Ergastolo e permessi premio, ora si apre uno spiraglio di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 9 dicembre 2019 Parla Giovanna Serra, garante per i detenuti del carcere di Badu e Carros: “Il pronunciamento della Corte Costituzionale dà una sterzata di civiltà”. A Badu e Carros alla notizia del pronunciamento della Corte Costituzionale si è levato un urlo corale, un applauso di incoraggiamento e fiducia. Quasi una liberazione perché qualcosa possa finalmente cambiare. Un grido di speranza che ha unito sia i detenuti con il fine pena mai, a quello degli altri condannati con pene minori. Quelle voci non potevano rimanere indifferenti per Giovanna Serra, avvocatessa e da nove mesi garante per i detenuti del Comune di Nuoro. “Finalmente la sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, apre nuovi scenari per i tanti detenuti condannati all’ergastolo ostativo” ha detto Serra. Anche a Nuoro sono diversi i casi di ergastolo ostativo, ben 13 su 270 detenuti. Quindi dopo questo pronunciamento della Corte Costituzionale (le motivazioni sono state depositate due giorni fa) si apre un varco anche per loro. “Sono persone che ho imparato a conoscere in questi mesi e a toccare con mano i loro drammi personali - spiega la garante. Mi sembra giusto cambiare rotta rispetto al passato, dare una sterzata di civiltà che fa breccia nella speranza e nella voglia di riscatto e di reinserimento nella società civile da parte di chi, dopo detenzioni particolarmente lunghe, con un impegno concreto nello studio vuole e desidera diventare una risorsa per la società, sentirsi di nuovo vivo - aggiunge. È un diritto che riguarda tutti perché coinvolge la sfera dei diritti alla persona. Quando ho saputo che in carcere la sentenza è stata accolta con un applauso collettivo ho avvertito l’emozione per un provvedimento epocale e coraggioso”. Giovanna Serra nominata garante per i detenuti nel febbraio dello scorso anno affronta con parole misurate le tematiche della detenzione. Dalle sue frasi emerge comunque una forte sensibilità per questo universo fragile e spesso ai margini dove troppo spesso ci si rifiuta di guardare. “Cerco di andare spesso a Badu e Carros, almeno due volte alla settimana. Ho incontrato tantissimi detenuti in questo periodo all’interno delle sezioni, altri li vedrò nei prossimi mesi. Li incoraggio a rifare le domande non solo per una denuncia ma anche per un dialogo, per un momento di ascolto che serva a fare luce sulla condizione di recluso” rimarca Giovanna Serra. Tra gli argomenti ricorrenti c’è quello dell’affettività. Ovvero poter incontrare con regolarità le proprie famiglie senza sottoporle ogni volta a viaggi sfiancanti e onerosi dal punto di vista economico soprattutto per quella parte consistente della popolazione carceraria che proviene dalle regioni del Sud d’Italia. “Vorrebbero essere avvicinati ai luoghi di residenza, poter vedere con regolarità figli e genitori anziani. Il punto di forza del detenuto è la famiglia e le difficoltà del carcere si affrontano meglio se ha la possibilità di vedere i familiari - sottolinea il garante. Un altro tema molto sensibile è la tutela della salute. In carcere purtroppo ci si ammala di più che all’esterno. Ho sollecitato delle giornate di prevenzione che mi auguro si facciano presto”. Gli squilibri di potere tra politica e giustizia di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 9 dicembre 2019 Quando i partiti cercano di riguadagnare le posizioni perdute incontrano la feroce opposizione di settori ampi dell’opinione pubblica. Con la ormai probabile abolizione della prescrizione nei processi penali siamo al punto di arrivo: dopo una pluridecennale attività che, provvedimento dopo provvedimento, ha dilatato sempre più la sfera di applicazione del diritto penale, siamo ora giunti alla “penalizzazione integrale” della vita sociale, pubblica e privata, italiana. Chi volesse saperne di più su quanto è accaduto negli ultimi anni dovrebbe consultare Filippo Sgubbi, Il diritto penale totale (edito da Il Mulino) deliberatamente scritto per essere di facile lettura e comprensione anche da parte dei non addetti ai lavori. In un certo senso la fine della prescrizione è quanto di più vicino ci sia alla introduzione della pena di morte: non morte fisica naturalmente ma morte civile di sicuro. Perché un disgraziato che ci cade dentro avrà la vita rovinata per sempre. L’abolizione della prescrizione però è la ciliegina sulla torta. L’ultimo strappo in un movimento pluridecennale di erosione costante delle garanzie individuali, la definitiva trasformazione, secondo un’antica battuta mai come ora attuale, dello Stato di diritto in Stato di rovescio. Quanto oggi passa - penalmente parlando - il convento, fa apparire il codice Rocco, promulgato ai tempi della Buonanima, come faro e testimonianza di civiltà giuridica. Però a ciascuno il suo mestiere. In tema di dinamiche giuridiche spetta agli esperti di diritto spiegarci le conseguenze di quanto sta accadendo. A me interessa ragionare sulle (lontane nel tempo) cause politiche della situazione attuale. La dilatazione abnorme della sfera di applicazione del diritto penale, la sua incombenza, opprimente e arbitraria, su ogni aspetto della vita civile non sarebbero stati possibili se, a un certo punto, non fosse avvenuto un radicale ribaltamento dei rapporti di forza fra potere politico-rappresentativo e potere giudiziario. Una prova di quell’avvenuto ribaltamento si ebbe quando nella primavera del 1993 bastò una incendiaria apparizione televisiva del pool di Mani Pulite per fare insorgere il Parlamento contro l’allora governo Amato costringendolo a ritirare un provvedimento sgradito alla Procura di Milano. Alla scassatissima, imperfettissima, democrazia liberale italiana si era ormai sostituita una altrettanto scassata democrazia giudiziaria. È da quei tempi che l’espressione “potere forte” (usata, in anni precedenti, dalla sinistra comunista per indicare il grande capitale) è ormai sinonimo di potere giudiziario, con speciale riferimento alla sua componente inquirente. Ciò detto bisogna non cadere nella trappola di credere che in questa vicenda contino soltanto le élite, che tutto si risolva nel contestuale indebolimento delle élite politico-rappresentative e nel rafforzamento di quelle giudiziarie. Perché questa trasformazione, questo ribaltamento dei rapporti di forza fra politica rappresentativa e magistratura inquirente ha goduto e gode di ampi consensi nel Paese, corrisponde a una vocazione e a una tradizione illiberali (o anche, diciamo francamente: liberticida) nella quale si riconoscono tanti cittadini italiani. Si tratti di scudi legali a protezione dei parlamentari o di freni al regime di intercettazione selvaggia qui vigente, non c’è stato mai un tentativo della politica di riguadagnare le posizioni perdute che non incontrasse la feroce opposizione di settori ampi dell’opinione pubblica. Settori ai quali sarebbe fiato sprecato tentare di spiegare che la “lotta ai corrotti” in nome della quale è avvenuta la penalizzazione integrale della vita pubblica si è rivelata, puramente e semplicemente, un fallimento totale e che le strade per bonificare quanto va bonificato dovrebbero essere molto diverse da quelle fin qui percorse. La prova più evidente di come il debordare dell’azione penale e i sentimenti profondi di una parte non irrilevante del Paese siano coerenti e in sintonia è dimostrato da quanto accade quando di tanto in tanto emerge una leadership politica che promette di essere forte. In quasi tutte le altre democrazie occidentali leader forti emergono - si chiamino Merkel o Thatcher, Reagan o Sarkozy, Gonzales o Bush, eccetera - e anche quando inciampino in inchieste giudiziarie (inchieste della magistratura ordinaria intendo) non corrono per lo più grossi rischi personali. In Italia è diverso. Qui da noi quando emerge un leader che per le sue caratteristiche promette di essere un leader forte, sappiamo tutti che c’è un Piazzale Loreto che lo aspetta: Craxi, Berlusconi, Renzi. Scommetto che molto presto arriverà anche il turno di Salvini. Semplicemente, la democrazia giudiziaria non è compatibile con leader forti. E può contare su un’ampia riserva di consensi popolari. Non ci si faccia ingannare dai sondaggi che indicano maggioranze a favore dell’uomo forte. Questa è solo un’altra dimostrazione dei bassi consensi di cui gode la democrazia rappresentativa. Una parte di coloro che apprezzano l’uomo forte ha anche sempre apprezzato gli interventi giudiziari in politica. Dal punto di vista dei fautori della democrazia giudiziaria, una leadership politica forte, ancorché democratica, sarebbe comunque una minaccia per lo status quo: potrebbe riuscire prima o poi a riequilibrare i rapporti di forza fra potere rappresentativo e potere giudiziario. Si ricordi che i settori più politicizzati della magistratura erano apertamente schierati per il “no” nel referendum costituzionale del 2016. È chiaro il perché. Una vittoria dei “sì” avrebbe determinato un rafforzamento eccessivo (dal punto di vista di quei settori della magistratura) della posizione politica di Matteo Renzi. Una eventualità ritenuta, a ragione o a torto, pericolosa per gli equilibri ormai consolidati. È proprio grazie all’ampia riserva di consensi di cui continua a godere nel Paese che la democrazia giudiziaria è in una botte di ferro. Perché quei consensi garantiscono ai settori più militanti del potere giudiziario di poter contare sulla sicura connivenza di frazioni quantitativamente importanti della classe politica. Oggi i 5 Stelle, ieri una parte del Pd. Chi ama negare le specificità italiane suole ricordare che il ruolo dei magistrati è cresciuto, in virtù di un insieme di complicati processi sociali, in tutte le democrazie. È vero ma si tratta solo di una mezza verità. Mentre la democrazia rappresentativa, di questi tempi, soffre un po’ ovunque nel mondo occidentale, l’Italia, con la sua debole classe politica e la sua rampante democrazia giudiziaria, sta percorrendo da tempo una sua strada originale. Ma è una strada che non porta in Paradiso. Prescrizione, pressing del Pd: vertice e patto di maggioranza di Emilio Pucci Il Messaggero, 9 dicembre 2019 L’obiettivo del Pd è portare a casa qualche risultato entro la fine dell’anno, stendere un documento firmato dai capigruppo della maggioranza nel quale sancire nero su bianco che l’entrata in vigore della riforma della prescrizione venga accompagnata da una norma di garanzia sulla durata ragionevole del processo. Ma l’ordine di scuderia del Nazareno ai parlamentari è stato quello di abbassare i toni, evitare in piena campagna elettorale in Emilia Romagna di acuire la tensione con MSS. Del resto c’è già la legge di bilancio ad essere una partita complicata, inutile accendere altri incendi. Ed allora il Partito democratico spingerà nei prossimi giorni affinché si tenga un vertice della giustizia (possibile tra martedì e mercoledì), dopo aver dato prova di compattezza sia sulla riforma del processo civile che ha avuto il via libera del Cdm, sia sul no all’accelerazione al ddl Costa che punta allo stop della riforma Bonafede. Le opposizioni parlano di scambio sul tema intercettazioni, sul fatto che i pentastellati non si opporranno alla riforma Orlando, che si arriverà ad un decreto per inserire alcune osservazioni arrivate dai magistrati. In realtà dell’argomento ai vertici che si sono tenuti finora, anche quelli a palazzo Chigi, se ne è parlato pochissimo, non è mai stato un tema divisivo e in ogni caso i dem sono disponibili eventualmente a discutere delle modifiche, non ne fanno insomma una questione di priorità. La preoccupazione è solo legata ai correttivi da apportare alla norma inserita nel dl Spazza-corrotti, sull’onda anche delle proteste delle Camere penali e delle richieste dell’Anm. Ma ormai è passata la tesi che gli effetti della riforma della prescrizione si vedranno nei prossimi anni, dunque inutile agitare le acque. C’è insomma fiducia nel presidente del Consiglio che due giorni fa ha parlato di “soluzione tecnica vicina” e nel Guardasigilli. Il premier infatti ha fatto sapere che l’idea di estendere i tempi della sospensione dopo il primo grado previsti dalla riforma Orlando (da18 mesi fino a 3 anni) potrebbe andare bene. E quindi occorrerà vedere quale sarà lo strumento con cui siglare l’intesa. L’orientamento è quello di agire con una legge da approvare in Parlamento, non con un dl. I dem comunque sono aperti a diverse opzioni: ad una soluzione ponte ma anche all’eventualità che il lodo individuato possa essere inserito nella riforma del processo penale e partire tra un anno, non per forza subito. Solo che Renzi resta sul piede di guerra. Con la riforma Bonafede - ripete da tempo - si nega la giustizia, non la si agevola. E così fonti parlamentari di Italia viva sottolineano che l’accordo Pd-M5s è “una presa per i fondelli”, che al momento l’unica strada dovrebbe essere quella del rinvio. Tuttavia gli stessi renziani sono consapevoli che alzare ancor di più il tiro e votare, per esempio, insieme a Fi il ddl Costa porterebbe ad una crisi che nessuno vuole in questo momento. In ogni caso il provvedimento firmato dall’esponente azzurro non andrà in Aula nel 2019 e così la possibilità di uno scontro all’arma bianca è rinviato. I dem però fanno sapere che è falsa la tesi di un “do ut des” con i pentastellati. “Il tema della prescrizione non è affatto legato a quello delle intercettazioni”, assicura per esempio il deputato Bordo. “Si è aperta nel governo - dice il senatore Pd Mirabelli - una interlocuzione concreta, c’è la volontà da parte di tutti di trovare il modo affinché i processi non siano infiniti”. Csm, inchiesta sulla guerra tra correnti di Giovanni Altoprati Il Riformista, 9 dicembre 2019 Il sospetto che al Consiglio superiore della magistratura esistesse (o esista) “un sistema” per la spartizione delle nomine, come affermato dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, diventa certezza leggendo alcune delle telefonate intercettate nell’inchiesta di Perugia che lo coinvolge. Un “sistema” del quale tutti sono perfettamente a conoscenza. Protagoniste assolute della lottizzazione sono loro, le correnti della magistratura, sulla carta “associazioni culturali”, di fatto dei fortissimi gruppi di potere che condizionano pesantemente il sistema giudiziario del Paese. La loro influenza è indiscussa, al punto che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, la scorsa settimana è stato costretto a una precipitosa retromarcia sul sistema elettorale del Csm. Mandando definitivamente in soffitta il sorteggio, l’unico mezzo per affossarle una volta per tutte. Le maggioranze al Csm si compongono e scompongono a seconda del momento. I rapporti fra le correnti sono fluidi. E le discussioni sulle nomine assomigliano a quelle che avvengono nei suk, dove vige il baratto. Le sorprese non mancano: non è raro assistere a sorprendenti ribaltamenti di fronte di difficile comprensione per chi non è avvezzo a tali dinamiche. Prima che la vicenda sulla nomina del nuovo procuratore di Roma travolgesse a maggio l’organo di autogoverno delle toghe, costringendo alle dimissioni ben cinque consiglieri togati e il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, l’attenzione degli inquirenti di Perugia si era concentrata su altre due nomine di peso: Taranto e Palermo. Unicost, la potente corrente di centro della magistratura di cui Palamara è stato per anni il ras indiscusso, funge da ago della bilancia. Votando una volta con la destra di Magistratura indipendente e l’altra con la sinistra giudiziaria di Magistratura democratica. Scopo finale, sempre quello: portare a casa il massimo dei direttivi. Certe volte l’operazione va a buon fine, altre volte meno. L’importante però è il controllo “militare” degli iscritti e dei rappresentanti togati al Csm. Il rischio, infatti, è che qualcuno di questi si monti la testa e inizi a votare non seguendo gli ordini di scuderia. Ciò sarebbe, appunto, la fine del “sistema”. Carlo Maria Capristo e Francesco Lo Voi sono i due procuratori su cui i magistrati di Perugia vogliono vederci chiaro. L’attuale consiliatura del Csm a guida David Ermini si è insediata da poche settimane quando il dieci dicembre del 2018 i magistrati perugini chiedono gli atti che hanno portato alla nomina dei due magistrati. Ed è la nomina di Capristo, avvenuta a maggio del 2016, ad accendere i riflettori. Con un aspetto inquietante alla luce di quanto sta accadendo in queste ore a Taranto per la vicenda ex Ilva. Capristo, allora procuratore di Trani, sarebbe stato convinto dall’avvocato siciliano Piero Amara, poi coinvolto nei falsi dossier Eni, a fare domanda per la Procura di Taranto, vacante dopo il pensionamento di Sebastio. La sua presenza a Taranto, secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti a maggio del 2018, sarebbe servita per gestire le vicende relativa all’Uva, dove l’avvocato Amara aveva degli interessi importanti. Amara, secondo l’imprenditore Giuseppe Calafiore, anch’egli coinvolto nell’inchiesta, non avrebbe avuto problemi a raggiungere il suo scopo in quanto aveva all’epoca rapporti “con mezzo Csm”. Le nomina di Capristo, candidato di Unicost, avviene il 23 marzo 2016 con 15 voti. Diverso il caso della nomina di Lo Voi. Palamara aveva votato Guido Lo Forte, il candidato di Unicost. Accade l’imprevisto. Lo Voi, con i soli voti dei tre togati di Magistratura indipendente, la sua corrente, e dei laici, diventa procuratore di Palermo. La sinistra di Area-Md che in quella partita aveva un suo candidato, Sergio Lari, contesta il verdetto. Sia Lari che Lo Forte, senza successo, ricorreranno al giudice amministrativo. Area, che aveva osteggiato la nomina di Lo Voi, lo scorso maggio decide di puntare su di lui come candidato per la Procura più importante d’Italia, quella di Roma che vale come due ministeri. Un cambio di rotta che sorprende molti. I timori di Palamara emergono il 3 marzo scorso parlando con Massimo Forciniti. I due sono stati quattro anni insieme al Csm. Devono continuare a mantenere la capacità di influenzare le nomine. “Abbiamo fatto miracoli” in quattro anni, dicono con nostalgia. Per avere ancora voce in capitolo propongono come nuovo segretario di Unicost Mariano Sciacca, giudice a Catania, anch’egli ex componente del Csm. Il diretto interessato pensa di essere debole. Ma per i due è fondamentale la sua presenza al vertice della corrente. Hanno timore di qualche colpo di coda da parte di Area-Md. Con cui bisogna necessariamente avere buoni rapporti per i prossimi quattro anni. Anche se la sinistra giudiziaria non ha più la maggioranza al Consiglio superiore della magistratura. Stragi, la regola italiana: “Nessuno sappia la verità” di Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2019 La strategia della tensione ha lasciato in eredità molti misteri dolorosi: in 15 anni, dal 1969 al 1984, 227 morti e 819 feriti. La bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano è l’archetipo: “Nessun colpevole”. Tempo fa un giornalista americano da anni in Italia mi ha chiesto come mai negli Stati Uniti tutti sanno che gli autori dell’attentato suprematista di Oklahoma City (1995: 168 morti, 672 feriti) sono stati rapidamente scovati e condannati (il capo Timothy McVeigh, giustiziato), mentre qui da voi se domandi chi ha messo la bomba a piazza Fontana, roba di mezzo secolo fa, nessuno ti sa rispondere. Sbagli non si tratta soltanto di Milano, ho replicato: prova a chiedere in giro se qualcuno sa chi sono stati gli autori dell’attentato di Brescia a piazza della Loggia, o della strage alla stazione di Bologna. E le bombe sui treni? E il Dc9 di Ustica? Misteri dolorosi (costati nell’arco di quindici anni, dal 1969 al 1984, 227 morti e 819 feriti) e destinati a restare tali per sempre. Poiché, a differenza del resto del mondo civile dove tutti devono conoscere la verità, qui da noi vale la regola opposta: nessuno deve sapere. Un indegno scordiamoci il passato che vorrebbe farci dimenticare i funerali con le folle che chiedevano giustizia. Quei vagoni calcinati dalle fiamme. Quei bimbi dilaniati che stringevano tra le manine i pacchetti di Natale. I corpi martoriati, le urla disperate, lo smarrimento di una nazione. Come è stata possibile questa rimozione collettiva, la perdita completa della memoria illuminata solo dalla cadenza degli anniversari? Tre sono le cause profonde del triangolo delle Bermude della menzogna, chiamata strategia della tensione: lo Stato deviato, la giustizia discordante, l’informazione intossicata. Dei primi due fattori si è detto (quasi) tutto. Conosciamo l’attività della struttura paramilitare clandestina Gladio (creata durante la guerra fredda in funzione anticomunista), con elementi reclutati nell’eversione di destra più scatenata che si servivano per gli attentati del materiale esplosivo dei depositi Nasco. Sappiamo dell’azione capillare di copertura dell’attività stragista orchestrata dalle strutture dei servizi segreti, servi di due padroni. La Cia, con le sue articolazioni, interessata a destabilizzare presenza e ruolo del partito comunista più forte dell’Occidente nel Paese cerniera della guerra fredda tra Est e Ovest. E la P2, che a queste finalità aggiungeva il tentativo (riuscito) di scalare i pubblici poteri a cominciare dagli apparati della sicurezza interna. Quanto alla magistratura nessuno può affermare che le toghe non abbiamo fatto il loro dovere. Alcuni magistrati, più testardi di altri, sono arrivati a un passo dalla verità dei fatti. Ma, appunto, la rete delle deviazioni, dei depistaggi, delle coperture organizzata dagli apparati paralleli dello Stato hanno quasi sempre impedito che le montagne di indizi diventassero prove indiscutibili. Cosicché le Corti non potevano dire: “Questa è la verità e questi sono i colpevoli”; bensì: “Essendo impossibile accertare verità e colpevoli, dobbiamo assolvere”. Ma cosa c’entra l’informazione? O meglio, la disinformazione? Anni fa mi capitò di parlarne con un magistrato che univa all’esperienza delle indagini sul terrorismo la conoscenza delle tecniche di intossicazione dei media messe in atto dai servizi paralleli. Mi spiegò che una tecnica raffinata, e molto usata, era quella dei finti scoop. Quegli agenti, infatti, conoscevano bene quanto la normale competizione tra le testate giornalistiche potesse assumere caratteri e modalità ossessive in presenza dello stragismo. Si agiva facendo arrivare a questo o a quel giornalista, in contatto con le fonti investigative, una qualche “clamorosa novità” in grado di sovvertire di colpo la gerarchia delle notizie pubblicate sulla vicenda. A quel punto, come sempre, le altre testate partivano alla caccia di documenti segreti, informazioni riservate, verbali secretati ecc. in grado di smentire la concorrenza e di imporre una nuova “verità” all’opinione pubblica affamata di certezze. Così di seguito finché attraverso l’accumulo progressivo di verità e contro-verità, di “misteri svelati” a loro volta contenitori di misteri successivi, come nelle scatole cinesi, non si alzasse un denso polverone che nascondeva tutto. Cosicché, nella pubblica opinione disorientata e confusa non si facesse strada la resa psicologica di chi preferiva rassegnarsi nella dimenticanza. Piazza Fontana rappresenta l’archetipo di questa piramide dell’oblio programmato. Da Pietro Valpreda, ballerino anarchico, mostro sbattuto in prima pagina poi prosciolto. Al ferroviere Giuseppe Pinelli, innocente, “caduto” dalla finestra della Questura di Milano. Ai neofascisti Freda, Ventura e Giannettini, condannati e assolti. Ai vertici dei Servizi, Maletti e Labruna, condannati per depistaggio. Ai camerati Delle Chiaie e Fachini, processati e assolti. E quindi Delfo Zorzi, condannato all’ergastolo ma nel frattempo fuggito in Giappone. Fino alla parola fine pronunciata nel 2005 dalla Cassazione: stabilisce che la strage fu opera del gruppo eversivo padovano capitanato da Freda e Ventura. Purtroppo non più perseguibili perché già assolti con giudizio definitivo. Ignoti gli esecutori materiali. Il cerchio si chiude. Ma allora la bomba chi l’ha messa? Nessuno. Femminicidio, il Colle con le orfane. L’Inps non chiederà il risarcimento di Giovanna Cavalli Corriere della Sera, 9 dicembre 2019 Mattarella chiama il ministro del Lavoro. L’ente di previdenza: non ci sarà alcun atto esecutivo. Per le due sorelline di Massa Carrara, orfane di femminicidio, a cui l’Inps con freddo automatismo burocratico aveva richiesto un risarcimento danni di 124 mila euro, si prospetta un lieto fine, almeno amministrativo, grazie all’intervenuto diretto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri mattina ha chiamato il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, per parlare della doppiamente triste vicenda. Cominciata il 28 luglio di sei anni fa, nel 2013, quando il padre delle piccole, Marco Loiola, operaio di 40 anni, prima di uccidere l’ex moglie Cristina Biagi, 38enne, e poi suicidarsi, aveva sparato sei colpi di pistola contro un altro uomo - convinto che fosse l’amante di lei, e non lo era - rimasto gravemente ferito e con un’invalidità permanente. Poco tempo fa le due ragazzine, che adesso hanno 14 e 12 anni e vivono con i nonni materni, avevano ricevuto l’ingiunzione di pagamento, completa di Iban del conto corrente su cui effettuare il versamento, nel termine perentorio di dieci giorni. Tutto formalmente corretto, benché disumano, perché, secondo la legge, spetta agli eredi rimborsare l’istituto di previdenza per le spese sanitarie sostenute e l’assegno devoluto al sopravvissuto. Era stato lo zio delle Loiola, Alessio Biagi, ad appellarsi al Colle, chiedendo aiuto per una “vicenda legale umanamente orribile” ed è stato ascoltato. La telefonata del capo dello Stato si è dimostrata risolutiva. Mentre il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha subito fatto sapere che si è trattato di una procedura “dovuta” ma che non ci sarà assolutamente alcun atto esecutivo, il ministro Catalfo e la collega delle Pari opportunità e Famiglia, Elena Bonetti, annunciano di aver già convocato un tavolo comune urgente con il titolare dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri e con Tridico “per trovare una soluzione che tuteli tutte le persone coinvolte, a cui lo Stato è umanamente vicino”. Intanto la deputata del Pd, Martina Nardi, concittadina delle figlie di Cristina Biagi, ha “già scritto e pronto” un emendamento che disciplini l’aspetto delle rivendicazioni dell’Inps in casi come questo, da inserire nella legge di stabilità o che agisca sul fondo per gli orfani di femminicidi: “Permetterà di intervenire su tanti altri casi simili, per dare la possibilità allo Stato di pensare davvero al loro futuro”. La delegazione del Movimento Cinque Stelle nella commissione d’inchiesta del Senato sul femminicidio in una nota ringrazia tutto il governo per l’interessamento sollecito, nella convinzione che “si troverà certamente la soluzione più ragionevole che tenga conto di tutte le esigenze. Stiamo parlando di due ragazze che hanno perso entrambi i genitori in tragiche circostanze e di una persona anch’essa travolta dalla furia omicida di un uomo, che si è salvata per miracolo e oggi subisce pesanti conseguenze fisiche e psicologiche”. La prevalenza dell’assurdo di Stefano Bartezzaghi La Repubblica, 9 dicembre 2019 Il risarcimento chiesto a due bambine orfane di femminicidio. Invece che “come è potuto succedere?” dobbiamo chiederci: “Come è stato possibile evitarlo?”, ed è un sollievo buono. L’esperienza ci ha infatti consigliato da tempo la rassegnazione: nulla riuscirà mai a scongiurare gli effetti di una necessità formale, per quanto possano essere assurdi sino a insultare le intelligenze. È il significato profondo della parola “burocrazia”: potere dell’Ufficio, e impotenza degli officianti. Così a sorprendere è che per una volta si sia invece ottenuta una garanzia ragionevole: l’Inps si è impegnato a rinunciare a quel risarcimento di 124 mila euro che pure aveva già, formalmente, richiesto a due sorelle di quattordici e dodici anni. Prima di suicidarsi, il padre aveva ucciso la loro madre e aveva reso invalida una terza persona, quella per cui l’Inps intendeva rivalersi su di loro. Morto il responsabile del danno, la legge stabilisce che a risarcirlo siano gli eredi, anche se si tratta di due minorenni che sono a loro volta vittime almeno tre volte di quel fatto abnorme: hanno perso la madre, hanno perso il padre, hanno perso la possibilità di avere una qualsiasi idea, minimamente tollerabile, della propria famiglia d’origine. Ma si sono mosse tre ministre, è intervenuto il presidente della Repubblica e l’inesorabilità della procedura è stata sospesa. Una soluzione si troverà. Per quanto prontamente verrà chiuso, il caso delle due sorelle aperto però lo è stato. In un Paese in cui della famiglia si dice condivisa una visione in apparenza idealistica (ma, nei fatti, ideologica e strumentale) sarà possibile trovare accorgimenti perché in casi consimili le colpe dei padri non ricadano automaticamente sui figli? Un’eventuale nuova legge (ammesso che la si voglia scrivere e votare) non potrà mai disporre del tutto della propria applicazione, prevedere ogni evenienza. E logica vorrebbe che, se a far danno è l’ottusità con cui viene applicata, si modifichi non la regola ma l’applicazione. Lungimiranza, saggezza, realismo in chi agisce applicando norme ma anche in chi controlla e giudica le sue azioni. Sono valori che parrebbero ovvi ma che rischiano di divenire utopistici, nei tempi in cui gli unici accordi possibili sono i contratti e in cui per “forma” non si intende la griglia che ci permette di discernere il senso nel continuo del mondo ma l’involucro immateriale che resta quando del senso dell’umano il mondo lo abbiamo svuotato. Processi, risarcimenti e burocrazia. Così lo Stato si accanisce sulle vittime di Luca Fazzo Il Giornale, 9 dicembre 2019 Fa discutere il caso delle due ragazze a cui l’Inps ha chiesto un risarcimento di 124mila euro dopo che il padre aveva ucciso la madre e ferito un uomo, prima di suicidarsi. Mattarella ha convocato i ministri per chiedere di fermare la maxi richiesta, ma purtroppo le leggi dello Stato spesso sono vessatorie più per le vittime che per i colpevoli. E non solo per chi reagisce a un’aggressione. Tragedie che segnano una vita, sofferenze da cui non ci si riprende più. E nelle quali un giorno fa irruzione lo Stato, non per dare una mano ma per infierire, chiedendo alle vittime il conto del dramma inciso sulla loro pelle. La storia delle due sorelle di Massa cui l’Inps chiede 124mila euro è solo l’ultimo campione di una lunga serie di storie incredibili. Protagonista fissa, invariabile: la burocrazia pubblica. Che in tutte le sue incarnazioni - giudiziaria, fiscale, previdenziale - mantiene la caratteristica fondante di ogni burocrazia: è stupida. A volte c’è rimedio, a volte no. Ci sono casi che passano sotto silenzio, e altri - come questo di Massa - che sollevano indignazione e scalpore, al punto che lo Stato deve fare marcia indietro. Ma come non notare che la notizia delle due sorelle arriva a ridosso del cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana, nel cui tortuoso iter giudiziario l’unica condanna è quella rifilata ai parenti delle vittime, obbligati dalla Cassazione a risarcire le spese di giudizio dopo l’assoluzione dei presunti colpevoli? D’altronde si tratta di una costante di molti processi: chi chiede di avere giustizia e non la ottiene, si ritrova con l’insulto di dover pagare i danni. Una norma che il codice penale prevede per impedire le azioni infondate o pretestuose si trasforma in un incentivo a tacere, a non denunciare. Ne sanno qualcosa l’imprenditore siciliano e le associazioni antiracket che nel 2017 ebbero il coraggio di costituirsi parti civili contro i boss e i gregari dei clan di Bagheria: gli imputati vennero tutti assolti, e le parti civili condannate alle spese. A volte è difficile immaginare i percorsi mentali che, sfidando il buon senso, portano il burocrate di turno ad avanzare le sue pretese. Nel 2013 i familiari di altre vittime, quelle della strage di Ustica, rimasero di sasso quando appresero che l’Avvocatura dello Stato intendeva fare ricorso per impedire che ottenessero il risarcimento previsto dalla legge. La stupidità della burocrazia sembra non fare distinzioni tra tragedie collettive e drammi individuali. La vicenda di Massa, per esempio, ha un precedente assai simile: nel 2015 il padre di una ragazza sventurata, che dopo essere stata violentata dal suo professore e averlo denunciato si era tolta la vita, si vide recapitare dal tribunale romagnolo la condanna a versare 40mila euro al padre dello stupratore, per risarcirlo del dolore e dello stress. A Milano qualche tempo prima fece scalpore il caso di un altro padre, cui erano stati assassinati entrambi i figli, cui il Comune inviò una raccomandata per obbligarlo a ritirare dall’obitorio i corpi dei due ragazzi minacciando in caso contrario di inviare una segnalazione all’Asl. Peccato che i due corpi fossero ancora sotto sequestro su ordine della magistratura. Esiste una categoria a parte, ed è quella dei cittadini che vengono aggrediti dai rapinatori nei loro negozi e nelle loro abitazioni reagiscono e poi si vedono chiedere i danni dai criminali o dai loro familiari. Inevitabile, quando il negoziante viene condannato per omicidio colposo o volontario. Ma ci sono anche casi in cui il negoziante è stato assolto, perché un giudice ha riconosciuto che si è limitato a difendersi, eppure la richiesta di danni arriva lo stesso: accade, per esempio, a Franco Birolo, tabaccaio padovano, riconosciuto innocente in tre gradi di giudizio, che nel febbraio scorso è stato citato in giudizio dai familiari del ladro che aveva ucciso mentre cercava di entrargli in casa. Le aule giudiziarie sono l’habitat preferito di queste assurdità, ma la stupidocrazia non conosce confini. A presentare il conto alle due incolpevoli orfane di Massa è stato l’Inps. A pretendere che una reduce dalla chemioterapia (come raccontava ieri il Corriere della Sera) giustificasse la spesa per la parrucca è stata l’Agenzia delle entrate: lo stesso fisco che quando un imprenditore si uccide sotto il peso delle tasse, manda abitualmente il conto ai suoi figli. Denuncia penale su due binari. Fondatezza dal giudice di I grado, rimedi dal tributario di Emilio De Santis Italia Oggi, 9 dicembre 2019 Analisi del panorama normativo e giurisprudenziale alla luce di recenti pronunce. Se la denuncia penale è infondata, il rimedio è affidato al giudice tributario. Ma non essendo tale atto annoverato tra quelli impugnabili definiti dall’art. 19, comma 1 del Dlgs n. 546/92, la decisione sulla fondatezza della denuncia è rimessa al giudice del primo grado, laddove il contribuente ne abbia fatto esplicita richiesta impugnando l’avviso di accertamento. Il che può avvenire magari diversi anni dopo la scoperta del presunto reato. Questo quanto emerge dall’analisi del panorama normativo e giurisprudenziale. È oramai questione pacifica che il raddoppio dei termini, prima e dopo le modifiche apportate dal Dlgs 12/2015 e dalla legge 208/2015, sia del tutto indifferente rispetto alle sorti del procedimento penale avviatosi con la denuncia presentata dalla Guardia di finanza o dall’Agenzia delle entrate all’Autorità giudiziaria, naturalmente a riguardo dei periodi di imposta fino al 2015 compreso, essendo espunto, con l’art. 1, commi 130-132, della legge 208/2015 il regime del raddoppio dei termini per gli anni successivi. Dottrina e giurisprudenza (ad esempio l’ordinanza della Cassazione 13487/2019) però oramai convengono, la prima più prendendone atto che per convincimento, sul fatto che la denuncia della notizia criminis, intendendosi la comunicazione vera e propria da inoltrarsi entro il periodo decadenziale, sia sostituita dall’obbligo della sua presentazione, quindi indipendentemente dal fatto che quest’ultima sia avvenuta e “dal momento in cui tale obbligo sorge”. È evidente che se il contribuente ne è ignaro, anche anni che egli avrebbe potuto ragionevolmente ritenere “chiusi”, potrebbero non esserlo (alla fine del 2019 si prescrive - con raddoppio dei termini - il 2010, sempre con dichiarazione di tale anno regolarmente presentata, altrimenti è il 2021). A parte casi estremi, rimane che anni più vicini, in caso di decadenza ordinaria alla fine di quest’anno o del prossimo, potrebbero risultare improvvisamente “riaperti”, laddove l’Ufficio invii un avviso di accertamento per tali periodi d’imposta con l’allegazione della denuncia penale presentata entro il termine di decadenza ordinaria. Più frequente però è il caso di periodi d’imposta per avvisi di accertamento notificati entro il 31/12/2015, data “spartiacque” del periodo transitorio fissato dal Dlgs 128/2015, che furono tempestivamente impugnati e per i quali il ricorso del contribuente non prevedeva la richiesta di esame della fondatezza della denuncia penale, magari poi accolto (per altri motivi) in primo grado e non nei successivi, tralasciando il caso - senza speranza - di revisione di un siffatto giudizio in Cassazione. In tali situazioni non vi è dubbio che sia impossibile richiedere al giudice tributario la sussistenza della fondatezza della denuncia penale, non avendola richiesta nel ricorso introduttivo, anche perché la difesa all’epoca non era dotta su tale tema, essendo stato oggetto di approfondimenti successivi. Lo si osserva perché sono proprio i giudici della legittimità a ricordare che detto esame, da sottoporre al giudice tributario con i motivi di impugnazione, è l’unico strumento utile a contrastare l’infondatezza della denuncia penale “sicché il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ed il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora circa la loro ricorrenza (cosiddetta “prognosi postuma”)”. Infortuni sul lavoro: la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza del datore di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 ottobre 2019 n. 44141. In tema di infortuni sul lavoro, la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite, pur non potendo avere detta vigilanza per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante - concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato. In ogni caso, continua la Cassazione con la sentenza 30 ottobre 2019 n. 44141, l’articolo 16 del decreto legislativo n. 81 del 2008 subordina l’ammissibilità della delega di funzioni alla condizione che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate. Prevenzione, assicurazione e sorveglianza - È principio pacifico quello secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro. Tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo comunque l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (tra le tante, sezione IV, 15 giugno 2011, Merico e altri, che, da queste premesse, nella specie, la Corte ha ritenuto corretto che fosse stata affermata la responsabilità del datore di lavoro, essendosi addebitato a questi, pur in presenza di una delega, l’omesso controllo sull’attività del delegato, in presenza di violazioni alla normativa antinfortunistica non solo evidenti, ma anche espressamente segnalate dal professionista incaricato di redigere il piano operativo di sicurezza; nonché, Cassazione, sezione IV, 5 maggio 2011, Giordano e altri, che, per le stesse ragioni, nella specie, la Corte ha escluso potesse valere come delega il semplice richiamo in un contratto delle funzioni cui erano chiamati alcuni dipendenti, sul rilievo che mancava una manifesta e inequivoca volontà di “trasferire” ad altri propri compiti, con attribuzione dei conseguenti poteri, anche di spesa). Caratteristiche del preposto - Per l’effetto, il preposto - ai fini di una valida delega - deve essere persona tecnicamente idonea e capace, che abbia volontariamente accettato l’incombenza, nella consapevolezza degli obblighi che vengono su di lui a incombere, e sia fornita di idonei poteri determinativi e direzionali al riguardo, e sempre che il datore di lavoro, nel più generale contesto della posizione di garanzia che a lui fa capo, non si esima, comunque, dall’obbligo di sorvegliare e accertare che il preposto usi concretamente ed effettivamente dei poteri all’uopo conferitigli, dando concreta attuazione alle disposizioni impartite e alle misure volta a volta dovute. Obbligo, quest’ultimo, che va comunque ragguagliato alle connotazioni del caso concreto, tra le quali l’organizzazione dell’impresa ed eventualmente la episodicità del fatto e la estemporaneità dei comportamenti serbati: esso, difatti, non può estendersi sino a richiedere la continua presenza sul luogo del datore di lavoro, amministratore di società di notevoli dimensioni, in ognuna delle singole circostanze episodiche in cui il lavoro viene svolto dai dipendenti (cfr. Cassazione, sezione IV, 26 giugno 2014, Lucchi). Processo penale, legittimo acquisire la Ctu del procedimento civile non definitivo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 4 novembre 2019 n. 44672. È legittima l’acquisizione nel processo penale della consulenza tecnica depositata nel procedimento civile non ancora definito con sentenza passata in giudicato, attesa la sua natura di prova documentale alla luce della nozione generale di documento contenuta nell’articolo 234 del Cpp. Lo ha stabilito la Cassazione penale con la sentenza 44672/2019. La consulenza tecnica d’ufficio - Secondo la giurisprudenza, la consulenza tecnica d’ufficio, disposta in un procedimento civile non ancora definito con sentenza passata in giudicato, può essere acquisita nel processo penale, come prova documentale, ai sensi dell’articolo 234 del Cpp. Tale consulenza, infatti, secondo la normativa processuale-civilistica dell’istruzione probatoria, non appartiene alla categoria dei “mezzi di prova”, avendo la sola finalità di “aiutare” il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze: la sua acquisizione, pertanto, non avviene secondo la disciplina dell’articolo 238, comma 2, del Cpp, che limita la possibilità di acquisizione dei verbali di prove assunte in un giudizio civile all’ipotesi in cui tale procedimento sia stato definito con sentenza passata in giudicato, giacché trattasi di disciplina che si riferisce solo ai verbali delle “prove” assunte nel giudizio civile, mentre occorre fare applicazione delle regole poste per l’assunzione della prova documentale, dovendo tale consulenza essere considerata quale documento per essere stata formata fuori del procedimento penale ed essendo rappresentativa di situazioni e di cose (sezione VI, 11 novembre 2010, Tricomi, secondo cui, quindi, correttamente il giudice penale di merito aveva ritenuto utilizzabili una consulenza tecnica d’ufficio svoltasi nel corso di un procedimento civile di separazione, pur non essendo stato tale procedimento ancora definito con sentenza passata in giudicato; più di recente, sezione III, 7 novembre 2017, Busetti). L’accertamento peritale ha natura di mezzo di prova neutro. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2019 Prova penale - Perizia - Mezzo di prova - Natura “neutra” - Conseguenze. La perizia costituisce un mezzo di prova per sua natura neutro, ovvero non classificabile né “a carico” né “a discarico” dell’imputato, sottratto al potere dispositivo delle parti e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice. Dato il carattere neutro dell’accertamento peritale, rientra pertanto nella categoria della “prova decisiva”. Ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto insindacabile in cassazione. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 21 novembre 2019 n. 47223. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancata assunzione di prova decisiva - Accertamento peritale - Prova decisiva - Esclusione - Conseguenze. La mancata effettuazione di un accertamento peritale (nella specie sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale) non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività. • Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 agosto 2017 n. 39746. Prove - Mezzi di prova - Perizia - In genere - Apprezzamento delle conclusioni peritali da parte del giudice - Giudizio di fatto - Incensurabilità in sede di legittimità - Condizioni - Obbligo di motivazione del dissenso del giudice rispetto alle conclusioni peritali - Sussistenza. In tema di prova, costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato, l’apprezzamento - positivo o negativo - dell’elaborato peritale e delle relative conclusioni da parte del giudice di merito, il quale, ove si discosti dalle conclusioni del perito, ha l’obbligo di motivare sulle ragioni del dissenso. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 9 ottobre 2017 n. 46432. Perizia - Ammissione - Competenza del giudice di merito - Sindacato di legittimità - Condizioni - Limiti. La perizia per la sua natura di mezzo di prova neutro, che la sottrae alla disponibilità delle parti e la rimette alla discrezionalità del giudice, non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’articolo 606, comma 1°, lettera d), del C.p.p. e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, ai sensi dell’articolo 606, comma 1°, lettera e), del c.p.p. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 19 ottobre 2016 n. 44323. Prova penale - Perizia - Procedimento penale - Concetto di prova decisiva - Giudizio di fatto - Adeguata motivazione - Art. 606 c.p.p. In merito al procedimento peritale la perizia non può farsi rientrare nel concetto della prova decisiva, giacché la sua disposizione, da parte del giudice, in quanto legata alla manifestazione di un giudizio di fatto, ove assistito da adeguata motivazione, è insindacabile ex articolo 606 c.p.p. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 3 maggio 2016 n. 18468. Puglia. Il problema mai risolto del sovraffollamento nelle carceri leccenews24.it, 9 dicembre 2019 Quello del sovraffollamento nelle carceri italiane è un problema vecchio e mai risolto. A ricordarlo sono i numeri che lasciano una fotografia allarmante, soprattutto in Puglia. Si sente spesso dire che i reati sono in calo, che si “delinque” meno, ma allora come mai il problema del sovraffollamento delle carceri italiane peggiora di anno in anno? Perché i numeri delle persone recluse continuano a salire in maniera preoccupante di mese in mese? A confermarlo è l’Associazione Antigone che da sempre accende i riflettori sui penitenziari del Belpaese: fatiscenti, inadeguati e troppo pieni. Una vera e propria emergenza che è costata cara, carissima, all’Italia già condannata in passato dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo al pagamento di migliaia di euro di risarcimento per danni morali a favore di alcuni detenuti per trattamento inumano e degradante. “Il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni” recitava Fëdor Dostoevskij in “Delitto e Castigo” ed è questo il punto. In Italia, la situazione è preoccupante. E se il metro di misura è quello delle prigioni allora è anche un paese incivile. Dati alla mano, ben quattro istituti - Larino, Brescia, Como e Taranto - hanno un tasso di affollamento del 200%. Tradotto, ci sono due detenuti dove dovrebbe essercene uno. Basta guardare la “scheda” dell’edificio al civico numero 1 di via Giuseppe Speziale per rendersi conto che, chiusa la porta con la libertà, si entra in un incubo. Ufficialmente la casa circondariale tarantina intitolata a Carmelo Magli può ospitare 306 persone. Ne contiene più di seicento: 619 secondo l’ultimo aggiornamento del 31 novembre. Ma non c’è solo Taranto. In generale, solo nell’ultimo mese, il sovraffollamento segna un +0,4%. ?In questa crescita si registra il dato inverso relativamente ai detenuti stranieri che, rispetto al mese di ottobre, calano sia in termini percentuali che assoluti. Crescono, invece, le madri detenute con i loro figli con meno di tre anni: erano 49 con 52 bambini ad ottobre, sono ora 52 con i loro 56 figli. La Puglia sul tasto “carceri” non ha mai brillato. Semmai ha conquistato sempre primati negativi. E continua a farlo. Nel tacco dello Stivale il tasso di sovraffollamento è del 166,3% con un incremento nell’anno 2019 pari al 3,4%. Se il dato più preoccupante, come detto, è quello dell’Istituto “Carmelo Magli” di Taranto che si attesta al 200% non va a meglio negli altri 10 istituti di pena della Puglia. Nelle galere di Foggia, Brindisi e Lecce il tasso di affollamento è ben al di sopra della media regionale con percentuali rispettivamente del 171%, 172% e 174%. Nonostante l’allarme sulla crescita dei reati commessi da stranieri, va detto che questi contribuiscono in maniera contenuta all’aumento delle persone ristrette in carcere, rappresentando il 12% nelle carceri regionali. Quello del sovraffollamento carcerario - vissuto dai detenuti come una seconda “pena”, come un’ulteriore condanna che rende ancor più difficile il percorso da scontare all’interno dei penitenziari - è un problema vecchio che nessuna soluzione proposta è riuscita a risolvere. Si è parlato - come ricorda anche l’Associazione Antigone Puglia - di fare un maggiore ricorso alle misure alternative ed un minore uso dello strumento della custodia cautelare. Ma non basta. Il Carcere dovrebbe essere considerato una strada da percorrere in vista del reinserimento sociale sul territorio. Un luogo dove scontare una pena umana e rieducativa. Per questo, le istituzioni dovrebbero intervenire per arginare le criticità e offrire quelle opportunità di cui anche i detenuti hanno diritto. Napoli. Il sindacalista degli agenti: “una categoria di lavoratori in piena sofferenza” di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 9 dicembre 2019 Salvatore Tinto, della segreteria Regionale Campania e Metropolitana della Cgil di Napoli denuncia un alto tasso di suicidi di poliziotti penitenziari. Tra le cause, i turni massacranti e la mancanza di assistenza psicologica. Insieme a Salvatore Tinto, della segreteria Regionale Campania e Metropolitana della Cgil di Napoli, con deleghe al comparto delle Funzioni locali e della Polizia Penitenziaria, abbiamo provato ad aprire una finestra sulla realtà carceraria dal punto di vista degli agenti di Polizia penitenziaria. Facciamo il punto sulla situazione lavorativa di questa categoria di agenti... “È una categoria di lavoratori in piena sofferenza nel cui caso esistono, come in tutto il pubblico impiego, problemi di addetti in età avanzata e di sottorganico che certe volte risulta insostenibile perché costringe gli agenti della Polizia penitenziaria a fare dei turni massacranti, a lavorare anche continuativamente per 12 ore al giorno contro le regole vigenti in materia. Quindi capita che per garantire il servizio, queste persone tornino a casa in condizioni pietose dal punto di vista dello stress e della stanchezza fisica. Qualche dato potrà aiutare a capire la situazione: a Poggioreale ci sono 761 agenti di Polizia Penitenziaria allorché dovrebbero essere 991 in una struttura che ospita circa 500 detenuti in più rispetto alla sua capienza; nel carcere di Secondigliano ci sono 1.145 agenti; il penitenziario potrebbe ospitare al massimo 1.020 detenuti, invece ce ne sono 1.410. Quindi c’è un’eccedenza pari a circa 400 unità, mentre nel carcere di Pozzuoli mancano gli ispettori”. Come reagiscono i poliziotti penitenziari a questa situazione disagevole? “Spesso lo stato di ansia in cui si trovano questi lavoratori sfocia nella depressione, ed in effetti dalle statistiche apprendiamo che all’interno della Polizia Penitenziaria c’è un elevato tasso di suicidi. Quando mi hanno fatto rilevare questo dato sono rimasto sconvolto. In generale il fenomeno è frequente tra le forze di polizia, tra i carabinieri e i poliziotti municipali, ma nel caso della Polizia Penitenziaria l’incidenza è maggiore; parliamo di livelli allarmanti. Niente nasce per caso, quindi ci devono essere per forza delle ragioni che sovente inducono gli agenti di custodia a commettere questo gesto estremo, e credo che queste motivazioni siano legate proprio al lavoro, al di là delle vicende personali e familiari che ognuno ha”. Più nel dettaglio? “Consideriamo i turni massacranti, i lunghi orari di lavoro e l’ambiente che è pesante di per sé. In più, nelle carceri non c’è assistenza psicologica, manca personale di sostegno psicologico e sociale anche se è previsto sia per i detenuti che per gli agenti. Sembra quasi che anche gli appartenenti al corpo debbano scontare una pena, mentre invece svolgono un lavoro nel migliore dei modi malgrado le enormi criticità esistenti. Sul tema dei suicidi tra gli agenti di custodia cerchiamo di interessare i media, prevediamo anche di organizzare un convegno a Napoli per l’inizio dell’anno prossimo, al fine di denunciare il fenomeno con statistiche precise a livello nazionale. La speranza è che qualcosa si muova”. E qual è la situazione in termini salariali? “Gli stipendi sono miserevoli in tutto il pubblico impiego, ma questa situazione assume una valenza ancora più impressionante nel caso delle forze di Polizia Penitenziaria. Gli agenti prendono mediamente 1.600-1.700 euro al mese per un lavoro che in altri paesi europei viene remunerato con cifre che superano i 2.000 euro. Gli straordinari non vengono remunerati regolarmente, ma con ritardi di mesi e talvolta anche di qualche anno; però chi vive in una famiglia monoreddito ed è in una situazione di bisogno si sacrifica lavorando più del dovuto”. C’è quindi necessità di arrotondare… “Sì, e se accetto di fare 40-50 ore di straordinario andando oltre il normale orario di lavoro per arrotondare, non mi pongo il problema dell’ansia e del sacrificio che devo sostenere; penso solo che mi servono quei 200 euro in più al mese per integrare il mio stipendio miserevole. Si tratta di una situazione pesante anche perché molto spesso i colleghi della polizia penitenziaria non si ribellano e sopportano questi orari massacranti per arrivare a racimolare uno stipendio dignitoso e riuscire a sbarcare il lunario a fine mese”. Come ovviare a questi problemi? “Lo Stato deve investire in strumenti, personale, dotazioni di sicurezza. Capita non di rado che si legga: trovata droga a Poggioreale o a Secondigliano o telefoni cellulari usati dai detenuti, ma come entrano in carcere la droga e i telefonini? I controlli dei pacchi, anche quelli spediti dai familiari, sono quasi sempre fatti a mano con grande lentezza, non c’è uno scanner, non ci sono abbastanza metal detector efficienti, non ci sono mezzi che garantiscano condizioni di sicurezza in un penitenziario per i casi prima menzionati. La situazione è esplosiva, nelle carceri la sicurezza è una meteora, il personale è al collasso. Penso poi agli agenti di Polizia penitenziaria che tornano nella loro città dopo aver fatto per 20-25 anni il giro degli istituti penitenziari italiani e vogliono riavvicinarsi alla famiglia. Spesso tornano a casa in età non più giovanile e vanno a lavorare in carceri sovraffollate senza alcuna assistenza, senza supporti di nessun tipo. Inoltre non di rado capita che gli istituti siano a corto di dotazioni anche in termini di indumenti che e sovente, sia lo stesso personale a dover comprare scarpe e vestiario con i suoi soldi. È tutto molto sconfortante e lo Stato deve decidere se far funzionare le cose o meno; vuole un regime carcerario aperto? Allora ci vogliono investimenti, diversamente si resta in una situazione di stallo”. Cosa può dirci in merito alla tutela sindacale dei poliziotti penitenziari? “Spesso c’è una certa reticenza, da parte degli istituti di pena, a confrontarsi con il sindacato. Non è il caso di Secondigliano, ma a Poggioreale, per esempio, le relazioni sindacali sono ferme all’anno zero. In altre parole, nel principale carcere napoletano non si verificano incontri col sindacato da un anno e mezzo. Malgrado tutta una serie di sollecitazioni da parte nostra e di altre organizzazioni sindacali, non si è mai attivato realmente un tavolo di confronto anche perché esistono sindacati di comodo nel panorama delle organizzazioni autonome che agiscono con la logica del gioco a rimpiattino e praticano la tecnica del rinvio premeditato. Anche a essi si deve la situazione di stallo nel rapporto con le parti sindacali, quelle che fanno davvero gli interessi dei lavoratori. Faccio un esempio: c’è uno scambio tra uno di questi sindacati di comodo e la parte pubblica che dice: chiedetemi un rinvio, così ho un pretesto per non convocarvi; il sindacato di comodo risponde: però mi raccomando, il tale me lo devi trasferire lì, quell’altro mi deve fare un certo tipo di servizio. Quindi c’è un patto tacito ufficioso; una mano lava l’altra”. Quali sono in genere i rapporti tra il personale della Polizia Penitenziaria e detenuti? Si parla spesso di situazioni di conflitto, di violenze… “C’è caso e caso, non si può generalizzare. Tieni conto che vedo in grossa difficoltà psicologica il personale che versa in uno stato di vulnerabilità. Non di rado succede, a livello nazionale, che i detenuti aggrediscano in modo gratuito i poliziotti penitenziari che sovente finiscono al pronto soccorso e devono ricorrere a cure mediche a seguito di queste aggressioni. Non ci sono controlli rigidi. Spesso, come ho già detto, finiscono in carcere partite di droga per uso personale o si creano traffici di questo genere nei penitenziari tra i detenuti. Capita che quando questi ultimi sono sotto l’effetto di stupefacenti perdano il controllo e diventino aggressivi, e questo mette a repentaglio non solo la sicurezza del personale ma anche quella degli altri carcerati. Allora il problema si deve affrontare alla radice. Non è possibile che entrino in carcere droga o altro. Occorre dotare le carceri di strumenti di sicurezza e di controllo come in tutti i paesi civili europei”. Palermo. Una seconda possibilità per i detenuti, ecco il bando: “E vado a lavorare” palermotoday.it, 9 dicembre 2019 Reinventarsi pasticceri, fornai, operatori ecologici, sarti. Apprendere un mestiere e, magari, trovare un impiego stabile. Una prospettiva che potrà realizzarsi grazie agli otto progetti, selezionati con il Bando “E vado a lavorare” per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti nelle regioni del Mezzogiorno. L’iniziativa, che coinvolge anche Palermo, è alla seconda edizione ed è promossa dalla Fondazione Con il Sud nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena e con l’obiettivo di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione. Gli otto progetti, selezionati su un totale di 88 proposte presentate da partenariati che comprendono almeno una struttura penitenziaria e due enti del Terzo Settore, coinvolgeranno 273 detenuti (tra cui minori, Lgbt, pazienti psichiatrici) in 14 diversi istituti penitenziari e tre carceri minorili del Sud Italia. Interessati anche cinque uffici per l’esecuzione penale esterna e un ufficio servizi sociali per minori. Complessivamente gli interventi saranno sostenuti con 2,34 milioni di euro di risorse private. Sono tre i progetti in Sicilia (province di Palermo, Siracusa, Catania, Messina, Caltanissetta). Si va dall’avvio di nuove cooperative sociali - anche su desiderio degli stessi detenuti - per la produzione e distribuzione di taralli, dolci, biscotti e altri prodotti da forno (coinvolgendo anche chef stellati); al rafforzamento di realtà imprenditoriali esistenti tra cui una lavanderia, un’impresa specializzata in prodotti da forno e catering, una sartoria sociale; all’inserimento lavorativo in un’azienda profit che lavora nel settore della raccolta dei rifiuti. Gli interventi prevedono, inoltre, percorsi formativi finalizzati all’avvio delle attività d’impresa, servizi di supporto e accompagnamento psicologico e professionale, laboratori artigianali, consulenze legali, interventi a favore dei familiari dei detenuti e lavori di pubblica utilità. Per 146 detenuti (circa la metà di coloro che parteciperanno ai progetti) sono previsti tirocini retribuiti; 115 sono invece gli inserimenti lavorativi attesi entro il termine delle iniziative, di cui 47 con contratto a tempo indeterminato. “Sostenendo questi progetti vogliamo sottolineare che la detenzione debba necessariamente avere un fine rieducativo, così come sancito dalla nostra Costituzione -ha sostenuto Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud- Il carcere non può e non deve essere solo il luogo in cui scontare una pena, quelle quattro mura dovrebbero rappresentare anche il punto di partenza per una nuova vita. Questo cambiamento può realizzarsi concretamente attraverso il lavoro: dà dignità, ma dà anche motivazioni e soddisfazioni per ripartire su nuove basi”. L’articolo 27 della Costituzione sancisce il principio del “finalismo rieducativo della pena”, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà, possa commettere nuovi reati. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n. 354/75, e le successive modifiche, hanno dato attuazione a tale principio costituzionale, individuando e disciplinando norme, strumenti e modalità per garantire l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo dei condannati. Ma la situazione attuale nelle carceri italiane, fotografata dall’Associazione Antigone nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, è ancora lontana dal garantire un adeguato ed efficace percorso di integrazione sociale e lavorativa. Se da un lato il numero dei detenuti lavoratori è leggermente cresciuto negli anni - passando dai 10.902 (30,74%) del 1991, ai 18.404 (31,95%) del 2017 - dall’altro oltre l’85% dei lavoratori è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, svolgendo spesso mansioni che non richiedono competenze specifiche e con elevate turnazioni (per permettere a più persone di lavorare). Al Sud tale situazione è ancor più accentuata: solo il 3,7% dei detenuti lavora per soggetti privati esterni. Rispetto alla possibilità di formarsi e lavorare in carcere vi sono ancora elevate possibilità di miglioramento, ma anche ostacoli da superare per poter efficacemente favorire un reinserimento dei detenuti ed evitare un aumento del rischio recidiva. Sassari. Il Ministero nomina un “direttore d’ufficio” nel carcere di Bancali di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 9 dicembre 2019 La notizia è stata diffusa ieri dal deputato Perantoni (M5S). Il parlamentare: “Si lavora alla soluzione dei problemi”. Forse anche al ministero della Giustizia cominciano a rendersi conto della gravità della situazione attuale nel carcere di Bancali dove mancano contemporaneamente un direttore in pianta stabile e il capo della polizia penitenziaria. Le proteste delle organizzazioni sindacali ai vari livelli sembrano avere richiamato l’attenzione su un fenomeno preoccupante (considerato che il penitenziario sassarese ha quasi 100 detenuti 41bis e Alta sorveglianza 2) con una condizione che non sembra avere eguali a livello nazionale. Ieri il deputato del Movimento 5 Stelle Mario Perantoni, componente della commissione Giustizia della Camera, ha annunciato che “il Ministero sta provvedendo a trasferire d’ufficio presso il carcere di Bancali un direttore affinché si superi l’attuale situazione di vacanza”. Il parlamentare sassarese ha fatto il punto della situazione a conclusione di una serie di interlocuzioni con il ministero della Giustizia effettuate per verificare la situazione del carcere. “Aggiungo che l’attenzione del Ministero per la situazione delle carceri di Bancali è molto alta - ha detto ancora l’avvocato Mario Perantoni - e risulta che si stia lavorando per la risoluzione dei problemi che affliggono gli istituti penitenziari, procedendo tra l’altro all’assunzione di personale di polizia penitenziaria e al riordino delle carriere”. A Bancali ormai da tempo si vive una situazione paradossale, al problema degli organici della polizia penitenziaria - a più riprese denunciato dalle organizzazioni sindacali - si è aggiunto quello della mancanza di un direttore in pianta stabile (dopo il rientro a Nuoro della dottoressa Patrizia Incollu, il ruolo viene ricoperto a scavalco dalla titolare del carcere di Alghero la dottoressa Milanesi che deve seguire anche Tempio) oltre all’assenza del comandante della polizia penitenziaria. Proprio di recente, infatti, il Dipartimento della polizia penitenziaria avrebbe disposto la revoca del provvedimento di assegnazione provvisoria del comandante di reparto della Casa circondariale di Sassari. Una situazione delicata, legata allo svolgimento di una inchiesta amministrativa per fare chiarezza su alcuni fatti che si sarebbero verificati nella struttura carceraria. E in attesa dello svolgimento delle verifiche interne, l’ufficiale non è stato sostituito. “Resta il dramma di un importante istituto nel panorama nazionale - ha detto Francesco Laura, responsabile del coordinamento dell’Uspp - che meriterebbe una più adeguata capacità di risposta progettuale da parte dell’amministrazione centrale che, allo stato, non ci pare di poter intravedere. Si registrano provvedimenti di impiego temporanei nella catena di comando che non favoriscono una “organizzazione di lavoro stabile e ben delineata, necessaria al corretto svolgimento delle attività nell’istituto penitenziario”. Porto Empedocle (Ag). Pronte borse lavoro per gli ex detenuti Giornale di Sicilia, 9 dicembre 2019 Borse di lavoro per garantire l’inclusione sociale. Sono 30 le domande che sono arrivate al Municipio di Porto Empedocle proprio per la selezione delle borse lavoro riservate ad inoccupati e disoccupati, ex detenuti, detenuti in esecuzione penale esterna e in misure alternative e di sicurezza, famiglie di detenuti, ex tossicodipendenti, immigrati (esclusi quanti sono inseriti in centri di accoglienza), disabili anche psichici non istituzionalizzati (esclusi coloro che hanno rette anche parziale), donne vittime di violenza e ragazze madri. Nell’ambito del piano di zona del distretto socio-sanitario Aod2 di Santa Elisabetta l’obiettivo è quello di promuovere politiche di inclusione sociale favorendo l’integrazione nel mondo del lavoro di adulti a rischio di emarginazione. Trenta appunto le istanze giunte al Comune di Porto Empedocle, con in testa il sindaco Ida Carmina che ha nominato una commissione interna chiamata ad esaminarle per formare dunque la graduatoria per l’assegno economico per servizio civico. Brindisi. Percorsi di legalità e mediazione penale, importanti novità lostrillonenews.it, 9 dicembre 2019 “Se ti raccontassi di…” dall’altro ieri è iniziato il percorso di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva in favore dei minori con provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ospiti della comunità Kalika. Il laboratorio, che terminerà ad aprile 2020, è promosso dall’associazione Sinp - Sociologia in progress con la criminologia Maria Nimis e la sociologa Nunzia Conte, e rientra in un’importante ricerca dell’Università del Salento. Sarà svolto insieme ad alcuni studenti del quarto anno del liceo Socio-psico-pedagogico “Palumbo” di Brindisi. Parlare di legalità è fondamentale per i ragazzi e, in uno scambio di punti di vista tra “dentro” e “fuori”, percezione ruolo e importanza della giustizia, sarà poi prodotto un cortometraggio, che già si pensa, in un’ottica di rete e di apertura, di proporre all’Amministrazione comunale di Francavilla Fontana che, per la prima volta ha promosso un’intera settimana dedicata alla legalità e alla cittadinanza. Altra novità, è stato siglato sempre l’altro ieri il protocollo di intesa tra AiMePe-Associazione nazionale mediatori penali, con la sua Presidente Cristina Ciambrone, e la Cooperativa sociale “La pietra angolare”, ente gestore della Comunità Educativa Kalika. Il protocollo d’intesa apre le porte le porte ad un nuovo modo di pensare, di fare e di concepire il rapporto tra gli autori di un reato e le vittime, un incontro, a volte sofferto, ma necessario. All’interno della cooperativa, infatti, il personale si sta formando, presso l’Accademia di Sviluppo socio educativo per acquisire il titolo di mediatore Penale. L’AiMepe sta conseguendo importanti risultati in tutta l’Italia favorendo laboratori di mediazione penale in favore di detenuti, esperienza fatta anche in Puglia. La cooperativa La Pietra Angolare, con la sua mission di sostegno e aiuto in tutti i servizi attivi e con la vasta rete sociale già creata e che vuole ulteriormente svilupparsi, ha naturalmente aderito al protocollo di intesa, preludio anche a un modo di pensare non solo individuale, ma collettivo e improntato ad una società armonica. Saluzzo (Cn). “Destini incrociati”, al via rassegna nazionale di teatro in carcere langheroeromonferrato.net, 9 dicembre 2019 Dal 12 al 14 dicembre spettacoli e performance teatrali, video, mostre e installazioni, incontri di approfondimento, laboratori e sessioni specifiche rivolte a ragazzi e studenti. Saluzzo ospiterà 20 compagnie teatrali con la presenza di attori-detenuti provenienti dalle carceri di tutta Italia. Inaugura giovedì 12 dicembre, alle ore 10, presso La Castiglia di Saluzzo (piazza Castello), la VI edizione di “Destini incrociati”, rassegna nazionale di teatro in carcere, che per la prima volta viene ospitata in Piemonte nel territorio della provincia di Cuneo. Il programma si svolgerà nelle giornate di giovedì 12, venerdì 13 e sabato 14 in diverse location a Saluzzo (La Castiglia, il Teatro Civico Magda Olivero, l’Antico Palazzo Comunale e la Casa di Reclusione “Morandi”), con un’incursione a Savigliano, dove è previsto un appuntamento al Teatro Milanollo. Fulcro della rassegna sono gli spettacoli portati in scena dai gruppi di detenute e detenuti provenienti da case circondariali e di reclusione di tutta Italia - Cosenza, Palermo, Livorno, Pesaro, Saluzzo - a cui si aggiunge la performance dei pazienti della struttura Rems di Bra. Il programma propone inoltre alcuni incontri di approfondimento, percorsi di avvicinamento per gli studenti, seminari. Una speciale sezione è dedicata ad una rassegna di quindici video prodotti a partire da laboratori teatrali condotti in altrettanti istituti carcerari, compresi due contesti dell’area penale minorile. La Rassegna si colloca nell’ambito del Progetto Nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati con il contributo del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo ed è promossa in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, con capofila l’Associazione Teatro Aenigma. Per informazioni e prenotazioni (ingresso spettacoli 5 euro, studenti gratuito) visitare il sito internet www.vocierranti.org o telefonare al numero 340/3732192. “Sono tanti i temi affrontati dalla VI edizione di ‘Destini incrociati’, che trova nel luogo che ne ospiterà il momento inaugurale, l’ex carcere La Castiglia, che da spazio di reclusione è passato ad essere spazio per attività culturali, un simbolo del ponte comunicativo tra la realtà interna e quella esterna al carcere che il progetto rappresenta - afferma Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Gli spettacoli sono frutto della ricerca espressiva nell’ambito di laboratori teatrali svolti negli istituti di varie città italiane. Le performance che ne sono derivate costituiscono un campione rappresentativo di una scena che esprime un nuovo slancio estetico e al tempo stesso manifesta la forza di un vissuto di valori umani comunitari sempre più rari”. In Redemption day, detenuti provenienti da Cosenza raccontano della possibilità di sconfiggere la paura e di maturare l’autostima e la consapevolezza necessarie al reinserimento e all’ inizio di una vita nuova. Di seconda possibilità, di sfide e di speranza tratta anche l’atto unico Game over della Compagnia Teatro e Società di Torino, che acquista particolare significato in quanto promosso dal Fondo Musy, creato dalla moglie di Alberto Musy, Angelica, per sostenere chi in carcere ha deciso di dedicarsi agli studi universitari. Per Radio Rems, invece, saliranno sul palco i pazienti della Rems di Bra con uno spettacolo che elabora, sotto forma di manifesto e di risa, gli spunti nati dalle attività di improvvisazione teatrale, fino ad arrivare a proporre una “radio dal di dentro per chi ascolta dal di fuori”. La malattia mentale è centrale anche nello spettacolo del Gruppo Teatrale Stranità di Genova Sintomatologia dell’esistenza. Un Dsm per medici e poeti in cui un gruppo composto da persone seguite dalle strutture per la salute mentale, volontari, operatori socio-sanitari ed alcuni attori professionisti mettono in scena uno spaccato del mondo della psichiatria visto dal suo interno, presentandone il dietro le quinte. La rassegna sarà la prima occasione in cui le attrici detenute dell’Istituto Pagliarelli di Palermo porteranno oltre le mura carcerarie il loro lavoro: nello spettacolo In stato di grazia, liberamente ispirato al romanzo di Dacia Maraini “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, la voglia di libertà e di conoscenza a cui Marianna dà sfogo attraverso i libri diventa metafora del percorso di formazione all’espressione teatrale vissuto dentro il carcere. Anche in Errando. Dal laboratorio al palcoscenico, performance dei detenuti del Morandi di Saluzzo, si racconta del significato e del senso più profondo che l’esperienza teatrale rappresenta per il detenuto. Infine, anche il corpo è utilizzato come strumento di rinascita e riscatto: i detenuti provenienti da Livorno, insieme con due attrici e a alcune danzatrici, portano in scena Un tuffo al cuore, in cui raccontano attraverso alcune lettere dal carcere destinate a figure femminili l’attesa, la distanza, i sentimenti e le emozioni dei reclusi. In Rugby. Corpo a corpo, invece, gli attori e le attrici del carcere di Pesaro, prendendo spunto da un inedito connubio tra il gioco del rugby e la poesia di Cesare Pavese, arrivano a immaginare il vissuto dei protagonisti come persone che si giocano i loro sogni, nel ricordo di una vita all’interno di una comunità a cui sentono di voler appartenere. Non mancherà una sezione interamente dedicata alla proiezione di video. L’audiovisivo è infatti uno strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, in grado di restituire la ricchezza, l’articolazione e la diffusione ormai capillare di questo importante settore del teatro italiano. Organizzata in due sessioni, la rassegna video proporrà esperienze legate all’attività teatrale e artistica vissute in quindici istituti penitenziari. Tra queste, due sono state realizzate nell’ambito di laboratori condotti nelle realtà minorili di Napoli e Palermo. Sono inoltre parte del programma una serie di incontri di divulgazione aperti a tutti. Tra gli ospiti, ci saranno l’ex magistrato Elvio Fassone con la sua esperienza di corrispondenza epistolare con un giovane da lui condannato all’ergastolo, il regista italiano Diego Pileggi che lavora nel carcere polacco di Wroclaw, lo scrittore Yosuke Taki e la psichiatra Grazia Ala che condurranno una riflessione sui temi del teatro sociale e del disagio psichico nei luoghi di reclusione, Ronald Jenkins della Wesleyan University che lavora sull’ “Inferno” di Dante Alighieri nelle prigioni Usa, Fra Stefano Luca che porta il teatro nelle sue missioni in contesti sociali difficili in giro per il mondo, Claudio Sarzotti dell’Università di Torino che condurrà una tavola rotonda con artisti rappresentanti delle diverse discipline che negli ultimi anni hanno lavorato nelle realtà carcerarie italiane. Una sessione di formazione - “Ora d’aria” a cura di Marco Mucaria di Voci Erranti - sarà poi destinata in particolare a studenti e operatori teatrali. Per i ragazzi delle scuole sono stati, infine, predisposti in collaborazione con l’Associazione Agita alcuni percorsi di accompagnamento alla visione di alcuni spettacoli - “Game over” e “Rugby. Corpo a corpo” - per promuovere una fruizione consapevole e responsabile tra i più giovani. La rassegna comprende anche una sezione dedicata alle arti visive con la “La mostra di Destini Incrociati” che presenterà, presso La Castiglia, la sezione “Le recluse: i quadri del tormento” con le opere di Gian Carlo Giordano e Marina Pepino. Sempre a La Castiglia verrà allestita l’installazione architettonica di Voci Erranti e Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus dal titolo “Itaca: progettazione che incontra il teatro in carcere”. Entrambe saranno visitabili fino al 6 gennaio durante gli orari di apertura ordinaria de La Castiglia. L’iniziativa è promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e dalla Compagnia Voci Erranti, con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, del Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, la partecipazione della Fondazione Piemonte dal Vivo e il sostegno della Compagnia di San Paolo. Perugia. La vita “Non è sogno”, laboratorio teatrale al carcere di Capanne di Francesca de Carolis remocontro.it, 9 dicembre 2019 Alcuni brevi dialoghi da “Cosa sono le nuvole” di Pasolini, alcuni brani de “La vita è sogno” di Calderon de la Barca, il laboratorio teatrale del carcere di Perugia, le voci e i volti di persone lì detenute… e nasce “Non è sogno”, film di Giovanni Cioni. Ovvero, come trasformare in un sorprendente racconto, decisamente fuori dai canoni dell’ordinario, questo errore di scrittura che credo sia il carcere tutto… “Perché faccio così schifo, perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?”. “Eh… figlio mio… Noi siamo in un sogno dentro un sogno…”. Otello e Jago, impersonati da Ninetto Davoli e Totò, marionette dai volti dipinti di nero e di verde sul palcoscenico di “Che cosa sono le nuvole”, di Pasolini… virano nei volti di Antonio, Rocco, Visar, Salvatore, Osema, Kamal, Alfredo, Hichem… con tutti i colori e gli accenti del sud, il sud del mondo, tanto che quando a parlare è Maurizio, con il suo incedere toscano, pensi quasi a un errore di scrittura, come il professor Giuseppe Ferraro, che in carcere insegna filosofia, definisce i nostri errori. E solo se hai almeno una sola volta messo piede in un carcere capisci subito in quale mondo sei entrato, perché sai che il carcere, ad ogni latitudine, parla con tutti gli accenti del sud… Un mondo dove si cerca la vita nel sogno e “l’uomo che vive sogna fino a farsi ridestare”, proprio come spiega il principe Sigismondo, nel capolavoro di Calderon de la Barca, “La vita è sogno”, che tutto gira intorno al conflitto fra la libertà e il destino, ma anche fra la verità e l’apparenza, fra la vita e il sogno, dove questo può essere anche menzogna indotta… Ho trovato bellissimo questo film nato nel laboratorio teatrale Nuvole, del carcere di Capanne, a Perugia. Costruito intorno alle prove, fatte da un gruppo di persone detenute, di alcuni dialoghi del film di Pasolini e di alcuni brani del drammaturgo spagnolo. Il titolo subito ribalta tutto e t’inchioda: “Non è sogno”. E ancora mi ha stupito, Giovanni Cioni, anche se già avevo conosciuto il linguaggio del suo fare cinema, decisamente fuori dai canoni dell’ordinario, che sempre mescola realtà e finzione, creando orizzonti che spiazzano. Sempre alla ricerca dell’uomo, e di ciò che ci fa umani… “Io sono assassino… io sono assassino… e chi se lo credeva? Io so’ l’assassino… mannaggia… ma perché devo crede alle cose che me dice Jago? Perché so’ così stupido? I volti dei protagonisti sono in primo piano, in un unico spazio sullo sfondo verde di un chroma-key. Volti dentro la scatola del film, che per un attimo pensi sia prigione anch’esso, e un attimo dopo pensi sia la porta che apre a un possibile sogno di vita… “Ma qual è la verità? È quello che penso io de me? O quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro? Le prove si ripetono, si sovrappongono… cambiano le voci, i ritmi… “Cosa senti dentro di te? Concentrati bene, cosa senti?”, “Sì sì, sì, sento qualcosa che c’è…”, “Quella è la verità, ma… shhh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”. E, magia del cinema… questo continuo provare, correggere, ripetere battute e versi che sono brani di filosofia, che scavano nella vita di tutti, a poco a poco diventano la narrazione della vita vera di ciascuno, e quasi non ti accorgi di quando il racconto è scivolato dalla interpretazione dei testi proposti alla recitazione della propria vita, che non è sogno, ma è parola in cui ciascuno consegna la propria verità. E quale verità, e quali vite… Storie di vite anche terribili, come se ne possono incontrare in un carcere. “Non so com’è la vita fuori, sono entrato giovanissimo…”… “io facevo il rapinatore, senza mai essere entrato in una banca armato… le pistole… roba da film western… io scavalcavo il bancone …”… “comm’è brutto addormì sule…senza mai nisciun”… “tu m’è ricere con chi si state”… “Io mi sono anche impiccato. L’ho fatto per attirare l’attenzione, la prima volta. Ma l’ultima volta no” … “io fra un po’ esco, vado fuori nel mondo… pieno di sciacalli, di delinquenti… devo iniziare tutto daccapo…” Qualche cenno, perplesso, a un destino che puoi anche modificare. Ma soprattutto, molti raccontano dei sogni, non quelli che si dice “sono desideri”, ma gli incubi della notte. Confidano di cavalli bianchi cavalcati da cavalieri feroci, di bambini morti e teste insanguinate, di castelli-città abbandonate, con porte che non si aprono e direttori che hanno perso la chiave, di una tavola pronta per un pranzo insieme… Si percepisce, in questi racconti di sogni, l’eco del lamento del principe Sigismondo… “Io sogno la prigionia che mi tiene qui legato e sognai che un altro stato mi rendeva l’allegria”. Come è stato possibile, ti chiedi, questa trasmutazione, questo passaggio dalla recitazione all’affidare il proprio sé… in maniera così vera, così profonda che riesci a vederle, tutte, le immagini di quelle vite raccontate o sognate, anche se sullo schermo passano solo volti. Perché “Non è sogno” è un film fatto quasi solo di volti, come potesse bastare filmare la parola per raccontare l’anima. Beh, Giovanni Cioni ci riesce… È stato possibile, spiega il regista, nello spazio di gioco che è stato costruito “come intorno a un tavolo per il gioco delle carte, e intanto costruisci la conoscenza…in un film vissuto tutti insieme”. Solo, a tratti, compare qualche sprazzo dello spazio esterno. Poche immagini: un corridoio, una finestra, le foto alle pareti di una cella. Poi la campagna fuori le mura del carcere e un campo con i cavalli… che sono il sogno della vita perduta di Domenico. Domenico alle cui spalle a un tratto (magia del chroma-key) compare un cielo azzurro pieno di nuvolette bianche, e che, rivedendo poi quella scena, si è stupito e commosso nel vedersi sullo sfondo di quell’azzurro, lui che da anni non può avere come sfondo il cielo. Nel film che è dentro questo film mi sono sembrati scivolare dentro, insieme al dolente senso della vita di Calderon de la Barca, anche tutta la terribile dolcezza e l’incanto della sorpresa delle nuvole di Pasolini. “Non è sogno” (ha già ricevuto riconoscimenti in Italia e all’estero e se ne volete un assaggio, il trailer https://vimeo.com/353786278), ovvero, come trasformare in un racconto sorprendente questo errore di scrittura che credo sia il carcere tutto. Catania. Che bello giocare a calcio con mio papà detenuto La Sicilia, 9 dicembre 2019 Sabato 14 dicembre mattina nella casa circondariale di Piazza Lanza a Catania, si terrà la manifestazione “La partita con papà”, iniziativa proposta da “Bambinisenzasbarre” in collaborazione con il ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. L’evento a Catania è organizzato in collaborazione con l’associazione Officina Socialmeccanica. La partita con papà è un’iniziativa che si svolge in tutt’Italia per sensibilizzare sul fatto che tutti i bambini sono uguali, anche i 100mila bambini che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo vengono emarginati e stigmatizzati. Padri, madri e figli potranno quindi condividere un momento di normalità e vicinanza nonostante la detenzione. L’evento coinvolgerà 2800 bambini e 1700 genitori, insieme agli agenti della polizia penitenziaria e agli educatori, e rappresenterà una preziosa occasione per sensibilizzare le istituzioni, i media e tutta la cittadinanza sul tema dei diritti dei figli dei carcerati e sulla lotta all’emarginazione e allo stigma a cui sono soggetti. Questo significa anche che ci sono 100mila figli che, a causa del distacco dovuto alla detenzione, corrono un alto rischio di interrompere il legame affettivo con il proprio genitore, fondamentale strumento di protezione e prevenzione per contrastare fenomeni di abbandono scolastico, disoccupazione, disagio sociale, illegalità e detenzione. Si stima infatti che, senza un’adeguata tutela della relazione con il genitore, il 30% dei figli di detenuti sia a rischio di diventare detenuto a sua volta (Federazione dei Relais Enfants Parents, Parigi). Bambinisenzasbarre Onlus si impegna dal 2002 per tutelare il diritto di questi bambini, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, al mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, affermando allo stesso tempo il diritto-dovere di quest’ultimo a esercitare il suo ruolo. Per questo ha creato gli Spazi Gialli, luoghi di accoglienza, ascolto, interazione e attenzione dove ogni giorno accoglie 10mila bambini che entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà. Gli istituti penitenziari in cui è presente sono, per ora, in Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Campania, Puglia e Sicilia. Per costruire nuovi Spazi Gialli e raggiungere così i 90mila bambini che ancora li stanno aspettando, Bambinisenzasbarre ha lanciato la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “Loro non hanno colpe”, attiva dall’1 al 28 dicembre 2019 con numero solidale 45594. Il valore della donazione sarà di 2 euro per ciascun SMS inviato da cellulari Wind Tre, Tim, Vodafone, PosteMobile, Iliad, Coop Voce, Tiscali. Sarà di 5 euro per le chiamate da rete fissa TWT, Convergenze, PosteMobile e di 5 e 10 euro da rete fissa Tim, Vodafone, Wind Tre, Fastweb e Tiscali “La memoria rende liberi”, a cura di Enrico Mentana. Segre e le origini del suo no all’odio recensione di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 9 dicembre 2019 “Ricordo di aver visto il capo del lager buttare la pistola per terra. Era un uomo terribile, crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere, e in quel momento una parte di me avrebbe voluto raccogliere la pistola e ucciderlo. Fu un istante di vertigine. Ma di colpo capii che non avrei mai potuto farlo. E da quel preciso istante fui libera. Veramente libera, perché ebbi la certezza di non essere come lui, di essere un’altra cosa”. Primo maggio 1945. Liliana Segre ha 14 anni, pesa 32 chili. Un’adolescente ridotta a scheletro dalla fame, il gelo, il lavoro schiavo nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove era stata deportata in quanto ebrea. Le SS la trasferiscono in Germania, con altri prigionieri, per sfuggire all’avanzata dell’Armata Rossa. E la sua “marcia della morte”: Liliana è sfiancata dalla febbre, le vesciche sanguinanti ai piedi, un’infezione che rischia di ucciderla. Proprio durante quel terribile percorso, quando le SS per paura dei russi iniziano ad abbandonare le divise, le si presenta l’occasione di ammazzare il suo aguzzino. Eppure, non lo fa. Sceglie la vita. Non la vendetta, non la morte. Viene da lontano, fin dal luogo in cui il male assoluto si è rivelato ai suoi occhi ragazzini, il “no” all’odio. E si capisce allora la straordinaria forza di oggi, a 89 anni, sotto scorta, eppure pronta - come ha spiegato in un’intervista al Corriere il 22 novembre - a guidare la Commissione contro l’odio da lei stessa proposta. “Ho passato 45 anni, dopo la guerra - ha detto la senatrice - a macerarmi nel rimorso di non riuscire a parlare. Poi a 60 anni ho trovato le parole. Per decenni ho rivissuto gli incubi del passato pur di testimoniare nelle scuole. Oggi, grazie alla scelta di Mattarella, posso raggiungere milioni di persone. Se smettessi avrei un’esistenza più serena, ma non sarei in pace. E poi la darei vinta proprio agli odiatori”. L’espulsione dalla scuola a 8 anni, l’arresto, il carcere, il lager, l’impossibilità, dopo l’orrore, di tornare alla vita normale, l’amore salvifico del marito Alfredo, la scelta di diventare una testimone, sono narrati dalla voce di Liliana Segre, raccolta da Enrico Mentana, in un libro prezioso, “La memoria rende liberi”. La vita interrotta di una bambina nella Shoah, che ora torna in una nuova edizione con testi inediti, in libreria con Rizzoli e in edicola con il Corriere della Sera. Prezioso, perché è innanzitutto un antidoto all’indifferenza: la parola che Liliana Segre ha voluto all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano. Quel binario 21 della Stazione Centrale da cui tra i latrati dei cani, le urla, i fischi, le spinte e i calci di zelanti fascisti, partirono i carri bestiame diretti ai campi di sterminio. Il convoglio di Liliana lasciò Milano il 3o gennaio 1944. A quel punto, ricorda lei nel libro, “non potevamo far niente. Non potevamo più neanche ammazzarci”. Tutto, osserva, “comincia da quella parola: indifferenza. Gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra di quella parola. Quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. È come assistere a un naufragio da una distanza di sicurezza. Non importa quanto grande sia la nave o quante persone abbia a bordo: il mare la inghiotte e tutto torna uguale a prima”. Tra gli inediti de “La memoria rende liberi” ci sono alcuni discorsi della senatrice a vita, nominata il 19 gennaio 2018. “Si dovrebbe dare idealmente la parola a quei tanti che non sono tornati, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento”, dice nel primo intervento al Senato il 5 giugno 2018. Salvarli dall’oblio, aggiunge, è anche un modo di aiutare gli italiani di oggi “a non anestetizzare le coscienze”. La memoria rende liberi è doppiamente prezioso perché restituisce anche il prima e il dopo l’inferno. Come avverte Mentana nell’Introduzione, “la memoria ormai si focalizza all’interno del perimetro di Auschwitz”. Così però “la più spaventosa politica sistematica di persecuzione che il mondo abbia conosciuto perde il suo contesto”. La discriminazione degli ebrei d’Europa, prosegue il direttore del Tg La7, inizia “ben prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, non è relativizzabile a un aspetto tra gli altri dell’inumanità di quel conflitto totale. Nell’Italia fascista, e non solo in Italia, persecutori e perseguitati erano stati parte della stessa società. Eppure venne un giorno in cui i primi decisero che i secondi non avrebbero più potuto insegnare o imparare, lavorare o possedere, fare impresa o risparmiare”. Poi arrivarono, da alleati a occupanti, “gli ispiratori di quella politica di discriminazione, per trasformarla in annientamento. E in tanti italiani chiusero gli occhi, si voltarono dall’altra parte o aiutarono attivamente”. Liliana Segre ha vissuto “come dalle parole dell’odio sia facile passare ai fatti”. Alla marcia che si terrà domani, nella Milano che fu indifferente, hanno aderito oltre 600 sindaci per darle solidarietà e dire: “L’odio non ha futuro”. “Cucinare al fresco”, dal carcere ricette per il cenone ansa.it, 9 dicembre 2019 Lo chef Moreno Cedroni firma ricettario coi detenuti Como, Varese e Milano. I piatti delle festività di fine anno e i consigli per il cenone di Natale in un ricettario scritto dai detenuti delle carceri di Como, Varese e Milano (Bollate e Opera) insieme allo chef Moreno Cedroni, patron del ristorante La Madonnina del pescatore di Senigallia, due Stelle Michelin, di Anikò, sempre a Senigallia e del Clandestino sushi bar di Portonovo. Arriva in libreria “Cucinare al fresco - Christmas Edition”, il progetto avviato due anni in alcune carceri lombarde che vede proprio i detenuti alle prese coi fornelli, coordinati dalla giornalista e Pr comasca Arianna Augustoni. Una edizione da collezione, stampata in 150 copie e finanziato dalla Bcc di Cantù per una pubblicazione con 44 pagine di sensazioni, di pozioni magiche, di idee e soprattutto di fantasie culinarie proposte dai quattro gruppi di detenuti. “Apprezzo tantissimo - sottolinea lo chef Cedroni - l’uso del cibo come mezzo di riabilitazione, e perché no, come mezzo di reinserimento sociale con nuove passioni e nuovi obiettivi. Sono contento nel sapere che questo progetto vada oltre la ricetta e che questa passione è anche unita a nozioni tecniche su cotture e prodotti e su informazioni per una sana e corretta alimentazione, sempre più importante oggi - continua Cedroni. In questo modo il cibo completerà un percorso che nutrirà sia il corpo che l’anima. Provo solo a immaginare i profumi che si svilupperanno il giorno di Natale, dove ci sarà il desiderio di preparare le ricette più buone e più evocative, chissà quante culture si intrecceranno, religioni diverse, ingredienti diversi, ma tutti accomunati dal valore del cibo”. “Acquistare una copia di “Cucinare al fresco - Christmas Edition” rappresenta - conclude la coordinatrice del progetto Augustoni - un comportamento propositivo per credere che, nella vita, c’è sempre una seconda chance”. Nelle scuole è allarme social. Smartphone e tablet ormai fuori controllo di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 9 dicembre 2019 Nelle scuole dilaga l’allarme per “l’uso improprio” dei telefonini in classe. Sono trascorsi dodici anni da quando una circolare del ministero della pubblica istruzione ha formalmente vietato i cellulari a scuola durante le ore di lezione, ma da allora la situazione è progressivamente finita fuori controllo tra atti di bullismo prima ripresi con gli smartphone poi condivisi sui social network e studenti sorpresi a copiare i compiti in classe da telefonini e tablet. Insomma, una valanga di incidenti di percorso “digitali” e utilizzi impropri delle nuove tecnologie. Un’indagine del Laboratorio Adolescenza di Milano ha rilevato che la quasi totalità degli studenti italiani (98,8%) sono contrari al divieto di portare il cellulare a scuola e solo il 20% ritiene più giusto spegnerlo in classe. Per tutti gli altri basta che venga silenziato. Lo smartphone solo per una minoranza di allievi è utile ad apprendere. A usare il telefonino per scopi didattici “spesso” sono il 29,4% e almeno “qualche volta” il 47,1%, ma, nonostante sia vietato, i numeri (riportati nella tabella qui accanto) raccontano una realtà opposta e descrivono l’abuso sistematico delle nuove tecnologie tra i giovani. E cioè: l’84% dei preadolescenti ha un profilo social, ma naturalmente al momento dell’iscrizione nessuno ha indicato la sua vera età, neppure chi l’ha fatto con un genitore presente. Internet per i ragazzi è un mondo a parte: il 91% non parla con i familiari di ciò che vede o dice durante la navigazione, eppure la vita degli studenti è fortemente influenzata dai messaggi che arrivano dai social, tanto che il 60% clicca addirittura sulle pubblicità e 8 su 10 rispondono ai sondaggi virtuali fornendo così dati fondamentali per campagne pubblicitarie mirate. In Italia la profilazione dei minori è vietata fino ai 14 anni, ma è divenuta una prassi. L’uso incontrollato del web è ormai un allarme che riguarda non solo il comportamento degli studenti ma anche dei professori. Nei giorni scorsi a ritrovarsi nei guai è stato Emanuele Castrucci, docente di Filosofia del diritto all’ateneo di Siena. Finito sotto accusa a causa dei tweet filo-nazisti per cui ora rischia di essere licenziato, il professore si è difeso facendo appello alla “libertà di pensiero” e parlando di “opinioni personali”, espresse “fuori dall’attività di insegnamento”. Eppure, nonostante la frequentazione quotidiana e spesso ossessiva delle piazze virtuali abbia indotto molti a credere che il web sia una “zona franca”, il suo caso ci ricorda, al contrario, che le regole da rispettare ci sono. Ogni diritto ha un limite “Non c’è diritto anche costituzionalmente rilevante che non abbia limiti” ricorda Vito Tenore, consigliere della Corte dei Conti e docente di Diritto del lavoro pubblico nella Scuola nazionale dell’Amministrazione, che cita Umberto Eco: “I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar” e “ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”. “Il tema è antico - ricorda Tenore - e se la libertà di pensiero è scolpita dall’articolo 21 della Costituzione, i limiti sono dati da altri diritti speculari: onore, reputazione, riservatezza, segreti come quello istruttorio o bancario”. Oltre che da educazione e buon senso, questi limiti “sono fissati per tutti i cittadini dal codice penale e dal codice civile. Per certe categorie (giornalisti, magistrati, architetti o notai, militari, forze dell’ordine) sono stabiliti anche in codici deontologici, o, per alcuni dipendenti pubblici e privati, nei contratti collettivi di lavoro. Anche condotte extra-lavorative possono avere rilevanza disciplinare” perché “ledono l’immagine del datore di lavoro o del decoro e della dignità del dipendente stesso”, provocando la perdita del vincolo di fiducia. Dal 2013, per chi lavora nella pubblica amministrazione, esiste un codice di comportamento che impone maggiore attenzione nelle esternazioni social. Il monito del Capo dello Stato A chiedere maggiore sobrietà anche ai magistrati, nell’aprile scorso, è stato lo stesso presidente Sergio Mattarella. Passando dalla chiacchiera da bar a Facebook o Twitter, insomma, si è realizzato il passaggio dal gruppo degli amici a un “numero indeterminato” e potenzialmente enorme di persone, come ha confermato la Cassazione il 27 aprile 2018 con la sentenza sul post denigratorio pubblicato da una lavoratrice che su Facebook si era scagliata contro la sua azienda: “Mi sono rotta i c... di questo posto di m..” aveva scritto. Ma lo sfogo le era costato il posto. I social, ha ribadito la Corte il 12 novembre dello scorso anno, devono essere considerati luoghi pubblici, e non serve “privatizzare” il profilo rendendolo visibile a un gruppo ristretto di persone, perché può comunque essere rilanciato da ciascuno dei contatti dell’utente. I rischi, per chi eccede, sono annidati ovunque: anche i messaggi di Whatsapp o la chat su Skype possono diventare prove documentali. A finire talvolta nella trappola dei social sono anche esponenti delle forze dell’ordine. C’è il poliziotto sospeso per avere usato i dati raccolti durante una denuncia per contattare una donna su Facebook, e il militare incappato nella sanzione disciplinare per avere pubblicato su Fb le foto di un servizio svolto durante l’Expo di Milano con le tende da campo allagate e commenti negativi per sottolineare le condizioni precarie in cui si trovava coi commilitoni. Con una circolare del 2011, l’Arma dei Carabinieri ha chiesto così “un utilizzo prudente del web”. Provvedimenti analoghi hanno assunto l’Amministrazione penitenziaria e la Guardia di Finanza. “Un controllo di tutto ciò che postiamo è impossibile e non esiste un ordinamento che possa prevedere tutto in modo capillare - evidenzia Tenore -. Credo che sarebbe utile definire un “galateo dei social” mettendo attorno al tavolo soggetti come Google, Facebook, il Miur, l’Anac, linguisti e comunicatori”. Commenta Antonello Soro, presidente dell’Autorità Garante della Privacy: “La tensione, per certi versi inevitabile, tra libertà di espressione e diritti che confliggono deve essere composta secondo la gerarchia di valori espressa dalla Costituzione e dal diritto europeo. La libertà di espressione è “pietra angolare della democrazia”, ma poiché nessuno diritto “è tiranno” anch’essa deve soggiacere ai limiti necessari alla tutela di altri diritti fondamentali. Diritti che, on-line, devono godere delle stesse garanzie accordate off-line”. Per Soro “il ruolo centrale assunto dalle piattaforme le carica di un potere cui non corrisponde uno statuto giuridico ancora del tutto adeguato in termini di responsabilità”. In questo senso, afferma Soro, “si potrebbero promuovere misure che limitino non tanto la libertà di espressione quanto l’amplificazione”. E se le grandi piattaforme hanno cominciato a intervenire “per evitare la propagazione di post spesso fortemente lesivi della dignità, aggiunge Soro, “le decisioni di ultima istanza sulla composizione tra diritti fondamentali devono restare di competenza dell’autorità pubblica. E con procedure rapide”. Reati di opinione, illeciti contro l’onore, sono “quanto di più complesso e divisivo esista nell’ordinamento: possiamo davvero pensare che decidano sole e con effetto irrevocabile le piattaforme, con una sorta di giurisdizione privata?”. Servono nuove regole Dice Bruno Saetta, avvocato e blogger, esperto di diritto applicato alle nuove tecnologie: “Una regolamentazione serve, perché il fenomeno si sta espandendo in modo preoccupante. Ma il problema è: che tipo di regolamentazione? Perché hate speech (discorsi d’odio) e fake news (notizie false) sono connaturati alla società, non nascono nei social. Limitarsi a rimuoverli è come nascondere la polvere sotto il tappeto, non risolve il problema, in più quando si parla di hate speech e di fake non c’è una definizione a livello internazionale: ma se non partiamo da una adeguata comprensione delle dinamiche qualsiasi regolamentazione rischia di fallire”. Forse è a uno psichiatra come Federico Tonioni, responsabile del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web alla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, che si può chiedere perché sui social oltrepassiamo così spesso i limiti: “Perché i corpi non sono a portata di contatto fisico, e i corpi quando sono vicini contengono gli istinti. La persona si esprime da una distanza di sicurezza e si contiene meno, come quando ci si arrabbia al telefono e lo si fa in modo più veemente. Il meccanismo è lo stesso del cyberbullismo: sono situazioni in cui è più facile non prendersi del tutto la responsabilità di quello che si dice e si dà voce anche a pensieri discutibili. Chi scrive è disinibito ma consapevole e forse, com’è possibile quando c’è tanto pubblico, è alimentato anche da un certo narcisismo”. Francia. Colpevoli di ecocidio di Anais Ginori La Repubblica, 9 dicembre 2019 La Francia potrebbe essere uno dei primi Paesi europei a inserire nel codice penale “ecocidio”, ovvero un’azione “concertata e deliberata per causare direttamente un danno diffuso, irreversibile e irreparabile a un ecosistema”, come recita una proposta di legge che sarà esaminata giovedì dall’Assemblee Nationale. Un dibattito altamente simbolico nei giorni in cui i capi di Stato e di governo saranno a Madrid per la chiusura della Cop25. Gli sherpa sono al lavoro in queste ore per delineare il messaggio politico che i Paesi lanceranno entro venerdì, quando si concluderà la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima. In mancanza di impegni precisi, la Cop25 dovrebbe permettere almeno di esprimere una nuova “ambizione”, come ha detto il segretario dell’Onu Antonio Guterres, in vista della Cop26 che si terrà fra un anno a Glasgow, nel Regno Unito, a cinque anni dall’accordo di Parigi. È in Scozia che i Paesi saranno chiamati a vincolare nero su bianco i target di riduzione delle emissioni di gas serra, ora indicati su base volontaria. Ecco perché politicamente il vertice di Madrid è importante. Emmanuel Macron ha fatto della lotta al riscaldamento climatico una sua priorità, schierandosi apertamente contro il presidente americano Donald Trump che ha avviato la procedura per uscire dagli accordi di Parigi. La Francia appoggia l’obiettivo della neutralità carbonio entro il 2050 per l’Europa. La nuova presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, dettaglierà mercoledì il suo patto verde, alla vigilia del Consiglio europeo di giovedì e venerdì. Nonostante alcuni governi ancora recalcitranti, difficile per i leader rimanere passivi davanti ai dati scientifici ormai inconfutabili e al movimento di Greta Thunberg che accusa: “In un anno non è stato fatto niente”. La proposta francese per equiparare i reati ambientali più gravi sullo stesso piano dei crimini contro l’umanità o i genocidi non viene dalla maggioranza ma è un’iniziativa del gruppo socialista. Un primo testo sull’introduzione dell’ecocidio nel codice penale era stato bocciato dal Senato nel maggio scorso, ufficialmente perché il quadro giuridico non era abbastanza chiaro. Il testo che sarà esaminato dall’Assemblee Nationale questa settimana prevede per chi si rende responsabile di ecocidio condanne fino a 20 anni di carcere e 10 milioni di euro di sanzioni. Nel caso di società coinvolte la sanzione finanziaria potrebbe arrivare fino al 20 per cento del fatturato annuo. La proposta di legge prevede anche di cancellare la prescrizione in casi di reati contro l’ambiente. La nuova iniziativa parlamentare parte dall’assunto che ci sia una nuova urgenza ecologica e una nuova consapevolezza, sulla scia-del movimento guidato da Greta. Il consiglio per la difesa dell’ecologia, un organismo composto da cittadini estratti a sorte, ha fatto la stessa proposta. E qualche mese fa lo stesso Macron aveva parlato di “ecocidio” a proposito degli incendi in Amazzonia. Il termine esiste da tempo e ci sono stati in passato vari tentativi internazionali di introdurre questo tipo di reato nelle competenze della Corte penale internazionale. Forse adesso i tempi sono maturi per individuare una responsabilità, anche giuridica, nella protezione del Pianeta. Prima dell’estate un gruppo di Ong francesi aveva presentato una denuncia al Consiglio di Stato per “inazione climatica”, accompagnando l’iniziativa da una petizione che aveva raccolto oltre 2,3 milioni di firme, un record. Usa-Iran, scambio di detenuti eccellenti con mediazione svizzera Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2019 Massoud Soleimani, scienziato della Repubblica islamica da un anno in un carcere Usa, e Xiyue Wang, studioso sino-americano dal 2016 prigioniero a Teheran, sono liberi e stanno tornando a casa. Uno scambio di detenuti eccellenti, a conferma che all’ombra di sanzioni e minacce i canali di dialogo tra Iran e Stati Uniti restano di fatto aperti. Massoud Soleimani, scienziato della Repubblica islamica da un anno in un carcere Usa, e Xiyue Wang, studioso sino-americano dal 2016 prigioniero a Teheran, sono liberi e stanno tornando a casa. È il risultato di una trattativa condotta con la mediazione della Svizzera, che cura gli interessi di Washington in Iran dall’interruzione dei rapporti diplomatici dopo la presa di ostaggi all’ambasciata 40 anni fa. Lo scambio è avvenuto a Zurigo. “Felice che il professore Massoud Soleimani e il signor Xiyue Wang ritorneranno presto dalla loro famiglie”, ha twittato il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, ringraziando esplicitamente Berna per il contributo e pubblicando sue foto con il professore iraniano. “Dopo oltre tre anni di detenzione in Iran, Xiyue Wang sta tornando negli Stati Uniti”, ha confermato in un comunicato Donald Trump. “Ringraziamo i nostri partner svizzeri per l’assistenza nel negoziare il suo rilascio. Liberare gli americani tenuti prigionieri è di vitale importanza per la mia amministrazione e continueremo a lavorare sodo per riportare a casa tutti i cittadini detenuti ingiustamente all’estero”, ha aggiunto il presidente americano. Docente all’università Tarbiat Moddares di Teheran e studioso di ematologia e medicina rigenerativa, Soleimani era stato arrestato dopo l’arrivo negli Usa nell’ottobre 2018, ufficialmente per motivi di ricerca, con l’accusa di voler portare materiale biologico in Iran. Wang, dottorato in storia a Princeton, stava invece scontando una condanna a dieci anni nella Repubblica islamica, dove era finito in carcere per spionaggio nell’agosto 2016 mentre conduceva ricerche sulla dinastia Qajar. Tra gli americani ancora nelle prigioni nella Repubblica islamica, molti con doppio passaporto, ci sono il veterano della Marina Michael White, l’imprenditore irano-americano Siamak Namazi e suo padre Bagher Namazi, tutti accusati di spionaggio. A inizio ottobre, un altro scambio di fatto tra detenuti era avvenuto con l’Australia con il rilascio della coppia di travel blogger Jolie King e Mark Firkin, inizialmente arrestati per spionaggio, mentre il ricercatore iraniano Reza Dehbashi Kivi era tornato in patria dopo oltre un anno in una prigione australiana. Lo scambio testimonia l’esistenza di un dialogo sotterraneo tra Washington e Teheran, a dispetto delle forti tensioni bilaterali. Del resto, nei giorni scorsi era stata resa nota una recente iniziativa di cooperazione culturale senza precedenti sotto la Repubblica islamica che ha portato una delegazione dell’Università di Chicago in Iran per restituire 1.783 tavolette di terracotta con iscrizioni in lingua elamitica, risalenti all’Impero Achemenide intorno al 500 a.C., rinvenute nel 1935 a Persepoli e da allora in prestito all’ateneo Usa. Brasile. Amazzonia, uccisi altri due leader indigeni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 dicembre 2019 Altri due leader indigeni dell’etnia Guajajara sono stati assassinati a colpi d’arma da fuoco, mentre due sono stati feriti, in un nuovo attacco armato nel Maranhao, nel nord del Brasile. È successo in una riserva dei Guajajara, nel mezzo dell’Amazzonia a circa 500 chilometri da Sao Louis, quando persone armate hanno attaccato il gruppo di nativi su una strada, hanno riferito i media brasiliani. Si tratta del terzo indigeno dell’etnia assassinato in due mesi, dopo l’uccisione a novembre da parte di tagliatori di legna che erano stati espulsi dalla riserva di Paulinho Guajajara, membro di un gruppo di protezione delle foreste. Sonia Guajajara, principale leader del gruppo indigeno e candidata vicepresidente nel 2018 con il Psol, ha identificato i due indios uccisi come Raimundo Bernice Guajajara e Firmino Silvino Guajajara, spiegando che stavano tornando in motocicletta da una riunione sulla difesa dei diritti degli popoli nativi. Secondo la Società del Maranhao sui diritti umani sono 13 gli indigeni assassinati nello Stato negli ultimi 4 anni in conflitti con tagliatori di legna e persone che hanno invaso illegalmente la riserva. Le organizzazioni per i diritti umani imputano la responsabilità dell’aumento degli attacchi alle posizioni e politiche del governo del presidente Jair Bolsonaro, favorevole allo sfruttamento dell’Amazzonia e alla nuova delimitazione delle terre indigene. “Sono dispiaciuto per l’attentato, accaduto nel Maranhao, terminato con due indios Guajajara uccisi e due feriti. Non appena saputo degli spari, il Funai è stato al villaggio a occuparsene, con le autorità del governo del Maranhao”, ha scritto su Twitter il ministro della Giustizia, Sergio Moro. Il Funai è la Fondazione nazionale dell’indio, organo governativo che si occupa delle politiche su indigeni e terre dei nativi. “La polizia federale ha già inviato una squadra sul posto e indagherà il crimine a la sua motivazione. Valuteremo la possibilità di inviare squadre della forza nazionale nella regione”, ha aggiunto. Sul posto è stato inviato anche personale della segreteria dei diritti umani del Maranhao.