, 694 notizie per Tve (Spagna), 427 per Bbc.One (Regno Unito), 388 per France2 e 44 per Ard (Germania). Quanto alle modalità di narrazione si rileva, nel telegiornale serale della principale rete pubblica italiana, uno spazio nettamente prevalente alla cronaca nera e ai crimini “a sangue freddo”, che talora guadagnano addirittura il primo posto. Nella diffusione della paura che sembra attanagliare il Paese c’è dunque, accanto a fatti incontestabili, una forte componente indotta. In altri termini, è una pressione politica, culturale, informativa che alimenta i vissuti di insicurezza. Ciò è confermato in maniera univoca da alcune indagini sociali che evidenziano come, mediamente, i cittadini considerino abbastanza sicuro il territorio di riferimento ed estremamente insicuro quello conosciuto solo in maniera indiretta. Alla base della deformazione informativa sta, dunque, la spettacolarizzazione della notizia (legge fondamentale del sistema delle comunicazioni) che porta con sé enfatizzazione e condizionamento dell’opinione pubblica. Ma in questo contesto si colloca anche l’influenza di una politica priva di idee forti pronta a cavalcare la questione securitaria come veicolo di acquisizione del consenso, con un effetto di ulteriore moltiplicazione dell’insicurezza (imposta come tema fondamentale del confronto politico). RDG: A proposito di comunicazione, le politiche che escludono si alimentano anche di una comunicazione sociale fatta di stigma e odio nei confronti di alcuni gruppi-bersaglio. Lo hate speech dilaga soprattutto sui social media e non raramente non si limita alle parole ma finisce con l’essere il primo passo di gesti violenti razzisti, xenofobi o omofobi. Le leggi che sanzionano questi comportamenti ci sono ma il codice penale non sembra incidere più di tanto… LP: Non vedo ragioni per aggravare le pene per reati a sfondo razziale. La legge c’è ed è sostanzialmente adeguata. Il problema è, piuttosto, culturale e coinvolge, come ho appena detto, la politica. In passato, di fronte alle chiacchiere da bar, incluse quelle razziste, essa, bene o male, cercava di razionalizzare e mediare. Oggi invece le segue e le amplifica. Il linguaggio dei politici anni Sessanta, inclusi quelli non lontani dalle idee e dai progetti espressi da Salvini, era profondamente diverso da quello attuale: più rispettoso, magari ipocrita ma più tollerante. Ciò dava vita a un sistema comunicativo meno violento. Non ho alcun rimpianto per quel passato, ma lo ricordo perché aiuta a comprendere quanto sta accadendo e le relative ragioni. Aggiungo che, al linguaggio della politica, si affiancano, con effetti devastanti, l’irriflessività tipica dei social, gli slogan semplificatori da essi indotti, gli scontri verbali continui (talora non casuali ma perseguiti e organizzati) che li percorrono. Orbene, le politiche repressive si nutrono di queste sollecitazioni e ciò crea un circolo vizioso che si autoalimenta. Non solo ma è facile prevedere, in questo contesto, che, di fronte all’insuccesso delle politiche securitarie, crescerà la spinta verso ulteriori inasprimenti (con marginalizzazione delle posizioni che chiedono cambiamenti di rotta). RDG: Tu sei, insieme ad altri, tra i promotori di una nuova iniziativa politica e di comunicazione, Volerelaluna, che è un sito web ma anche un gruppo che promuove iniziative concrete, a Torino. Quali spazi vedi oggi non solo per resistere all’onda razzista e sovranista, ma per promuovere un progetto sociale e politico con un respiro di reale alternativa? LP: Credo che non ci si possa ritirare in convento e conservare i sacri testi in attesa di tempi migliori. Ma credo anche che i tempi del cambiamento non siano brevi e che non esistano scorciatoie. Gli orientamenti in tema di sicurezza della maggioranza e del governo in carica (pessimi e, nel medio termine, controproducenti) sono anche il frutto di errori e di una conclamata incapacità dei governi precedenti di affrontare la situazione in modo razionale. Non serve, dunque, a nulla pensare a prossime rivincite elettorali di una sinistra che non c’è e a nuovi organigrammi delle forze attualmente all’opposizione. Occorre, invece, impegnarsi su due piani paralleli: costruire, metodicamente e con pazienza, una nuova cultura sorretta da una informazione critica e cambiare comportamenti e modi di essere costruendo iniziative nel sociale per dare risposte (anche limitate e parziali) a molti bisogni sociali insoddisfatti. Di qui la scelta di Volerelaluna: da un lato, costruire un sito totalmente autogestito e occasioni di formazione e autoformazione; dall’altro, sporcarsi le mani in modo disinteressato nel sociale. Nessuna fuga dalla politica, ma il tentativo di contribuire a costruire, nei tempi necessari, una politica diversa: l’unico antidoto ai nazionalismi egoistici, alle manifestazioni di razzismo e ai fascismi che oggi incombono, non solo nel nostro Paese. ***** Livio Pepino: magistrato dal 1970 al 2010, è stato segretario nazionale e poi presidente di Magistratura Democratica. Dal 2006 al 2010 è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Attualmente dirige le Edizioni Gruppo Abele. Intanto studia, e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e di difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Collabora con siti, riviste e quotidiani (tra i quali, saltuariamente, Il Manifesto e Il Fatto quotidiano). È autore di numerose pubblicazioni: tra le altre Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012); Forti con i deboli (Rizzoli, 2012); Dizionario enciclopedico di mafie e antimafia (con Manuela Mareso, Edizioni Gruppo Abele, 2013); Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli (Edizioni Gruppo Abele, 2015). Sul versante più propriamente politico ha scritto, con altri, Io dico no (Edizioni Gruppo Abele, 2016) e Indicativo futuro. Le cose da fare (Edizioni Gruppo Abele, 2017). La responsabilità d’impresa tra penale e sociale di Riccardo Borsari Corriere del Veneto, 10 febbraio 2019 Sono oramai diversi anni che anche in Italia si guarda, da varie angolazioni, all’idea della responsabilità dell’impresa con occhi almeno in parte differenti da quelli per lungo tempo consolidati. Sovviene immediatamente il concetto, che va diffondendosi pure tra le imprese di medie dimensioni, di “responsabilità sociale d’impresa”, con il suo portato, per certi versi rivoluzionario, di attenzioni ad aspetti in (almeno apparente) contraddizione con le regole del mercato. Le istanze, non schiettamente economiche, e neppure giuridiche, che stanno alla base di tale tendenza si iscrivono in un contesto più ampio e variegato (persone, ambiente, onestà degli affari, trasparenza del mercato), dove trovano spazio anche temi morali e sociali che guardano alla necessità di un dialogo serrato tra economia, etica e diritto e dove un ruolo da protagonista è giocato dall’autoregolamentazione. Non si deve peraltro al puro caso, ritengo, che anche sul versante giuridico la novità forse più importante degli ultimi decenni passi per una riforma, davvero epocale, che tocca la responsabilità d’impresa. Quest’anno arriva infatti alla maggiore età il corpo di norme (il “famigerato” decreto 231) che ha portato il nostro ordinamento, sulla scia di impostazioni anglosassoni, a conoscere una forma di responsabilità, che per brevità definiremo penale, anche in capo alle imprese. Il diritto penale evoca, nell’immaginario collettivo, la “pena per eccellenza”, il carcere, ed è (stato) tradizionalmente costruito e plasmato secondo un paradigma antropocentrico. Come conciliare, dunque, questo modello di responsabilità personale, con la carica di umanità del rimprovero nei confronti di un “atto colpevole”, con l’idea di una sanzione a carico di un ente che non è dotato di corporeità? Il tema è assai complesso e variegato e ruota, ancora una volta non per caso, attorno all’idea di autoregolamentazione nonché, correlativamente, di una responsabilità per la colpa dell’organizzazione. Sono le regole, le modalità di funzionamento e azione che l’impresa si dà (o non si dà!), a costituire una sorta di anticorpi interni nei confronti di comportamenti scorretti e illegali, a prevenire forme, potenzialmente assai gravi, di responsabilità ma, prima ancora, a incarnare l’occasione di rinnovamento profondo della governance e di abbandono di uno “stile di gestione” non adeguato o riflesso di una politica d’impresa anacronistica (o peggio). Una rivoluzione copernicana, dall’applicazione potenzialmente dirompente. Sullo sfondo, delicate questioni di rapporto tra etica individuale ed etica collettiva, tra diritto, economia ed etica degli affari. Ecco, allora, che assume particolare interesse, specialmente per il mondo delle imprese, cercare di cogliere il dispiegarsi concreto della normativa; in altre parole come essa viene approcciata e “gestita” nei Tribunali, in particolare sul versante della valutazione dell’autoregolamentazione di cui si diceva poco fa. L’osservazione sull’applicazione di questa disciplina nel Triveneto, grazie a un Osservatorio istituito presso l’Università degli Studi di Padova, mostra, sotto il profilo quantitativo, un andamento tendenzialmente disomogeneo, seppure il numero dei procedimenti per anno risulti generalmente in calo nel corso del tempo. In particolare, si è passati dai 93 procedimenti del 2012 ai 61 nel 2016, ove peraltro negli anni intermedi il numero è prima sceso nel 2013 per poi risalire nel 2014; la Regione nella quale si è rilevato il maggiore numero di procedimenti è passata dall’essere il Veneto nel 2012 al Friuli Venezia Giulia nel 2016. Sul versante per così dire tipologico, a fronte della costante tendenza del legislatore ad ampliare i reati la cui commissione origina la responsabilità dell’impresa, i reati oggetto del maggior numero di procedimenti sono senz’altro quelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro, seguiti, pur a distanza, dai reati ambientali e dai reati contro la Pubblica Amministrazione; esigui, invece, i procedimenti instaurati per altri reati quali ricettazione e riciclaggio, reati societari, e altro - per dare un’idea, 151 sono stati i procedimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, 31 per reati ambientali e 16 per reati contro la Pubblica Amministrazione. Il dato potrebbe per un verso leggersi come esito di un più diffuso adeguamento delle imprese alla normativa e, dunque, come miglioramento in chiave di legalità, oltre che efficienza, della cultura aziendale. Per altro verso, accanto alla nota carenza di risorse del mondo giudiziario, la quale con buona probabilità fa anche qui sentire i suoi effetti, pare di potere scorgere una accorta prudenza e una calibrata attenzione da parte della magistratura nel ricorso a uno strumentario, come detto, potenzialmente pervasivo nella vita dell’impresa e “violento”, della violenza tipica del momento punitivo. Il che, nell’epoca della “società del controllo” e dell’impiego propagandistico del diritto penale, è davvero molto. Caso Diciotti. Chi andrà in soccorso di Salvini di Mario Rusciano Corriere della Sera, 10 febbraio 2019 Sul processo a Matteo Salvini per la vicenda della “Diciotti” la blanda opposizione di destra ha già deciso. Con tempestività e senza sorprendere: salverà Salvini, costola della destra. La minoranza di sinistra farebbe bene a riflettere su che fare, visto che Salvini comunque si salverà. È vero che il suo destino dipende dal M5S, ma è pur vero che le tante tensioni nella maggioranza e i sondaggi sfavorevoli lo indurranno ad andare in soccorso del partner di governo. Dimenticando l’odio per i privilegi e le immunità e l’amore per l’uguaglianza dei cittadini. L’idea del processo preoccupa il leader della Lega: altrimenti non l’avrebbe prima accarezzata e poi rifiutata. Il “sequestro di persona” è reato punito col carcere da sei mesi a otto anni; con pena aggravata per il pubblico ufficiale che abusa della sua funzione; e ancor più se a danno di minori (art. 605 codice penale). Molti pensano che Salvini non abbia voluto “sequestrare” i naufraghi della Diciotti, ma solo impedirne lo sbarco per dare un segnale forte ai sordi paesi europei. Sta di fatto che per questo si è servito di quasi duecento poveri disgraziati (molti minori), privandoli della libertà e tenendoli in mezzo al mare. Questa la sua difesa: “Ho agito da Ministro; nell’interesse della nazione; a nome del Governo”. Tre argomenti fragili. Primo: l’approdo in un porto italiano di un’imbarcazione italiana (già suolo italiano), per giunta della Guardia costiera, non è di sua competenza; e, se insiste a sostenere il contrario, rischia l’aggravante dell’abuso. Secondo: è dubbio che il divieto di Salvini corrisponda all’interesse nazionale, mentre è palese il suo interesse (non per la patria, ma per la Lega) a compiere un gesto clamoroso per acquisire consenso popolare: confermato dai sondaggi. Terzo: Salvini ha deciso tutto da solo, all’insaputa del Governo che ne ha condiviso la responsabilità solo “dopo” l’accusa del Tribunale. Manca l’unica vera prova della responsabilità collegiale: il verbale del Consiglio dei Ministri (convocato d’urgenza e ad hoc). In questi casi, è ovvio, non bastano telefonate, messaggini o letterine del Presidente del Consiglio e dell’altro vice premier. Eppure Salvini dalla vicenda uscirà vincente. O perché si rifiuterà il processo - ipotesi probabile, benché al Senato la maggioranza sia risicata - o perché, in caso di processo, egli aumenterà i consensi recitando la parte del “martire della giustizia”. La quale è di sinistra e fa politica: al punto da processare il Ministro dell’interno per la difesa degl’italiani dagli immigrati. Argomenti deboli e non convincenti, ma la sinistra deve stare attenta a non offrirgli un’altra occasione di propaganda. Forse, se la maggioranza blinda il ministro, è più utile distanziarsi dal campo giudiziario e contrastarne gli atteggiamenti autoritari sul terreno politico. È questo il terreno sul quale vanno unite le forze per un autentico interesse nazionale: contro l’autonomia differenziata delle regioni del Nord, che rompe unità e coesione del paese. Problema da straordinaria mobilitazione civile, che invece sfugge alla grande opinione pubblica. Esso poi è una prova non facile per i parlamentari del Sud: di tutti gli schieramenti. Specie del M5S, che rischia un calo vertiginoso di consensi nel suo più ampio bacino. Se nella propaganda di Salvini il cavallo di battaglia è l’immigrazione, il processo della Diciotti gli serve a distrarre l’attenzione dalla separazione del ricco Nord dal misero Sud. Cioè dal tradizionale progetto della Lega Nord, il quale marcia veloce e, chissà perché, in gran segreto. Dov’è finita l’onestà e la trasparenza del governo del cambiamento? Milano: “dopo il carcere aiuto i giovani a non commettere i miei errori” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 10 febbraio 2019 Rieducazione non è soltanto evitare di precipitare nuovamente nel vortice dell’illegalità, ma anche riscatto personale e voglia di mettersi al servizio della collettività, provando a restituire agli altri qualcosa di quello che si è sottratto con le proprie scelte sbagliate del passato. È questo il percorso che Matteo Chakir, 27 anni, milanese di origini marocchine, sta compiendo con la guida del servizio assistenza dell’azienda sanitaria Santi Paolo e Carlo. Matteo cosa ti ha spinto a iniziare questa nuova fase della tua vita? “Io ho sbagliato molto in passato, ho avuto diversi problemi con la giustizia, rapine, guida senza patente, ma perché ero solo, non ho avuto qualcuno con cui parlare, a cui affidare i miei problemi. Adesso che mi sto rialzando e che ho quasi finito di scontare la pena, voglio aiutare gli altri a non commettere i miei stessi errori. Voglio far capire che esiste un’altra via per affrontare i problemi”. Da qui il progetto della scuola di legalità…. “Sì, adesso insieme ad un’altra persona con il mio stesso trascorso abbiamo iniziato a raccontare la nostra storia nelle scuole superiori in stato di cogestione. La cosa più bella è vedere l’interesse dei ragazzi, le domande che ci fanno. Traiamo un’enorme positività dal dialogo con i giovani. Ma i benefici, in alcuni casi, sono reciproci. Sono riuscito anche a tirar fuori da alcuni studenti problemi e difficoltà di cui non volevano parlare. Comunicare è fondamentale. I professori e i compagni di classe possono aiutare molto in questo sforzo. Bisogna fidarsi degli altri: è quello che è mancato a me”. Il tuo impegno per gli altri non si limita alla testimonianza nelle scuole “È così. Nell’ambito del percorso terapeutico che sto seguendo mi occupo anche di un bambino autistico. È un’esperienza che mi regala sensazioni bellissime. E poi ho anche coronato il sogno di diplomarmi. La voglia di studiare mi è tornata proprio durante la permanenza nel carcere di San Vittore. Adesso voglio continuare su questa strada: mi piacerebbe lavorare ancora al fianco di persone con disabilità”. Padova: blitz al Due Palazzi, carcere perquisito, caccia a droga e cellulari di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 10 febbraio 2019 Impegnati 120 uomini delle forze dell’ordine anche per evitare lo scoppio di rivolte dei detenuti. Il blitz di polizia e carabinieri è scattato nel primo pomeriggio. Almeno 120 uomini, su mandato del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e della Procura di Padova, hanno passato al setaccio celle e corridoi del carcere Due Palazzi a caccia di droga, telefoni cellulari e chiavette Usb. Il penitenziario era finito nella bufera nel 2010, ma il vero scandalo è scoppiato l’8 luglio del 2014, quando gli agenti della Squadra mobile avevano portato alla luce una corruzione diffusa in tutta la casa di reclusione: i detenuti potevano drogarsi, telefonare con i cellulari e con gli stessi navigare in Internet. Il business era stato messo in piedi da alcuni poliziotti della penitenziaria. E da allora le indagini non sono ancora terminate, così come i processi. Negli anni infatti sono stati scoperti altri affari illegali all’interno del Due Palazzi. L’operazione - Poliziotti del reparto prevenzione crimine e della Questura, carabinieri del Nas, del comando provinciale e unità cinofile antidroga, per un totale di 120 uomini, ieri hanno passato al setaccio per oltre cinque ore la casa di reclusione. Agenti e militari, con la stretta collaborazione dei poliziotti della penitenziaria, hanno perquisito ogni singola cella del carcere. Ma non solo, anche i corridoi e le stanze utilizzate per i laboratori, dove i detenuti studiano o imparano un mestiere, e pure gli alloggi e gli uffici della penitenziaria. L’obiettivo era quello di trovare e sequestrate droga, telefoni cellulari e chiavette Usb. E sarebbero state rinvenute alcune dosi di sostanza stupefacente. Il problema principale per carabinieri, poliziotti e agenti delle penitenziaria, è stato quello di tenere calmi i carcerati mentre è andata in scena la perquisizione. Il pericolo che potesse scoppiare una rivolta era elevato. I telefoni cellulari - In soli tre anni, dal 2014 al 2017, nella casa di reclusione Due Palazzi, sono entrati illegalmente 130 telefoni cellulari con tanto di scheda sim. Almeno duecento detenuti hanno potuto usufruire degli apparecchi, tra cui alcuni ergastolani, per chiamare mogli, fratelli, mamme e amici. E proprio nel marzo del 2017 in un alloggio di servizio di un agente penitenziario, sono stati trovati e sequestrati venti telefoni cellulari, mentre altri sei apparecchi sono stati poi scoperti dietro a un termosifone lungo un corridoio del carcere. Ma i telefoni, di dimensioni molto ridotte, sono stati fatti penetrare all’interno del penitenziario anche nascosti dentro i biscotti. Lo stesso trucco è stato utilizzato in più occasioni dai parenti dei detenuti, per occultare le schede sim. Durante il processo che si sta tutt’ora celebrando nell’aula bunker di Mestre per il filone delle indagini relative al blitz del 2014, c’è stata una testimonianza choc da parte di un test della pubblica accusa. L’uomo davanti ai giudici ha dichiarato: “Ho iniziato a drogarmi quando sono stato arrestato e sono finito in carcere. Al Due Palazzi la sostanza stupefacente girava ovunque”. L’altro scandalo - Il pubblico ministero Sergio Dini non si è occupato negli anni solo di droga e telefoni cellulari, ma anche di un altro scandalo che ha investito la casa di reclusione Due Palazzi. Nell’aprile dell’anno scorso sedici guardie penitenziarie sono finite nei guai per essersi assentate dal lavoro 100 giorni a testa, grazie a falsi certificati medici con la complicità di quattro dottori. Nella maggiore parte dei casi le guardie soffrivano di gastrite e lombosciatalgia. Un agente è stato pizzicato nel suo paese in Puglia a fare il meccanico di auto, mentre doveva essere a casa per una lombalgia. Un secondo si è dato malato per non andare a lavorare, ma si è comunque presentato in carcere per giocare a calcio con i colleghi e i detenuti. Teramo: il caso Castrogno all’attenzione del governo Il Centro, 10 febbraio 2019 D’Alberto visita il carcere e annuncia la volontà di interessare il ministro Bonafede delle criticità. L’emergenza carcere di Castrogno sarà sottoposta al governo. A farsene portavoce sarà il sindaco Gianguido D’Alberto che illustrerà al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede le principali problematiche della struttura. Il primo cittadino ha annunciato il proprio intervento diretto nei confronti del rappresentante dell’esecutivo nel corso della visita istituzionale di ieri mattina al carcere, svolta insieme agli assessori Sara Falini e Maria Cristina Marroni. Affiancato dal direttore Stefano Liberatore, oltre che attraversare le diverse sezioni di reclusione, il sindaco ha raccolto le indicazioni sulle varie carenze che attengono sia all’immobile sia alle condizioni di detenzione. A cominciare dal cronico sovraffollamento delle celle, che mediamente ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza originariamente prevista. Da questo problema, è stato rilevato nel corso della visita, ne scaturiscono altri, come l’inadeguatezza numerica del personale di polizia penitenziaria, costretto a turni di lavoro che impediscono il pieno godimento delle ferie, nonché la precarietà di servizi tra cui l’assistenza sanitaria, anche questa in affanno per scarsità di operatori. Il sovraffollamento è anche la causa delle carenze manutentive di cui soffre il complesso edilizio carcerario. Liberatore, però, ha evidenziato anche la necessità di migliorare i servizi di diretta competenza del Comune. In particolare è atteso l’incremento delle corse del bus urbano per Castrogno, utilizzata da parenti dei detenuti ma anche dal personale del carcere. Da riqualificare è anche la pensilina, attualmente inadatta a riparare i passeggeri in attesa, alla fermata dei mezzi pubblici nei pressi del carcere. Altra criticità evidenziata dal direttore riguarda le pessime condizioni della strada che conduce a Castrogno, questione segnalata al sindaco sebbene il tracciato sia di competenza della Provincia. D’Alberto, dunque, solleciterà l’intervento del ministro sulle problematiche riguardanti la struttura ma si è anche impegnato ad affrontare le carenze dei servizi riferiti agli enti locali, nonché a rendere più agevole l’attività in carcere dei volontari che spesso sono frenati da pastoie burocratiche. “Non è stata una visita di routine”, ha detto, “ma l’occasione per prendere consapevolezza dei problemi e manifestare la vicinanza dell’amministrazione e della città al mondo carcerario”. Lecco: il Comune di cerca un Garante dei detenuti giornaledilecco.it, 10 febbraio 2019 “Sceglieremo il Garante fra persone residenti nella provincia di Lecco, di indiscusso prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali”. È stato pubblicato sul sito web del Comune di Lecco l’avviso per l’affidamento dell’incarico di Garante dei Detenuti. “Come previsto dal regolamento, sceglieremo il Garante fra persone residenti nella provincia di Lecco, di indiscusso prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali, presente eventuali elementi di inopportunità” si legge nella nota di Palazzo Bovara. L’incarico è incompatibile con l’esercizio di funzioni pubbliche nei settori della giustizia, della pubblica sicurezza e della professione forense. È esclusa la nomina nei confronti del coniuge, di ascendenti, discendenti, parenti e affini fino al terzo grado di amministratori comunali e del personale che opera nella Casa Circondariale. Il Garante rimane in carica tre anni; lo svolgimento delle funzioni attribuite è a titolo onorifico e non è prevista alcuna indennità, ad eccezione di un rimborso spese documentate. I candidati possono presentare la domanda entro le 12.30 di lunedì 25 febbraio 2019 all’ufficio Protocollo o tramite PEC (comune@pec.comunedilecco.it). Modena: “La voce degli ultimi”, il gruppo WhatsApp che aiuta i clochard di Mauro Munafò L’Espresso, 10 febbraio 2019 Ed è nato “grazie” al vicesindaco leghista di Trieste che ha buttato le coperte. La storia del vicesindaco del Carroccio di Trieste che ha gettato nel cassonetto il riparo di un senzatetto ha fornito l’ispirazione a due ragazze di Modena. Che ora hanno radunato intorno a loro quaranta persone. “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” cantava Fabrizio De André. E questa storia che arriva da Modena merita di iniziare con una citazione del grande cantautore genovese. Il letame da cui si parte è il caso del vicesindaco leghista di Trieste Paolo Polidori che si vanta circa un mese fa sui social network di aver buttato nel cassonetto le coperte di un clochard quando questi era lontano. Di più, l’esponente del Carroccio dichiara di averlo fatto “con soddisfazione”. Lo stesso gesto di accanimento gratuito nei confronti di una persona in difficoltà fa indignare mezza Italia e diventa, che beffa per il leghista, la molla che fa scattare un’iniziativa di resistenza civile a Modena. Appena letta la notizia che arrivava dal Friuli Venezia Giulia infatti, due ragazze che studiano e lavorano nella città emiliana decidono di fare qualcosa. Un gesto piccolo ma significativo: chiedere ai loro amici su Facebook se hanno delle coperte da mandare a Trieste per aiutare quel senzatetto. Il risultato? “Di coperte, cappotti e maglioni in appena 24 ore da quel messaggio sui social ce ne sono arrivati circa un centinaio” spiega a L’Espresso Rossella Giulia Caci, che insieme all’amica Chiara Ciccia Romito è la persona dietro questa storia. Tanta solidarietà, in gran parte inattesa. Persino troppa forse, se mai ci può essere “troppa” solidarietà. E così, mentre la casa di Rossella si riempie di coperte, per la gioia della sua coinquilina, si decide di puntare un po’ più in alto. Di quelle cento coperte raccolte, venti vanno a Sant’Egidio a Trieste, ma le altre ottanta rimangono in Emilia dove, tra Modena e Bologna, diventano il primo seme di un progetto per aiutare chi ne ha più bisogno. Rossella e Chiara infatti non si fermano e continuano nella loro iniziativa. Intorno a loro si aggrega un nucleo di una quarantina di persone. Non sono un’associazione, non hanno un nome. Il loro gruppo WhatsApp si chiama “La voce degli ultimi”. Sono avvocati, commercialisti, studenti, ingegneri, alcuni già vicini al mondo delle associazioni e altri invece più scettici, che decidono di dare una mano a chi ne ha bisogno. Si incontrano di solito nel weekend e portano indumenti e coperte raccolti durante la settimana ai senza tetto che, magari per vergogna o per altre ragioni personali, decidono di non andare nei rifugi messi a disposizione del Comune. “Nell’ultimo mese non c’è stato un solo giorno in cui non ci sia stato dato qualcosa per aiutare i clochard” spiega Rossella. “Ma il nostro aiuto cerca di andare anche oltre il semplice supporto di vestiario. Spesso parliamo con queste persone finite ai margini della società e con noi vengono anche alcuni bambini: una loro domanda che non ti aspetti può aprire un dialogo, abbattere un muro e creare una relazione”. E tutto questo “grazie” a un vicesindaco che ha buttato in un cassonetto delle coperte. Venezia: confronto sulle esperienze di chi vive dentro il carcere di Daniela Ghio Il Gazzettino, 10 febbraio 2019 Molto interesse per l’incontro che è stato promosso dal regista Berto tramite un film su Santa Maria Maggiore. Viva partecipazione ieri pomeriggio nella sede di Emergency della Giudecca per la nuova proposta del programma di iniziative dell’associazione per presentare e esplorare attraverso vari linguaggi (arti visive, fotografia, scrittura, cinema, musica, teatro) le situazioni già problematiche, le storie delle persone più fragili la cui vita sembra contare di meno, i territori di confine in cui non è sempre facile rendere esigibili diritti pur sanciti. Questa volta è stato raccontato il carcere di Santa Maria Maggiore con Mattia Berto e il suo film “Sì, viaggiare! Dentro o fuori teatro dappertutto. Racconto dell’esperienza teatrale nel carcere”. “Siamo qui a raccontare un esperienza di teatro ma soprattutto un idea di città - ha spiegato Mattia Berto. Abbiamo bisogno di ritrovarci come comunità che vive e condivide. Per mestiere racconto storie e mi nutro di storie: le ascolto e le narro. In questi anni ho coinvolto nei miei lavori luoghi diversi scuole, teatri, botteghe, calli e piazze. Avere avuto la possibilità di compiere questa avventura alla casa circondariale di Santa Maria Maggiore mi fa pensare ancora una volta che questa sia la forza del teatro: forza che aggrega e rigenera”. Insieme a Berto hanno portato la propria esperienza, in un dibattito moderato dal docente Iuav Ezio Micelli, Immacolata Mannarella, direttrice della casa circondariale, Ferdinando Ciardiello, direttore dell’area educativa della casa circondariale, Maria Voltolina, presidente dell’Associazione Il granello di senape, Giorgia Chinellato, fotografa, Giuseppe Drago, videomaker. “Ho parlato in carcere di viaggio ma mi interessava capire anche chi è recluso - ha detto ancora Berto. Mi piace pensare a una città che gioca al teatro, che racconta e si racconta ed è per questo motivo che da anni sto mappando con i miei laboratori di teatro per tutti il territorio veneziano. Abbiamo davvero un grande bisogno di ritrovarci come collettività, dobbiamo riacquisire un senso forte dello stare insieme come cittadini e il teatro è un motore per questo. Macerata: convegno “Il recupero dei detenuti attraverso l’inserimento lavorativo” viveremacerata.it, 10 febbraio 2019 “Il punto di riferimento deve essere sempre la nostra Carta Costituzionale. Pari dignità di tutti i cittadini e pena come strumento di rieducazione del condannato”. Lo ha sottolineato il Presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, intervenendo presso l’istituto “Matteo Ricci” di Macerata nell’ambito del convegno su “Il recupero e la responsabilizzazione dei detenuti attraverso l’inserimento lavorativo”, organizzato dall’ Accademia “Georgica” di Treia. Nel suo intervento, presenti gli studenti delle classi terze e quinte dello stesso istituto, il Presidente ha fatto riferimento all’importanza delle attività trattamentali, contemplate nella legge regionale del 2008, dell’istruzione e della formazione professionale da attivare in carcere, non mancando di ricordare la positiva esperienza del Polo universitario di Fossombrone, che vede direttamente coinvolti Università di Urbino, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche e Garante dei diritti e la prevista attivazione di un Polo professionale a Barcaglione (protocollo siglato da Regione, Prap e Garante). Mastrovincenzo ha anche parlato del significativo contributo fornito dal volontariato e non ha mancato di evidenziare le molteplici problematiche che gravano sugli istituti penitenziari marchigiani. “Il Consiglio - ha detto - segue costantemente l’evolvere della situazione, anche alla luce dei dati che emergono dall’azione di monitoraggio effettuata dal Garante regionale. Nei mesi scorsi abbiamo approvato uno specifica mozione e prossimamente torneremo sull’argomento attraverso un nuovo atto d’indirizzo per chiedere un impegno concreto affinché si intervenga su alcune delle maggiori criticità, a partire da quelle strutturali, degli organici e dell’attuale assetto del Prap, chiamato ad intervenire con una sola dirigenza su Emilia Romagna e Marche”. Velletri (Rm): un corso sul volontariato per la giustizia con l’associazione Vol.a.re. agensir.it, 10 febbraio 2019 Sono partite le iscrizioni al corso “Incontrare la giustizia”, che inizia a marzo ed è dedicato al volontariato in carcere ma anche attraverso iniziative di sensibilizzazione sul territorio. Il percorso, aperto a tutti e totalmente gratuito, è promosso dall’associazione Vol.a.re., che da anni fa servizio all’interno del carcere di Velletri. Il presidente è Carlo Condorelli. “In un momento storico in cui emergono forti spinte giustizialiste, proporremo all’interno del corso un momento di riflessione pacata - spiega al Sir - Tenteremo di spiegare perché alla nostra società conviene promuovere un carcere che rieduchi in maniera reale ed efficace. Il ruolo dei volontari spesso supplisce ad alcuni deficit che l’amministrazione non riesce a coprire a livello di servizi ai detenuti”. Sei incontri, dal 1° marzo al 5 aprile, di venerdì alle 18,30 nella parrocchia San Giovanni Battista a Velletri, avranno come temi il sistema della giustizia in Italia, la vita in carcere, il volontariato dentro e fuori dal carcere, i progetti di esecuzione penale esterna. “Apre il corso Daniela De Robert, membro dell’Autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale - aggiunge Carlo Condorelli - e negli incontri successivi avremo con noi un avvocato penalista, volontari di altre associazioni e case circondariali e la testimonianza di un detenuto che sta vivendo l’esecuzione della pena all’esterno del carcere”. Per informazioni: asso.volare@virgilio.it - 3339930559. Rimini: Progetto Andromeda, i detenuti dei Casetti incontrano l’associazione Libera riminitoday.it, 10 febbraio 2019 Hanno accolto le volontarie del Coordinamento Libera con biscotti e un tiramisù, un dolce benvenuto da parte dei detenuti della Sezione a custodia attenuata (Seat) della Casa circondariale di Rimini, per iniziare nel migliore dei modi due laboratori su temi che certo di dolce hanno ben poco: la Mafia e la sua presenza nella società. Da una parte per Libera Alice Gaudenzi e Gaia Trunfio, quest’ultima responsabile formazione, accompagnate da Eugenio Pari della Cooperativa Sociale Cento Fiori, che attualmente gestisce il progetto Andromeda all’interno della Seat. Dall’altra un pubblico certo inconsueto, di sicuro molto partecipe secondo Gaia Trunfio: “Come dico sempre, la presenza è obbligatoria (visto il contesto dove abbiamo operato), la partecipazione no. E invece hanno partecipato molto attivamente. Anzi, devo registrare che ci sono stati dei momenti molto emozionanti per alcuni di loro”. Molti dei detenuti non conoscevano le differenze tra le diverse organizzazioni mafiose, ne l’attività di Libera. “Abbiamo cominciato col parlare di come il Coordinamento cerca di cambiare la realtà - dice Gaia Trunfio - sia attraverso il ricordo delle vittime il 21 marzo, sia attraverso l’utilizzo dei beni confiscati, che sono un modo tangibile per far restituire alle mafie il maltolto. Abbiamo fatto vedere che ci sono dei beni confiscati in provincia di Rimini: oltre una decina tra beni mobili immobili e aziende. E abbiamo anche parlato delle delle esperienze dei riminesi a proposito dei beni confiscati in Campania, dove quest’anno un gruppo nutrito di giovani e di pensionati si è recato per lavorare. Non sono state le uniche esperienze, ogni anno volontari riminesi partono per aiutare nelle attività delle imprese collegate con Libera in Calabria, in Puglia, in Sicilia”. I laboratori si sono basati su tecniche di educazione non formali. Non sono i primi che vengono tenuti nella Sezione di custodia attenuata del carcere riminese, sono cominciati alcuni anni fa sotto l’egida della cooperativa Madonna della Carità, “ma non solo abbiamo creduto che siano un ottima esperienza - dice Eugenio Pari, educatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e referente del progetto Andromeda - ma prossimamente esporteremo questi laboratori anche alla Comunità terapeutica di Vallecchio, che abbiamo fondato oltre 35 anni fa. Queste “merende della legalità”, come le chiamiamo, riservano a tutti qualcosa di molto buono”. Modena: “Sognalib(e)ro”, i lettori in carcere hanno scelto “L’arminuta” comune.modena.it, 10 febbraio 2019 Nella serata finale di venerdì 8 febbraio al Teatro delle Passioni premiata Donatella di Pietrantonio e, per gli inediti, tre detenuti da tre città diverse per poesia, racconto e romanzo Tra i 26 inediti presentati in concorso alla prima edizione del premio letterario per le carceri italiane “Sognalib(e)ro” promosso dal Comune di Modena, la giuria degli scrittori affermati ha individuato tre vincitori. Per il racconto, Giuseppe Musumeci della casa circondariale di Pisa; per la poesia, Pietro Citterio della casa di reclusione di Milano-Opera; per il romanzo, Roberto Ceresa della casa circondariale di Torino, che vedrà il suo lavoro pubblicato in e-book dall’editore Giunti. Gli altri vincitori e altri concorrenti saranno invece pubblicati in e-book dalla casa editrice civica digitale “Il Dondolo” del Comune di Modena diretta da Beppe Cottafavi. Per la sezione narrativa, che chiedeva ai gruppi di lettura nelle carceri di scegliere tra tre libri indicati dalla giuria del premio, ha vinto Donatella di Pietrantonio con “L’arminuta” (Einaudi), prescelta rispetto a Antonella Lattanzi con “Una storia nera” (Mondadori) e Umberto Pasti con “Perduto in paradiso” (Bompiani). Sono i verdetti emersi nella serata finale del premio letterario “Sognalib(e)ro” per carceri italiane, promosso dal Comune di Modena con Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria (in sala Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche con Nicoletta Saporito, per la Casa circondariale di Modena), Giunti editore (rappresentato dal direttore editoriale Antonio Franchini), e con il sostegno di BPER Banca (rappresentata dal vicedirettore generale vicario Eugenio Garavini). Una serata molto partecipata, trascorsa fra premiazioni, ospiti, letture e teatro venerdì 8 febbraio al Teatro delle Passioni di Modena, condotta da Bruno Ventavoli, giornalista direttore e ideatore del premio, nel segno del principale obiettivo: promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari dimostrando che possono essere strumento di riabilitazione, principio sancito dalla Costituzione. Gianpietro Cavazza, vicesindaco di Modena e assessore alla Cultura, ha illustrato il progetto sottolineandone il rilievo umano, culturale e sociale perché, ha detto, “scrittura e lettura sono atti di libertà, creatività e fanno riflettere anche sulla propria storia”. Cavazza ha espresso soddisfazione per il percorso che, ha ricordato “si è avvantaggiato dalla possibilità di mettere insieme tante parti, istituzioni e volontari, che già contribuiscono a costruire ponti tra carcere e città, dimostrando che fare squadra anche con cultura, economia e sociale si può, si deve e funziona”. Donatella Di Pietrantonio, che ha ricevuto anche il premio Bper Banca, ha ricordato quali siano stati “i libri della sua vita”, che ora saranno donati dagli organizzatori alle biblioteche delle carceri partecipanti al premio. Dalle emozioni del primo, ovvero “Piccole donne” di Alcott a “Fontamara” di Ignazio Silone, da “Il corpo umano” di Paolo Giordano a “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, di cui ha citato un celebre passo: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. L’attestato e la medaglia del Comune di Modena, vista l’impossibilità dei detenuti vincitori a partecipare, sono stati affidati dal vicesindaco Cavazza a Bonfiglioli, che ha espresso soddisfazione e invitato a proseguire nel percorso intrapreso, richiesta espressa anche dai detenuti attori di Sant’Anna e Castelfranco, che hanno animato la serata leggendo riflessioni, giudizi e motivazioni del voto dei detenuti di altre carceri, per poi recitare, con la regia di Stefano Tè nella rappresentazione finale. In scena, con gli attori del carcere e attori e allievi, “Padri e Figli/primo studio”, nuova produzione Teatro dei Venti in collaborazione, con Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, Casa Circondariale di Modena e Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia (il teatro in carcere è sostenuto anche dal Comune di Modena). Sono stati 96 i detenuti dei gruppi di lettura in carcere che hanno partecipato alle due sezioni del premio “Sognalib(e)ro”. Ventisei gli scritti presentati e otto gli istituti aderenti (Modena, Milano - Opera, Trapani - Cerulli, Torino - Lorusso e Cutugno, Brindisi, e tre femminili: Pisa, Pozzuoli e Roma Rebibbia -Stefanini). L’invisibile nemico della verità: così la minaccia economica uccide la libertà di informazione di Concita De Gregorio La Repubblica, 10 febbraio 2019 Non c’è solo la minaccia fisica contro chi racconta i fatti a ogni costo. Quella più subdola è la causa civile con ingenti richieste di risarcimento danni. Concita De Gregorio racconta il suo caso limite, costretta a pagare in prima persona senza più un editore che possa rispondere di queste richieste esorbitanti. Il tema è la libertà di informazione. Non vi fermate. Pensate allo spot del Super Bowl, quello del Washington Post: “La democrazia muore nell’oscurità”. È su Youtube: “C’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo”. Gli americani fanno queste cose meglio di tutti al mondo. “La conoscenza ci dà potere. Sapere ci aiuta a decidere. Conoscere ci libera”. I giornali si fanno per chi è governato, non per chi governa. Nella pratica (anche da noi, come ovunque) la minaccia a chi “racconta i fatti a ogni costo” arriva in due modi. Diretto. Una pistola puntata. È facile da riconoscere. C’è un criminale che dice: ti ammazzo. C’è qualcuno da proteggere, una scorta da dare. “Non si può togliere”, quattro parole. “Restituitela”, una parola. Sono tanti i giornalisti coraggiosi sotto scorta. Non serve nominarli, vi vengono a mente subito, siamo pronti in ogni istante a difenderli. Secondo modo. Minaccia economica. Subdola, invisibile. Non toglie la vita, toglie quello che serve per vivere. Per indicarla non c’è un hashtag che generi like. Il potere ha dalla sua una legge di settant’anni fa. 1948. Consente a chi ha più soldi di minacciare chi ne ha meno: ti tolgo tutto, e poi vediamo se hai ancora voglia di parlare. Quando un giornale fa il suo lavoro il potere prova a zittirlo. Ci sono due modi. Primo: querela per diffamazione. Hai detto di me il falso, ti querelo. La querela è penale, dunque personale: si può querelare solo chi ha scritto la cosa. Il tribunale accerta e chi ha sbagliato paga. (Mi costa parlare di me, ma: in trentacinque anni di lavoro non ho mai perso, personalmente, una causa per diffamazione). Secondo modo: la causa civile per risarcimento danni. Questa si può esercitare anche verso chi ha responsabilità “oggettive”: l’editore, che pubblica, e il direttore, che ha il dovere di controllare quel che si pubblica. Si chiama responsabilità per omesso controllo ed è giusta (anche se in giornali di 40 pagine è tecnicamente impossibile controllare tutto. Il direttore delega. Se sbaglia a delegare paga). Chi ha molto potere usa come minaccia le azioni civili. Fa continuamente causa a chi gli dà fastidio. Esempio: un presidente del Consiglio, poniamo, miliardario, fa causa a un sito chiedendo ogni volta un milione di euro. Lo fa anche se sa di aver torto: anzi, soprattutto. Si dicono “azioni temerarie”. La Fnsi, quando Santo della Volpe la guidava, se ne è occupata strenuamente. Poi Ossigeno, piccola associazione di grande coraggio. Intimidazione, perché i soldi sono pignorati in attesa del giudizio definitivo. Cioè: intanto ti congelo la somma, poi aspettiamo di vedere chi ha ragione. Possono passare dieci, vent’ anni. Chi deve garantire? L’editore, naturalmente. Perché se l’editore guadagna non ripartisce gli utili tra i dipendenti. Ugualmente, se perde non può scaricare i suoi debiti. Rischio d’impresa, si chiama. Ora: quella legge di 70 anni fa dice che il cronista, il direttore e l’editore sono responsabili “in solido”. Vuol dire che ogni parte deve garantire per l’intero. Se ci sono tutti si divide, se qualcuno manca: quello che c’è paga per tutti. È il mio caso: pago da otto anni la parte dovuta dall’editore. Questa legge deve essere cambiata. Mette in pericolo chi scrive e chi legge, voi. Settant’anni fa il mondo era un altro. Non c’erano Internet, il web. C’era il lavoro dipendente tutelato. Oggi un cronista che denuncia la tratta di esseri umani, le mafie, la corruzione politica lavora spesso “pagato a pezzo”. Nessuno è in grado di sostenere personalmente l’offensiva economica dei poteri che denuncia. È un sistema che dissuade il giornalista dal “raccontare i fatti a ogni costo”. Due parole, infine, sul caso Unità. Sono stata chiamata a dirigere il giornale da Renato Soru, l’editore, nel 2008. Non avevo tessere di partito, mai avute. Mi sembrava giusto fare la mia parte, diciamo così, di “servizio civile”. Non mi è convenuto: guadagnavo di più prima, ho guadagnato - dopo - assai meno degli uomini che fanno lo stesso lavoro. L’ho diretto dal 2008 al 2011. In quei tre anni era al governo il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Il giornale ha dato fastidio e ha subìto moltissime azioni temerarie. Negli anni successivi è andato al governo il centrosinistra. Le cause civili contro l’Unità sono diminuite, è comprensibile. Dal 2008 al 2011 l’Unità ha condotto battaglie di mobilitazione civile, grazie a una redazione e a collaboratori generosi e appassionati, che sono arrivate a coinvolgere dieci volte il numero dei suoi lettori. Quando vendeva 50mila copie raccoglieva mezzo milione di firme. Di tante campagne e per tutte voglio ricordare quella condotta da Alessandro Leogrande, che scriveva per il giornale, contro la legge Bossi-Fini: portò in piazza migliaia di persone. Dopo di me e prima della chiusura dell’Unità sono passati sette anni e sei direttori. Dal 2011 ho affrontato in tribunale centinaia di udienze e pagato in attesa di giudizio somme dovute dall’editore “cessato”. L’editore, Nie, difatti non c’è più. Se anche facessi, come dovrei, azione di rivalsa non troverei nessuno. Chi ha intentato causa e pignorato si chiama Silvio o Paolo Berlusconi, generale Mori, Angelucci, Mediaset, potrei continuare ma è chiaro. In molti casi, nei vari passaggi di proprietà del giornale, chi aveva una causa in corso e non faceva più parte della redazione non è stato avvisato delle scadenze giudiziarie e non si è potuto difendere, trovandosi direttamente di fronte ai pignoramenti. Chi era Nie? Formalmente non il Pd. È tuttavia arduo sostenere, come alcuni dirigenti in questi anni hanno fatto, che il Pd sia estraneo all’Unità: sarebbe incomprensibile anche per gli elettori. Quando Renzi era al governo è stata avanzata una proposta di riforma della legge del ‘48: si è “arenata” al Senato. In questi giorni è stata ripresentata. Auguriamoci che abbia miglior sorte in condizioni ostili. Molti mi hanno chiesto in questi giorni perché abbia aspettato tanto a raccontare. È stato perché quel che la vita ti mette di fronte si affronta, direi. Perché la giustizia si cerca in tribunale. I soggetti istituzionali, chi doveva sapere, sapeva. Mi hanno chiesto come mai non mi sia fatta tutelare. L’unica tutela che conosco è quella del rigore nel lavoro. “Dietro ogni sospetto c’è una cattiva intenzione repressa”, ci diceva a scuola la prof. Sarebbe un bello slogan per uno spot del Super Bowl. Forse un po’ criptico in tempi di attenzione labile, ma bello. Migranti e decreto sicurezza, noi psicoanalisti non possiamo tacere La Repubblica, 10 febbraio 2019 Lettera aperta al Presidente della Repubblica. “Non possiamo accettare il razzismo crescente che sfocia in atti di cui una nazione civile dovrebbe vergognarsi. È necessario operare affinché l’inconsapevole distruttività, cui tutti siamo esposti, possa trasformarsi in conoscenza e comprensione generatrice di consapevole tensione verso il diverso, l’ignoto, l’altro”. Noi tutti, firmatari di questa lettera, siamo psicoanalisti appartenenti alla storica Società Psicoanalitica Italiana (SPI), componente dell’International Psychoanalytical Association (IPA), della quale fanno parte società psicoanalitiche di tutto il mondo. Molti di noi fanno parte di un gruppo denominato PER (Psicoanalisti Europei Per i Rifugiati), con il quale la SPI ha inteso raccogliere le esperienze di molti psicoanalisti che già da anni operano su tutto il territorio nazionale nel settore della migrazione. Del Gruppo PER inoltre, fanno parte anche psicoanalisti che appartengono al gruppo denominato Geografie della Psicoanalisi che ha per scopo l’indagine e i contatti della psicoanalisi con altre culture. Grazie allo specifico sapere psicoanalitico, in grado di cogliere la complessità del lavoro con i migranti e con l’intero fenomeno che sappiamo essere attivatore di grande sofferenza psichica, è stato possibile fornire, lavorando in strutture d’accoglienza o comunque in contatto con i migranti, un contributo clinico scientifico in favore dei migranti e degli stessi operatori delle varie associazioni che, essendo in diretto contatto con i migranti, si fanno carico quotidianamente della sofferenza psichica di cui essi sono portatori silenti. È proprio quest’esperienza quotidiana di contatto con il disagio psichico profondo e con la sofferenza legata a traumi, sradicamento e lutto migratorio che ci spinge a scrivere e ad assumere una posizione critica, ritenendo che non si possa tacere sulle complesse e gravi condizioni in cui versano i migranti in Italia. La situazione, da tempo critica, si è drammaticamente aggravata dopo il varo e l’approvazione del “Decreto Sicurezza” che, contrariamente al termine “sicurezza”, sta già rendendo la condizione dei migranti e, consequenzialmente quella italiana, sempre più “insicura”. Concordiamo con quanto Lei afferma: “la vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza”. Ed è proprio a partire da questa Sua dichiarazione che pensiamo di poter affermare che la convivenza non è un dato, ma una paziente tessitura da costruire nel quotidiano, sfidando paure e diffidenze reciproche inevitabili. L’accoglienza e la convivenza possono essere prove difficili quanto l’esilio ed è per questo che vanno sostenute attraverso politiche e azioni sociali capaci di dare ascolto anche al disagio della popolazione residente, evitando che si radicalizzi quel cieco rifiuto che si sta attivando. È grave chiudere gli Sprar, in quanto sistemi di “accoglienza integrata”, che fino ad oggi non si sono occupati solo del sostegno fisico delle persone immigrate, ma hanno anche promosso percorsi di informazione, assistenza e orientamento, necessari a favorire un loro dignitoso inserimento socio-economico. Precludere queste opportunità non vuol dire solo annullare drasticamente gli Sprar, ma cancellare ogni possibilità di dare dignità alle persone sostenendo il loro legittimo diritto di aspirare ad una vita migliore e alla salute che, come sancito dall’OMS, “…è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità”. La nuova legge, di fatto, rende impossibile l’integrazione dei migranti in Italia, esponendoli ancora una volta al rischio di umiliazioni e sofferenze psichiche profonde e disumane. Non riconoscere più il permesso di soggiorno per motivi umanitari è disumano! Gestire il fenomeno migratorio come una pura questione di ordine pubblico è segno di pericolosa miopia. Noi pensiamo che sia urgente ripensare completamente anche le politiche migratorie, riaprendo, ad esempio, i canali regolari della migrazione da lavoro, come opportunità per avvalersi dell’apporto di energie nuove che sempre le migrazioni riuscite hanno rappresentato e che sono alla base di ogni autentico processo di integrazione. Quelli di noi che operano a Bologna, Genova, Milano, Roma, Trieste, Gorizia, Venezia, Caserta hanno visto, dopo l’approvazione della legge, da un giorno all’altro, centinaia di migranti lasciati in strada senza protezione. Diventati fantasmi, privati di tutto, uomini e donne che restano esposti al pericoloso circuito vizioso alimentato dalla condizione di bisogno estremo, vulnerabili e inermi, assoggettabili a contesti delinquenziali che possono spingerli/costringerli verso comportamenti anti sociali. Tragicamente inoltre sono aumentati percentualmente i morti in mare per la restrizione quasi totale della possibilità di operare salvataggi da parte delle navi di soccorso. Chi soccorre in mare può, paradossalmente rispetto alle leggi di mare, essere soggetto a processo per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina! Per non dire di ciò che accade nei percorsi di terra e nell’attraversamento dei deserti. Quanto poi ai rimpatri, essi, di fatto, sono semplicemente impossibili in assenza di accordi sicuri con le Nazioni di partenza. In questo contesto, è molto grave che l’Italia non abbia partecipato al Global Compact for Migration dell’ONU, accordo globale sull’accoglienza dei migranti approvato con il voto favorevole di 152 Paesi. È doveroso chiedersi da dove nasca questa ossessione per il migrante da parte dei nostri governanti, che generano e alimentano paure sociali, dal momento che gli sbarchi sono passati da circa 120.00 nel 2017 a 23.000 circa nel 2018. Siamo consapevoli che le paure possono accecare al punto da distorcere la percezione non solo dell’altro ma persino della propria stessa umanità. La disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente spostando sempre un po’ più in là l’asticella di ciò che è tollerabile. È questa la ragione per cui è ancora più necessario riuscire ad ascoltare anche quello che si cela sotto la paura, per trasformarla in possibilità di contatto con se stesso e con l’altro. Attraverso il nostro lavoro di psicoanalisti siamo vicini alle complesse realtà umane e sentiamo urgente lavorare e riflettere, anche al difuori del nostro ambito, sulla possibilità di elaborare il “male” per prevenire il rischio che il “male” possa essere agito. È necessario operare affinché l’inconsapevole distruttività, cui tutti siamo esposti, possa trasformarsi in conoscenza e comprensione generatrice di consapevole tensione verso il diverso, l’ignoto, l’altro. Non possiamo accettare il razzismo crescente che sfocia in atti di cui una nazione civile dovrebbe vergognarsi. È in atto un diffuso, impressionante processo di disumanizzazione. Noi analisti siamo sempre attenti quando vediamo negli individui, nei piccoli e nei grandi gruppi, fenomeni più o meno striscianti o palesi di razzismo e di disumanizzazione. Siamo sensibili per formazione professionale e cerchiamo di tenere a mente l’insegnamento della storia, anche perché nel periodo delle leggi razziali, la psicoanalisi fu vietata e molti colleghi di allora, perché ebrei, furono costretti a emigrare. Operando nel settore, non finiamo mai di stupirci di quanto dolore possa essere inflitto a un essere umano, anche senza volerlo, anche solo girando la testa dall’altra parte. Conosciamo le gravi conseguenze psichiche di tutto ciò che sta succedendo, sia in coloro che si sentono rifiutati ed emarginati, sia nei figli che avranno, sia in coloro che si trovano a dover operare in modo disumano e che rischiano essi stessi di impoverirsi dei valori fondamentali dell’esistere. Non siamo disposti, per tutti questi motivi, a vedere una parte dell’Italia abbracciare xenofobia e razzismo. Organismi internazionali come Amnesty International hanno segnalato questi gravi fenomeni razzisti e xenofobi in Italia. Un’altra Italia esiste e inizia a esprimere il proprio profondo dissenso: noi ne facciamo parte. Lavoriamo affinché i valori dell’ospitalità, della tolleranza, della convivenza e della responsabilità individuale per il futuro di tutti, siano mantenuti vivi. Siamo una “comunità di vita”, come lei ha definito il nostro Paese e, come tale, vogliamo continuare a esistere. Non possiamo tacere perché tacere sarebbe colpevole anche verso le generazioni future di figli e nipoti che ci potranno chiedere dove eravamo quando un’umanità dolente e in cerca della possibilità di ricostruire la propria identità spezzata e perduta, veniva respinta, emarginata o segregata in modo disumano. Ci rivolgiamo a Lei, Signor Presidente della Repubblica, nella Sua qualità di Garante della Costituzione e dei diritti umani e civili sui quali Essa è stata fondata, affinché questo appello, nato dalla nostra esperienza professionale, sostenuto dal nostro ruolo di cittadini e dalla nostra identità di esseri umani, abbia ascolto. Seguono 618 firme di Soci SPI Migranti. Il pastore eritreo e il boss, tragico scambio a Palermo di Simone Pieranni Il Manifesto, 10 febbraio 2019 Il giovane Medhanie Berhe creduto per errore un pericoloso trafficante di migranti. L’indagine di Lorenzo Tondo sul “Guardian” ora è libro: “Il Generale”, La Nave di Teseo. Il 24 maggio del 2016 a Khartoum viene arrestato un giovane eritreo. L’accusa è di essere a capo della tratta degli esseri umani che tentano di approdare in Occidente. In realtà si tratta di un incredibile errore: a essere arrestata è la persona sbagliata. Può accadere, oggi, con tutte le tecnologie a disposizione di magistrati e investigatori, una situazione del genere? A quanto pare sì: questa storia che sembra assurda e che ancora non è risolta, ha inizio nell’ottobre del 2013, quando in un drammatico naufragio a Lampedusa perdono la vita 368 migranti. Da allora e per anni, la procura di Palermo intercetta tutto quanto si muove intorno a un personaggio considerato “chiave” nell’odioso reato di traffico di persone. Si fa chiamare “Il Generale”, ha fama di assassino, di malavitoso pericoloso per tutti, perfino per chi lo incontra casualmente. E a conti fatti lo sarà perfino per chi neanche lo conosce ma ne condivide solo il nome di battesimo, comunissimo nell’area di provenienza del Generale. Da quell’ottobre 2013, il cerchio investigativo si stringe via via sempre di più, ma la procura di Palermo ha fretta, lo vuole catturare il prima possibile. L’indiziato sparisce per alcuni mesi, gli investigatori se ne accorgono analizzando l’attività del suo profilo Facebook. Pensano che il Generale gli sia sfuggito da sotto il naso. In realtà il boss è in carcere a Dubai, ma la procura non lo sa. Eppure, gli investigatori italiani hanno fama di grandi esperti: a livello europeo hanno portato tutto il know how in fatto di tecniche investigative apprese durante la lotta alla mafia. Intercettazioni, uso dei pentiti e poi carcere duro, sono gli strumenti nelle mani dello Stato contro le organizzazioni criminali. Il Generale - infatti - era stato agganciato: si erano ricostruiti i suoi legami di famiglia, gli spostamenti, le attività della moglie, dei parenti. Infine, viene arrestato. Ma in realtà non è lui, bensì un pastore eritreo, suo omonimo. L’uomo finito nelle maglie della procura italiana non è Medhanie Yedhego Mered, bensì Medhanie Berhe, uno che al Generale neanche assomiglia fisicamente - e saranno tanti a testimoniarlo, in Italia e all’estero. Così, quella che doveva essere la conclusione di un’indagine diventa l’inizio di un’altra storia che Lorenzo Tondo, giornalista del Guardian, racconta adesso in Il Generale (La nave di Teseo, pp. 148, euro 17,00). Di questa vicenda Tondo scrisse anche sul manifesto, provando a dipanare una matassa che ben presto sarebbe stata registrata a livello mondiale. Ma nonostante prove e buonsenso mettano in dubbio l’intero impianto accusatorio, la procura italiana tiene duro, trova escamotage e non si cura di quanto accade intorno alla propria inchiesta: ad esempio il fatto che il Generale anziché essere in carcere a Palermo, ricomincia i suoi traffici. Perfino quando a Palermo arriva la madre di Medhanie Berhe, non basta; il dna non dovrebbe lasciare alcun dubbio sull’errore commesso. Ma la procura non si smuove. E a questo punto Lorenzo Tondo, reporter, diventa egli stesso parte di questa storia, seguito da personaggi loschi e osteggiato dai magistrati. Nel Generale, però, non c’è solo la storia di due persone, perché la grande cornice che costituisce l’ambientazione della storia, purtroppo, è qualcosa di ben più tragico e collettivo. Tondo deve affrontare la brutalità del traffico di esseri umani, la situazione di un paese, più di altri la Libia, diventato crocevia di affari disumani: “Dalla morte del colonnello Gheddafi, nel 2001, gli interessi degli smuggler e quelli delle milizie convivevano e si intrecciavano sulla pelle dei migranti, in un lembo di terra che andava da Zuava fino alle coste di Misurata. Violenze e stupri perpetrati dai miliziani nei confronti dei profughi detenuti non erano di certo un segreto in Libia, come non lo erano dall’altra parte del Mediterraneo”. O ancora, Tondo è costretto ad analizzare il modus operandi dei trafficanti, sempre più astuto e sempre più in grado di adattarsi alle leggi dei paesi-obiettivo dei migranti: “Con una pistola puntata alla tempia, e a volte torturati più degli altri, i migranti venivano costretti a guidare i gommoni e, una volta arrivati a destinazione, finivano inevitabilmente in carcere, capri espiatori di una legge che, per giustificare l’ingresso illegale nelle acque territoriali di centinaia di migranti, aveva bisogno di individuare almeno un responsabile”. In tutto questo, però, Medhanie Berhe sembra essere un’ulteriore vittima: in carcere, rannicchiato a terra “riprende a contare un’altra alba”. Droghe. “Noi soli e senza aiuti”. Il dramma di vivere con i figli dello sballo di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 10 febbraio 2019 Il racconto di un genitore: insieme ad acquistare la dose Le crisi, le fughe dalle comunità, i legacci in ospedale. Le crisi, le fughe dalle comunità, i legacci in ospedale. Una delle tante lettere arrivate dopo l’inchiesta sul boschetto di Rogoredo e la diffusione delle sostanze low cost. “Non vorrei disturbare chi legge, con la nostra disperazione. E tuttavia credo che conoscerla possa servire a tutti”. Inizia così una delle tantissime lettere arrivate dopo l’inchiesta sul boschetto di Rogoredo e la diffusione delle sostanze low cost. A scriverla, un papà che il Corriere ha incontrato in una casa borghese in zona Niguarda. “Alessandro ha 18 anni appena compiuti. Tossicodipendente da quando ne aveva sedici. Eroina, crack, antidolorifici. I SerD sono focalizzati sui pazienti cronici molto più in là con gli anni, non hanno risorse per strutturare un sistema coordinato destinato agli adolescenti - racconta come un fiume in piena. Le attese per entrare in comunità sono lunghissime. Durano mesi. Ma i ragazzi vanno in craving (smania) di continuo. Vogliono farsi tutti i giorni. A casa picchiano, rubano, minacciano di uccidersi e di uccidere. Le relazioni di affetto si disintegrano, davanti all’urgenza di droga. Siamo arrivati a chiudere nostro figlio nella casa al mare, correndo anche dei rischi, per cercare di traghettarlo fino al giorno dell’ingresso in comunità. E anche quando finalmente entrano si fanno mandare via dopo poco. Basta un semplice atto di indisciplina perché non c’è un obbligo di legge alla cura. Non si può trattenere in ricovero nessuno senza il suo consenso. Neanche un minore”. È un nodo cruciale, questo. Forse qualcosa a livello normativo dovrebbe cambiare? Ma la cura, senza volontà, sarebbe efficace? “Siamo arrivati a buttare fuori casa Ale senza un euro, stando svegli tutta la notte con l’incubo di pensarlo in stazione o in overdose. Il ricatto era una possibilità per convincerlo alla cura. L’abbiamo anche denunciato perché un provvedimento penale è l’unica strada perché le comunità tengano questi ragazzi”. La speranza di una condanna del Tribunale: “Un amico di Ale, pregiudicato, è in comunità da un anno, come misura restrittiva stabilita per lui dal giudice per i minori come alternativa al carcere. Sta iniziando a studiare per il diploma. È fortunato”. Suo figlio invece dopo sole due settimane di comunità è uscito di nuovo. Difficile immaginare questo tunnel lunghissimo: “Sono andato con mio figlio al boschetto di Rogoredo, gli ho dato i soldi per farsi, ho aspettato che tornasse e l’ho riportato a casa per un po’. L’ho accompagnato al SerD più e più volte per prendere il metadone. Temporaneamente si è liberato dall’eroina ed è caduto nella trappola del crack., continua questo papà, professione dirigente, con la moglie insegnante e una figlia studentessa di liceo. L’ho visto in ospedale, legato ad un letto freddo di ferro, che si contorceva in maniera bestiale in crisi di astinenza, è una scena che non auguro a nessuno - continua. Il mese scorso era in craving terribile, ci minacciava brandendo un coltello, abbiamo chiamato il 118 e la polizia, si è barricato in stanza mezz’ora con gli operatori che non riuscivano a farlo ragionare. Alla fine sono riusciti a portarlo in ospedale, doveva starci almeno tre giorni, in Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Invece dopo un’ora, ripresi dallo shock, siamo andati a vedere come stava. Ebbene, arrivato in reparto aveva finto di calmarsi e non lo avevano ricoverato, il reparto psichiatrico del resto era pieno. Ci hanno detto che non dava sintomi di squilibrio, aveva solo voglia di drogarsi ed era libero di farlo”. La droga è un tunnel che inghiotte. Difficilissimo uscirne. “Forse c’è anche una azione di marketing in atto - azzarda -. Passa il messaggio che la cannabis è salutare, la chetamina cura, i suoni a bassissima frequenza che bruciano il cervello sono alternativi alle droghe. Ci sono caramelle energizzanti vendute nei bar con slogan “La tua dose giornaliera”. I ragazzini distinguono poco. Crescono con una idea in testa. Lo sballo”. Il crinale è sottile. Se i figli cadono, chi aiuta le famiglie a tirarli su? “Di tutto questo bisogna parlare - raccomanda il papà. Non dobbiamo avere vergogna. Siamo in tanti. Tantissimi. Io li vedo, ogni volta che vado in metropolitana o al boschetto di Rogoredo o nei parchi per recuperare Alessandro. Ci sono altri genitori come noi. Altri padri disperati”. Pena di morte. In Egitto a morte tre jihadisti, in Alabama giustiziato 24 anni dopo il reato La Repubblica, 10 febbraio 2019 Nello Zimbawe 34 pene capitali commutate. A Gaza 2 impiccagioni. In Kuwait un condannato indiano la fa franca pagando “il prezzo del sangue”. Le autorità egiziane - si apprende dal periodico report di Nessuno Tocchi Caino - hanno giustiziato tre prigionieri politici islamisti giovedì scorso, un anno dopo che erano stati condannati a morte con l’accusa di aver ucciso il figlio di un giudice, secondo gli attivisti per i diritti locali. Un attivista egiziano che conosceva i tre uomini ha detto che erano membri dei Fratelli Musulmani e avevano preso parte alle proteste contro il colpo di stato guidato dal presidente Abdel Fattah el-Sisi contro il suo predecessore Mohamed Morsi. I tre uomini erano gli studenti universitari Ahmed Maher Hindawi e Almotaz Ghanem, e il proprietario di una società informatica Abdel Hamid Metwalli. Il caso, noto sui media del Paese come “Il figlio del giudice”, risale al settembre 2014, quando uomini armati mascherati uccisero Mohamed el-Morelli, il figlio ventiseienne del vicepresidente della corte d’appello del Cairo, giudice Mahmoud el-Morelli, nella città del Delta del Nilo di Mansoura. A seguito dell’omicidio, le forze di sicurezza radunarono un certo numero di giovani di Mansoura, tre dei quali furono successivamente condannati a morte dopo aver confessato - secondo quanto riferito sotto tortura - di aver commesso il crimine. Alabama (Usa) - Dominique Ray, 42 anni, nero, è stato giustiziato giovedì scorso, 7 febbraio, senza vedere soddisfatta la sua richiesta di avere vicino un imam. L’esecuzione è avvenuta alle prime luci del giorno con una iniezione letale, nel carcere di Atmore, nella contea di Escambia. Aveva espresso il desiderio di avere vicino, durante l’esecuzione, il suo consigliere spirituale islamico, al pari dei detenuti cristiani solitamente assistiti da un cappellano. Ricevuto un diniego, aveva fatto causa allo Stato dell’Alabama e l’esecuzione era stata rinviata finché il più alto tribunale dello Stato non ha bocciato definitivamente la sua richiesta, dando il suo via libera all’iniezione letale. Lo Stato ha motivato il suo diniego con l’impossibilità di ammettere una persona esterna nella stanza delle esecuzioni. Un imam di fiducia del detenuto ha potuto assistere all’esecuzione da una stanza vicina. L’uomo era stato condannato per l’omicidio di una quindicenne, Tiffany Harville, avvenuto nel 1995, 24 anni fa. Nello stesso penitenziario di Atmore, l’anno scorso era stato giustiziato un disabile mentale, Michael Wayne Eggers, 50 anni, bianco. La sua “parziale” confessione. Ray era stato condannato a morte nel 1999, dopo che aveva parzialmente confessato il rapimento, lo stupro e l’omicidio di Tiffany Harville, 15 anni, avvenuti il 15 luglio 1995. Il caso era rimasto irrisolto per 2 anni, fino a quando nel 1977 Marcus D. Owden, a seguito di una “crisi spirituale”, si era costituito ed aveva fatto ritrovare il cadavere della ragazza, ed aveva indicato Ray come complice. Ray aveva confessato di aver partecipato al rapimento, ma attribuiva le responsabilità più gravi a Owden, che confessò anche gli omicidi di 2 fratelli, commessi il 4 febbraio 1994, perché i due avevano rifiutato di entrare nella gang di Ray e Owden. Per questi omicidi Ray era stato condannato all’ergastolo, perché all’epoca aveva 17 anni. Aveva chiesto di morire con la camera a gas. Ray ha pronunciato le sue ultime parole in arabo. Un’altra richiesta che Ray aveva fatto era di essere giustiziato con la camera a gas ad azoto, un metodo introdotto recentemente nel protocollo dell’Alabama. Sono circa 50 i detenuti del braccio della morte che hanno optato per il nuovo tipo di esecuzione ma, secondo la nuova legge, l’opzione andava esercitata entro il giugno 2018. Ray l’ha esercitata in ritardo, solo nel gennaio 2019, e la Corte Suprema oggi ha anche respinto quella parte del suo ricorso in cui chiedeva che il suo ritardo venisse giustificato a causa dell’incertezza sua e del suo assistente spirituale circa la liceità di un tale sistema di esecuzione secondo i parametri della legge islamica. Ray diventa la prima persona giustiziata quest’anno in Alabama, è invece la numero 64 da quando l’Alabama ha ripreso le esecuzioni nel 1983; la seconda dell’anno negli Usa e la numero 1.492 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Zimbabwe - Trentaquattro condanne a morte commutate in ergastolo. Il governo dello Zimbabwe ha commutato in ergastolo le sentenze di 34 detenuti nel braccio della morte, mostrando il proprio impegno verso l’abolizione della pena di morte in linea con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, ha detto un ministro del Gabinetto il 31 gennaio 2019. Ci sono 81 prigionieri nel braccio della morte del Paese, mentre il numero totale dei condannati all’ergastolo è ora 127. Il processo di commutazione in ergastolo dei rimanenti detenuti nel braccio della morte è ora in corso. La moratoria sulle esecuzioni aprirà la strada all’abolizione totale della pena di morte, secondo un documento presentato a nome del ministro della Giustizia, Affari Legali e Parlamentari Ziyambi Ziyambi da un alto funzionario del ministero, Charles Manhiri, presso lo Zimbabwe Staff College. Il governo sta implementando strategie e politiche volte ad abolire la pena di morte. Il ministro Ziyambi ha detto che il suo Ministero sta aspettando che il governo approvi le sue raccomandazioni sulla pena di morte. “Se il Gabinetto approverà la raccomandazione del Ministero di abolire la pena di morte, la disposizione costituzionale che consente l’imposizione della pena di morte sarà successivamente modificata”, ha affermato il ministro Ziyambi. Kuwait - Un condannato indiano salvo grazie al “prezzo di sangue. Un uomo del Tamil Nadu, che era stato condannato a morte per omicidio in Kuwait, ha ricevuto la commutazione in ergastolo dopo che la sua famiglia ha raccolto 3 milioni di rupie di “prezzo del sangue” per compensare la famiglia della vittima. L’uomo era stato condannato a morte per aver ucciso un uomo di etnia Keralite nel settembre 2013. La famiglia della vittima aveva chiesto 3 milioni di rupie come risarcimento per perdonare l’imputato. Gaza - Due condanne a morte per omicidio. A Gaza sono state emesse due condanne a morte in una settimana, ha reso noto il Centro palestinese per i Diritti umani (PCHR) il 4 febbraio scorso. Il giorno precedente, il Tribunale di primo grado di Deir al-Balah ha emesso una condanna a morte mediante impiccagione nei confronti di A. F. (32 anni), del campo profughi di al-Nussairat, dopo averlo riconosciuto colpevole dell’omicidio di un bambino. A. F. era stato condannato in precedenza all’impiccagione con le stesse accuse il 6 luglio 2010, ma la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza e rinviato il caso al Tribunale di primo grado per un nuovo processo. Il 29 gennaio 2019, il Tribunale di primo grado di Khan Younis ha emesso una condanna a morte contro Y.A. (30 anni) di Rafah City dopo averlo riconosciuto colpevole dell’omicidio di M.S. Iran. I 40 anni della rivoluzione ora fanno rima con disillusione di Camille Eid Avvenire, 10 febbraio 2019 L’Iran si avvia domani alla conclusione delle celebrazioni del 40esimo anniversario della rivoluzione khomeinista che ha determinato la fine della monarchia e la costituzione della Repubblica islamica. I “Dieci giorni dell’alba”, come viene definito il periodo intercorso tra il rientro, il primo febbraio 1979, di Ruhollah Khomeini dal suo esilio e la rimozione ufficiale dello scià Mohammed Reza Pahlavi, 1’11 febbraio dello stesso anno, sono stati marcati dalla grande amnistia concessa dalla Guida suprema, ayatollah Alì Khamenei, a oltre 50.000 detenuti, che saranno rilasciati entro sei mesi. Le celebrazioni avvengono, tuttavia, in un clima di frustrazione dovuto al ritiro americano, deciso nel maggio scorso, dall’accordo sul nucleare, e la conseguente ripresa delle sanzioni economiche contro il Paese. Seppure incalzante, la retorica ufficiale sui vantaggi apportati dalla rivoluzione non ha più lo stesso impatto rispetto a soli dieci anni fa. 1170 per cento della popolazione iraniana - passata dai 37 milioni del 1979 agli oltre 82,5 milioni oggi - ha conosciuto solo il regime degli ayatollah e non si sente direttamente toccato dai misfatti dello scià. Quelli, invece, che hanno accompagnato i moti rivoluzionari si chiedono dove siano finite le promesse fatte da Khomeini circa un generale benessere grazie una ridistribuzione delle ricchezze del Paese. L’impressione di molti iraniani è che a un regime monarchico repressivo e corrotto che, di fronte alla miseria popolare, ostentava la sua opulenza e l’arroganza di un piccolo ceto di privilegiati, sia semplicemente subentrato un regime “islamico” altrettanto repressivo e corrotto da cui traggono vantaggio nuovi cerchi di privilegiati e di parvenus. Anzi, alcuni non esitano a paragonare i poteri conferiti al Valie-fagih (la Guida suprema, ndr) a quelli un vero scià, dal momento che egli controlla l’ esercito, i pasdaran, la magistratura, i media statali e la politica estera, lasciando al presidente della Repubblica, eletto dal popolo, un piccolo margine di manovra nei temi sociali ed economici. Detto ciò, non si può non vedere l’enorme balzo in avanti compiuto dall’Iran in questi quattro decenni in diversi settori. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha stilato, pochi giorni fa, in un discorso altamente celebrativo della rivoluzione khomeinista, un lungo elenco delle conquiste realizzate “dallo Stato della Guida Suprema” a livello della cultura e dell’editoria, della lotta all’analfabetismo (quasi del tutto eliminato), del numero di università e della popolazione universitaria (soprattutto femminile), della ricerca scientifica e tecnologica, della medicina e della produzione farmaceutica, dei trasporti, dell’aeronautica civile, fino alla produzione delle armi. Nessun accenno di Nasrallah, però, all’inflazione galoppante o al preoccupante tasso di disoccupazione, in particolare tra i giovani. E tantomeno alle gravi mancanze dell’Iran a livello delle libertà pubbliche. La rivoluzione contro lo scià esprimeva, almeno ai suoi esordi, la rivendicazione da parte degli intellettuali, degli studenti e dei ceti urbani medi, di riforme sociali e di rispetto della libertà di espressione, di pensiero e di associazione previste nella Costituzione. Obbiettivi, questi, che l’appropriamento della rivoluzione da parte degli ayatollah ha soffocato sul nascere. Oggi, il bilancio sulle violazioni dei diritti umani in Iran resta drammatico e preoccupante. La Repubblica islamica continua a essere una delle peggiori prigioni al mondo per giornalisti, difensori dei diritti umani, artisti, avvocati, sindacalisti e studenti. Oltre a conservare il terribile primato, secondo solo alla Cina, di Paese con maggior numero di esecuzioni capitali: 993 nel 2017, 1.032 nel 2016, 1.634 nel 2016. Per il periodo 2005-2018, Amnesty International ha denunciato 87 esecuzioni di rei minorenni e identificato almeno 80 minorenni al momento del reato in attesa dell’esecuzione. In crescita anche l’influenza di Teheran nella regione. Il ruolo di “gendarme del Golfo” che lo scià giocava per conto di Washington è mutato nel corso degli anni fino a diventare oggi, grazie ai pasdaran e al generale Qassem Suleimani, quello di protagonista principale, dall’Iraq alla Siria e dallo Yemen al Libano. Elran può anche pretendere di “possedere” frontiere comuni con Israele, che non lesina occasione per attaccarlo in territorio siriano. “Espansionismo sciita” o mera strategia difensiva, non è chiaro. Di sicuro, questo “compito” non infervora particolarmente le masse iraniane, preoccupate più che altro per la caduta libera della moneta locale. Alle manifestazioni dell’anno scorso uno degli slogan più gridati era “né per Gaza, né per il Libano; noi vogliamo morire solo per l’Iran”. Il “nuovo scià” saprà ascoltarli, prima che sia troppo tardi?