Nasce un coordinamento "Per una cultura costituzionale dell’esecuzione penale" di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2019 Le Camere penali avevano indetto il 9 luglio un’astensione dalle udienze culminata in una manifestazione a Napoli dal titolo "Emergenza carcere: riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale". In quell’occasione la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, da me rappresentata in qualità di presidente, era intervenuta e aveva poi scritto e pubblicato una lettera aperta con l’invito ad abbandonare la logica della "competizione sul mercato del bene" e la proposta di lavorare insieme superando inutili e pericolose divisioni. Il 23 novembre, con lo stesso spirito di quell’invito, Glauco Giostra, ordinario di procedura penale all'Università di Roma La Sapienza e presidente della Commissione che ha elaborato, la scorsa legislatura, una riforma dell'Ordinamento penitenziario rimasta, in buona parte, sulla carta, ha convocato a Roma associazioni e realtà impegnate sui temi delle pene, del carcere e del rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, con lo scopo di costruire un coordinamento "per una cultura costituzionale dell’esecuzione penale". In quell’occasione la proposta della Conferenza è stata che ogni realtà si muova inizialmente su due punti chiave per costruire una opportunità nuova di lavorare insieme: - mettere a disposizione la propria competenza negli ambiti che ognuno conosce meglio, che per noi della Conferenza sono la qualità della vita detentiva, i percorsi di reinserimento nella comunità, la sensibilizzazione delle scuole, l’informazione e la formazione dei giornalisti, e anche una ricca esperienza su tutto quello che ha a che fare con l’ergastolo, e i circuiti di Alta Sicurezza, anche alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale - chiedere a nostra volta al Coordinamento (docenti universitari, camere penali, magistrati, associazioni) che ognuno, per la sua competenza, contribuisca a mettere a disposizione di tutti la "cassetta degli attrezzi" per lavorare in modo più efficace, quindi statistiche, ricerche, conoscenze scientifiche, sentenze, pareri di avvocati e magistrati. Valorizziamo conoscenze, cultura, idee, che è quanto di più rivoluzionario ci sia in tempi in cui il potere spesso è in mano a dei "dilettanti allo sbaraglio". Ma facciamolo insieme, cosa che non avviene oggi perché ognuno ha da difendere la sua "visibilità". Per questo la Conferenza è favorevole alla scelta che siano soprattutto i docenti universitari ad avere il ruolo di promuovere questo Coordinamento, e di farlo diventare un motore di iniziative per riportare il rispetto della Costituzione nelle carceri e sul territorio. Un esempio concreto dell’urgenza di condividere risorse e competenze? La sentenza della Corte Costituzionale relativa all’ergastolo ostativo ha acceso speranze in persone, che sono in carcere da venti-trent’anni e più, ma le motivazioni della sentenza poi, quando parlano di "acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino" ci fanno capire che se non si affronta il complesso tema delle informative delle procure antimafia, delle declassificazioni dai circuiti di Alta Sicurezza, di possibili forme di dissociazione, le persone detenute e i loro famigliari (ricordiamo che nei circuiti di Alta Sicurezza sono chiusi più di 9000 detenuti) ripiomberanno in una disperazione che molto ha a che fare con quei trattamenti "contrari al senso di umanità" di cui parla la Costituzione relativamente alle pene. Ma servono anche dei passi da fare subito, che riguardano le condizioni detentive in presenza di un sovraffollamento a livelli di guardia, il momento è così difficile che non possiamo permetterci il lusso di aspettare di avere una organizzazione adeguata prima di iniziare a proporre delle iniziative che ci coinvolgano tutti. La nostra proposta è di avere degli obiettivi comuni sul terreno della qualità della vita detentiva, che non richiedano cambiamenti legislativi né grandi risorse economiche, un esempio può essere la piattaforma sugli affetti elaborata dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia sulla base della sua conoscenza diretta e approfondita dei diversi istituti penitenziari e di come al loro interno viene rispettata o meno la Costituzione. Tutte le realtà presenti a Roma, alla Sapienza, il 23 novembre si sono dette favorevoli a promuovere questo Coordinamento, a definirne meglio gli obiettivi, a pensare alle prime iniziative comuni, a dargli visibilità attraverso un portale Internet, la cui realizzazione dovrebbe essere affidata prevalentemente all’Università La Sapienza. E tutte hanno avvertito l'esigenza di coinvolgere altre realtà aventi ugualmente a cuore la necessità di impegnarsi insieme per dare nuovo impulso alla finalità rieducativa della pena. Realtà presenti il 23 Novembre a Roma, alla Sapienza: Antigone, Comunità di Sant'Egidio, Collegio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza, L'Altro Diritto, Nessuno Tocchi Caino, Osservatorio Carcere Unione Camere Penali, Radio Carcere, Ristretti Orizzonti. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Ingiusta detenzione. Mille casi ogni dodici mesi e centinaia di milioni d’indennizzo di Luca Rocca Il Tempo, 8 dicembre 2019 Ben mille casi all’anno di ingiusta detenzione, il che significa, dati alla mano, decine di migliaia di persone sottoposte all’arresto illegittimamente negli ultimi decenni e centinaia di milioni di euro dei contribuenti impiegati per i sacrosanti indennizzi. E questo il quadro ufficiale, e sconfortante, nel nostro Paese quanto al più grave degli errori giudiziari, la restrizione della libertà, in grado di rovinare la vita a cittadini innocenti, impigliati per anni nella "malagiustizia". Premettendo che chi viene sottoposto a misura cautelare per poi essere riconosciuto innocente, ha diritto a un indennizzo (che comunque non può superare la soglia di 516mila euro), i dati ufficiali ci dicono che dal 1992 al 31 dicembre 2017, quindi in 25 anni, ben 26.412 persone hanno subito un’ingiusta detenzione per poi essere indennizzate dallo Stato, che in quell’arco di tempo ha versato complessivamente oltre 656 milioni di euro. Ma se a questi numeri si sommano gli altri "errori giudiziari" (per fare un esempio, le condanne definitive poi annullate dopo un processo di revisione che si conclude con l’assoluzione), il numero delle vittime sale fino a 26.550, e contemporaneamente si impenna anche la cifra del risarcimento, che arriva a superare i 768 milioni di euro. Prendendo come punto di riferimento il 2017, poi, i casi di ingiusta detenzione sono stati più di mille, con un costo per i contribuenti di 34 milioni di euro. Ma le cose non sono cambiate nel 2018. Come documentato dal sito "errorigiudiziari.com" diretto da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, dal primo gennaio 2018 al 30 settembre dello stesso anno, i casi di detenzione illegittima sono stati 856, per una spesa a carico dello Stato pari a 30 milioni di euro. Se lo stesso andamento sarà registrato, com’è probabile, anche negli ultimi tre mesi del 2018, è ovvio prevedere che anche l’anno scorso i casi registrati saranno stati più di mille. Il caso. Tre anni detenuto da innocente Il cinquantenne Franco Di Nardi arrestato nel 2013 e ora risarcito con centomila euro. Tre anni di ingiusta detenzione e con l’infamante accusa di aver picchiato selvaggiamente un disabile mentale. Per questi 36 mesi trascorsi in una cella del carcere di Cassino, la IV sezione della Corte d’Appello di Roma ha accolto la richiesta avanzata da Franco Di Nardi, operaio residente a Piedimonte San Germano, nel Frusinate, e ha condannato il Ministero dell’Economia al risarcimento dei danni per centomila euro. Una vicenda che ha inizio nel 2013 quando i carabinieri arrestano tre uomini con l’accusa di aver massacrato di botte e senza motivo un giovane con problemi psichici. Un episodio che scosse l’opinione pubblica anche per i successivi risvolti: la vittima, qualche mese dopo l’aggressione, si lanciò dal quinto piano dell’ospedale di Cassino, dov’era ancora ricoverato, proprio a causa delle botte prese. In fase dibattimentale emersero gravi carenze di indizi a carico del detenuto e uno dei componenti del presunto branco ammise di aver pestato il ragazzo senza la complicità degli altri imputati. A discolpa di Franco Di Nardi, inoltre, c’era una malattia degenerativa che gli rende difficile Fuso delle mani e richiede lunghi periodi di cura oltre al supporto di altre persone per lo svolgimento delle più normali funzioni quotidiane. Nonostante i tanti elementi a sua discolpa, in primo grado Di Nardi viene condannato a tre anni e sei mesi di reclusione per il reato di lesioni gravi. A ribaltare completamente la decisione dei giudici del tribunale di Cassino, nel 2015 e nel 2016 furono i magistrati della Corte d’Appello e della Cassazione. Il cinquantenne venne assolto "per non aver commesso il fatto". Ma nel frattempo, tra un processo e l’altro, ha continuato ad essere "ristretto", dapprima in una cella e poi ai domiciliari. Definita la sua posizione giudiziaria e attestata la totale estraneità ai fatti contestati, Di Nardi ha dato mandato al suo legale Francesco Malafronte di avviare la richiesta di risarcimento per il tempo ingiustamente trascorso dietro le sbarre. Una battaglia giudiziaria sostenuta da documenti e prove che hanno portato il presidente Flavio Monteleone e i consiglieri Maria Luisa Paolicelli e Angela Tursi, componenti della IV sezione della Corte d’Appello, a dargli ragione. "La notte del mio arresto non potrò mai dimenticarla - ci dice l’uomo non senza commozione. Non riuscivo a capire per quale motivo ero stato accusato di una cosa tanto brutta. Picchiare una persona, soprattutto indifesa, non è nella mia indole. Eppure per quell’aggressione sono stato in carcere per mesi, a gridare la mia innocenza. Mi hanno creduto solo i miei familiari e il mio avvocato. Perché, se vieni arrestato su di te cala comunque il velo del sospetto. E ancora oggi mi resta difficile far finta di non vedere certi sguardi accusatori". "Una soddisfazione per il mio assistito che certo non lenisce una ferita inguaribile. È emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale, e che vorremmo tutti coincidesse con quella sostanziale. Posso dire con amarezza che c’è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato. Trascorrere un lungo periodo da innocente in carcere non è umano. Un fatto che ha profondamente segnato la vita del signor Di Nardi che ora potrà finalmente ricominciare un percorso fatto di dignità e coraggio". "Alla Consulta per bloccare Bonafede" Libero, 8 dicembre 2019 Il forzista Costa e lo scontro sulla prescrizione. "Se non ci verrà concesso il diritto di discutere in aula la nostra proposta blocca-Bonafede entro la fine dell’anno, ci rivolgeremo alla Corte Costituzionale e giorno per giorno proseguiremo la nostra battaglia di civiltà giuridica". Il forzista Enrico Costa, autore della proposta di legge per bloccare l’entrata in vigore della nuova prescrizione, annuncia, assieme al suo partito, l’intenzione di ricorrere alla Consulta contro la legge voluta dal ministro grillino Alfonso Bonafede, che prevede lo "stop" della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Legge che, se non interverranno modifiche, entrerà in vigore a gennaio. Una corsa contro il tempo che vede schierati anche gli avvocati penalisti italiani. Il loro leader, Gian Domenico Caiazza, ieri ha tracciato un bilancio delle oltre settanta ore di maratona oratoria che per tutta la settimana lo hanno impegnato, insieme ai suoi colleghi, davanti alla Corte di Cassazione. È stato un "successo" che ha avuto un’attenzione dal mondo politico "senza precedenti", ha commentato Caiazza, e che ha centrato l’obiettivo "di spezzare i punti fondanti della forza violenta dell’idea opposta alla nostra, fondata sulla disinformazione. Stiamo mettendo in difficoltà la vulgata populista, il populismo è l’inganno del popolo". Alla maratona organizzata dall’Unione delle camere penali hanno partecipato pure i parlamentari renziani, e dentro alla maggioranza non è stata ancora raggiunta l’intesa su una modifica condivisa. "Ci siamo vicini", ha assicurato ieri Giuseppe Conte senza dare altri dettagli e limitandosi a spiegare che sono allo studio "varie soluzioni tecniche". Una volta trovate, ha aggiunto, "faremo un vertice politico per raccordarle e per dare il crisma della soluzione forale, che preluderà a un prossimo consiglio dei ministri". Pinotti: "La prescrizione non ci piace ma i processi vanno conclusi" di Alessandro Di Matteo La Stampa, 8 dicembre 2019 La senatrice del Pd ed ex ministra della Difesa: "Siamo preoccupati se non si mette mano alla durata dei procedimenti". Roberta Pinotti, il premier Conte dice che siete vicini ad una soluzione tecnica sulla prescrizione. Il clima è davvero migliorato? "Sì, perché gli obiettivi sono comuni. Nessuno di noi è innamorato della prescrizione, quando si arriva alla prescrizione è un fallimento del sistema perché vuol dire che il processo non si è concluso. È un tema di cui parliamo da molti anni. Ma assieme a questo c’è l’obiettivo della riduzione dei tempi dei processi. Se da un lato è vero che la prescrizione è una stortura perché non permette di arrivare a decidere se uno è colpevole o innocente, nello stesso tempo il rischio avere un "fine processo mai" è un problema che deve riguardarci tutti. Il punto di vista condiviso è che i tempi della giustizia devono essere ridotti". Bonafede a La Stampa dice che dovete trovare un accordo come accaduto sul processo civile… "È positivo avere approvato il provvedimento sulla giustizia civile, che impatta fortemente anche sulla vita economica del nostro paese. Questo è uno degli elementi in base ai quali gli imprenditori decidono se investire o no in Italia. Ma è assurdo dire, come dicono alcuni, che il Pd è il partito della prescrizione. Nella riforma Orlando i tempi della prescrizione erano stati allungati, soprattutto per alcuni reati. Se per il processo Eternit fosse stata in vigore quella riforma, non ci sarebbe stata prescrizione. Nell’intervista di Bonafede mi ha fatto piacere leggere che si stanno facendo assunzioni nella giustizia: è l’effetto di provvedimenti dei nostri governi, con Orlando ministro. Che ci sia una giustizia che funzioni e che funzioni in tempi certi era ed è un obiettivo del Pd". Tutti volete una giustizia che funzioni. Però Bonafede dice no alla "prescrizione processuale"... "Nella riforma Bonafede vediamo molte cose positive, sappiamo che è frutto di un tavolo con le camere penali, con l’Anm. Ma la nostra preoccupazione è che dal 1° gennaio la Bonafede entra in vigore, mentre ancora non è stato fatto nulla sulla durata dei processi. Anche nel lavoro con le camere penali si prevedeva che prima di mettere mano alla prescrizione ci fosse una riforma della durata dei processi. Noi vogliamo salvaguardare il cittadino che si troverà a dover rispondere alla giustizia dal rischio che non ci sia mai fine al processo. Il ministro dice che non lo convince fino in fondo l’idea della prescrizione processuale. Noi siamo interessati a capire che controproposta c’è. Non siamo innamorati di una specifica soluzione tecnica, siamo aperti ad ascoltare proposte del ministro". Lui dice che è pronto ad ascoltare le vostre di proposte. Non tocca a voi avanzare un’altra soluzione? "Noi abbiamo fatto proposte. Se quella sulla prescrizione processuale, avanzata anche da Bruti Liberati, non è condivisa da Bonafede, siamo aperti a ragionare su altre soluzioni. Comunque, stiamo lavorando: cerchiamo insieme delle soluzioni. Il punto è che la ragionevole durata del processo per noi è un punto di coerenza, un elemento centrale per tutelare i cittadini. Esporre il cittadino al rischio di processi che possono non finire mai è un abominio giuridico". Spesso M5S dice che bisogna bloccare la prescrizione per evitare che i "colpevoli" possano farla franca, come se non esistessero i tre gradi di giudizio. Siete sicuri che l’idea di partenza è la stessa? "Mi auguro che questa non sia l’opinione del ministro della Giustizia. Se uno è colpevole si dice alla fine di un percorso giudiziario. Però devo dire la verità: nei confronti avuti con il ministro Bonafede non ho visto agitare un manganello giustizialista. Per questo penso si possano trovare soluzioni". Intercettazioni col bavaglio: o modifiche o nuovo rinvio di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2019 Il 12 gennaio parte il nuovo regime per le intercettazioni che fu scritto dal Pd e non piace a Bonafede. Così slitterà ancora. E dividerà i giallorosa. È la settimana che comincia domani quella che costringerà il governo a mettere mano a un’altra spina nel fianco finora evitata come la peste: la riforma "bavaglio" delle intercettazioni targata Orlando, mai entrata in vigore. Accadrà a gennaio. Sul tavolo del ministro Alfons o Bonafede, infatti, ci sarà la lettera dei principali procuratori che esprimono preoccupazione per l’avvio del nuovo regime senza una norma transitoria. Un vero guaio per le indagini in corso, altro che "disastro" per la nuova prescrizione. Finora, la riforma delle intercettazioni è stata bloccata da tre proroghe, sempre per volere di Bonafede. L’ultima, ad agosto, scade tra pochissimo, il 31 dicembre. Ma non si può certo ignorare l’allarme dei procuratori di Milano Francesco Greco, di Firenze Giuseppe Creazzo, di Napoli Giovanni Melillo, di Palermo Franco Lo Voi e del facente funzioni a Roma, Michele Prestipino. Il governo, dunque, dovrà affrontare una delle mine vaganti per la maggioranza giallorosa. I Procuratori, nella lettera destinata al ministro chiedono di sapere quale norma si debba applicare da gennaio per le intercettazioni già in corso e per quelle nuove ma che saranno effettuate in indagini già avviate. In merito alle preoccupazioni dei procuratori, anticipate dal Fatto, ambienti del Pd vicini ad Andrea Orlando ribattono che bisogna chiedersi perché il ministro Bonafede finora non abbia fatto nulla. Domanda retorica, dato che anche per il Pd è chiaro che Bonafede non ha fatto nulla perché quella riforma non l’ha mai digerita. D’altronde, il suo primo atto da ministro della Giustizia del Conte 1, a luglio 2018, fu quello di bloccare la riforma intercettazioni. E non è un mistero che volesse riscrivere la normativa. Prima, però, aveva la zavorra della Lega, che la legge bavaglio l’ha sempre voluta e ora deve vedersela con il Pd e il suo vicesegretario, padre di quella riforma che, in assenza di una quarta proroga, andrà in vigore dal primo gennaio. Anche se Bonafede potrebbe trovarsi faccia a faccia non più con Orlando ma con il futuro responsabile Giustizia del Pd, che potrebbe essere Walter Verini. La lettera dei procuratori, che porrà anche il problema dell’assenza di strumenti necessari col nuovo regime, sarà per Bonafede una carta da giocare, al di là delle intenzioni dei magistrati, per proporre ai dem un altro differimento prima di fine anno. Il Pd non vuole alzare un muro, assicurano esponenti democratici, ma a patto che ci sia "un riconoscimento di inadempienza" di Bonafede: una sorta di mea culpa per non aver fatto che semplici differimenti. Quindi un’eventuale altra proroga dovrà essere accompagnata da una dichiarazione di intenti. Cioè Bonafede, filtra dal Pd, dovrà dire chiaramente cosa vuole buttare e cosa tenere. E allora, con l’anno nuovo, lo scontro è assicurato perché invia Arenula si pensa di neutralizzare due punti cruciali. Il primo è quello che dà alla Polizia giudiziaria, cioè a uomini legati gerarchicamente all’esecutivo, anziché al pubblico ministero, indipendente dal governo, il potere di giudicare la rilevanza penale delle intercettazioni da riassumere nel brogliaccio (il riassunto per il magistrato) e l’irrilevanza delle altre, di cui potrà indicare soltanto la data e l’ora, e non più la sintesi del contenuto. Le intercettazioni irrilevanti finirebbero chiuse in archivi segreti sotto responsabilità dei pm. Gli avvocati difensori, alla ricerca di prove a discolpa di un cliente indagato o imputato, potranno solo ascoltarle, senza farne copia e neppure prendere appunti. Un lavoro immane, costoso, che solo gli abbienti sotto inchiesta potranno garantirsi. Altro punto, questo della compressione del diritto alla difesa, che Bonafede vorrebbe cancellare. Poco prima che la riforma fosse approvata, accadde quello che non era mai successo: i pubblici ministeri e gli avvocati penalisti si ritrovarono fianco a fianco contro quella riforma. Gli uni soprattutto preoccupati per la sorte delle indagini, in particolare di mafia e corruzione, per le quali le intercettazioni sono fondamentali, gli altri, per il diritto negato alla difesa. Per non parlare dei giornalisti, da sempre contrari a tutti i tentativi divari governi di mettere il bavaglio col pretesto della privacy. In realtà, le intercettazioni che finirebbero in una cassaforte potrebbero essere irrilevanti penalmente ma socialmente, politicamente, assai rilevanti per il diritto all’informazione. E, dal punto di vista dei pm e degli avvocati, quelle che all’inizio appaiono ininfluenti possono rivelarsi in seguito fondamentali per provare la colpevolezza o l’innocenza degli indagati. Bonafede cede. Sulle intercettazioni in arrivo un decreto di Liana Milella La Repubblica, 8 dicembre 2019 Sulle intercettazioni - la legge Orlando - un fatto è certo. Entrerà in vigore il primo gennaio. Anche lei, come quella sulla prescrizione. Della serie, una a me e una a te. Al Guardasigilli grillino Bonafede la sua legge sulla prescrizione. All’ex Guardasigilli Orlando la sua sulle intercettazioni. La spiegazione politica è semplice: dopo la battaglia sulla prescrizione Bonafede non ne può reggere un’altra contro il Pd per rinviare le "nuove" intercettazioni, già bloccate da lui per due volte. Più d’uno gli ha sentito dire: "Sulle intercettazioni non m’impicco". Ma da qui al 31 dicembre il tempo è poco, e il problema è come far entrare in vigore la legge. Che, ricordiamolo, impedirà la pubblicazione integrale delle telefonate registrate. Fatto di civiltà, dicono i garantisti; colpo alla trasparenza dell’informazione, dicono i giornalisti, o almeno una parte di essi. Ma tant’è. Il problema ora è capire "come" entrerà in vigore la legge. Se tutta intera o per pezzi. Di sicuro servono, nell’ordine, una norma transitoria che stabilisca come applicarla subito ai processi e alle intercettazioni in corso (sollecitata mercoledì dai maggiori procuratori italiani in un incontro con Bonafede); servono poi delle modifiche, una soprattutto assai rilevante. Come farlo? Bonafede ha proposto al Pd due strade: un decreto legge ad hoc, ma è da vedere se ne ricorre "necessità e urgenza"; o un comma ad hoc nel decreto Mille Proroghe (ma c’è già chi storce il naso per la consistenza forte della modifica). Quindi un primo fatto politico è chiaro: non assisteremo a un nuovo scontro M5S e Pd sulle intercettazioni, dopo quello cruento, e ancora non chiuso, sulla prescrizione. Ma non sarà facile giungere a una quadra. Anche perché né Bonafede, né Orlando vogliono scontrarsi con le toghe. Le quali, come hanno spiegato a Bonafede i maggiori procuratori (Greco di Milano, Melillo di Napoli, l’aggiunto di Roma Prestipino, Creazzo di Firenze, Lo Voi di Palermo), hanno una preoccupazione su tutte, evitare che le intercettazioni già in corso finiscano ghigliottinate dalla nuova legge, per cui fino al 31 dicembre seguono le vecchie regole e dal primo gennaio 2020 le nuove. Per questo servirebbe il decreto (o il Mille Proroghe) in cui scrivere che la legge vale per quelle future. Facile a dirsi, meno a farsi, perché una legge sostanziale come questa si applica tutta e subito. Ma c’è un’altra super grana, sulla selezione delle intercettazioni irrilevanti. Che finiranno tombate, senza nomi ma solo con un numero, nell’armadio riservato. Secondo la legge è la polizia giudiziaria che ascolta, sul momento, a fare la selezione. Il pm è fuori. Ma i procuratori, nella lettera che stanno scrivendo a Bonafede, chiedono che sia lui, il pm, il vero regista. La soluzione? La polizia prepara un brogliaccio sintetico per il pm sulle intercettazioni irrilevanti, poi lui fa la scelta definitiva. Il brogliaccio però finisce nell’archivio riservato, e le difese non potranno vederlo. Dettaglio che certo non piacerà alle battagliere Camere penali presiedute dall’avvocato Caiazza. Senza contare che si dovrà valutare, se è vero che l’obiettivo è accelerare i tempi della giustizia, quanto la legge sulle intercettazioni, con tanto di udienza filtro con gli avvocati per selezionarle e le inevitabili contestazioni su quelle escluse perché irrilevanti, e incluse perché rilevanti, gioverà davvero ad accelerare i processi. La stretta sugli stalker: quattro anni di carcere e arresto in flagranza di Emilio Pucci Il Messaggero, 8 dicembre 2019 Tre disegni di legge per le modifiche al Codice rosso. La pena è aumentata del 50% se il reato è commesso sul luogo di lavoro. Modifiche al codice rosso, l’introduzione nel codice penale di un reato ad hoc sulle molestie sessuali e l’obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche, non solo quelle centrali ma pure quelle locali, di redigere il bilancio di genere per promuovere la parità tra uomini e donne e dare un "impulso al contenimento dei divari" nel mercato del lavoro. Tre diversi binari, tre diversi provvedimenti, un unico comune denominatore. Portano le firme di tutte le forze della maggioranza tre disegni di legge promossi al Senato, i primi due direttamente dalla presidente della Commissione sul femminicidio, la dem Valente. Il codice rosso che modifica il codice di procedura penale a tutela delle vittime di violenza domestica è stato approvato durante l’era giallo-verde nel luglio scorso. "Ma presenta alcune storture", denuncia l’esponente del Pd che con MSs, Iv e Leu punta a migliorare il provvedimento. Con ulteriori misure di carattere preventivo nelle fasi preliminari delle indagini "laddove la vittima è più esposta all’accanimento vendicativo del suo persecutore". L’introduzione della nuova fattispecie di reato in materia di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa non prevede l’arresto obbligatorio in flagranza, "la polizia giudiziaria è impossibilitata a procedere", si tratta di "un vuoto normativo che espone la vittima a un grave pericolo per la sua incolumità". Oltre alla disposizione dell’arresto in flagranza, nell’articolo 2 del testo si prevede che anche fuori da questi casi il pubblico ministero disponga, "con decreto motivato", il fermo della persona gravemente indiziata dei delitti di maltrattamento e atti persecutori "quando sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate". Un fermo di 48 ore in attesa delle decisioni del Gip. Infine per mettere in maggiore sicurezza le vittime di violenza si chiede l’adozione di eventuali misure di protezione, come un’attività di sorveglianza specifica da parte delle forze dell’ordine. "Chiederemo subito la calendarizzazione del ddl", dice la Valente che nei giorni scorsi ha inoltre riunito attorno allo stesso tavolo sindacati e Confindustria per discutere delle molestie sessuali nei rapporti di lavoro. Il nostro codice penale non ha una disciplina ad hoc, a differenza di altri Paesi come la Francia. Il reato è ricondotto nella fattispecie delle molestie in generale, sanzionato con la medesima pena dell’arresto fino a sei mesi o con il pagamento di un’ammenda per un importo massimo di 516 euro. Pd, MSs, Leu e Iv propongono ora la reclusione da due a quattro anni per chiunque rechi "molestie o disturbo violando la dignità della persona ovvero la libertà sessuale della stessa". Qualora il fatto sia commesso all’interno di un rapporto di lavoro, "di tirocinio o di apprendistato, anche di reclutamento o selezione, con abuso di autorità o di relazioni di ufficio", la pena è aumentata della metà. Nel ddl sottoscritto da una cinquantina di senatori viene chiesto al governo di stanziare 5 milioni di euro ogni anno, che le pubbliche amministrazioni per prevenire e contrastare le molestie e le molestie sessuali nei luoghi di lavoro, si avvalgono dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità e che l’Ispettorato nazionale del lavoro vigili "a decorrere dalla data della denuncia di molestie o di molestie sessuali sul luogo di lavoro, sullo stato del rapporto di lavoro della lavoratrice o del lavoratore". Un altro ddl della maggioranza, infine, punta ad inserire nel nostro ordinamento l’obbligo per le regioni, le province, le città metropolitane, le unioni di comuni e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti "di redigere il bilancio di genere al fine di consentire la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito e incentivare l’adozione di misure da parte dei suddetti enti territoriali per il riequilibrio di genere degli interventi e delle politiche pubbliche". Piazza Fontana, la strage infinita che ha cambiato la storia d’Italia di Carlo Nordio Il Messaggero, 8 dicembre 2019 Il 12 dicembre di 50 anni fa una bomba scoppiò dentro la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano: 17 morti e feriti. Le prime ipotesi, la pista "nera", i processi infiniti. Nel Paese iniziava così la strategia della tensione. Ricostruire la storia giudiziaria della strage di piazza Fontana è impresa sovrumana, e individuarne gli esecutori materiali addirittura impossibile. Quando, quel 12 dicembre 1969, nascosta dentro una borsa di pelle nera, la bomba scoppiò dentro la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, con 17 morti e 88 feriti, le indagini si indirizzarono verso gli anarchici. La prova più rilevante fu la testimonianza di un tassista iscritto al Pci, Cornelio Rolandi, che aveva individuato nell’anarchico Pietro Valpreda il passeggero che aveva trasportato l’ordigno. Da lì, una serie incredibile di processi con i coinvolgimenti dei personaggi più disparati. Milano trasmise gli atti a Catanzaro per "legittima suspicione", mentre nel Veneto si aprivano indagini nei confronti di una cellula neonazista, con l’incriminazione di Franco Freda, un avvocato che aveva acquistato a Padova la borsa dove era stata nascosta la bomba. Si ipotizzò un patto scellerato tra i fascisti ideatori dell’attentato e gli anarchici esecutori materiali. Catanzaro prima condannò, poi assolse. La Cassazione rispedì tutto a Bari, che assolse di nuovo. Nel frattempo - siamo ormai alla soglia degli Anni 90 - altre indagini avevano coinvolto altri soggetti e i nostri servizi segreti, naturalmente "deviati". Vi furono altre condanne, altre assoluzioni, altri processi: alcuni sono ancora in piedi. Piazza Fontana rappresenta dunque il fallimento della nostra Giustizia, ma anche un pezzo importante della nostra storia. Ed è sotto quest’ultimo aspetto che preferiamo rievocarla. Essa costituì infatti una fine e un inizio. Fu la fine di un periodo di pace sociale e di sviluppo economico di cui la giovane Repubblica aveva goduto per oltre vent’anni. Le contestazioni studentesche del 1968, gli scioperi selvaggi e talvolta intimidatori, lo spontaneismo sindacale incontrollato e anarcoide, la stessa creazione di gruppuscoli rivoluzionari erano stati sintomi di un’insofferenza verso i difetti di un regime ingessato nella sua verbosità vescovile. Le soporifere omelie di professori come Moro, Rumor, Fanfani e altri notabili democristiani sembravano surreali a un mondo, soprattutto quello giovanile, eccitato dalle novità di Berkeley e della Sorbona. E tuttavia si pensava che, al pari delle esperienze americane e francesi, questo subbuglio ideologico sarebbe stato contenuto, pur tra periodiche dimostrazioni piazzaiole, nell’ambito di una difficile ma sostanzialmente pacifica evoluzione civile. Lo stesso criterio valeva per l’inevitabile contromossa conservatrice. Era evidente che simili mutazioni avrebbero provocato a destra resistenze e reazioni, ma anche queste si sarebbero potute estrinsecare in una radicalizzazione del conflitto politico, senza tuttavia degenerare nella lotta violenta. L’elezione di Nixon e la plebiscitaria riconferma di De Gaulle avevano dimostrato che le "maggioranze silenziose" nelle democrazie potevano efficacemente farsi sentire attraverso gli strumenti elettorali. Invece l’Italia conobbe il triste primato di veder convertire una parte minima, ma attivissima, di queste opposizioni in movimenti armati. E questo fu l’inizio di un decennio di delitti che flagellarono il Paese. Dalla bomba di Piazza Fontana l’estremismo leninista trasse la convinzione che, a quella che considerava una "strage di Stato", si dovesse rispondere solo imbracciando le armi. Questo velleitario militarismo trovò vari stimoli che ne incrementarono i programmi eversivi: le lotte di liberazione dell’America Latina, le imprese guerrigliere di Mao e seguaci e, soprattutto il mito della Resistenza tradita, che portò alla costituzione delle prime cellule delle Brigate Rosse in quel terreno emiliano dove più era stato sofferta l’estromissione dei comunisti durante l’era degasperiana. Questo ribollente connubio di ideologie fanatiche e di attivismo combattente trovò migliaia di proseliti e condusse a una spaventosa escalation. Debuttò con gli "espropri proletari", proseguì con i sequestri di persona e culminò in una serie interminabile di omicidi. Quelli di Moro e della sua scorta ne costituirono l’esempio più significativo, ma le vittime tra i politici, i magistrati, i giornalisti, gli avvocati, le forze dell’ordine, gli imprenditori ecc., furono decine. Mai, nemmeno durante la guerra civile, l’Italia aveva assistito a esecuzioni quasi giornaliere di persone diversissime per estrazione sociale e convinzioni politiche, unite soltanto, nell’ottica distorta dei terroristi, dalla funzione di strumenti del Capitale. Per parte sua, l’estremismo fascista credette di trar profitto da questi disordini provocando stragi ed eccitando paure. Se il terrorismo rosso era contrassegnato dall’estrema accuratezza nella scelta delle vittime, evitando di colpire individui estranei agli obiettivi simbolici, quello nero era, all’opposto, indistinto e impersonale, essendo diretto a bersagli casuali per il puro scopo di sollevare il panico e provocare un intervento dittatoriale. Che questo programma trovasse adesione o addirittura stimolo tra i vertici governativi non è mai stato dimostrato ed è logicamente insostenibile, perché - a parte la sicura lealtà repubblicana dei nostri reggitori - mancavano del tutto gli strumenti operativi per una simile strategia autoritaria. Pensare che un esercito di leva, magari supportato da qualche battaglione di celerini o di carabinieri, potesse ripetere le gesta di Pinochet o dei generali greci era pura ed astratta fantasia infantile, e noi ci rifiutiamo di credere che la nostra classe dirigente democristiana fosse animata da così perverse deviazioni luciferine. Se vi furono intromissioni spurie e anomale, queste furono, molto probabilmente, originate da interessi carrieristici e personali, che costituirono un pericolo per l’incolumità pubblica ma non per la nostra democrazia. In tutto ciò, Piazza Fontana rappresenta il simbolo di un travagliato periodo che costò all’Italia lacrime e sangue. Quando agli inizi degli anni 80, dopo la crudele strage di Bologna e il rapimento del generale Dozier, entrambi gli estremismi furono duramente colpiti fino a dissolversi, l’Italia ritrovò quella via intrapresa nell’immediato dopoguerra, con nuove energie, nuova tranquillità e nuovo benessere. Purtroppo ne fece malgoverno, perché il cancro del terrorismo fu sostituito dalla cardiopatia della corruzione, altrettanto grave e di ancor più difficile trattamento. Quest’ultimo compito fu affidato alla magistratura che, se sulle indagini di Piazza Fontana aveva dimostrato isolati pregi e innumerevoli difetti, sulla corruzione si dimostrò efficiente ed efficace. Questo tuttavia determinò un affievolimento di autorità della politica e una sorta di devoluzione alle toghe della gestione degli interessi collettivi. Un’altra patologia di cui ancora oggi soffriamo. Il vero "mostro" di Piazza Fontana di Raffaele Liucci Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2019 L’anniversario. Dopo 50 anni, non c’è una sola condanna in via definitiva. Eccolo qui, il vero "mostro" di piazza Fontana. Non il ballerino anarchico Pietro Valpreda, così apostrofato all’epoca anche dal "Corriere della Sera", bensì le centinaia di faldoni giudiziari, frutto di cinque istruttorie, tre processi, dieci gradi di giudizio complessivi: senza che un solo colpevole risultasse condannato invia definitiva per i 17 morti e i quasi 90 feriti causati dalla bomba scoppiata il 12 dicembre 1969 all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Da quelle carte ingiallite - ora digitalizzate e accessibili a tutti gli studiosi - traspare una verità giudiziaria incompiuta, nel frattempo assurta a verità storica. L’ultima sentenza di Cassazione del 2005 ritiene infatti provata la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (esponenti della cellula veneta del neofascista Ordine Nuovo), ormai non più processabili perché già assolti nel precedente giudizio di Catanzaro (conclusosi in Cassazione nel 1987). Conosciamo quindi alcuni esecutori, non i mandanti, coperti da numerosi depistaggi. Sullo sfondo s’intravede il primo rintocco di una "strategia della paura" (Angelo Ventrone) mirante non tanto a un golpe classico, quanto a condizionare il quadro politico in senso centrista, atlantico e anticomunista. Destabilizzare per stabilizzare. Navigando fra i faldoni processuali, si traggono alcuni insegnamenti fondamentali. Primo: i documenti giudiziari si confermano una fecondissima fonte storica. Non soltanto quelli riassuntivi, ossia le sentenze- ordinanze dei giudici istruttori e le sentenze delle Corti d’Assise, ma gli atti processuali completi: un oceano cartaceo che, sondato cum grano salis, nasconde scintillanti pepite. Secondo: la concezione monolitica dello Stato, spesso richiamata dopo l’attentato de112 dicembre (a partire dall’ambiguo pamphlet del 1970, Una strage di Stato, edito da Samonà e Savelli), era fuorviante. Lo Stato non fu incarnato solo dal famigerato Ufficio Affari Riservati, in cui nacque lo sviamento della "pista anarchica", ma anche dai magistrati e militari che misero in gioco la propria carriera, se non la vita, nel perseguire i reali colpevoli. Terzo: nell’Italia di allora, l’ordine giudiziario era impreparato ad affrontare un simile eccidio indiscriminato di civili. Non soltanto per la mancanza di un adeguato "know how", ma anche per la mentalità conservatrice se non reazionaria che permeava le alte sfere della magistratura, formatesi in epoca fascista e incapaci di cogliere il disegno complessivo di una strage non rivendicata. Le Corti d’Appello e la Cassazione smonteranno pervicacemente indagini, istruttorie e sentenze cui erano pervenute toghe più giovani, cresciute in età repubblicana. Benedetta Tobagi ha compulsato questi sanguinanti scartafacci con la giusta distanza dello storico e l’acribia del filologo, condensandoli in un libro che - ricostruendo dettagliatamente per la prima volta un "processo impossibile" durato ben 36 anni - offre una visione d’insieme che nessun altro ricercatore era stato finora in grado di tracciare con altrettanto rigore. Piazza Fontana rivelò anche la frattura tra magistrati romani (ontologicamente attenti agli equilibri del potere politico) e milanesi e veneti, assai più coraggiosi. I "settentrionali" sono i veri protagonisti del fortunato libro di Gianni Barbacetto, giunto alla terza edizione rinnovata, mentre Angelo Ventrone ha curato anche un denso volumetto in cui le varie trame eversive - da piazza Fontana alla P2 - sono ricostruite dagli stessi magistrati che le hanno indagate (ci sono, fra gli altri, i contributi di Pietro Calogero, Giovanni Tamburino e Giuliano Turone). Un discorso a parte merita il più giovane Guido Salvini, il quale già nei primi anni Novanta aveva dischiuso "la porta sull’inferno", come scrive Barbacetto, iniziando a istruire un nuovo processo su piazza Fontana conclusosi nel 2005 con la citata sentenza della Cassazione, che confermerà l’assoluzione (dubitativa) degli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, avallando però la matrice neofascista veneta. Ora Salvini pubblica un tomo di oltre 600 pagine in cui ripercorre amaramente la storia della propria inchiesta, fra testimoni dimenticati e pellicole Super 8 - mai ritrovate - che avrebbero documentato l’arrivo dello stragista a bordo di un camion e la successiva esplosione. Secondo il magistrato milanese, su piazza Fontana non si è potuto raggiungere una piena verità giudiziaria non solo per la frammentazione dei processi e l’acquisizione a singhiozzo delle prove, ma anche per le gelosie e rivalità che negli anni Novanta hanno segnato i rapporti fra i magistrati. Certamente le aspre pagine riservate dall’autore a tanti rinomati colleghi non passeranno inosservate. Nella miriade di titoli usciti per il cinquantenario, si distingue il libro di Francesco Lisanti, anch’esso imperniato sulle carte processuali. Si tratta di un’eccellente ricostruzione, dalla grande forza narrativa, del milieu in cui si formarono e agirono Freda, Ventura e gli altri "legionari", dietro ai quali s’indovina un sottobosco formato da pezzi della Destra, militari infedeli alla Costituzione, servizi segreti italiani e americani. Spunta anche il commissario Luigi Calabresi, fra i comprimari della prima inchiesta contro gli anarchici, accusati falsamente delle bombe nere scoppiate il 25 aprile 1969 alla Fiera e alla Stazione Centrale di Milano. Quasi una "prova generale" (Paolo Morando) del depistaggio messo in atto all’indomani di piazza Fontana, che porterà alla misteriosa fine del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli (la "diciottesima vittima" della strage), precipitato dal terzo piano della questura la notte del 15 dicembre (sulla sua figura, si veda ora il libro di Paolo Pasi). L’assassinio di Calabresi (17 maggio 1972), bollato dalla "piazza" come il maggior responsabile della morte di Pinelli, resta forse l’episodio più inquietante e indicibile originato dall’ordigno del 12 dicembre. Si riaffaccia a più riprese anche nel libro di Enrico Deaglio, un viaggio autobiografico tra i luoghi della tragedia, dalla dimora di Pinelli al fatiscente ex Hotel Commercio, affacciato sulla banca e a quel tempo diventato "casa dello studente e del lavoratore". Come è suo costume da alcuni anni, anche in questo caso Deaglio firma un suggestivo apologo metafisico sulle maschere del potere italiano. Quando però tenta di scagionare i suoi ex compagni di Lotta Continua dall’accusa - passata in giudicato - di aver assassinato Calabresi, indulge a un complottismo poco persuasivo. Infine, chi desiderasse un agile e aggiornato compendio sulla "madre di tutte le stragi" può trovarlo nel libro dello storico bolognese Mirco Dondi, già autore nel 2015 di una storia della "strategia della tensione" (Laterza). Uccise l’ex e si suicidò. "Le figlie risarciscano l’uomo ferito dal papà" di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 8 dicembre 2019 Colpito per sbaglio quel giorno, l’Inps vuole i danni. Le due orfane hanno 12 e 14 anni, vivono con il nonno: "La richiesta di 124 mila euro è una pugnalata". Sono orfane da sei anni. Da quando, il 28 luglio del 2013, il babbo uccise la loro mamma e poi si suicidò. Vivono con i nonni e cercano di dimenticare quella tragedia. Ma pochi giorni fa le due ragazzine di 14 e 12 anni sono state raggiunte da un’ingiunzione di pagamento di 124 mila euro. Marco Loiola, operaio di 40 anni, prima di assassinare l’ex moglie Cristina Biagi di 38, aveva sparato anche a una persona che credeva erroneamente essere l’amante della moglie. L’uomo rimase gravemente ferito e con un’invalidità permanente e adesso, come prevede la legge, l’Inps ha chiesto d’essere rimborsata per le spese sanitarie sostenute e l’assegno devoluto alla vittima, dagli eredi che sono le due ragazzine. La battaglia legale - "Dunque le figlie di Cristina - spiega Francesca Gallone, avvocato della famiglia Biagi - dovranno pagare 124 mila euro. Hanno già ricevuto dall’Inps, tramite il nonno Bruno, un’intimazione con tanto di Iban per il versamento da eseguire rigorosamente entro dieci giorni. In caso contrario ci sarà un processo e la cifra raddoppierà". Quando è arrivata la richiesta dell’Inps nonno Bruno quasi non ci credeva. "Ancora piango la morte di mia figlia e non riesco a dormire ed ecco un’altra pugnalata alle spalle", ha detto commosso all’avvocato. Che gli ha promesso una battaglia per avere giustizia. "L’azione che l’Inps minaccia di portare avanti è ineccepibile da un punto di vista giuridico - spiega Gallone - ma è eticamente disumana. Paradossalmente per la legge italiana i responsabili civili di ciò che è accaduto sono le figlie in quanto eredi". L’Inps, dal canto suo, fa sapere di seguire "da tempo" il caso e ha preso "l’impegno a non attivare per il momento alcuna azione legale per il recupero coattivo". Appello al Quirinale - Il fratello di Cristina, lo scrittore Alessio Biagi, si appella al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "Chiedono alle mie nipoti di pagare per colpe non loro - dice - e moralmente e giuridicamente è una cosa orribile. Spero che il presidente possa fare qualcosa di importante per noi". Da anni Alessio si batte contro il femminicidio. "Spesso, ricordando l’orrore delle vittime di femminicidio, chiediamo impegno affinché le istituzioni tutelino e prevengano gli atti d’una violenza oramai incontrollata - spiega - ma allo stesso tempo dimentichiamo figli, in molti casi minorenni, affidati alle cure dei nonni, degli zii, che hanno il difficile compito di crescere, educare, arginare con tutto l’amore possibile un vuoto e un dolore comunque impossibile da colmare". A Massa il nome di Cristina Biagi è tornato a far parlare le cronache anche per gli episodi di teppismo contro la statua che la ricorda nella piazza principale della città. Per sei volte il monumento, diventato il simbolo delle vittime di femminicidio, è stato divelto senza che siano stati individuati i responsabili. Campania. Carceri, situazione critica. Intervista al Garante Samuele Ciambriello di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 8 dicembre 2019 Per Samuele Ciambriello, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, assieme al cronico problema del sovraffollamento cresce quello igienico-sanitario. Sulla situazione critica delle carceri campane abbiamo sentito Samuele Ciambriello, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e organizzatore, insieme al Consiglio Regionale della Campania, del convegno "Carcere: il lavoro possibile, il lavoro negato", svoltosi a Napoli lo scorso 29 novembre. Quello del sovraffollamento delle carceri è un problema nazionale. Qual è la situazione in Campania? "Qui ci sono spesso celle che dovrebbero ospitare due persone e invece ne accolgono quattro. Nel carcere femminile di Pozzuoli, dove ci sono celle con un solo bagno in cui trovano posto 10-12 detenute, in qualcuna anche 14, c’è un sovraffollamento del 165%. Pochissime celle in Campania hanno la doccia, il bidet; nella stragrande maggioranza dei casi c’è uno scaldino per cucinare, si tratta di luoghi angusti in cui spesso ogni detenuto ha a disposizione uno spazio di tre metri quadrati. Non sempre l’acqua calda è disponibile, spesso da 8 a 12 persone devono condividere un frigorifero che, attenzione, non è un bene voluttuario, un privilegio, perché se consentiamo ai detenuti di ricevere prodotti alimentari dalle loro famiglie si pone il problema della conservazione di questi alimenti. Chi sbaglia deve subire la privazione della libertà, siamo d’accordo, ma non della dignità". Un problema di grave entità senza dubbio, ma non l’unico, purtroppo… "Esatto, accanto ai problemi di sovraffollamento e promiscuità ci sono quelli igienico-sanitari. Un inconveniente serio che abbiamo in Campania da questo punto di vista è che manca un servizio stabile a livello di operatori del settore. C’è una precarietà enorme in termini di medici e di infermieri e i turni non vengono rispettati proprio perché c’è carenza di personale. Ultimamente sembra che con i cambiamenti in corso alla dirigenza delle ASL di Napoli ci sia qualche miglioramento, ma quello della carenza di personale medico e paramedico è un problema che perdura nel tempo con tutti i disservizi e i disagi che questa situazione comporta". Facciamo qualche esempio di ciò che succede nel quotidiano a causa di questi disservizi... "Alle volte, per esempio, i detenuti che hanno problemi di salute sono costretti a saltare delle visite, e questo fa riflettere; poi può succedere anche che pur ottenendo un appuntamento per una visita specialistica il detenuto resti in carcere perché non avviene la traduzione, ancora una volta per mancanza di personale e di mezzi, e questo è l’altro problema di cui nessuno parla". C’è anche carenza di altre figure professionali nel sistema carcerario… "Sì, abbiamo a che fare con una carenza di agenti di polizia penitenziaria, spesso non c’è un commissario di polizia. Nelle grandi carceri il rischio è che ci sia un solo agente per 150 detenuti. Ma mancano anche gli educatori, e la situazione è critica anche per coloro i quali stanno nelle aree penali esterne, cosa della quale la stampa non parla. Questi ultimi danno vita a una popolazione di 66.000 persone a livello nazionale; sono 7.400 in Campania e 5.500 a Napoli e provincia con appena 24 assistenti sociali. Stiamo parlando di affidamento ai servizi sociali, arresti domiciliari, ma la condizione di questi soggetti è sempre quella del detenuto che ha a che fare con i giudici di sorveglianza che a volte fanno attendere anche dei mesi per una pratica lasciando il condannato nell’incertezza". Cosa raccontano i detenuti in merito a questa situazione precaria? "In questi due anni ho gestito, insieme ad alcuni collaboratori, oltre 3.500 colloqui individuali con i detenuti che si lamentano del sovraffollamento, della malasanità, dei ritardi, dei giudici di sorveglianza. Insomma, i disagi sono evidenti e capita che la reazione dei detenuti sia estrema: l’anno scorso in Campania se ne sono suicidati 11, tre di essi erano agli arresti domiciliari". E come stanno le cose per quel che riguarda l’alimentazione? "Per i pasti viene fatta una gara d’appalto al massimo ribasso. Ultimamente qui ha vinto una ditta che ha offerto un pacchetto comprendente colazione, pranzo e cena per 3 euro e 20, e ho detto tutto. Ma quel che è grave, e al parlamento si devono vergognare, tutti i governi devono vergognarsi, è il sistema secondo il quale la ditta che vince al massimo ribasso ha diritto al sopravvitto. Allora che succede? Che il detenuto può acquistare dei prodotti all’interno del carcere, ma l’acqua costa più lì che all’esterno, così anche la pasta. Com’è possibile una cosa del genere? Un altro prodotto alimentare o una bomboletta del gas hanno prezzi che possono variare a seconda del penitenziario, perché? Non va bene. Queste sono cose che io denuncio pubblicamente perché non è ammissibile una gara d’appalto fatta con questi criteri, così si incoraggia una cultura malavitosa, perché non tutti si possono permettere di acquistare certi prodotti a parte il camorrista, il malavitoso, e chi non se lo può permettere magari finisce sotto la protezione del boss detenuto. Questa è la verità". Sono a conoscenza di almeno un’inchiesta in corso nel napoletano su violenze subite da detenuti, ma come stanno le cose veramente oggigiorno da questo punto di vista? "Una volta il motto degli agenti di Polizia penitenziaria era "Vigilare per redimere" che secondo me faceva paura. Adesso è "Promuovere la speranza", e in sostanza molti di loro devono fare questo, quindi è cambiata un po’ la mentalità, è cambiato l’atteggiamento. Ora, quando vado nelle celle di isolamento, non trovo persone che sono state accusate dagli agenti di rissa, di maltrattamenti, di oltraggio a pubblico ufficiale, no. Il 90% sta nelle celle di isolamento perché è stato trovato in possesso del cellulare che è ancora un oggetto non consentito in cella. Il detenuto che viene trovato in possesso di cellulare viene messo in isolamento per 15 giorni e la cosa finisce lì. Prima era diverso: il detenuto che aveva subito violenza rischiava di andare in isolamento perché lo accusavano di aver minacciato un agente. Sia quest’anno che l’anno scorso, però, ci sono state delle segnalazioni che il garante ha verificato. E a me ha fatto piacere che la Procura diretta dal dottor Melillo di Napoli abbia messo un pool a disposizione per le segnalazioni fatte dai singoli detenuti, dal garante regionale, e per svolgere delle indagini su questi episodi. Io personalmente, in questi ultimi due anni, ho presentato delle denunce alla Procura di Napoli, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, il cui numero non supera, però, quello delle dita di due mani". Ci sono comunque dei miglioramenti rispetto a una volta sotto questo profilo? "Da questo punto di vista rispetto a 30 anni fa c’è la certezza del miglioramento; chi sostiene il contrario dice una bugia". Puglia. Antigone: "Carceri sempre più sovraffollate, ma detenuti stranieri in calo" giornaledipuglia.com, 8 dicembre 2019 I numeri delle persone recluse continuano a salire in maniera preoccupante e in ben quattro istituti (Larino, Brescia, Como e Taranto) hanno un tasso di affollamento del 200% (ovvero ci sono due detenuti dove dovrebbe essercene uno). Solo nell’ ultimo mese il sovraffollamento segna un +0,4%. In questa crescita si registra il dato inverso relativamente ai detenuti stranieri che, rispetto al mese di ottobre, calano sia in termini percentuali che assoluti. Crescono invece le madri detenute con i loro figli con meno di tre anni: erano 49 con 52 bambini ad ottobre, sono ora 52 con i loro 56 figli. La Regione Puglia registra dati allarmanti. Il tasso di sovraffollamento è del 166,3% con un incremento nell’anno 2019 pari al 3,4%. Il dato più preoccupante come avevano dichiarato nel corso dell’ultima visita dell’Osservatorio di Antigone (maggio scorso) è quello dell’Istituto "Carmelo Magli", di Taranto che si attesta al 200%. Non va assolutamente meglio negli altri 10 istituti di pena della Puglia. Nelle galere di Foggia, Brindisi e Lecce il tasso di affollamento è ben al di sopra della media regionale con percentuali rispettivamente del 171%, 172% e 174%. Nonostante l’allarme sulla crescita dei reati commessi da stranieri, va detto che questi contribuiscono in maniera contenuta all’aumento delle persone ristrette in carcere, rappresentando il 12% nelle carceri regionali. L’Associazione Antigone Puglia da tempo ha chiesto alle Istituzioni di intervenire per arginare le numerose criticità presenti nelle carceri e offrire reali opportunità di reinserimento sociale sul territorio. I Comuni e le aziende devono fare la loro parte attraverso una rete capace di formare, orientare e reinserire i detenuti. Un maggiore ricorso alle misure alternative ed un minore uso dello strumento della custodia cautelare ha il beneficio di abbattere la recidiva e ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria. Agrigento. Dopo 14 anni sarà ripristinato il riscaldamento al carcere Petrusa Giornale di Sicilia, 8 dicembre 2019 Ripristino delle caldaie - e dunque del riscaldamento - ferme da circa quattordici anni e sblocco dei lavori di manutenzione del piccolo reparto ospedaliero. Il presidente della Regione, Nello Musumeci, si è impegnato a risolvere queste primissime criticità del carcere "Pasquale Di Lorenzo" di contrada Petrusa ad Agrigento. "Alla domanda che cosa manca per far funzionare i riscaldamenti, mi sento rispondere c’è un guasto da 40 mila euro. Mi ha detto il direttore di aver segnalato questa carenza alle autorità superiori. Non è concepibile che Roma, il Ministero, l’amministrazione penitenziaria non abbiano 40 mila euro per intervenire e per risolvere un problema che è essenziale - ha spiegato il governatore Musumeci a Radio Radicale. Il direttore, che c’è da due anni, mi ha assicurato d’aver avviato le procedure per affidare i lavori. Ho detto al direttore di aspettare dieci giorni, se entro questo arco di tempo, la ditta incaricata non fosse nelle condizioni di poter cominciare a lavorare, interverrà il governo della Regione con quarantamila euro e poi, naturalmente, ne chiederemo il rimborso in danno all’amministrazione penitenziaria di Roma". Musumeci è dunque pronto a sostituirsi, correndo "il rischio di essere perseguito dalla magistratura contabile, ma se può servire - ha spiegato - a destare l’attenzione di chi di dovere. Sarò dunque ben lieto di poterlo fare". Napoli. Il carcere è ancora scuola di violenza. Intervista a Pietro Ioia di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 8 dicembre 2019 Pietro Ioia è un attivista per i diritti dei detenuti ed insieme il simbolo della volontà di cambiamento e rinnovamento personale. "Ricevo molte lettere su quello che accade in carcere, sulle violenze e sull’inefficienza del sistema detentivo". Ventidue anni di carcere per spaccio di stupefacenti, oggi Pietro Ioia è un attivista per i diritti dei detenuti ed insieme il simbolo della volontà di cambiamento e rinnovamento personale. Presidente dell’associazione Ex D.O.N., di recente insignito del premio "Diritti Umani 2019" consegnatogli da Ilaria Cucchi per il suo impegno, l’attivista è in prima linea nel denunciare soprusi e malfunzionamento del sistema carcerario italiano. L’abbiamo incontrato per fare il punto della situazione napoletana. Come descrive la situazione carceraria a Napoli? "Attualmente la situazione carceraria a Napoli è disastrosa, sia per i carcerati sia per i loro familiari che arrivano a Poggioreale alle sei del mattino e spesso se ne vanno alle quattro del pomeriggio. Poggioreale ha una capienza di 1.600 detenuti e ce ne sono 2.200; stiamo parlando di 600 detenuti in più. Non ci sono spazi per attività educative e i sono corsi di formazione sono pochissimi. 2.200 detenuti non si possono gestire in un carcere, e quello di Poggioreale non è nemmeno a norma europea e non dovrebbe trovare posto nel centro della città. C’è una legge europea che dice che i penitenziari non dovrebbero più essere ospitati nei centri cittadini ma nelle periferie per una questione di spazio. Poi un carcere dovrebbe avere due detenuti per cella, mentre qui ce ne sono 12-14. Quindi che recupero ci può essere? Allo stato attuale delle cose le carceri sono delle vere e proprie scuole di criminalità". Per quel che riguarda l’alimentazione e l’assistenza sanitaria? "Anche in questo ambito la situazione è disastrosa. A Poggioreale sono necessari diversi mesi per una visita specialistica. Di recente vi è morto un detenuto che aveva la febbre a 39; si chiamava Claudio Volpe e aveva 33 anni. Accusava i sintomi della febbre, lo portavano giù, gli davano qualche pasticca, lo portavano su, poi di nuovo giù, un’altra pasticca e via dicendo. Alla fine gli hanno fatto un’iniezione che si è rivelata letale: Claudio si è messo a letto e non si è più svegliato. Qui ogni estate abbiamo 3-4 morti. Succede regolarmente da 3 anni a questa parte. Io ho soprannominato Poggioreale "il mostro di cemento" perché è un groviglio di ferro arrugginito e cemento, e una volta che ci entri si viene fagocitati da un sistema malavitoso, brutale. La cosa vale sia per chi ci vive sia per chi ci lavora". Leggo che lei ha subito violenze in carcere da parte di agenti penitenziari. Cosa si dice in merito a questo fenomeno? "La violenza in carcere è sempre esistita. Prima se ne sapeva meno perché il sistema era più chiuso. D’altra parte si parla di case circondariali perché sono strutture chiuse. Ora, però, le cose sono un po’ cambiate grazie alla presenza degli attivisti, dei garanti metropolitani come è successo a Torino dove il garante metropolitano, una donna, ha denunciato undici poliziotti. Poi il detenuto non si comporta più come una volta; adesso denuncia perché ha capito che ha dei diritti, pochi ma li ha, e deve farli rispettare. Ora i casi di violenza vengono segnalati più spesso di una volta. Il detenuto è un uomo, non un numero, e questo va capito e lo devono capire coloro i quali gestiscono i penitenziari, a partire dai direttori. In carcere ci finiscono esseri umani, non macchine con un numero di matricola. La violenza comunque c’è sempre". Perché questa violenza? "Prima di tutto penso che gli agenti penitenziari considerino i detenuti scarti della società, tu finisci a Poggioreale e anche se sei innocente, dicono "eh, questo è un altro", non credono alla tua innocenza, "se sei qua devi aver fatto qualcosa", dicono. Ti considerano un rifiuto. E pensano "se non avessi commesso un reato non ti troveresti qui". Ma quand’anche tu fossi colpevole di qualcosa hai dei diritti; il punto è che le guardie non si chiedono perché tu abbia commesso un reato, non si interrogano su questo. Devo comunque dire che questa violenza è anche dovuta alla loro situazione lavorativa che è al limite della precarietà: a Poggioreale, per esempio, c’è un poliziotto che deve badare a da solo a duecento detenuti. Ecco, sono sotto pressione anche loro, per mancanza di personale, sono stressati e sfogano così la loro rabbia". Oggi quale riscontro hanno le denunce per violenze? "Il primo risultato importante si ha quando un familiare viene da me perché ha visto il suo congiunto a colloquio tutto pesto. In questi casi la prima cosa che facciamo è denunciare il fatto. E quando il giorno dopo esce la denuncia sul giornale l’effetto che otteniamo è che quel ragazzo viene trattato bene. Non lo picchiano più perché vedono che sul giornale esce un articolo sul caso con la foto della mamma del detenuto, con quella di Pietro Ioia. L’effetto che otteniamo nell’immediato è che si ferma la macchina della violenza e questo è importantissimo, poi si va avanti con le indagini, a volte vinciamo, a volte no. Però capita anche che i penitenziari giochino d’astuzia trasferendo il detenuto in Sardegna, per esempio. Così, quando il magistrato va in carcere per aprire l’inchiesta e chiede del detenuto gli dicono che è stato trasferito per sovraffollamento. In questo modo si cerca di insabbiare il caso. Però devo dire che l’effetto che otteniamo subito è quello di far cessare le violenze, e questo è importante. Le cose si complicano se il detenuto non ha famiglia o se non c’è un garante che tuteli i suoi diritti. Ottenere comunque delle condanne a carico di guardie penitenziarie violente è ancora difficile. Però succede, anche se non spesso. È tuttora in corso, ad esempio, il processo sul caso della "cella zero", a carico di dodici agenti. L’indagine è stata avviata all’inizio del 2014 e siamo ancora al primo grado. Siamo alla quinta udienza, ci sono i rinvii, insomma, la cosa va per le lunghe". Da attivista sente di poter contare sulla collaborazione delle istituzioni? "Mah, io sono attivista da oltre dieci anni, ho trovato poca collaborazione da parte delle istituzioni e un grande apprezzamento, anche a livello politico, per quello che faccio. Insomma, molte parole ma niente o quasi in termini di collaborazione concreta. Faccio un esempio: arriva un parlamentare europeo che vuol rendersi conto della situazione carceraria a Napoli, gli faccio visitare Poggioreale, entra con me, questo sì, succede. Ultimamente me l’ha chiesto Cozzolino, parlamentare europeo del Pd, che mi ha contattato perché desidera visitare Poggioreale sotto Natale. Ti usano per queste cose, per conoscere un po’ la situazione, però poi spariscono. Poca collaborazione, molti apprezzamenti ma a parole". E con la giunta De Magistris? "No, collaborazione no. Ma ultimamente abbiamo ottenuto qualcosa facendo pressione per l’istituzione della figura del garante metropolitano. In questo siamo stati sostenuti dall’assessore Roberta Gaeta e ora speriamo che il garante venga nominato al più presto. La cosa è necessaria perché tra Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Nisida ci troviamo a doverci occupare di una comunità di 4.500 detenuti. Quindi ci vuole un garante metropolitano. Samuele Ciambriello, garante regionale, non può farcela da solo malgrado la sua competenza e la grande mole di lavoro che svolge. Con la sua popolazione carceraria, Napoli ha bisogno di un garante metropolitano la cui nomina è urgente". Gli ex detenuti collaborano con gli attivisti? "C’è collaborazione da parte loro. Io ricevo da loro molte lettere su quello che accade in carcere, sulle violenze e sull’inefficienza del sistema detentivo. In caso di violenze mi mandano i loro familiari per sporgere denuncia, quindi c’è collaborazione. Per il loro reinserimento è indispensabile il lavoro; io mi interesso, qualche volta riesco a farne assumere qualcuno ma è una goccia nell’oceano. Purtroppo l’ex detenuto è escluso dal mondo del lavoro e l’opinione pubblica non ci pensa. Appena sentono che sei un ex detenuto… qui ci vorrebbe l’aiuto delle istituzioni; e ripeto: il primo passo verso il reinserimento, il primo aiuto, è il lavoro. Offrendo possibilità di lavoro si vede se una persona vuole cambiare o meno, la si mette alla prova e contemporaneamente si mette alla prova l’apertura e la capacità di accoglienza della società. Ma se il lavoro manca?". Trapani. Apprendi sul carcere: "Isolamento invivibile, chiederemo ispezione all’Asp" Il Sicilia, 8 dicembre 2019 Le dichiarazioni del presidente di Antigone Sicilia. Pino Apprendi, presidente dell’associazione Antigone Sicilia, interviene sulle opere di ristrutturazione alla Casa Circondariale Pietro Cerullo di Trapani, insufficienti secondo il suo punto di vista. "Ho visitato la Casa Circondariale di Trapani, Pietro Cerulli, accompagnato dal Commissario Cocuzza, l’ispettore Savalli e l’educatore? Vanella. Le condizioni generali della struttura si sviluppano a "macchia di leopardo", sottolinea Apprendi. "Ci sono reparti totalmente ristrutturati, dove il detenuto conduce una vita in ambienti salubri e nel rispetto anche della privacy con docce e servizi nelle celle. Al contempo ci sono reparti? degradati, con docce esterne alle celle, in particolare nella struttura più vecchia dove le celle si affacciano su dei corridoi grandi? e su uno spazio centrale dove regna un vociare continuo", attacca il presidente di Antigone. "Un capitolo a parte? va dedicato all’isolamento? punitivo, dove le celle sono assolutamente invivibili dal punto di vista igienico sanitario, pareti sporche e il gabinetto alla turca è? collocato nello stesso spazio senza pareti, dove vive, si fa per dire, il detenuto. Su questo punto chiederemo una ispezione? all’Asp di Trapani". "Pur essendoci 130 stranieri su 521 persone, manca il mediatore culturale. Ben 69 sono i casi di autolesionismo nel 2018, oltre il 13%. Non esiste un’area verde dedicata ai bambini. Come tutte le carceri, risente dell’organico sottodimensionato della Polizia Penitenziaria, che ha una età? media molto alta, e? deve coprire tutti i servizi amministrativi, il servizio scorte e la squadra che si dedica a fare lavori in economia", chiosa Pino Apprendi. Bolzano. "La mia vita oltre le sbarre" di Sarah Franzosini salto.bz, 8 dicembre 2019 La storia di Marco, ex detenuto, finito in carcere nel 2013 per ricettazione, e della sua rinascita, possibile anche grazie a chi non l’ha mai lasciato solo. A Bolzano Marco è un tipo conosciuto. Nel bar del centro dove ci fermiamo per un caffè è tutto uno scambio di sorrisi e cenni col capo in segno di saluto, in mezzo al tintinnare fuori-tempo delle tazzine. Marco ha quasi 60 anni ed è un ex detenuto. Sconfigge il gelo preventivo dell’interlocutore lasciando il passo alla verità: "Ci vengo spesso in questo posto, il proprietario, i camerieri, tutti sanno del mio passato, sono stato io a dirglielo. Preferisco parlare dei miei trascorsi piuttosto che lasciarlo fare ad altri, che magari riportano una cosa per un’altra", ci racconta con aria compassata. Pensavo: tanto in Italia in galera oggi non ci va nessuno, che gigantesco sbaglio - Tutto inizia qualche anno fa, Marco, che è originario di Ora, lavora come rappresentante per una ditta di fertilizzanti, gira l’Italia, i soldi a fine mese non mancano. Poi un giorno l’azienda chiude e lui si ritrova senza lavoro e presto senza più un quattrino in tasca. "Sono finito in un brutto giro, mi sono messo a comprare e vendere merce rubata, tv, telefonini, apparecchi elettronici e quant’altro. Non era difficile piazzarli perché a Bolzano conosco tanta gente". Fra le mani gli passa un bel po’ di denaro, arriva a guadagnare anche 10-12mila euro a settimana. Soldi facili. E insieme al portafoglio si gonfia anche la presunzione di poterla fare franca. "Mi hanno pizzicato 2, 3 volte ma non mi presentavo mai davanti al giudice, pensavo: tanto in Italia in galera oggi non ci va nessuno, che gigantesco sbaglio". In questo frangente effimero di libertà Marco si rimette in carreggiata, ritrova un vecchio amico, Vinicio, che gli dà un lavoro al mercato presso il suo banco di abbigliamento, lo aiuta a trovare un appartamento, a non "bruciarsi" tutti i soldi al Casino di Innsbruck come spesso accadeva, e a smettere di bere, un vizio aggravatosi dopo la perdita del primo impiego. "Un sabato sono venuti a prendermi al mercato e mi hanno detto: ‘Andiamo, hai 8 anni da scontarè. Per me è stata quasi una liberazione, un sollievo, sapevo che prima o poi mi avrebbero preso e vivevo in un’ansia costante. Quando vedevo una pattuglia dei carabinieri cambiavo strada, ogni volta che prendevo la macchina avevo paura che mi fermassero". Marco finisce nel girone dei condannati per ricettazione, si fa due anni e mezzo dentro, dal maggio 2013 al novembre 2015, e 2 anni e mezzo con l’affidamento in prova, misura alternativa alla detenzione. Lo accoglierà la Odós, il servizio della Caritas che si occupa del reinserimento sociale di detenuti ed ex-detenuti. "Potevo uscire la mattina presto e dovevo rientrare per le 21 - ricorda - se mi intrattenevo con un amico stavo sempre lì a controllare l’orologio per non passare dei guai". Un sabato sono venuti a prendermi al mercato e mi hanno detto: "Andiamo, hai 8 anni da scontare" - Gli anni del carcere li trascorre a Verona-Montorio. Marco è uno dei "fortunati" che riesce a lavorare (sono 70-80 su oltre 500 i detenuti che ottengono un impiego nella casa circondariale veneta), confeziona pacchetti per una cooperativa e a fine mese riesce a incassare fra i 400 e i 500 euro. All’inizio Marco divide la cella con altre tre persone, chiuso dietro le sbarre, a parte le due ore d’aria al giorno. Spazi minuscoli, affollatissimi. Passa il tempo giocando a carte, guardando la tv, leggendo, schivando il rischio di generare mostri del pensiero. Dopo un anno la situazione sembra migliorare, gli inquilini della cella diminuiscono, diventano tre in tutto, e le sue porte si aprono così da poter almeno uscire nei corridoi. "Mi è andata bene anche dal punto di vista della salute perché non ho mai avuto bisogno del medico, per farsi visitare la trafila non è semplice, e il dottore non sempre c’è". Per farlo sentire meno solo Vinicio va a trovarlo e ogni tanto gli allunga qualche banconota, "ché in prigione fa sempre comodo avere un po’ di liquidità". Nel carcere di Bolzano, dove aveva passato il primo mese, Marco torna per scontare gli ultimi 6 mesi della pena, gli viene accettata la richiesta di trasferimento. Anche nella struttura di via Dante lavora, stavolta in cucina. In cella sono in sette e salvarsi dall’alienazione diventa il compito meccanico di ogni giorno. "È vero che quel carcere è messo davvero male ma dal punto di vista umano è meglio che stare a Verona, lì sei solo un numero. A Bolzano almeno con le guardie si riesce a scambiare una parola, forse perché capiscono le condizioni precarie del luogo, e poi potevo vedere il Talvera, qualche passante, dov’ero prima c’erano solo muri tutt’intorno". Vinicio, che in questi anni non lo ha lasciato solo, gli offre il suo vecchio lavoro al mercato. E il mestiere di ambulante diventa il perno attorno al quale Marco ricostruisce, una volta fuori, una vita onesta. "Ora rigo dritto, la galera che ho fatto mi è bastata". I buoni propositi non tengono conto però delle responsabilità a cui invece il fisco lo inchioda. Situazioni burocratiche vessatorie che molto spesso pesano sui detenuti anche dopo aver pagato il conto alla giustizia. "Ho debiti con Equitalia per svariate migliaia di euro che non so come farò a saldare". In un’esistenza tarlata dall’incertezza "un giorno alla volta" sembra essere il mantra da inseguire. Accanto il contrappeso delle conquiste che si accumulano. Il piccolo appartamento dell’Ipes in via Resia che gli ha restituito nuova indipendenza, il Natale con un amico, un pomeriggio insieme al nipotino, una lunghissima passeggiata fino al Corno del Renon, un giro in bici, portare la propria testimonianza agli studenti con il progetto "A scuola di libertà: le scuole imparano a conoscere il carcere". La solitudine che non fa paura. "Non temo più niente dopo quello che ho vissuto, solo la malattia, spero di campare bene fino al mio ultimo giorno - dice Marco -. Per il resto il passato è passato, vado avanti a testa alta". Nell’intimità della propria battaglia quotidiana. Bologna. Da Caligari a Garrone, nel carcere una videoteca con 800 titoli di Ambra Notari Redattore Sociale, 8 dicembre 2019 Quasi 800 dvd donati da Rai Cinema, un corso di catalogazione e una decina di detenuti coinvolti. Luigi, detenuto: "Grazie per non essere come chi chiede di chiuderci dentro e buttare la chiave. Grazie per offrirci una seconda possibilità. Quando sarò libero spero che Bologna vorrà accogliermi". Tesserino, carta d’identità, liberatoria. "Gli zaini e le borse qui. Niente cellulari. Vi siete controllati bene le tasche?". Gli agenti penitenziari ci aspettano mentre, in una specie di piccola cabina, appoggiamo i nostri effetti personali. Tanto sole, un gran freddo: "Le procedure di sicurezza oggi sono particolarmente rigorose perché entreremo nella sezione penale", ci spiegano. Attraversiamo il cortile e i primi cancelli. Ripetiamo i nostri cognomi, li appuntano su un registro. Un corridoio lungo e largo, un agente ci fa strada. Poi giriamo a destra e, sul muro in fondo, leggiamo "Sezione penale". Di nuovo i cognomi, di nuovo il registro. Di fianco alla scrivania, un albero di Natale e un presepio sono accesi. Palline, statuine, la stella: tutto è al proprio posto. Alle spalle, c’è la cappella. Di fianco, altre salette per le attività. Al muro, incorniciata, la maglia numero 10 di Diamanti. Siamo a Bologna, non c’è dubbio. Siamo in via del Gomito, alla casa circondariale Rocco D’Amato, meglio nota come "la Dozza", il carcere cittadino. Siamo nella sezione penale, l’occasione è l’inaugurazione della nuova videoteca "Claudio Caligari". Alla nostra sinistra, alcuni detenuti, seduti ai banchi, seguono le lezioni scolastiche. Poi ci sono i ragazzi del corso di edilizia, di fianco la palestra. A destra, l’aula dedicata alla formazione sui mestieri del teatro, la sala di musica, la videoteca. Le pareti sono lilla, i vetri davanti alle sbarre sono appannati. Sul muro, ancora il Bologna: la maglia rossoblù di Kone. "Questa zona è stata ristrutturata 3 anni fa, era un deposito - spiega Massimo Ziccone, direttore dell’area educativa. Un anno e mezzo fa è diventata l’area pedagogica del penale. L’idea è che i detenuti passino qui buona parte delle loro giornate". La sezione penale accoglie detenuti comuni con pene lunghe, dai 5 anni in su: "Vorremmo anche realizzare una cucina e organizzarci perché sia possibile mangiare qui (in Dozza non c’è una mensa, i detenuti consumano i pasti nelle loro camere detentive, ndr)", prosegue Ziccone. La videoteca è una stanza ampia, tutta bianca. Alle pareti tante locandine: "Caos Calmo", "Metropolis", "Per qualche dollaro in più". Sugli scaffali più di 700 dvd che, sommati a quelli ancora impacchettati con l’etichetta Rai, vanno a comporre un catalogo di 800 titoli. Sullo schermo, passano le immagini di "Non essere cattivo", l’ultimo film di Claudio Caligari, il regista piemontese scomparso nel 2015 a cui, come detto, è stata dedicata la videoteca. "Non essere cattivo" venne proiettato, fuori concorso, alla prima edizione di Cinevasioni: "Caligari si è sempre dedicato alle marginalità - spiega Claudia Clementi, direttrice dell’istituto - raccontando storie di tenacia e mostrando le rivincite. Ci ha accompagnato sin dall’inizio di questo percorso portato avanti con l’associazione Cinevasioni: ci è sembrata la scelta migliore". Grazie al contributo di Rai Cinema, come detto, sugli scaffali sono già finiti oltre 700 dvd: "Persepolis", "Drive", "13 assassini", "La La Land", "Rush", "Gomorra", "Suburra". Poi c’è la raccolta delle commedie di Eduardo direttamente da Rai Teche, "L’Arlecchino servitore di due padroni", il dizionario dei film di Mereghetti: "Ci è servito per capire bene quali fossero i generi dei film - sorride Angelita Fiore, presidente di Cinevasioni. Senza internet qualche dubbio ci è venuto". Sulle mensole anche "Il racconto dei racconti", di Matteo Garrone, in concorso al primo Cinevasioni: "Sono occasioni come questa che ci fanno sentire davvero servizio pubblico - ringrazia Carlo Brancaleone di Rai Cinema -. Ho portato una sorpresa", aggiunge, mentre srotola la nuova locandina di "Pinocchio", il film di Garrone in uscita la prossima primavera. "Visto che teniamo a battesimo questo momento - suggerisce Clementi -, vorremmo far sapere al regista che saremmo ben felici di ospitarlo per una proiezione nella nostra sala cinematografica AtmospHera". Una quindicina i detenuti che hanno seguito il corso di catalogazione guidati da Davide Fioretto: un paio di lezioni teoriche, il passaggio alla pratica. Sei giorni di esercitazione e il catalogo costruito tutto da loro, su un file Excel: "Un bel traguardo per chi, da anni, non usava la tastiera di un computer", sottolineano i ragazzi dell’associazione. "Abbiamo cominciato a lavorare alla catalogazione a giugno - spiegano Luigi e Mosè -, ora ci aspetta altro lavoro. Quei nuovi dvd (il pacco ancora da aprire con l’etichetta Rai, ndr) ci stanno aspettando". Ultimamente avete visto film che vi hanno colpito particolarmente? "‘Ammore e malavita’ dei Manetti Bros, è stata la prima proiezione ad AtmospHera. E poi ‘Reality’, con Aniello Arena, l’attore detenuto: è davvero molto bravo". I ragazzi sorridono, escono ed entrano dalla stanza per farsi intervistare. Scherzano con i volontari, applaudono. "Vorremmo realizzare un piccolo cineforum - spiega Fiore - condotto con un’attività di peer to peer, con i ragazzi di oggi che seguono e formano quelli di domani. L’attività è molto professionalizzante, è un bell’investimento per il futuro". Annuisce anche Giacomo Manzoli, direttore del dipartimento delle arti dell’università di Bologna: "Abbiamo 15 mila titoli: la preparazione di questi ragazzi di certo ci farebbe comodo", ammette, aprendo una porticina per una futura collaborazione. Clementi ringrazia la Polizia penitenziaria, gli stakeholders e i volontari, ma soprattutto i detenuti, "uomini che hanno deciso che il tempo passato qui dentro non sia tempo perso, che hanno scelto di cogliere un’opportunità". Poi è Luigi a prendere la parola: "Parlo per me, ma penso di farlo a nome di tutti: grazie per non essere come chi chiede di chiuderci dentro e buttare la chiave. Grazie per offrirci una seconda possibilità". Luigi ha 38 anni, di cui 8 trascorsi in Dozza. Frequenta il corso di giornalismo, quello di cinema e quello di catalogazione. Fa parte del Coro Papageno e partecipa al laboratorio per il disassemblaggio dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee). "Ho chiesto di usare i miei primi permessi non per tornare dalla mia famiglia, ma per fare volontariato. Il cambiamento passa anche da qui. Se sono sempre stato così impegnato? No. I primi anni sono serviti a metabolizzare. Poi, più o meno quattro anni fa ho capito che non potevo passare la detenzione buttato su un letto, non mi sarebbe servito a nulla. Io non sono bolognese, ma spero che, una volta fuori, questa città voglia offrirmi una seconda possibilità". Sullo schermo, "Non essere cattivo" ha lasciato il posto al ragionier Ugo Fantozzi: "Volevamo portare un po’ di leggerezza, Paolo Villaggio ha messo tutti d’accordo", spiega un volontario di Cinevasioni. È venuto il momento di congedarsi. Prima i detenuti, "è pronto il pranzo", poi tutti gli altri. Mentre escono, si fermano a stringere le mani, ringraziandoci per essere venuti. Facciamo il percorso all’indietro. Ripassiamo davanti a Kone, Diamanti, albero di Natale e presepio. E poi i corridoi, dalle finestre si vedono le camere detentive: panni stesi, bottiglie d’acqua, scarpe. Ripetiamo i cognomi, recuperiamo zaini, telefoni e documenti. In lontananza, le chiacchiere e il rumore dei carrelli che portano il pranzo, ciascuno seduto nella propria camera. Chissà che la prossima volta non verremo qui per assistere al taglio del nastro di una sala mensa dove, come i detenuti chiedono da tempo, poter pranzare e cenare insieme, magari dopo avere cucinato in brigata. Milano. Il viceministro Mauri assiste alla Prima della Scala con i detenuti di San Vittore affaritaliani.it, 8 dicembre 2019 Il viceministro dell’Interno Matteo Mauri assiste alla Prima della Scala assieme ai detenuti del carcere di San Vittore. Il Viceministro dell’Interno Matteo Mauri oggi alle 17 all’istituto penitenziario di San Vittore per una visita al personale e ai detenuti, accompagnato dal Direttore Giacinto Siciliano. Seguirà da lì la diretta della Prima della Scala con la proiezione, sullo schermo installato nella rotonda, della Tosca di Giacomo Puccini. "Ho scelto di assistere alla Prima nel carcere di San Vittore per dare un segnale di attenzione a tutto il sistema carcerario, sia verso gli operatori che verso chi vive una situazione così complicata dal punto di vista personale. E mi dà molto piacere farlo con il Direttore Siciliano che sta svolgendo un ottimo lavoro." "Credo profondamente nella concezione illuminista che Cesare Beccaria ci ha donato più di 250 anni fa. Un grande milanese, un uomo straordinario che ha influito in maniera determinante anche sulla legislazione italiana moderna. Una tra le più avanzate al mondo e che sposa il concetto che sia utile alla società un sistema che tenda il più possibile alla rieducazione dei detenuti, in modo anche da abbattere il tasso di recidiva. La Cultura in questo senso può essere una valida alleata. E anche condividere insieme la visione di una delle più belle opere della lirica può essere un piccolo passo lungo questa strada." Lo ha dichiarato il Vice Ministro Mauri a margine della consegna degli Ambrogini d’oro. Premio che quest’anno è stato riconosciuto anche alla memoria di Don Luigi Melesi, storico Cappellano di San Vittore. Pescara. Torna il "Festival della melodia" nel carcere, in giuria anche i detenuti di Luca Speranza ilpescara.it, 8 dicembre 2019 Venticinquesima edizione per il festival canoro organizzato dal carcere di Pescara assieme al Comune ed a Paolo Minnucci. Torna anche quest’anno, con la venticinquesima edizione, il "Festival della Melodia". Lo ha annunciato l’assessore comunale Di Nisio assieme all’organizzatore Paolo Minnucci ed alla direttrice della casa circondariale di Pescara Lucia Di Feliciantonio. L’appuntamento musicale si terrà all’interno del carcere di San Donato lunedì 9 dicembre e vedrà la presenza di 10 detenuti nella giuria che valuterà i 15 cantanti in gara. I vincitori parteciperanno alla finale nazionale che si terrà a Sanremo durante la settimana del festival come ha ricordato l’assessore: "15 cantanti, 10 detenuti in Giuria con tanta voglia di trascorrere due ore di serenità. Tra le molte iniziative dell’assessorato all’Ascolto del Disagio Sociale, abbiamo inserito anche questo evento per poter trascorrere e far trascorrere un sereno Natale a operatori, direzione e ospiti della Casa Circondariale. Non vogliamo dimenticare nessuno, non vogliamo lasciare "indietro" nessuno. Il nostro slogan #NonLasciareIndietroNessuno lo pratichiamo sempre e con tutti". Minnucci ha ricordato che alla manifestazione hanno partecipato artisti come ‘Nduccio, Piero Mazzocchetti, Vincenzo Olivieri sottolineando anche la valenza sociale del progetto, che è stato il primo spettacolo organizzato nel carcere di Pescara. La direttrice Di Feliciantonio ha aggiunto: "Voglio fare un plauso a chi, da tanti anni, permette di trovare un momento di conforto e di serenità nella vita quotidiana dei reclusi. Penso sia una ottima iniziativa e fornisco sin d’ora la mia disponibilità a tutte le iniziative future che l’Amministrazione comunale vorrà proporre all’interno dell’istituto". Varese. Al carcere dei Miogni: "Gioco al biliardino con il mio papà!" di Gianni Armiraglio varesepress.info, 8 dicembre 2019 Questo è quanto ci ha detto oggi un bambino, tutto felice di poter giocare al calciobalilla con il suo papà, anche se ci trovavamo dietro le sbarre del Carcere dei Miogni di Varese. Basta poco per far felice un bimbo che vive la separazione dal suo genitore detenuto, un bambino che quando rientra da scuola o dall’asilo non trova a casa il suo papà, per quanto stanco o burbero, che lo aspetta. Perché è quello che succede ai figli dei detenuti, andare a trovare il papà in quel luogo strano dove papà non può uscire con lui. Ma è bastato un calciobalilla, un tabellone con i nomi delle squadre, una torta, qualche salatino e qualche bibita per far dimenticare a tutti dove ci si trovava e per dar vita ad un’accesa partita con grandi e piccoli. Le squadre formate da un papà e dal proprio figlio o figlia si sono affrontate in un torneo di cui però non vi diremo il nome della squadra vincitrice perché mai, come in questo caso, l’importante è partecipare e non vincere e perché, ad un certo punto, eravamo di troppo e, fatta qualche foto, ce ne siamo andati per non disturbare quel momento di felicità. Il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria di Milano, la Direzione della C. C. di Varese in collaborazione con l’Associazione "Bambini senza sbarre" e l’Associazione "Assistenti Carcerari e famiglie di San Vittore Martire di Varese" hanno organizzato questo mini torneo di calciobalilla, nel quadro di quelle iniziative atte a favorire la "genitorialità" negli Istituti Penitenziari, creando dei momenti a misura di fanciullo per superare le difficoltà che incontrano i bambini separati dai propri genitori durante la detenzione in carcere. "La partita con papà" si è svolta grazie al supporto dei Funzionari Pedagogici dell’Istituto, l’assistente volontario Virginio Ambrosini, che ha collaborato a preparare i premi ed il piccolo rinfresco, oltre agli operatori dell’U.I.S.P. di Varese che hanno animato l’evento e seguito il mini-torneo. Vibo Valentia. Un concerto in carcere per lanciare un messaggio di speranza ilvibonese.it, 8 dicembre 2019 Organizzato per il secondo anno consecutivo da Chiesa cristiana di Vibo, gruppo gospel di Montepaone e cooperativa sociale Vibosalus, grazie alla sensibilità della direzione e dei funzionari. Un concerto per mostrare vicinanza, per lanciare un messaggio di pace e per mostrare a chi ha sbagliato che un’altra vita è possibile. È quello andato in scena, per il secondo anno consecutivo, alla casa circondariale di Vibo Valentia, promosso dalla Chiesa cristiana "Gesù Cristo è il Signore" di Vibo Valentia in collaborazione con il gruppo gospel "New Vision Gospel Choir" di Montepaone Lido, la cooperativa sociale "Vibosalus" e l’istituto per la famiglia sezione 278. La sensibilità dimostrata dalla direttrice Angela Marcello insieme al comandante del Corpo Domenico Montauro, dalla responsabile area educativa Chiara La Cava e dal personale tutto della Polizia penitenziaria di Vibo Valentia, hanno permesso di riorganizzare l’evento. Gli obiettivi, come nell’edizione del 2018, erano quelli di raggiungere, in prossimità delle festività natalizie, coloro i quali vivono una condizione di solitudine e distacco dagli affetti familiari, attenuando il disagio delle carceri anche grazie alla presenza del gruppo gospel. "Il Natale - ha affermato il pastore della Chiesa Cristiana Giovanni Perri - è un periodo di festa molto delicato per coloro i quali soffrono da detenuti e dimenticati dalla società, che percepiscono in maniera pungente la solitudine dei luoghi carcerari. Eppure il nostro Signore Gesù Cristo, in più occasioni, ci ha raccomandato la cura dei più deboli e dei carcerati. Essere cristiano è un progetto che trova adempimento soprattutto nella realizzazione della parola del nostro maestro e questa iniziativa ha proprio questo scopo: scaldare il cuore e l’animo dei detenuti con la volontà di infondere loro la speranza e la fede di Cristo e di far percepire loro la nostra vicinanza". L’incontro si è concluso con un breve messaggio di incoraggiamento e la distribuzione gratuita di copie della Bibbia e calendari cristiani. "Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ‘ndrangheta", di Antonio Talia recensione di Antonio Maria Mira Avvenire, 8 dicembre 2019 La strada statale 106 corre lungo la costa jonica per 491 chilometri, da Reggio Calabria a Taranto. Una striscia d’asfalto che attraversa Calabria, Basilicata e Puglia. La chiamano "la strada della morte" per l’altissimo numero di incidenti. Uno stretto budello a due corsie (tranne pochissimi tratti) che si infila in decine di paesi, tra un’edilizia disordinata e un mare spesso nascosto. Una strada che è un po’ la metafora della Calabria, soprattutto nel tratto reggino. Il sacco del territorio, l’anonimato di centri abitati noti solo per fatti criminali, l’arretratezza dei collegamenti (a fianco corre, si fa per dire, la linea ferroviaria a binario unico e in gran parte non elettrificata). Negatività che cancellano una storia antichissima, dai greci ai romani ai bizantini. E allora la 106 è soprattutto metafora della ‘ndrangheta, la "sindrome che aleggia nella zona", così come la definisce Antonio Talia nel libro molto ricco e intenso "Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ‘ndrangheta" (Minumum Fax). "La Statale 106 - scrive il giornalista calabrese, figlio proprio di questa terra - non è una strada statale litoranea, ma un abominio statistico di dimensioni internazionali: sono abbastanza sicuro che non esista al mondo una densità di fenomeni del genere come quella che si concentra nell’arco dei 104 chilometri tra Reggio Calabria e Siderno". Un viaggio a tappe lungo una storia di sangue, di collusioni con la politica e l’economia, non solo storia calabrese. Lasciando ogni tanto la 106 per risalire, lungo strade malmesse che affiancano immense fiumare, le pendici dell’Aspro - monte, fino a paesini che evocano la drammatica stagione dei sequestri di persona e quella ancora attualissima dei ricchissimi traffici di droga. Ma da qui partono altri percorsi che portano molto più lontano. "Sovrapporre gli alberi genealogici a una mappa della Statale 106 - scrive ancora Talia - significa accedere a una geografia occulta costituita da intrecci, parentele, cognomi ricorrenti e nomi di battesimo che fluiscono sottotraccia per ricomparire dopo due o tre generazioni dall’altra parte del pianeta". Così la 106 ci porta in Lombardia, Germania, Olanda, Slovacchia, Sudamerica, Usa e Canada, fino all’Australia, dove fare affari ma dove anche compaiono "locali", riti di iniziazione e formule di giuramento come nei paesini aspromontani. Un legame strettissimo, un cordone ombelicale, perché il comando, le decisioni finali, l’ortodossia restano sempre qui, lungo questa fascia di territorio. "Tutte queste locali - si legge nel libro - agiscono in autonomia sul territorio, ma allo stesso tempo sono tenute a rispettare le regole del Crimine di Polsi (il santuario della Madonna della Montagna, a lungo luogo degli accordi e delle strategie ‘ndranghetiste, ndr) che emette una sorta di interpretazione inappellabile della "Costituzione criminale" dell’organizzazione". Un’unitarietà nella diversità, che scorre lungo la Statale. Il viaggio fa una prima tappa a Bocale, al chilometro 15 della 106. Qui aveva una villa Lodovico Ligato, parlamentare Dc, potentissimo presidente delle Ferrovie dello Stato, e qui venne ucciso nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1989, uno dei tre delitti eccellenti di ‘ndrangheta: il suo, quello ne12005 del vicepresidente del Consiglio regionale Francesco Fortugno, quello nel 1991 del sostituto procuratore generale Antonino Scopelliti, in realtà un favore a "cosa nostra" per eliminare il magistrato che in Cassazione si doveva occupare del maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. La ‘ndrangheta non ama i clamori, non li provoca. Certo usa la violenza e anche pesantemente. Nella terza tappa a Montebello Jonico, al chilometro 30, si ricorda la seconda guerra di ‘ndrangheta che "finisce nel 1991, dopo sei anni, 564 vittime accertate e un numero tra le 100 e le 200 persone scomparse nel nulla, fuggite o peggio". Non è improvviso "buonismo". Ma la "strategia dell’inabissamento" nella quale "controversie che in passato conducevano a conflitti armati, da tempo vengono invece appianate attraverso discussioni e decisioni emesse dagli affiliati più autorevoli, per essere liberi di continuare a fare affari". Perché sono proprio gli affari a viaggiare meglio lungo la 106 e lungo le tratte europee e transoceaniche. Strettamente intrecciate con la politica. Fin dal delitto Ligato che, scrive Talia, "è allo stesso tempo la balena bianca degli omicidi di ‘ndrangheta e un gigantesco rimosso collettivo". Merito del libro ricordarlo, ricordando anche quelle drammatiche parole di Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, che al Consiglio nazionale della Dc tenutosi quattro giorni dopo l’omicidio, di fronte al silenzio generale, disse con onestà e sincerità: "Ligato è nostro. Perché fu un nostro deputato, perché a quel posto di responsabilità non ci andò da solo. Vogliamo andare avanti in silenzio, passando oltre anche queste scene colorate di sangue? O vogliamo fermarci a meditare quanto taluni sistemi possono portare persino a conseguenze di questo peso?". Storie rimosse. Come quella rievocata alla tappa di Saline Joniche, al chilometro 27. Dove una ciminiera alta 154 metri ricorda uno degli sprechi pubblici più giganteschi non solo della Calabria: la Liquichimica biosintesi, decine di miliardi spesi, 750 operai che lavorarono per 60 giorni per poi restare 23 anni in cassa integrazione. Lo sfascio della costa, interessi politici, affari delle cosche e una grande illusione. Una costante lungo la 106. E non solo. Così la tappa al chilometro 86, parte da San Luca, "la mamma" della ‘ndrangheta, arroccato sulla fiumara del Bonamico, per farsi europea. A quella notte "tra il 14 e il 15 settembre 2007, quando si svela la sovrapponibilità tra Statale 106 e Autobahn tedesche". È la notte della strage di Duisburg, sei morti, l’ultimo capitolo della faida del paese che ha dato i natali a Corrado Alvaro, e alle cosche Nirta-Strangio e Pelle-Vottari. Quando, scrive Talia, "l’intera Europa apprende cosa significa la parola ‘ndrangheta". Così come una lunga fila di omicidi lo svela a canadesi e australiani. Morti e affari globalizzati. Ma la mente, la testa rimangono sempre qui, su questa striscia d’asfalto. Tempi maturi per il suicidio assistito di Filomena Gallo* L’Espresso, 8 dicembre 2019 È possibile per un malato accedere al suicidio assistito in Italia? Con la sentenza 242/2019 la Corte Costituzionale ha risposto che in alcuni casi è possibile. Non è infatti più punibile chi aiuta un malato che abbia autonomamente e liberamente deciso di porre fine alla propria vita e che sia: "1) una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, 2) affetta da patologia irreversibile, 3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ma 4) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli". Queste condizioni devono essere state "verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente". La Consulta, con una sentenza di incostituzionalità immediatamente applicativa con effetto di legge, ha riscritto il perimetro dell’articolo 580 del Codice penale che prevede una pena da 5 a 12 anni per istigazione e aiuto al suicidio. Il reato rimane per l’istigazione e per quei casi di aiuto materiale che non rientrano nelle condizioni della sentenza. La decisione risponde all’incidente di costituzionalità sollevato dalla Corte di Assise di Milano, nel giudizio che vedeva Marco Cappato imputato per l’aiuto alla morte volontaria di Fabiano Antoniani. A settembre 2018 la Consulta aveva utilizzato la formula della dichiarazione di incostituzionalità "accertata ma non dichiarata" rinviando l’udienza di 11 mesi fornendo al Parlamento il tempo di intervenire. Nell’ordinanza del 2018, si legge che il divieto assoluto dell’articolo 580 cp: "finisce [...] per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive". La chiusura di questa vicenda ha una portata storica e per la prima volta la Corte Costituzionale interviene in materia di scelte alla fine della vita. Adesso tocca al Parlamento intervenire con una legge che però non potrà restringere quanto fissato dalla Consulta. Nell’attesa che le Camere discutano, un prossimo appuntamento è per il 5 febbraio prossimo a Massa per l’ultima udienza del processo a Marco Cappato e Mina Welby che hanno aiutano Davide Trentini, un malato che - con patologia irreversibile, fonte di sofferenze insopportabili e nel pieno della capacità di autodeterminarsi - non era attaccato a una macchina. Il caso di Trentini potrebbe non essere ricompreso nella definizione della Consulta.Se il legislatore non sarà intervenuto saranno di nuovo i giudici a decidere. Dalla vicenda di Piergiorgio Welby (2006) in poi, solo grazie alle persone che hanno reso pubbliche le proprie drammatiche storie, si sono suscitate riflessioni e riforme sistematicamente scansate dalla politica. In tutti i sondaggi gli italiani chiedono di voler essere liberi di scegliere. Lo scorso ottobre i giudici hanno ampliato le possibilità di esercizio di questa libertà: adesso è compito della politica codificare l’autodeterminazione individuale fino alla fine della vita. Dal 2013 alla Camera giace una proposta di legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia, promossa dall’associazione Luca Coscioni e sottoscritta da oltre 67 mila persone per regolamentare la fine della vita, i tempi sono maturi per approvarla. *Segretario dell’Associazione Luca Coscioni Migranti e sicurezza sociale. Perché è meglio prevenire di Stefano Allievi Corriere del Veneto, 8 dicembre 2019 Ma prevenire, mai? È la prima e più ovvia questione che dovremmo porci, quando si parla di devianza - o delle espulsioni di immigrati che delinquono. E invece è sempre l’ultima. Con il risultato che non capiamo cosa sta succedendo, figuriamoci trovare delle soluzioni sensate. Facciamoci qualche domanda. Uno. Perché abbiamo tanti immigrati irregolari? È semplice: perché abbiamo chiuso i canali di immigrazione regolari. Se li riaprissimo in base alle esigenze del mercato del lavoro (che ci sono: senza immigrati, settori come il lavoro di cura - badanti, colf, infermiere - agricoltura, logistica, edilizia, turismo - ristorazione e pulizie - e parti significative della manifattura semplicemente chiuderebbero, impoverendoci tutti) avremmo meno immigrazione irregolare, e pure maggiori possibilità di espellere chi delinque, in quanto gli stati d’origine sarebbero obbligati ad accettarli. Se lavorassimo sugli ingressi, ex ante, avremmo molte meno necessità di fare espulsioni, difficili e costose, ex post. Due. Sono gli immigrati a delinquere? Italiani a parte, non esattamente: sono gli immigrati irregolari - di essi sono soprattutto piene le nostre carceri. Non è l’immigrazione in sé a produrre delinquenza: tanto è vero che abbiamo comunità che hanno specializzazioni criminali significative, e altre che hanno tassi di delinquenza molto inferiori a quelli degli italiani. Soprattutto, è la condizione di irregolarità che produce occasioni di criminalità: per molti motivi, tra cui la mancanza di alternative. Abbiamo un esempio storico significativo cui riferirci: anni fa, per un certo periodo, i romeni furono al vertice delle classifiche di devianza. Da un anno all’altro - con l’ingresso della Romania nel sistema di libera circolazione (legale) europeo - il tasso di criminalità dei romeni è calato drasticamente. Suggerisce niente? Tre. La legge ci mette del suo, nel rallentare le espulsioni? Sì. Per esempio, una volta scoperto un comportamento criminale, tocca processare l’individuo anche per immigrazione clandestina, rallentando l’iter dell’espulsione. Sono anni che i magistrati ci chiedono di abolire questo reato. Ma non ne parla nessuno. Perché è stato introdotto in una legge che si chiama Bossi-Fini, e abrogarlo vorrebbe dire ammettere l’errore. Quindi, tutti zitti. Quattro. Chi delinque, soprattutto? I maschi, giovani, non inseriti nel mercato del lavoro (è così anche per gli autoctoni). Occorrerebbe quindi favorire processi di inserimento nel mercato del lavoro (legale) e di integrazione. Invece si fa l’opposto. Si impedisce l’integrazione e non si consente l’ingresso nel mercato del lavoro a centinaia di migliaia di irregolari - anzi, se ne aumenta il numero riducendo i riconoscimenti tra i richiedenti asilo. Cosa ci si immagina che faccia una persona che non può lavorare regolarmente? Come minimo, farà lavoro nero (che, lo ricordiamo - in un Paese che lo tollera con troppa indulgenza - è un reato); se va peggio, delinque. Il problema è che integrazione=sicurezza, meno integrazione uguale meno sicurezza. A qualcuno interessa, o siamo capaci di parlare solo di espulsioni? Cinque. Pare che in Veneto qualcuno si sia finalmente svegliato, proponendo un Cie (Centro di identificazione e di espulsione) a Verona. Un posto, cioè, dove mettere chi è stato fermato, in attesa appunto dell’espulsione. Bene, i Cie sono previsti fin dai decreti Minniti, le altre regioni ce li hanno, ma il Veneto ancora no. Risultato: o si lasciano in giro i candidati all’espulsione, o li mandiamo nei Cie altrui. Oggi chi finalmente si accorge che occorre il Cie in Veneto dice che ci vuole mettere solo le persone arrestate in Veneto, con un inedito localismo securitario. Se avessero fatto lo stesso gli altri Cie italiani, noi ci saremmo dovuti tenere i nostri candidati all’espulsione. Forse ci avrebbe fatto bene. Avremmo capito prima. Sei. Infine: c’è un problema di rispetto delle leggi e di efficacia della repressione, a fronte di un comportamento criminoso? Certo che c’è, ed è gravissimo. Purtroppo vale anche, poniamo, per gli spacciatori e i piccoli delinquenti indigeni. E forse vale la pena lasciarci con un’ultima riflessione. Immaginiamo due fratelli gemelli, emigrati, diciamo, dalla Tunisia o dalla Nigeria: uno emigra a Roma, l’altro a Stoccolma. E ora rispondiamo a questa semplice domanda: hanno la stessa probabilità di pagare il biglietto dell’autobus? Se avete risposto onestamente, avete anche capito dove volevo andare a parare: ognuno ha gli immigrati che si merita. Facciamoci dunque anche una settima domanda, quella decisiva. Che razza di Paese siamo? Come mai siamo così? E cosa possiamo fare per cambiare? Le sardine nere nel centro di Napoli: "Ministra, abroghi i decreti sicurezza" di Adriana Pollice Il Manifesto, 8 dicembre 2019 L’appello dei migranti a Lamorgese. "Il governo rispetti la Cassazione e dia un permesso temporaneo a chi ha fatto ricorso". Oltre 200 "sardine nere" del Movimento Migranti e Rifugiati ieri hanno raggiunto in corteo la questura di Napoli per chiedere il rispetto dei tempi indicati dalla normativa italiana per il riconoscimento della protezione internazionale e il rilascio dei permessi di soggiorno. Ma anche lo stop a richieste di documenti non previsti dalle leggi che, di fatto, servono a gonfiare i dinieghi. Tra la Stazione centrale e via Medina c’è stato uno scarto non previsto. Le sardine nere hanno invaso i decumani, tra turisti e napoletani in clima natalizio, per raccontare a tutti che la discontinuità tra i due esecutivi Conte per loro è una finzione: "Cambiano i governi e i ministri dell’Interno ma non cambiano le politiche contro i migranti e le fasce più deboli della popolazione". E ancora: "Chiediamo l’immediata abrogazione dei decreti Sicurezza e un cambio di passo all’ufficio Immigrazione che, attraverso la macchina della burocrazia, continua a tenere in un limbo giuridico centinaia di persone e non garantisce l’accesso alla protezione internazionale. Avere il permesso di soggiorno significa poter utilizzare il sistema sanitario, poter contrattare un giusto salario e ribellarsi allo sfruttamento. Non vogliamo essere condannati a vivere come fantasmi nei ghetti delle città". Giovedì scorso, con gli attivisti dell’Ex opg Je so’ pazzo, erano già stati in questura per presentare i punti critici che rendono la richiesta dei documenti un gioco ad handicap fatto per respingere la maggior parte delle domande. Ieri mattina le richieste sono state reiterate ma è chiaro che per ripristinare un clima positivo si attende un segnale dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Il primo punto sul tavolo riguarda il decreto Sicurezza dell’ottobre 2018, convertito in legge nel dicembre successivo: "Molti richiedenti hanno fatto istanza di protezione umanitaria dal 2016 fino a settembre 2018, prima che il governo approvasse la norma che l’ha poi cancellata - spiegano gli attivisti -. Le loro domande sono state esaminate da ottobre 2018 in poi e bocciate perché giudicate alla luce del decreto: una direttiva del Viminale, retto allora da Matteo Salvini, aveva dato disposizione di applicare la legge in modo retroattivo". Il 13 novembre scorso la Cassazione ha stabilito che il decreto Sicurezza non può essere retroattivo. Tutti quelli che hanno ricevuto il diniego hanno fatto ricorso e dovranno essere riesaminati in commissione: "Una direttiva al di fuori della legge sta provocando ingorghi nei tribunali e lungaggini nelle commissioni, a scapito delle nuove domande - proseguono -. Per superare l’empasse chiediamo al Viminale e alla Commissione asilo di concedere l’umanitaria a chi ha fatto ricorso cancellando così i procedimenti legali e i passaggi in commissione. Se Lamorgese e il nuovo governo vogliono dimostrare di essere in discontinuità con Salvini basta che seguano la strada tracciata dalla Cassazione". A piazza Municipio le sardine nere sono state raggiunte dal senatore (ex 5S) Gregorio De Falco: "È già singolare che bisogna aspettare la Cassazione per sapere che una legge punitiva non si applica al passato - ha commentato con i manifestanti -. Il governo giallo verde ha picconato lo stato di diritto. I decreti Sicurezza ma anche il reato di immigrazione clandestina vanno aboliti". In serata le sardine nere sono emerse in flash mob anche a Caserta insieme agli attivisti dell’ex Canapificio: "Frank, Collins, Ibrahim e altre 9 persone, tutti in Italia da 4, 10, 12, 13 anni, questa mattina (ieri, ndr) hanno ricevuto la comunicazione di aver perso il permesso di soggiorno - spiegano - perché è stato applicato in modo retroattivo il decreto Sicurezza". All’Ex Canapificio hanno raccolto 400 casi, al tribunale di Napoli ci sono 6.100 ricorsi pendenti, 9.100 con la Corte d’Appello. "A luglio 2018 ci fu la circolare che dava indicazione di limitare la protezione umanitaria e poi è arrivato il decreto Salvini - spiega Mimma D’Amico -. Il contenzioso legale è destinato a crescere a danno della stessa pubblica amministrazione. L’unica strada è una circolare del Viminale che stabilisca la concessione in automatico del permesso umanitario per due anni a chi ha fatto ricorso". Tra i 40 migranti che resistono a Riace: "Qui non si ride più" di Filippo Femia La Stampa, 8 dicembre 2019 Casa dolce casa. La targa azzurra all’ingresso del Vasaio di Kabul sembra leggere il pensiero di Tsehayneshe. "In Eritrea il mio nome significa sole. Da qualche tempo il sole qui a Riace sembra spento", dice mentre colora una farfalla di terracotta. Fissa la strada deserta fuori dal negozio e racconta di quando tutto ha iniziato a cambiare: ottobre 2018, poco dopo l’arresto dell’ex sindaco Mimmo Lucano. "Se ne sono andati in tanti, molti amici. Prima le vie erano rumorose, c’era felicità e si ballava. Ora è tutto finito. Ma questa è casa mia e io resto qui". Tsehayneshe, arrivata nel borgo dell’accoglienza nel 2003, resiste. E come lei 12 famiglie, una quarantina di persone in tutto. Un anno fa erano 450. Hanno visto il modello Riace sgretolarsi, come i colori scrostati dell’anfiteatro all’ingresso del paese. Di fronte a questo arcobaleno giocavano decine di bambini, di ogni provenienza. Ora la piazza di Riace è muta. "Ma io e mio figlio non ce ne andremo", sussurra Tsehayneshe sorridendo. Vista attraverso i suoi occhi la fine del progetto Sprar è stato l’inizio di un incubo. Ha innescato l’esodo di rifugiati e richiedenti asilo che a Riace vivevano da anni. Alcuni sono stati ospitati in altre città del Sud, molti sono partiti: Belgio, Francia, Germania. Ma da qualche mese la situazione è cambiata. La speranza, ora, ha il profumo intenso delle olive appena spremute. Il frantoio comunitario ha inaugurato grazie alle donazioni raccolte dalla fondazione "È stato il vento". Gli stessi fondi hanno permesso di riaprire i laboratori artigianali, i pilastri dell’utopia di Mimmo Lucano, celebrata dal regista Wim Wenders e decine di università in tutto il mondo. Nel laboratorio tessile Rafia Munir sta terminando un tappeto di colore viola. In Kashmir, da dove è fuggita nel 2014, faceva la maestra ma per lei è un ritorno alle radici. "I miei nonni producevano tappeti", racconta. Quando lo Sprar ha chiuso, lei, il marito e due figli sono rimasti senza acqua ed elettricità: "Lucano ci ha trovato una casa, senza di lui non saremmo qui". Da tre settimane è arrivata l’autorizzazione per vendere i prodotti ai pochi turisti che ogni tanto fanno capolino. "Prima era diverso: ogni giorno arrivavano centinaia di persone, ora non si vede quasi nessuno". I laboratori danno lavoro anche agli italiani. Dentro a Gli aquiloni di Kabul, c’è Daniela Pisani, 48enne romana che ha sposato un calabrese. "L’accoglienza ha fatto rinascere Riace, ma ora rischia di morire di nuovo – dice. Il nuovo sindaco sta smantellando ciò che ha costruito il suo predecessore: non fa un dispetto a Lucano, ma a tutti i riacesi". Si riferisce alla contestata rimozione del cartello "Riace, paese dell’accoglienza", sostituito con uno che raffigura i santi patroni Cosma e Damiano. Il primo cittadino Antonio Trifoli, eletto 6 mesi fa in una giunta a trazione leghista e dichiarato decaduto, si difende: "Qui non c’è mai stata divisione tra chi era a favore e chi contro l’accoglienza. Lucano ha abbandonato una parte del paese ed è stato punito alle urne. E ha lasciato il Comune in dissesto". Il paese spaccato Basta percorrere i 9 chilometri di tornanti tra il borgo e la marina per scoprire un’altra Riace. Qui, in 15 anni, Lucano non ha mai vinto. E il sollievo dei cittadini è evidente. "Senza extracomunitari si sta molto meglio", dice Domenico Rullo, 26 anni, operaio edile. "Lucano faceva lavorare solo extracomunitari, con la nuova amministrazione ho già fatto qualche lavoretto: dovrebbe essere così, prima la gente del posto. Io sto con Salvini, non me ne vergogno". È il simbolo di un paese spaccato in due, lacerato. Mimmo Lucano, intanto, è rientrato dal suo esilio: ad aprile la Cassazione ha annullato il divieto di dimora. Ora deve affrontare un processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Quando passa in auto, una ragazza seduta al bar lo saluta. "Chistu è u sindacu meu!", esclama. "Tutti possono sbagliare. E anche se sarà condannato in tribunale, per me è innocente. Quando non avevo una lira in tasca ha aiutato la mia famiglia", racconta. Lucano è da poco rientrato dagli Usa. Ha raccontato il modello Riace alla Library of Congress. "Questo orgoglio non me lo toglierà nessuno - dice: mostrare al mondo cosa siamo riusciti a fare in questo paesino sperduto". La voglia di lottare non gli manca. "Non conosco i tempi della giustizia, ma fare il sindaco è la cosa che mi ha dato più soddisfazioni. Non mi dispiacerebbe tornare a farlo. Ma prima devo capire cosa pensa la mia gente". La ragazza del bar si improvvisa portavoce dei cittadini e ripete: "Chistu è u sindacu meu". Libia. Tripoli, l’allarme dell’Onu: "Rischio bagno di sangue, avremo milioni di sfollati" di Michela Allegri Il Messaggero, 8 dicembre 2019 Se il conflitto proseguirà il rischio concreto è di un "bagno di sangue a Tripoli" e di "un grande movimento migratorio di popolazioni, ci saranno masse di sfollati che ricadranno in tutti i Paesi vicini, come Niger, Algeria, Tunisia, Sudan". Sono i timori espressi dall’inviato speciale Onu per la Libia, Ghassan Salame, che ha preso la parola ieri al Med Dialogues a Roma. Un grido d’allarme: i progressi per risolvere la situazione non ci sono, la diplomazia non agisce, le Nazioni Unite si dichiarano impotenti. "Mi spiace dire che nel sistema internazionale ci sono profonde divisioni che hanno impedito al Consiglio di Sicurezza Onu di chiedere un cessate il fuoco - ha detto Salamè - E dall’inizio di questa guerra, il livello delle interferenze esterne in Libia è aumentato in modi diversi, allineamenti diplomatici, armi, sostegno tecnico e approvvigionamento". L’alternativa a una Libia di pace e prosperità "è orribile", ha concluso l’inviato Onu. La guerra libica ha visto nelle ultime settimane un’accelerazione. Grazie al sostegno militare sempre più consistente di Mosca, che avrebbe inviato armi e centinaia di mercenari, le forze armate di Haftar avrebbero ormai preso il controllo addirittura dell’80 per cento del territorio del Paese e in molti prevedono un prossimo attacco finale per la conquista della capitale, dove il governo di Serraj (riconosciuto dall’Italia e dall’Onu) sembra sempre più a rischio. Sul tema è intervenuto anche il premier Giuseppe Conte, sottolineando che la stabilità della Libia è un tema centrale per l’Italia. La partita per risolvere il conflitto deve essere diplomatica, ha spiegato Conte: "Lo scenario libico ci vede in prima linea a sostegno dell’Onu anche nell’organizzazione della prossima conferenza di Berlino. Non esiste un’opzione militare risolutiva, solo un processo politico inclusivo potrà condurre ad una stabilizzazione piena e duratura del Paese". Quello libico "è un dossier su cui non è possibile improvvisare o fare i primi della classe", ha aggiunto il premier, specificando anche di aver chiesto l’aiuto degli Stati Uniti: "Ne ho parlato con Trump, dobbiamo fare di più". Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha espresso la sua preoccupazione e ha detto che la questione libica è prioritaria. "Continueremo a sostenere con la nostra diplomazia gli sforzi delle Nazioni Unite per ricomporre le crisi attraverso processi politici inclusivi, a partire dalla priorità rappresentata dalla Libia". Intanto in Libia si continua a combattere: ieri ci sono scontri nell’area di Tripoli con raid aerei dello schieramento guidato dal generale Khalifa Haftar e colpi di artiglieria da parte delle milizie del premier Fayez al-Sarraj. "I caccia hanno eseguito più di sei raid contro una serie di postazioni e basi delle milizie lungo gli assi della capitale": così in un post su Facebook la "Divisione informazione di guerra" dello Lna, l’Esercito nazionale libico di cui Haftar è comandante generale. Mentre la pagina di "Vulcano di collera", l’operazione delle formazioni filo-Serraj, ha annunciato di avere portato a termine un attacco "contro le basi delle milizie multinazionali del criminale di guerra Haftar negli assi di El-Khalatat e del campo El Yarmouk dopo l’impiego di artiglieria pesante e colpi di mortaio". Iraq. Caccia al manifestante, a Baghdad è una strage di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 dicembre 2019 Uomini armati a bordo di pick up sparano sui manifestanti, senza essere fermati. Ma Tahrir non smobilita. Sanzioni Usa alle milizie sciite, ma Washington non fa mea culpa per aver imposto al paese una proto-democrazia settaria. Drone sulla casa di al-Sadr. È notte fonda a Baghdad quando iniziano gli spari. La capitale irachena, venerdì notte, non dorme: presidia piazza Tahrir e i ponti sul Tigri come fa ininterrottamente dal 25 ottobre scorso. All’improvviso il rumore dei motori di minivan e pick up sovrasta le voci dei manifestanti. È l’inizio del massacro: uomini armati, ufficialmente non identificati, sparano sulla gente. Le persone fuggono in ogni direzione, ma in tanti cadono, raggiunti dai proiettili. Altri dalle coltellate, inferte in un edificio occupato da settimane, il garage al-Sinak, a nord di Tahrir. Era successo anche il giorno precedente, nella piazza: 13 accoltellati, forse 15 (tra loro un giornalista, Ahmed al-Muhenne, morto subito dopo) da infiltrati che tentano di spezzare la fiducia interna all’autogestione. Il bilancio finale del massacro è di 25 uccisi, oltre 130 feriti e la perdita del controllo del ponte e del garage al-Sinak e di piazza al-Khilani, teatri del bagno di sangue e dell’incendio poi appiccato dagli aggressori. Una perdita, quella, durata poco: ieri mattina in decine di migliaia sono tornati a marciare verso piazza Tahrir e, riporta Shafaq News, "hanno ripreso il controllo del ponte al-Sinak, del garage, di piazza al-Khilani, dei vicoli di al-Rashid Street". Non cedono i manifestanti, neppure di fronte a una ferocia senza precedenti coperta dallo Stato. In tanti, ieri, su Twitter si chiedevano come fosse possibile che gang simili superino gli innumerevoli checkpoint militari, scorrazzino nel centro della capitale, aprano il fuoco sulla folla e scappino senza che nessun poliziotto o militare intervenga. La risposta la danno alcuni manifestanti: lo Stato non vuole impedire la violenza. Vuole smobilitare la rivoluzione, ma le reazioni non sono quelle desiderate. Ieri gli scioperi sono proseguiti in tutto il centro-sud e il presidio di Tahrir si è riempito di nuovo, nonostante il bilancio delle vittime dal primo ottobre scorso cresca a velocità impressionante insieme alle candele, i fiori e le foto degli uccisi. Oltre 460 morti, 17mila feriti per mano dalla polizia o dei miliziani sciiti, proiettili e candelotti lacrimogeni sparati in testa. Ieri il ministero dell’Interno ha annunciato un’inchiesta e, secondo Shafaq, la commissione parlamentare per la sicurezza ha convocato per oggi quattro generali, i comandanti di aviazione, polizia, 11esima unità dell’esercito e di quella per Baghdad. Nelle stesse ore a Najaf la casa del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr, campione di arrampicata su qualsiasi forma di protesta popolare lo possa favorire, veniva colpita un drone. La sua cerchia non ha tardato a individuare il movente nel sostegno alla mobilitazione: poco prima unità sadriste erano state dispiegate a Baghdad a protezione dei manifestanti, fa sapere il suo portavoce. Lui, al-Sadr, non era a casa ma in Iran, potenza da cui ha sempre detto di volersi distanziare (avvicinandosi invece alle monarchie sunnite) ma che da qualche tempo frequenta di nuovo, guarda caso mentre il parlamento cerca di individuare un primo ministro che sostituisca il dimissionario Abdul Mahdi, caduto in disgrazia. Secondo fonti Usa, il potente generale iraniano Soleimani, capo delle Guardie rivoluzionarie e tacciato di essere il "premier" del governo ombra con cui Teheran gestisce il vicino Iraq, sarebbe a Baghdad in questi giorni per dare forma al nuovo esecutivo. Venerdì contro le milizie sciite filo-iraniane - che dopo la lotta vinta all’Isis si sono fatte partito e sono entrate in parlamento - la Casa bianca ha emesso sanzioni economiche più dal sapore anti-iraniano che per un sincero interesse verso la repressione della protesta popolare: nella lista nera sono finiti i fratelli Qais e Laith al-Khazali, leader delle Asaib Ahl Al-Haq, e Hussein al-Lami, capo della sicurezza delle al-Hashd ash-Sha’bi. Sono sanzioni facili, che non danno conto del ruolo di primo piano degli Stati uniti nell’imporre all’Iraq una proto-democrazia, un sistema di potere settario, diviso tra etnie e confessioni, in cui ogni élite distribuisce favori e privilegi ma non diritti. Una buona notizia, però, c’è: i manifestanti, a milioni, e la loro rivoluzione laica ed egualitaria non solo non lasciano le strade ma non si fanno incantare dai canti di sirena. Né da quelli di al-Sadr, né di Teheran, né tanto meno da quelli statunitensi. Il loro obiettivo è un paese nuovo, in cui non ci sia spazio per posizioni di rendita, corruzione, ingerenze esterne e diseguaglianza. La Bolivia e le rivolte: l’America Latina è tornata instabile di Juan Luis Cebrian La Stampa, 8 dicembre 2019 La crisi che ha portato alla fuga di Fvo Morales ha spaccato un Paese segnato da diseguaglianze insanabili. Questa svolta ha frenato lo slittamento a sinistra del Sud del continente che preoccupava gli Stati Uniti. Il fatto che in Bolivia nelle scorse settimane sia avvenuto un colpo di stato, anche se non è chiaro da parte di chi. L’ex presidente Evo Morales, dal Messico, dove ha trovato asilo, dà la colpa alla polizia e all’esercito, che accusa di essere intervenuti in difesa dei "ricchi" e contro gli interessi del popolo. Secondo la nuova presidente, Jeanine Afiez, che si è autoproclamata tale nel vuoto di potere creato dalla precipitosa fuga di Morales, è stato quest’ultimo l’autore del vero golpe, alterando l’esito del voto di ottobre. Opinione condivisa dal segretario generale dell’Osa, l’Organizzazione degli Stati americani, Luis Almagro, che aveva diffuso un comunicato denunciando irregolarità nello svolgimento delle elezioni. Morales aveva sì vinto, ma senza maggioranza assoluta e con un distacco minimo rispetto al suo principale sfidante, l’ex presidente Carlos Mesa, e questo lo avrebbe obbligato ad andare al ballottaggio. E se così fosse stato, Mesa quasi certamente sarebbe stato eletto perché gli altri candidati si erano pubblicamente espressi in suo favore. Il Tribunale elettorale, fedele a Morales, ha bloccato il conteggio dei voti per oltre un giorno e poi lo ha proclamato vincitore, negando la necessità di un secondo turno. Questo ha scatenato un’ondata di proteste di piazza, un fenomeno relativamente comune in Bolivia. L’opinione pubblica si è divisa tra i partigiani di Morales e suoi oppositori, che potevano contare sulla simpatia di alcuni agenti di polizia, non in grado, peraltro di ristabilire l’ordine. Morales ha poi annunciato una nuova consultazione elettorale, non il ballottaggio, precisando di non sapere se si sarebbe ricandidato. Con il crescere della violenza, è intervenuto l’esercito per ripristinare l’ordine pubblico e il comandante in capo ha consigliato a Morales, che ha accettato, di dimettersi. I militari dicono di non aver fatto un golpe, di non aver preso il potere al suo posto e non ammettono nemmeno di averlo deposto. Tuttavia, un suggerimento di questo tipo, in Paesi di scarse tradizioni istituzionali, assomiglia molto a un ordine. Gli abitanti di El Alto, la città dove si trova l’aeroporto della capitale, per lo più poveri e indigeni, sono scesi in massa nel centro di La Paz per manifestare il loro sostegno a Morales. L’esercito e la polizia per respingerli hanno fatto fuoco. I disordini sono proseguiti nei giorni successivi provocando decine morti. La nuova presidente ha emanato un decreto in cui solleva da ogni responsabilità penale le forze dell’ordine per i danni causati durante la repressione delle manifestazioni (inclusa la perdita di vite umane). E ha dato il via a un’incerta transizione sottoponendo al parlamento un progetto di legge per indire nuove elezioni all’inizio del prossimo anno. Costituzione degli indigeni La Bolivia è un piccolo Paese nel cuore dell’America Latina, che confina con cinque Stati e con tutti ha in piedi un contenzioso di qualche genere. Dopo la vittoria di Morales nel 2009 fu approvata una Costituzione di marcato stampo "indigenista", che rivendica stili di vita e una concezione dello Stato difficilmente compatibili con la cultura politica della democrazia liberale. Alla sua stesura contribuì lo spagnolo Irrigo Errejón, leader della piccola formazione Mk País che ha ottenuto tre seggi nelle recenti elezioni spagnole. Gramsciano, discepolo di Laclau, e amico di García Linera, il vicepresidente boliviano braccio destro di Morales, fuggito con lui in Messico, Errejón è uno dei giovani fondatori di Podemos, partito che ha lasciato circa un anno fa. È lui stesso a descrivere in un recente articolo la natura del regime creato da Morales nei suoi 14 anni al potere. "Il divorzio tra società e Stato - scrive- si realizza in Bolivia passando attraverso diverse "rotture" (...) la prima è lo scollamento tra lo Stato e la popolazione indigena". Sostiene che l’indipendenza dai Paesi colonizzatori non ha cancellato le differenze razziali nell’accesso al potere politico. "In Bolivia questo è facilmente percepibile osservando il colore, l’accento, la formazione culturale di un élite regolarmente bianca o quasi (...) lo Stato boliviano è stato un meccanismo di esclusione/ distruzione dei modelli culturali, linguistici e organizzativi dei popoli indigeni, nel momento stesso in cui ratificava e proteggeva come "pratiche culturali legittime" quelli propri della minoranza bianca moderna e occidentale". È impossibile non tenere conto di questa prospettiva nel momento in cui si analizza il processo politico boliviano, segnato a sua volta da enormi disuguaglianze economiche, da enormi ricchezze naturali, nello specifico gas naturale e petrolio nazionalizzati nel 2006 dal governo di Morales. In questo ultimo decennio la politica boliviana si è allineata con il Venezuela chavista, l’Ecuador di Correa e il Nicaragua di Ortega. Dopo la vittoria di López Obrador in Messico, il ritorno del peronismo in Argentina e le attuali tendenze del governo peruviano, i conservatori hanno espresso preoccupazione per un nuovo allineamento a sinistra nella regione. Altri vedono, senza portare prove ma con sufficienti indizi, la mano di Putin nelle proteste di piazza contro Lenin Moreno a Quito, e contro il governo delle destre in Cile. L’ondata popolare di malcontento si è estesa fino alla Colombia dove il governo si è visto costretto a ordinare il coprifuoco nella capitale e in altre città. Il sostegno della Russia al regime di Caracas è del tutto evidente. La nuova svolta boliviana servirebbe a interrompere lo slittamento a sinistra nel Sud del continente, che mette in allarme i mercati e rappresenta una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti e in una certa misura anche dell’Unione Europea. Il deterioramento, avvenuto nel giro di pochi mesi, della democrazia in America Latina, l’aumento della conflittualità sociale, la situazione di insicurezza nelle strade e le politiche razziste e miopi della Casa Bianca preannunciano un ritorno dell’instabilità. E così crescono ancora le enormi diseguaglianze sociali esistenti e si accentua il declino delle classi medie su cui poggia tutta la democrazia. Etiopia-Eritrea, la pace è minata di Simone Vazzana Il Manifesto, 8 dicembre 2019 Corno d’Africa. Martedì il premier etiope Abiy Ahmed riceverà il Nobel per aver chiuso la lunga vicenda della guerra con Asmara. Ma dall’altra parte del confine la grande fuga dal regime di Afewerki non dà tregua. "Per me venire in Italia significa realizzare i miei sogni. Sono scappata dall’Eritrea per le gravi violazioni dei diritti umani: non c’è libertà di espressione, il servizio militare è a tempo indeterminato, non siamo sicuri per il nostro futuro. Le persone hanno paura di parlare, non mi sentivo libera". Quella di Yohanna, 23 anni, è una storia come tante. È nata a Addis Abeba da genitori eritrei ma, appena iniziato il conflitto con l’Etiopia, la sua famiglia è stata rispedita a Asmara. Lei aveva due anni. Due decenni dopo, riaperti (momentaneamente) i confini, è scappata con i suoi due fratelli più piccoli. Lo racconta mentre è in partenza per l’Italia, grazie all’unico corridoio umanitario africano, organizzato da Nazioni unite, Caritas, Sant’Egidio e Gandhi Charity. Insieme a loro, altri 68 rifugiati (la maggior parte eritrei, ma anche tre yemeniti e un sud-sudanese). "Noi andremo a Aosta - aggiunge Yohanna -. Voglio lavorare e continuare gli studi da avvocato, occuparmi di giustizia e diritti umani. Mi piacerebbe tornare a casa, un giorno". L’Etiopia è il secondo Paese africano per popolazione dopo la Nigeria, ma anche il secondo per numero di rifugiati dopo l’Uganda. Gli ultimi dati dell’Unhcr fotografano 905.831 richiedenti asilo, soprattutto eritrei. Il motivo è la guerra combattuta dal 1998 al 2000, che ha causato la morte di quasi 100 mila persone. Gli accordi di pace di Algeri hanno messo fine al conflitto militare quasi vent’anni fa, ma la situazione non si è risolta. Anzi, il conflitto armato si è trasformato in una guerra fredda. In questo scenario, l’attore principale è Isaias Afewerki, che in tutto questo tempo è stato il volto del regime dittatoriale in Eritrea. Nemmeno uno spiffero di democrazia (non si è mai nemmeno votato), in compenso l’introduzione di un servizio militare illimitato per tutti i cittadini eritrei (maschi e femmine) tra i 18 e i 50 anni. Tutti spediti a proteggere il confine con l’Etiopia. La situazione è cambiata nell’aprile 2018, quando in Etiopia il presidente Abiy Ahmed Ali ha teso la mano a Afewerki, aprendo alla cessione dei territori attorno alla località simbolo di Badme. Gesto imposto dall’Eebc (Ethiopia Eritrea Boundary Commission) subito dopo la fine della guerra, ma mai compiuto dagli etiopici. Questo passaggio ha permesso di voltare pagina: confini riaperti nell’estate 2018 e accordo di pace siglato a Jedda, a sottolineare l’interesse geostrategico saudita nella regione del Corno d’Africa. La libera circolazione tra i due Paesi ha però fatto da innesco per la diaspora di migliaia di eritrei, determinati a sfuggire al servizio militare permanente e alla dittatura. Una parentesi breve, dato che il 26 dicembre 2018 l’Eritrea ha richiuso unilateralmente tutti i confini, spaventata dall’esodo di massa. Chi è riuscito a scappare fa come Semhar. Cameriera di un albergo a Scirè, divide in due lo stipendio: una parte la spedisce ai parenti rimasti ad Asmara, l’altra metà la conserva per poter andare in Europa. Magari affidandosi ai trafficanti, in mancanza di visto. Nella regione del Tigrai al confine (minato) con l’Eritrea, ci sono quattro campi con circa 70 mila rifugiati. Arrivano mediamente 300 profughi al giorno. Nel campo di Adi Arush ci sono oltre 15 mila persone, ben oltre la capacità di accoglienza. Questo eccessivo afflusso ha portato alla costruzione di baracche in pietra, lamiera e legna. Sono le nuove case degli ultimi arrivati, appena fuori dal perimetro. Il 63% è rappresentato da minori non accompagnati. Le condizioni igieniche sono pessime, ogni persona può fare affidamento più o meno su 15 litri d’acqua al giorno. Comunque, "sempre meglio dell’Eritrea - raccontano Jemal e Yusef, due ventenni scappati da Asmara qualche mese fa. Nelle strade, nei luoghi pubblici e nelle scuole non si parla del governo. C’è tanta paura". Paura che non li ha ancora abbandonati: "Potrebbero esserci spie eritree anche qui". Come non mancano i trafficanti di esseri umani, infiltrati che offrono la possibilità di entrare in Italia partendo dalla Libia, per 5-6 mila dollari a persona. L’elemento che accomuna tutti i rifugiati eritrei è il motivo della fuga: si scappa soprattutto per non restare intrappolati nel servizio militare. C’è chi è riuscito a scappare dopo 25 anni nell’esercito, e racconta di averne passati due in carcere per essersi sposato senza permesso, in segreto. Punito per aver disertato, senza poi poter assistere alla nascita della prima figlia o al funerale della madre. Nonostante la situazione sia tutt’altro che risolta, il 10 dicembre il presidente etiope Abiy Ahmed Ali riceverà a Oslo il premio Nobel per la Pace. C’è ancora molto da fare, ma il riconoscimento è così motivato dalla commissione: "Per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per le sue iniziative decisive per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea". In effetti, la pace tra i due Paesi è stato l’avvenimento del 2018 per quel che riguarda la politica africana. Ahmed appartiene all’etnia oromo, il gruppo etnico maggioritario dello Stato ma marginalizzato da decenni. Nato da padre musulmano e da madre cristiana, parla le tre lingue maggiormente diffuse nel Paese: oromo, aramaico e tigrino. Ad Addis Abeba il suo volto si trova ovunque, dai manifesti per strada ai santini nei taxi. Il motivo? L’aver riportato al centro della discussione la riconciliazione nazionale, ma anche il rilascio di prigionieri politici e la legalizzazione dei gruppi di opposizione, a lungo etichettati come terroristici. Insomma, tutto l’opposto di Afewerki, ignorato dalla commissione del Nobel. Riconoscimento a Ahmed a parte, la sensazione è che però tutto sia rimasto bloccato allo stadio embrionale, quello delle buone intenzioni. Sia sul versante etiopico, sia su quello eritreo. Se Afewerki ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo in Eritrea, così da non disperdere il potere concentrato nelle sue mani, Ahmed Ali deve confrontarsi con i problemi nel suo Paese in vista delle elezioni nazionali del 2020. Con le difficoltà derivanti da una coalizione di governo instabile, con i diffusi disordini etnici e con diversi altri nodi da sciogliere. In sostanza, la sensazione è che la questione Eritrea sia passata in secondo piano nella lista delle sue priorità. Anche la comunità internazionale sembra ormai aver distolto l’attenzione. Per esempio, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti non sono interessati dai dettagli dell’accordo di pace. L’Europa pensa più alla gestione dei migranti e non si sforza di esercitare pressioni sull’Eritrea affinché si passi quantomeno a una riforma del servizio nazionale. Senza l’impegno di tutti gli attori, il regime continuerà a vessare gli eritrei, costringendoli a rischiare la vita per scappare in Libia e attraversare il Mediterraneo. Congo. Nell’inferno di Ebola di Daniele Bellocchio L’Espresso, 8 dicembre 2019 Nel Congo dilaniato dalla guerra civile il virus uccide più che mai. Ma molti credono al complotto. E rifiutano le cure. I blindati dell’esercito congolese sono dispiegati lungo la strada, le canne delle mitragliatrici tengono sotto tiro tutto ciò che si muove e i soldati delle Fardc perlustrano con i kalashnikov spianati le foreste che circondano il piccolo villaggio di Erengeti, nella regione del Nord Kivu. È l’alba e la luce che filtra attraverso le nuvole basse e livide che anticipano la stagione delle piogge svela l’ennesimo massacro perpetrato nella Repubblica Democratica del Congo: durante la notte, infatti, un gruppo di irregolari ha assaltato il centro abitato. I miliziani hanno sparato, ucciso e barattato anche il più sottile racimolo di rimorso in cambio di un bottino di miserie: i segni della strage sono ora evidenti nel sangue ancora rappreso sulla terra e nei corpi delle vittime esposti nel piccolo obitorio. George aveva 18 anni, era uno studente, stava ascoltando la radio quando due colpi gli hanno trapassato il ventre. E anche Kahambu, di 60 anni, adagiata accanto a lui nel buio della camera mortuaria, ha condiviso la stessa sorte: una raffica di mitra, una morte senza perché. "Negli ultimi sei giorni sono state assassinate 22 persone, non c’è sicurezza, nessuno ci protegge, i ribelli ammazzano, rubano e noi siamo soli. Soli!", grida Moise Bitchuma, portavoce della comunità: "Siamo terrorizzati perché adesso c’è anche l’Ebola. Ici c’est l’enfer! e noi siamo condannati!". Gli occhi gonfi di lacrime e le parole esasperate rivelano il dramma di vivere in una terra dove oltre cinquanta milizie uccidono e violentano per accaparrarsi il controllo di una miniera o di una collina e dove si sta consumando anche la prima epidemia di Ebola della storia in un contesto di guerra, la più spietata per numero di bambini contagiati. Ebola, il virus che uccide: 2000 morti in un solo anno L’epidemia in corso nella Repubblica Democratica del Congo, Paese sconvolto da decenni di guerre e crisi umanitarie, 176esimo su 187 nazioni nell’Indice di Sviluppo Umano e con oltre 4 milioni di rifugiati interni, è scoppiata nell’agosto de 2018. In un anno i contagi sono stati oltre 3000, i decessi più di 2000 e il tasso di mortalità, intorno al 67 per cento, è tra i più alti mai registrati. L’organizzazione internazionale Unicef ha fatto sapere che, su 850 bambini colpiti, 600 sono deceduti e il virus, sebbene siano stati introdotti nuovi trattamenti terapeutici e un vaccino sperimentale risultato efficace, non si arresta, tanto che dalle province del Nord Kivu e dell’Ituri ha raggiunto anche il Sud Kivu e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proclamato l’emergenza internazionale. La malattia, che si trasmette attraverso il contatto con qualsiasi fluido biologico di una persona infetta, inizialmente si manifesta con febbre, mal di testa e nausea, progredendo causa vomito, diarrea ed emorragie, infine il collasso di organi e apparati e quindi la morte. Ma ora in Congo, conseguente all’Ebola, si è sviluppata un’altra patologia: quella del complottismo e della dietrologia. Credenze popolari, superstizioni, strumentalizzazioni politiche ed esasperazione sociale hanno spinto sempre più persone a convincersi che il morbo non esista e che sia solo una strategia di potenze occulte per sterminare la popolazione locale. Dalle parole ai fatti il passo è stato rapidissimo e così sono stati uccisi alcuni medici, sono stati assaltati diversi centri di salute e le comunità locali hanno iniziato a dimostrare ostilità nei confronti delle attività contro l’Ebola, rifiutandosi di adottare misure precauzionali e impedendo in questo modo l’interruzione della catena di contagio. "Ebola è una malattia letale e per riuscire a salvarsi è fondamentale presentarsi nei centri di cura a partire dai primi sintomi: è una corsa contro il tempo. Oggi però gran parte della popolazione rifiuta di credere all’esistenza del virus e ci troviamo quindi in una situazione drammatica. Da un lato il contagio, che non si riesce ad arrestare, e dall’altro l’insicurezza dettata dalla guerra". A spiegare la situazione è il dottore Joel Efoloko, che lavora nel Centro di Trattamento di Beni, dove vengono trasportati gli ammalati. Medici e infermieri, in scafandri ermetici, entrano ed escono da tende trasparenti in cui sono ricoverati i contagiati, controllano i parametri, continuano a somministrare le cure e monitorano i respiri, flebili aliti di vita. In una tenda c’è Eliel: ha 10 anni, è in coma, ha la maglietta e i pantaloni sporchi di sangue e una maschera dell’ossigeno gli nasconde il viso. Il padre lo osserva dall’altro lato della tenda. È solo e statuario e piange in un sacrale silenzio con gli occhi colmi delle lacrime dolci e malinconiche proprie degli anziani. Quando gli viene chiesto cosa abbiano riferito i medici, senza spostare mai lo sguardo dal figlio risponde: "Mi hanno detto che se credo in Dio devo chiedere aiuto a Lui". "E lei, Monsieur, crede in Dio?". "È l’ultima e unica cosa che mi è rimasta!". A Beni, l’epicentro dell’epidemia, un’aria umida e derelitta strema come brividi di febbre uomini e donne prigionieri del panico e della disperazione. Sotto un cielo nero e greve, in mezzo a una natura matrigna e ostile, continuano a rincorrersi i carri funebri che trasportano bare di ogni dimensione. E avanzano da ogni via cittadina, anticipati da canti salmodiati e da croci su cui sono scritti i nomi dei defunti: Irene Kavira, 1 anno, Confiance Masika, 4 anni, Kymbesa Ndonia, 13 anni... Le continue cerimonie sono interrotte solo dal passaggio degli addetti al recupero dei morti, che entrano nelle case, bruciano materassi e lenzuola, aspergono di cloro le abitazioni e prelevano i corpi che vengono trasportati d’urgenza all’obitorio. Nessuno può avvicinarsi ai defunti per il rischio di contagio e ai parenti è concesso soltanto un ultimo saluto a un anonimo sacco bianco. Le urla di disperazione di Julien Faida, seduta difronte alla bara della figlia Liliane di 3 anni, con stretta tra le mani la foto della piccola, terrorizzano, perché sono grida colme di domande senza risposte: un ossessivo e sordo "perché?", sospeso e verticale come le preghiere, come le suppliche. C’è un ecumenismo della sofferenza nelle terre colpite da Ebola. Nessuno è immune e non ci sono abbuoni di pena o sconti all’innocenza. Nel cortile del Centro di Trattamento, due militari scortano un prigioniero di 23 anni. Si chiama Asaba Mutabasi, apparteneva al gruppo islamista degli Adf e ora cammina scalzo, nudo, avvolto in un lenzuolo impregnato di sangue, con la febbre che sfiora i 40 gradi. Marcia come un condannato, si ferma difronte al barile contenente la soluzione di acqua e cloro e vi immerge il volto, come per un’estrema, consapevole e ultima abluzione. Nel frattempo arriva un fuoristrada, uno di quelli che è stato adattato per il trasporto degli ammalati. I vetri oscurati con il nastro adesivo impediscono di scorgere chi c’è all’interno ma, appena la jeep si arresta, immediato si materializza un dolore che, assoluto e innocente, è pura tragedia, oltreché vergogna per chi osserva: perché l’assoluzione alla propria presenza, che si cerca nell’obbligatorietà di testimonianza, svanisce nell’inevitabile distanza da mantenere e nell’accettazione della rassegnazione. Esta è all’interno della vettura e stringe a sé la figlia Bertinette di 7 mesi. La piccola ha cuciti sul corpo i segni della malattia. Gli occhi spenti, il respiro esausto, la pelle madida di sudore e la testa appoggiata sulla spalla della madre con dolce abbandono rivelano la perdita di ogni difesa e un’imminente resa al male. La bambina ha un vestito bianco, due orecchini dorati e centinaia di piccoli riccioli neri. È aggraziata e pettinata Bertinette, così che la dignità e la bellezza di una figlia non siano sciupate neppure da quell’incubo senza risveglio. I medici e gli infermieri chiedono con insistenza alla madre di dare loro la piccola, affinché possano provare a curarla, e le loro braccia si protendono all’interno del fuoristrada. Esta però stringe a sé Bertinette ancora più forte. Non vuole consegnarla, sa che probabilmente non potrà più né rivederla né riabbracciarla e sa che non ci saranno più ninne nanne e non ci saranno più filastrocche e non la vedrà mai improvvisare i primi incerti passi e non la ascolterà mai elaborare le prime incomprensibili parole, che sono stupore e commozione per la vita. Non ci sarà più nulla, se non la separazione, che è un abisso d’ombra in cui trascorrere il futuro e scontare in solitudine la propria condanna di sopravvissuti. I medici insistono e parlano di urgenza, di intervento immediato, di terapia e Esta li osserva da dietro una cortina di lacrime e, prima di affidare loro la bambina, la stringe ancora e ancora una volta e la bacia; poi sembra supplicare, guardando negli occhi tutti i presenti, un rimasuglio di pietà, affinché le venga concesso almeno il tempo di un ultimo addio.