Luci e ombre, fake e verità su carcere e permessi di Stefano Anastasia* Il Riformista, 7 dicembre 2019 I giudici hanno felicemente ribadito i limiti e i fini costituzionali della pena, ma i Tribunali di sorveglianza dovranno fare i conti con un imprevisto e difficilmente superabile parametro restrittivo. Poco più di un mese fa il suo solo annuncio aveva fatto scatenare l’iradiddio, invece qualche giorno fa il deposito della sentenza della Corte costituzionale sui permessi premio ai detenuti ostativi è passato quasi sotto silenzio: poche righe redazionali, un paio di interviste a commento. Misteri della politica e della informazione! Eppure il deposito della sentenza e la successiva pubblicazione nella Gazzetta ufficiale ne fa decorrere gli effetti giuridici, e quindi - come nel caso di specie - l’effettiva inapplicabilità della norma dichiarata illegittima. Eppure con il deposito della sentenza si conoscono le argomentazioni della Corte, su cui dovrebbe esercitarsi quello spirito critico di commentatori e addetti ai lavori che in questo caso, invece, si è speso solo sul primo comunicato della Corte costituzionale, quello - appunto - che ne anticipava la decisione. Ma vabbè, evidentemente si preferisce commentare al riparo dalle argomentazioni di merito, quando si può dire la qualunque senza timore di essere smentiti, piuttosto che confrontarsi con le parole della Corte per rilevare potenzialità e limiti di una sua importante decisione. Dunque, per stare al merito, la Corte costituzionale ha deciso la illegittimità dell’articolo 4bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario (quello che stabilisce la preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione e ai benefici penitenziari dei condannati per fatti di criminalità organizzata e per altri gravi delitti) nella misura in cui non prevede che possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia. Come sintetizza ancora una volta l’ottimo ufficio stampa della Corte costituzionale, è giusto “premiare” il detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente per la mancata collaborazione. Come si sa, l’impedimento all’accesso ai benefici, se non sotto la condizione della collaborazione con l’autorità giudiziaria, era disposta sulla base della presunzione di pericolosità sociale del condannato per fatti di criminalità organizzati e per altri gravi reati. La Corte non contesta questa presunzione di pericolosità sociale, “purché si preveda che... possa essere vinta da prova contraria”, insomma: che non si tratti di una presunzione assoluta, ma che si limiti a essere una presunzione relativa. Tutto questo, nel ragionamento della Corte, dipende da tre ordini di argomentazione: 1. La presunzione assoluta è motivata da esigenze investigative e di sicurezza che possono avere “conseguenze afflittive ulteriori”, e per ciò stesso illegittime, sul detenuto non collaborante. 2. Questa assolutezza impedirebbe di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena. 3. Infine, l’assolutezza della presunzione di pericolosità sociale si basa su una generalizzazione le cui contestazioni devono poter essere valutate dal giudice di sorveglianza. Dunque, come era facile evincere già dall’annuncio della decisione della Corte, nessun “liberi tutti”, come - per ignoranza o per strumentalità - qualcuno ha sostenuto senza neanche leggere il comunicato stampa della Corte del 23 ottobre scorso, ma solo decisioni caso per caso, senza più che la mancata collaborazione renda inammissibile l’istanza del detenuto. Dunque, rimettano in fodera le armi, coloro che hanno minacciato di rispondere alla Corte costituzionale con la proposizione di norme geneticamente incostituzionali. Piuttosto, dal punto di vista applicativo, meritano qualche approfondimento due aspetti della decisione della Corte: da una parte se veramente essa possa essere limitata ai permessi premio o se non possa riguardare, in futuro, anche altri benefici e misure alternative, e - specificamente - la liberazione condizionale per gli ergastolani; dall’altra a quali parametri dovrà attenersi il giudice per la concessione dei permessi premio (e, in futuro, le altre misure attualmente precluse dal 4bis). Sul primo punto, mi limito ad affiancare il mio amico Davide Galliani che, in un’affollata assemblea svoltasi a Bologna tre giorni fa, si è detto disponibile ad accettare scommesse sul fatto che la presunzione assoluta di pericolosità sociale sarà superata anche per l’accesso alle altre misure, consentendo la fine dell’ergastolo ostativo per qualcuno dei suoi destinatari. Sul secondo punto, invece, va rilevato che la Corte fa un intervento additivo che rischia di rendere quasi impossibile l’accesso ai benefici dei condannati ostativi, salvo che il giudice di sorveglianza non decida con molto coraggio e indubbia capacità divinatoria. Quel che gli animosi sostenitori del carcere a vita hanno omesso di dire nelle loro invettive incostituzionali è che quello della collaborazione con la giustizia non è l’unico requisito speciale che grava sui condannati per reati ostativi nell’accesso a benefici e misure alternativi. A esso si aggiunge la necessità per il giudice di sorveglianza di acquisire elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. E se l’indagine fosse superficiale, il procuratore nazionale o il procuratore distrettuale antimafia possono sempre porre il loro veto e impedire qualsiasi concessione di qualsiasi beneficio. A questa previsione. che la Corte non ha minimamente intaccato, se ne aggiunge ora un’altra, di incerta origine normativa e già anticipata nel prudente comunicato della Corte di ottobre: il giudice di sorveglianza dovrà acquisire elementi tali da escludere “il pericolo del ripristino” di collegamenti con la criminalità organizzata. Quali potranno essere questi elementi non è facile immaginare. Pura scienza divinatoria. Insomma, con questa sentenza la Corte costituzionale ha felicemente ribadito i limiti e i fini costituzionali della pena, e di questo le siamo grati, ma non vorremmo essere nei panni dei giudici di sorveglianza cui spetterà affrontare istanze maturate in anni di detenzione e che dovranno affrontarle con un nuovo, imprevisto e difficilmente superabile parametro restrittivo. *Portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti Benefici ai minori, anche se condannati per reati ostativi di Francesco Cerisano Italia Oggi, 7 dicembre 2019 Consulta: la mancata collaborazione non rileva. Benefici penitenziari anche per i detenuti minorenni, e giovani adulti, condannati per i cosiddetti reati ostativi (ad esempio associazione mafiosa e sequestro di persona a scopo di estorsione). Possono accedere ai permessi premio anche se, dopo la condanna, non hanno collaborato con la giustizia. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 263 depositata ieri (relatore Giuliano Amato), la prima sul nuovo Ordinamento minorile, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 2, terzo comma, del decreto legislativo n. 121 del 2018. La Corte ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, relativa all’applicazione nei confronti dei condannati minorenni e giovani adulti del meccanismo “ostativo” previsto dall’articolo 4bis, commi 1 e 1bis, dell’Ordinamento penitenziario, secondo cui i condannati per uno dei reati in esso indicati, che non collaborano con la giustizia, non possono accedere ai benefici penitenziari previsti per la generalità dei detenuti. Con riferimento ai condannati minorenni, questo meccanismo preclusivo è stato ritenuto in contrasto anzitutto con i principi della legge delega n. 103 del 2017, di riforma dell’ordinamento penitenziario, di cui il dlgs 121/2018 costituisce attuazione. Tale legge, secondo la Corte, imponeva da un lato di ampliare i criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione (con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà) e, dall’altro, “di eliminare qualsiasi automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti minorenni, in contrasto con la funzione rieducativa della pena”. Viceversa, ha osservato la Consulta, la norma impugnata ha ristretto la possibilità di accedere alle misure, agganciandola alle condizioni previste dall’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario (che peraltro sono state oggetto di recente pronuncia di incostituzionalità con la recente sentenza n. 253/2019). Per la Corte si tratta di un collegamento che “restringe l’ambito di applicabilità delle misure alternative alla detenzione” e, fondandosi su una presunzione di pericolosità basata esclusivamente sul titolo di reato, irrigidisce la regola di giudizio “in un meccanismo che non consente di tenere conto della storia, del percorso individuale del singolo soggetto e della sua complessiva evoluzione sulla strada della risocializzazione”. La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli articoli 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, perché l’automatismo legislativo si basa su una presunzione assoluta di pericolosità che si fonda soltanto sul titolo di reato commesso e impedisce perciò alla magistratura di sorveglianza una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le finalità di risocializzazione, che devono presiedere all’esecuzione penale minorile. Nella sentenza la Corte ha spiegato che “dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extra-murarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’art. 4bis ordin. penit. Al tribunale di sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extra-murarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo. Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo”. Ergastolo, perché lo Stato non può essere più crudele dei boss di Francesco Viviano Quotidiano del Sud, 7 dicembre 2019 Le motivazioni della Corte Costituzionale sui benefici anche per i detenuti condannati a quello ostativo. Prima il Papa Francesco Bergoglio, poi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e adesso, a sancire che l’ergastolo “ostativo” e cioè “fine pena mai” è incostituzionale, è proprio la Corte Costituzionale. La pericolosità - “La presunzione di pericolosità non può essere assoluta - Il principio sancito - come si legge nelle motivazioni depositate ieri dalla Corte Costituzionale- è che un detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente - negandogli benefici riconosciuti a tutti - se non collabora. In questo caso, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Quindi “non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità - non più assoluta ma relativa - può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale”. In poche parole l’ergastolo ostativo è anticostituzionale tutti gli ergastolani, mafiosi e non che hanno dimostrato di volere cambiare vita e che non hanno più rapporti con le loro organizzazioni criminali, devono godere dei benefici previsti per tutti gli ergastolani. Il caso Provenzano - Poco prima che il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano morisse, nel luglio del 2016, intervistai i suoi due figli, Angelo e Francesco Paolo, fino ad ora incensurati. Non fu facile però fu difficile rispondere alle loro argomentazioni. “Mio padre è stato ritenuto accusato di gravissimi reati e condannato all’ergastolo ostativo, è stato ritenuto dai periti di Procure e Tribunali, incapace di intendere e di volere, è stato stralciato dai processi proprio per questa ragione, per mesi e mesi è stato legato su un lettino in una cella di un carcere di massima sicurezza ed alimentato con le sonde. Era in regime di 41bis, il cosiddetto carcere duro e non fu consentito ai suoi familiari di poterlo sfiorare, di accarezzarlo prima che morisse”. La fiducia - È stato giusto? Ecco la domanda è proprio questa: la mafia ed i mafiosi sono stati e sono crudeli, hanno ucciso migliaia di persone, bambini, donne, uomini, magistrati, poliziotti, politici, giornalisti. Ma lo Stato non deve e non può essere crudele altrimenti allontanerebbe da sé la fiducia che ogni cittadino crede di riporre. Lo Stato dovrebbe fare in modo che i figli, i parenti dei mafiosi dei criminali, degli assassini, debbano avere fiducia e non odiarlo perché altrimenti si violano principi elementari. Un figlio o una moglie che non può accarezzare l’ergastolano ostativo ormai quasi morto, non può certo rispettare lo Stato, anzi. E proprio dalle colonne di questo giornale, nei mesi scorsi, abbiamo raccontato la storia di Francesca, figlia di un ergastolano ostativo che aveva chiesto, inutilmente, che il padre potesse accompagnarla all’altare il giorno del suo matrimonio. Un giorno solo. Eppure le è stato negato. Il riscatto - Che giudizio può dare Francesca su uno Stato che nega un piccolissimo gesto di generosità? Ed il padre di Francesca finito in galera quando lei aveva appena un anno, ha scontato più di 25 anni di carcere, si è pentito di quello che ha fatto (accusato e condannato anche per omicidi) e che in questi ultimi anni sta facendo un percorso di riabilitazione. Ma lui non si può pentire, anche se volesse, perché i suoi figli, i suoi nipoti ai quali ha detto di non imitare il nonno perché questa è una strada che non spunta, vivono ancora lì, in quel paese calabrese, a stretto contatto con gli ‘ndranghetisti e se decidesse di collaborare, metterebbe a rischio la vita dei suoi familiari. Può essere comprensibile? Prescrizione al via a gennaio, il Pd accetta e rinvia l’intesa di Emilio Pucci Il Messaggero, 7 dicembre 2019 “Nel merito siamo sulle nuvole”. Nel Pd in diversi allargano le braccia: “Cosa potevamo fare di più?”. Nel braccio di ferro intrapreso con M5S di fatto l’unico risultato al momento è che la riforma della prescrizione lunga entrerà come previsto in vigore il 1° gennaio, sul resto - ovvero sulla necessità di garantire la durata ragionevole del processo - l’accordo è ancora tutto da scrivere. In pratica i dem hanno firmato una sorta di cambiale in bianco, scommettendo sul fatto che il premier riuscirà a fare una sintesi, che il Guardasigilli Bonafede non vuole affatto far cadere il governo e che la linea barricadera è solo Di Maio, non del resto dei pentastellati. Ma un gentlemen’s agreement non basterà, servirà un patto nero su bianco prima della fine dell’anno e a questo punto si cercherà di accelerare sulla riforma del processo penale per far sì che la norma contenuta nel dl Spazza-corrotti sia accompagnata anche dalle misure richieste dal Nazareno. Orlando ai suoi interlocutori continua a ribadire la tesi che gli effetti della riforma della prescrizione si avranno nei prossimi anni, che c’è tutto il tempo per arrivare ad un compromesso, che si perseguirà il principio del favor rei, affinché si trovi un sistema per garantire l’efficace tutela dell’imputato. La soluzione che prevede l’allungamento dei tempi della sospensione dopo il primo grado di giudizio da 18 mesi a 2 o 3 anni è stata offerta al premier, ma al momento non c’è stata alcuna risposta e probabilmente non ci sarà, spiega un esponente dem. L’azzurro Costa che ieri ha tentato il blitz nell’Aula della Camera portando un ordine del giorno in cui si chiedeva il rinvio dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione (il testo è stato bocciato con 234 no e 139 sì, Italia Viva si è astenuta) la riassume così: “Bonafede conduce 5 a O sul Pd”. Tuttavia al Pd interessava far abbassare i toni della polemica, evitare il cortocircuito (il segretario Zingaretti parla di “lavoro positivo, bisogna avere fiducia”, mentre il suo vice, Orlando, dice che “ora un accordo è possibile”), aprire un confronto pacato nel merito anche perché - spiegano fonti dem - se nel giro di dieci giorni non ci dovessero essere passi avanti concreti “si fa ancora in tempo a far saltare il tavolo”. L’opzione della proposta di legge da far viaggiare in Parlamento in tempi celeri resta ancora in piedi quindi. Per di più Renzi al momento sembra irremovibile: “C’è il rischio - ribadisce - di un giustizialismo pazzesco. La cancellazione della prescrizione è una cosa aberrante. Il processo senza fine non permette di avere giustizia ma nega la giustizia”. Insomma il Pd ha indossato di nuovi i panni della forza responsabile, ricalcando lo schema giocato sul taglio del numero dei parlamentari: prima l’ok, poi l’accordo sui correttivi. Nel frattempo però sono in tanti nel gruppo parlamentare ad agitarsi: “L’idea - osserva per esempio Orfini - che un processo possa durare in eterno è la traduzione in norma di una visione autoritaria e terribile del rapporto tra stato e cittadini: l’imputato non è mai innocente”. Chi ha in mano il dossier in ogni caso premette che la partita non è certo conclusa. Anzi. Ma intanto Di Maio con i suoi canta vittoria: “Le nostre battaglie identitarie le portiamo avanti fino alla fine”. Il capo politico M5S è tranchant: “Non voglio rivedere lo stesso film di Salvini. Non voglio che si temporeggi sulla riforma dei tempi dei processi per poi dirci che bisogna rinviare quella sulla prescrizione”. In Aula il Pd salva ancora la prescrizione dei 5 Stelle di Errico Novi Il Dubbio, 7 dicembre 2019 I dem bocciano alla Camera la mozione costa che avrebbe congelato la norma Bonafede. Il fuoco cova sotto la cenere. C’era da aspettarselo. Anche se il giorno dopo la prima vera tregua sulla prescrizione, va in scena un altro atto distensivo del Pd: il partito del Nazareno vota contro la mozione presentata dal sempre temuto Enrico Costa, allegata allo scrutinio finale del dl fisco, che avrebbe impegnato il governo a rinviare la norma Bonafede al 2021. Com’è già successo martedì quando i dem hanno bocciato la procedura d’urgenza sulla bomba- Costa vera e propria, la legge abrogativa del blocca-prescrizione, anche ieri i dem hanno mostrato lealtà con i 5 Stelle. C’è un però: Italia viva si è astenuta. E basterebbe questo. Perché ha cominciato a materializzarsi l’impegno assunto il giorno prima da Maria Elena Boschi alla Maratona oratoria dell’Unione Camere penali: “Confidiamo nell’intesa di maggioranza, ma se non arrivasse diremmo sì alla proposta del deputato di Forza Italia”. Finirà così? “Intanto la mia legge è stata annegata in un mare di audizioni”, dice Costa al Dubbio, “condurrò fino in fondo la mia battaglia, ma il Pd ha fatto in modo da impedire che il mio testo approdasse in Aula prima di Natale”. Eppure l’insidia renziana incombe tuttora. Come il rischio di una guerra fredda senza lieto fine tra lo stesso Nazareno e i 5 Stelle. Nel suo intervento sulla mozione, Costa è di nuovo impietoso con i democratici: “Vi leggo le vostre dichiarazioni...”, e giù con il fiorilegio delle occasioni in cui parlamentari e ministri del Pd hanno chiesto il “rinvio del blocca-prescrizione” o “paletti per assicurare tempi comunque certi alla durata del processo”. Esaurita l’antologia dei passi perduti, Costa conclude: “Vi offriamo su un piatto d’argento, con la mozione e con la mia legge, l’occasione di disinnescare la bomba Bonafede: perché non la cogliete?”. Il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli risponde che “non è questa la sede” per definire la storia. E infatti il mood della giornata, sul fronte Pd, è scandito dalle parole del plenipotenziario Andrea Orlando: “L’intesa con il M5s si può trovare, basta che ognuno faccia un passo nella direzione dell’altro: se tutti stanno fermi l’intesa non si trova”. Non è il tempo dei proclami ma del negoziato, insomma. Persino Luigi Di Maio, dall’altro fronte, si adegua: gli scappa il solito “dal primo gennaio la nostra riforma entra in vigore, non si arretra”, poi però riconosce che “il Pd non cerca lo strappo”. Ma quanto può reggere? Nelle prossime ore Orlando formalizzerà la proposta al guardasigilli: entri pure in vigore il blocca- prescrizione, ma poi nella riforma del processo penale il “blocco” dopo il primo grado sarà sostituito da una “sospensione”. Più lunga, certo, di quanto previsto dalla legge 2017 (firmata proprio da Orlando): 24 o addirittura 30 mesi anziché 18, con analoga sospensione dopo l’appello. E se il Movimento non accettasse, ipotesi tutt’altro che remota? Come confermano fonti del Nazareno, il Pd presenterebbe comunque la propria autonoma proposta, annunciata da Zingaretti. Forza Italia la appoggerebbe? “Noi possiamo anche votare il male minore”, risponde Costa, “ma resto convinto che il Pd non compirà mai quel passo: tremano al solo pensiero di far arrabbiare Bonafede...”. Quello che è certo è che, al pari degli azzurri, anche il resto dell’opposizione sarebbe pronto a “votare con chiunque pur di evitare i processi eterni”, per dirla con Salvini. Seppure con sfumature diverse, lo conferma anche il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Francesco Lollobrigida: “Serve una riforma che renda i processi rapidi e le pene certe: il M5S ha fallito, devono andare a casa, bisogna difendere il diritto e la civiltà nella nostra nazione”. C’è sempre quell’incognita: Matteo Renzi. A risolvere la partita, per tornare alla promessa di Boschi, può sempre essere un voto di Italia viva favorevole alla legge Costa. Tutto è precario. Ma a sorprendere, più dei tormenti politici, è l’Anm. Ieri il presidente Luca Poniz è andato oltre la già spiazzante mozione del congresso di Genova. È arrivato a dire che la norma sulla prescrizione di Bonafede “è stata scritta, pensata e votata da un bel po’ di avvocati”. E ancora: “È strano che oggi coloro che hanno innescato questa bomba sostengano che è innescata: l’hanno innescata loro”. Ripensamento immediato: “Non c’è nessuna bomba atomica, il primo gennaio non succede niente”. Frasi indecifrabili, considerato che proprio l’Anm, come subito dopo ammette Poniz, ha sempre sostenuto lo stop ai termini di estinzione dei reati dopo il primo grado. Anche se “solo dopo l’eventuale condanna”. Il che violerebbe la presunzione di non colpevolezza, ricordano i penalisti. Che non scrivono leggi per Bonafede ma, mentre Poniz li accusa, concludono oggi la loro Maratona oratoria per la “verità”, appunto, sulla prescrizione. Prescrizione, intesa cercasi. Rilancio Pd sulle intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2019 La proposta dem: maxi blocco di 3 anni in appello per condanna. Ora è corsa contro il tempo per trovare una soluzione condivisa, da 5 Stelle e dem, non solo sul tema della prescrizione. Perché, come conferma il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli, “tutto si tiene”. Dalla durata dei processi alle intercettazioni: “È impossibile - puntualizza Bazoli - che il Pd possa votare uno nuovo slittamento della riforma Orlando delle intercettazioni, se non sarà stato raggiunto un accordo su misure per dare effettività alla lunghezza dei giudizi penali”. Il Pd ha arricchito il quadro delle proposte messe sul tavolo di una possibile intesa, aggiungendo alla ormai nota prescrizione processuale, indirizzata a fare decadere l’azione penale in caso di mancato rispetto dei predeterminati termini di fase, con una particolare attenzione all’appello, una revisione della riforma Orlando che, in caso di condanna, sospendeva per 1 anno e 6 mesi i termini di prescrizione nella fase successiva. Ora la rimodulazione in vista prevedrebbe un blocco dei termini di 3 anni in appello, sempre in caso di condanna in primo grado e di 2 in Cassazione, in caso di condanna in secondo grado. Una maxi sospensione di 5 anni che dovrebbe, nelle intenzioni, permettere ampiamente di condurre in fondo il procedimento. E che colpirebbe soprattutto chi ha già ricevuto un primo verdetto di colpevolezza. Sul piano politico il colloquio telefonico tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il vicesegretario Pd Andrea Orlando è servita a rasserenare il clima e a riaprire un canale di comunicazione che sembrava ormai interrotto. Orlando ieri è tornato ad affermare che “andare a cercare le diverse anime del M5S, che pure ci sono, mi sembra una strada sbagliata. Non si farebbe molta strada andando a cercare un sponda o cercando di dividere il M5S, non abbiamo nessun interesse a produrre divisioni ma ci interessa avere una posizione comune con tutto il Movimento”. E, nel merito, Orlando mette in evidenza come “la questione che noi poniamo è che se si decide di lasciare l’interruzione della prescrizione al primo grado di giudizio, ci sia anche una modifica del processo che garantisca che il processo abbia tempi certi. Questo è il punto fondamentale. Sono convinto del fatto che ora si tratta di lavorare e cercare un punto d’intesa che mi pare sia possibile. Mi sembra fisiologico che su questo tema l’interlocutore sia Bonafede poi alla fine una chiusura dovrà essere fatta dal Presidente del Consiglio”. Posizione un po’ diversa da quella ribadita ancora ieri dall’Anni che, con dichiarazioni del presidente Luca Poniz, è tornata a ribadire da una parte che la scelta più opportuna sarebbe un congelamento assoluto dopo la condanna in primo grado, avvicinandosi a quanto stabilito dalla riforma Bonafede che prevede però lo stop anche in caso di assoluzione, e dall’altra che gli allarmi su quanto potrebbe avvenire dal 1° gennaio sono assolutamente esagerati: “Non soltanto non è corretto, ma è proprio una fiaba. È una norma che è stata scritta, pensata e votata da un bel po’ di avvocati. È strano che oggi coloro che hanno innescato questa bomba sostengano che è innescata. La hanno innescata loro...Non c’è nessuna bomba atomica. Il 1° gennaio non succede niente. E quindi c’è tutto il tempo di fare tutto quello che abbiamo noi stessi chiesto”. Nei fatti, però, il tempo stringe. Perché il Pd non pare disposto a un semplice accordo politico sulla falsariga di quello siglato sul punto dalla Lega un anno fa con quel Movimento 5 Stelle allora partner di Governo. I punti di accordo, se ci saranno e su questo la mediazione del premier Giuseppe Conte appare di giorno in giorno sempre più necessaria, andranno cristallizzati in un articolato che dovrebbe confluire in quel disegno di legge delega sul processo e la riforma del Csm, che da tempo il ministero della Giustizia ha messo a punto e al quale i continui contrasti sulla prescrizione hanno sinora impedito di approdare in consiglio dei ministri. Nella consapevolezza poi che alla partita della prescrizione dei tempi del processo è ormai intrecciata anche quella sulle intercettazioni, dove la riforma Orlando è stata congelata sino alla fine dell’anno. In assenza però di un nuovo rinvio e nell’evidente mancanza ormai di tempi tecnici per il varo di un provvedimento che ne riveda i contenuti, le misure volute nel 2017 dall’allora ministro della Giustizia Orlando per trovare un punto di equilibrio tra tutela della privacy e ragioni investigative è destinata a entrare in vigore. Uno scenario a quel punto che vedrebbe esposte plasticamente le divisioni della maggioranza, con il blocco della prescrizione, in quota 5 Stelle, operativa, sia pure con effetti di là negli anni, e la nuova disciplina delle intercettazioni in vigore nella versione votata nel 2017 dal Pd. Conclusione che nessuno nella maggioranza, a parole, si augura, ma assai possibile nell’orizzonte degli eventi. Perché sulla prescrizione tocca al Quirinale di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 dicembre 2019 Una richiesta ragionevole per salvare la ragionevole durata dei processi. Sull’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, che varrebbe persino per gli assolti, che così sarebbero processabili a vita, continua il tira e molla tra i partiti di governo. I 5 stelle alternano minacce e disponibilità formali al confronto sulla durata dei processi, ma insistono sulla richiesta che l’abolizione entri in vigore all’inizio dell’anno prossimo, mentre prosegue la discussione. Se il Pd accetta questa impostazione, si troverà poi privo di ogni forza contrattuale. Più ostativa pare la posizione di Matteo Renzi, che si dice disposto a votare anche con l’opposizione per il rinvio dell’entrata in funzione della legge contestata se non si trova prima una soluzione condivisa. A quel che si dice, il Pd avrebbe presentato una proposta che “rimodula”, cioè aumenta, i tempi della prescrizione, sospendendola per due anni dopo il primo grado. Non è così grave come l’abolizione, ma è comunque una riduzione dei diritti della difesa e un allungamento ulteriore dei tempi del processo. Sullo sfondo ci sono voci sulla preoccupazione attribuita al capo dello stato, che temerebbe una crisi politica su questa materia. Per la verità la prima preoccupazione di Sergio Mattarella è il rispetto della Costituzione, che indica l’esigenza di contenere in “tempi ragionevoli” la durata dei processi. Promulgherebbe senza riserve una legge che palesemente va in direzione opposta a quel dettato? La sua sensibilità costituzionale e la sua esperienza giuridica fanno pensare che non lo farebbe certo a cuor leggero e forse non lo farà affatto. Pagare un prezzo così alto sul piano dei princìpi e delle garanzie costituzionali per tenere in piedi un governo che naviga a vista sarebbe davvero un pessimo affare. Nessuno, nemmeno noi naturalmente, vuole tirare per la giacca l’inquilino del Quirinale. Però questo non impedisce di sperare che nelle forme dovute faccia sapere quali sono i limiti invalicabili per uno stato di diritto. Prescrizione, quel baratto tra Bonafede ed Anm di Cataldo Intrieri* L’Opinione, 7 dicembre 2019 Ringrazio della prova di militanza ed appartenenza di tutti i colleghi che stanno partecipando alla maratona svegliandosi a ore antelucane e che avrebbero meritato una presenza più numerosa da parte della avvocatura romana che sono sicuro non mancherà nei prossimi giorni. Ho usato il termine militanza appartenendo io ad una generazione che sulle idee politiche si divideva e combatteva, anche drammaticamente. Oggi questa militanza politica di dividersi e combattere per delle idee è venuta meno ed è un grave perdita poiché se c’è un tema sui cui ci si dovrebbe confrontare e discutere è una certa idea del processo penale. La prescrizione non è soltanto un istituto con le sue caratteristiche ma è una certa idea garantista e riformista del processo penale. Che la sinistra italiana si è persa per strada da molto tempo. L’idea di processo penale da difendere è quella di una struttura di processo che non perda per strada i suoi tratti di umanità, il recupero e riscatto sociale ed il rispetto dei diritti e dei più deboli. Parole che una volta facevano parte di una certa tradizione e che oggi ci siamo perduti per strada. Mi ha colpito quanto riferito dal presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, sul congresso dell’Associazione nazionale magistrati di Genova. Di fronte all’ennesima promessa del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di accantonare la riforma delle carriere, a quanto pare, anche i propositi più critici sulla riforma che sospende la prescrizione, sono stati frettolosamente accantonati. Dispiace per il presidente di Anm, il dottor Luca Poniz, che appartiene ad una area della magistratura che dovrebbe essere molto sensibile ad una certa idea umanitaria e riformista del processo penale. Eppure dovrebbero sapere come chiunque di noi frequenti le aule di giustizia che il processo penale è un a malattia, un dolore un tormento per chi lo subisce. Noi avvocati lo sappiamo vivendo con i nostri assistiti giorni di angoscia e di tensione e quando tutto finisce loro spariscono come se volessero dimenticare tutto, anche l’avvocato che ha combattuto con loro il processo è una memoria terribile da ricordare. Guardavo un film sul processo di Norimberga, c’era una sequenza in cui gli avvocati delle potenze vincitrici si interrogavano sul senso di celebrare un processo penale ad acclarati criminali nazisti e non giustiziarli come criminali irrecuperabili. Uno di loro risponde: no, ha un senso, quella che deve essere una punizione non può essere una vendetta, il processo deve escludere il senso di vendetta per diventare una testimonianza di verità. Il processo penale è appunto una testimonianza sulla realtà, una memoria ed un messaggio verso il futuro; un processo in uno stato liberale è anche un processo che non nega la realtà. Ricordo un episodio recente: un giudice che si è ucciso nel momento in cui ha appreso di essere indagato, ha capito di essere rimasto solo, pur essendo abituato al processo non ha retto il dolore del processo. Fortunatamente abbiamo anche esempi del processo che è anche speranza, uno sguardo nel futuro. Due esempi recenti: uno ci viene da Londra dove l’autore di un omicidio efferato ha salvato delle vite bloccando l’estremista islamico sul London Bridge. È per le nostre idee di libertà, garanzie e riscatto sociali che noi avvocati siamo qui. Queste idee non moriranno mai e domani sono destinate fatalmente a trionfare. *Intervento pronunciato in occasione della maratona oratoria organizzata a Roma dall’Unione Camere Penali per la verità sulla prescrizione Il blocca-prescrizione ci farebbe comodo ma noi avvocati non svendiamo i diritti di Francesca Malgieri Proietti* Il Dubbio, 7 dicembre 2019 In questi giorni si è svolta una straordinaria manifestazione di protesta. Ne sono stati protagonisti gli avvocati penalisti italiani che, sollecitati dall’Unione Camere penali sotto la guida del Presidente Caiazza, hanno aderito alla “Maratona oratoria” contro la prossima entrata in vigore della norma, contenuta nella legge conosciuta come “spazza corrotti”, che sospende, meglio abolisce, la prescrizione dei reati dopo pronuncia della sentenza di primo grado. Una protesta che si conclude oggi a Roma e che ha scandito l’intera settimana di astensione dall’attività giudiziaria: un raduno di avvocati provenienti da tutta Italia che, da lunedì scorso, si sono alternati ininterrottamente ai microfoni con l’intento di svelare le mistificazioni che accompagnano la riforma della prescrizione. L’iniziativa che, oltre ai penalisti, ha visto coinvolti anche molti accademici animati da spirito di verità, ha destato talmente tanto interesse da meritare la partecipazione di esponenti della politica, intervenuti ai microfoni dell’Unione per manifestare solidarietà alla causa ed esporre possibili soluzioni parlamentari. Il tema, tuttavia, non ha bandiera politica se non una: il disvelamento di un inganno posto alla base della riforma. È ingannevole, sappiamo noi avvocati, sbandierare il blocco della prescrizione come una faccenda di civiltà. È ingannevole acclamare a gran voce che i “furbetti”, non potendosi più sottrarre ai processi, non avranno più scampo. È ingannevole promettere che la riforma garantisce gli interessi di tutti i cittadini e mette la parola fine all’era berlusconiana della giustizia. Queste non sono altro che mistificazioni che offuscano la verità: l’abolizione della prescrizione non farà che aumentare e, nelle grandi sedi di giustizia, rendere strutturale la disfunzione degli uffici giudiziari addossandone ai singoli il malfunzionamento. La prescrizione dei reati, va detto chiaramente, non è un escamotage attraverso il quale giungere a una sentenza di proscioglimento, se non per chi ignora il funzionamento del processo e le sue finalità. Se non per chi si sente presuntuosamente intoccabile e ritiene di non poter mai inciampare in quel meccanismo che, secondo la logica populista, investirebbe solo corrotti e criminali. Giungere a una sentenza di proscioglimento per prescrizione non è un beneficio elargito dallo Stato o raggiunto da chissà quale artifizio difensivo di un “azzeccagarbugli”, dal momento che a noi avvocati è precluso ogni abuso di strategie difensive che abbiano effetti sul decorso dei termini prescrizionali, termini che restano sospesi ad ogni nostra richiesta di rinvio nel processo. Sarebbe corretto informare i cittadini, come è avvenuto grazie all’iniziativa dell’Ucpi, che invece la prescrizione dei reati viene raggiunta in gran parte nella fase delle indagini preliminari, cioè a processo non ancora iniziato, in uno stadio in cui di fatto la Procura ha il potere di scegliere quali procedimenti portare avanti e quali far giacere nella polvere. Sarebbe corretto spiegare che, molto spesso, i processi faticano ad iniziare ad esempio per vizi attinenti la citazione a giudizio delle parti; che, una volta iniziati, stentano a proseguire, magari, per omessa citazione dei testimoni o per il ruolo eccessivamente carico del giudicante. Sarebbe corretto affermare - ma questo significherebbe già avere consapevolezza di cosa sia un processo penale e di quali siano le sue finalità, non certo quelle di giungere a una sentenza di condanna, ma di accertare le responsabilità sulla base di un capo di imputazione - che il processo è il prodotto della dialettica tra accusa e difesa e che tentare di degradare le attività difensive a manovre dilatorie o travianti è sintomo di poca, ridottissima, insignificante coscienza prima civile e poi giuridica. Sarebbe corretto spiegare che il trascorrere del tempo è la conseguenza del malfunzionamento dell’apparato della giustizia e che si dovrebbe intervenire sulla causa di questa disfunzione, anziché adattare la soluzione al problema. Non è sufficiente affidarsi alla promessa di una riforma del processo per sentirsi al riparo dalle conseguenti devastanti dell’abolizione della prescrizione. Perché, come noi operatori del diritto ben sappiamo, una riforma efficace richiede non solo conoscenza del sistema ma tempo per essere messa in pratica. E la fretta, si sa, non porta mai a buoni risultati. Per svelare questo ed altro noi avvocati penalisti siamo scesi in piazza, per sette giorni consecutivi, senza soluzione di continuità (se non per le ore notturne), con ogni condizione metereologica possibile. Chi scrive, insieme ai colleghi della Camera penale romana e ai colleghi che ci hanno raggiunti da tutta Italia, ha messo da parte in questi giorni molti degli impegni professionali, le proprie relazioni familiari ed amicali, i propri interessi personali, per dedicarsi con impegno e passione a difendere, in modo diverso dal quotidiano esercizio della professione ma che è anch’esso espressione della propria vocazione professionale, i diritti di tutti. A pensarci bene, proprio a noi avvocati che, letteralmente, viviamo di processi, questa riforma gioverebbe. Ma è una categoria strana la nostra, che si schiera unita e compatta per difendere i diritti altrui contro i propri interessi, perché sa bene che i diritti altrui sono anche i propri. E già questo, verrebbe da dire, dovrebbe costituire la garanzia, oltre ogni ragionevole dubbio, della giustizia della nostra battaglia. *Avvocato della Camera penale di Roma I processi lunghi guastano i conti di Alessandro De Nicola La Stampa, 7 dicembre 2019 L’abolizione della prescrizione nel processo penale a seguito della sentenza di primo grado è al centro del dibattito politico. L’interruzione dei termini scatterebbe sia in caso di sentenza di condanna che di assoluzione, e per questa seconda eventualità non c’è discussione: si tratta di una misura inqualificabile che pone il soggetto assolto in balia di giudici e pubblici ministeri che, non essendo riusciti a provare la colpevolezza, potrebbero accontentarsi di lasciare il meschino in ostaggio per anni delle lentezze processuali. Sì è già scritto molto sul perché la riforma sia sbagliata: è un incentivo ad allungare la durata del processo, è un supplemento di punizione incostituzionale, sia per l’afflizione di stare nel processo che per le spese, soprattutto nei confronti di chi ha una reputazione da difendere (Ciro di “Gomorra” avrebbe certamente meno sofferenze di Enzo Tortora). Da un punto di vista di dottrina penale, inoltre, la funzione rieducativa della pena perde forza se inflitta a troppa distanza di anni. Tuttavia, di tali riforme non si fanno mai analisi economiche, che invece sono importanti. Gli studi di “Law and Economics” concordano sul fatto che i delinquenti “scontano” il valore del tempo più velocemente degli altri anche perché spesso agiscono d’impulso. Ciò vuol dire che il valore deterrente della galera comminata tra 5 anni è inferiore a quello della pena immediata e superiore a quello tra 10 anni. Chi delinque non pensa così a lunga scadenza, perciò allungare i tempi della prescrizione diminuisce il valore deterrente della sanzione penale fino a farlo sparire. Il che vale ancor di più per i reati meno gravi, l’evasione fiscale rispetto al riciclaggio, per dire. Paradossalmente, applicare il blocco della prescrizione indifferentemente a reati lievi e gravi può addirittura incitare a commettere il più serio: se il rischio di essere condannato è eterno, tanto vale commettere un crimine magari più profittevole. Parallelamente, cresce il costo sociale per l’imputato (gli avvocati) e per lo Stato che deve gestire il processo ed eventualmente la costosa detenzione quando invece non avrebbe più interesse a comminarla. Insomma, una politica repressiva completamente sballata che aumenta i costi e depotenzia la deterrenza. Non basta. Il nostro diritto prevede tutta una serie di interdizioni ad assumere cariche dopo la condanna in primo grado. Non si può diventare amministratori di banca, società quotata o sgr, sindaci di città o membri di organismo di vigilanza. I malcapitati condannati restano quindi appesi in attesa di giudizio e siccome statisticamente le assoluzioni in appello sono molte, l’interruzione della prescrizione priva più a lungo del necessario da un lato alcuni validi individui di redditi e reputazione e dall’altro il sistema economico di persone capaci ed oneste. Infine, due tra i punti più deboli dell’Italia come Paese attraente per gli investimenti sono la lunghezza dei processi e l’incertezza del diritto. L’interruzione della prescrizione che effetti avrà su queste due importanti variabili? Non offenderei mai l’intelligenza del lettore fornendo una risposta così scontata. Consulta, corsa a tre per la successione al presidente Lattanzi di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 dicembre 2019 Mercoledì prossimo l’elezione. In lizza gli attuali vicepresidenti: Aldo Carosi, Mario Rosario Morelli e Marta Cartabia. Quest’ultima potrebbe essere la prima donna alla guida della Corte Costituzionale. Terminerà lunedì prossimo l’incarico di Giorgio Lattanzi al vertice della Corte Costituzionale. Lo scorso mercoledì ha presieduto a Palazzo della Consulta la sua ultima udienza pubblica. “Un insigne giurista non solo nel campo penale” che andrà ricordato per il “ricchissimo contributo dato alla Corte”, con “equilibrio in pronunce innovative”, ha detto il suo vice presidente, Aldo Carosi, ringraziandolo a nome di tutti i giudici della Consulta per l’operato svolto in questi anni. Lattanzi, ha poi aggiunto Carosi, è stato “uno dei maggiori promotori dell’apertura della Corte alla società civile”. In particolare con il docu-film, presentato anche al Festival di Venezia l’anno scorso, “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri”. Accompagnati da un agente di polizia penitenziaria, sette giudici della Corte costituzionale entrano in sette istituti penitenziari italiani. Da qui l’incontro tra questi due mondi agli antipodi e diversamente chiusi all’esterno. A salutare Lattanzi anche il neo avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, secondo cui va apprezzata “l’attenzione avuta per i mutamenti giuridici della nostra epoca”. La Costituzione, ha aggiunto Palmieri Sandulli, “non si è mai sgualcita”. Per il professor Giandomenico Falcon, in rappresentanza del libero foro, “Lattanzi lascia una Corte forte, vitale e indipendente”. Terminato il mandato di Lattanzi, il giorno successivo ci sarà il giuramento al Quirinale del nuovo componente, Stefano Petitti, eletto dalla Cassazione l’altra settimana, che riporterà a quota quindici il numero dei giudici costituzionali. Mercoledì, infine, l’elezione del nuovo presidente. I nomi che circolano al momento sono quelli dei tre attuali vicepresidenti. Aldo Carosi, viterbese, eletto dalla Corte dei Conti; Mario Rosario Morelli, romano, eletto dalla Corte di Cassazione; Marta Cartabia, milanese, nominata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Marta Cartabia, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano Bicocca, in caso di elezione sarebbe la prima donna ad insediarsi alla presidenza della Corte costituzionale. I tre vicepresidenti sono arrivati al palazzo della Consulta in tempi diversi: Cartabia dal 2014, Carosi dal 2016, Morelli dal 2018. Il loro mandato durerebbe circa un anno o poco meno. Infatti, Cartabia e Carosi hanno prestato giuramento il 13 settembre 2011 mentre Morelli ha giurato il 12 dicembre sempre del 2011: essendo la durata del mandato di nove anni dal giorno del giuramento, tutti e tre cesserebbero entro la fine del 2020. Intercettazioni con bavaglio: i dubbi dei pm sul dl Orlando di Antonella Mascali e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2019 Lo scontro tra Pd e Cinque Stelle sulla riforma della prescrizione si è appena placato, ma c’è subito un’altra mina che rischia di dividere la maggioranza giallorosa, È la riforma delle intercettazioni targata Andrea Orlando, che da Guardasigilli la firmò all’epoca dei governi Renzi e Gentiloni. Un testo finora congelato dal suo successore, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, se non dovessero esserci novità, però, anche il nuovo regime delle intercettazioni scatterà a gennaio. Come il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Ma proprio sul tema delle intercettazioni stanno per intervenire i capi delle principali Procure italiane, al lavoro su una lettera da indirizzare al ministero della Giustizia. La missiva sta per essere ultimata e trova d’accordo i procuratori di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo, di Firenz e Giuseppe Creazz o, di Palermo Franco Lo Voi e del facente funzioni di Roma Michele Prestipino. Non sarà un’interferenza nelle prerogative della politica: nessun attacco da parte dei magistrati. Ma è un testo che si basa sulle necessità di capire quale norma applicare da gennaio, in assenza di modifiche o nuove proroghe al testo di Orlando, per le intercettazioni già in corso e per quelle che verranno in indagini già partite. Il punto critico che verrà sottolineato nella lettera è che il dl Orlando non ha previsto un regime transitorio che regoli l’attività già in corso di pm e polizia giudiziaria. Quindi la nuova riforma a quali casi si applica? Alle indagini che nasceranno in futuro o anche a quelle già iniziate che, però, finora hanno seguito una normativa diversa, cioè quella in vigore fino al 31 dicembre? In astratto, proprio in assenza di una norma transitoria, anche secondo altri magistrati da noi interpellati, ci potrebbe essere un “regime misto” per casi a cavallo tra la vecchia legge e quella nuova. Insomma, i procuratori chiedono al governo di chiarire alcuni aspetti, compresi quelli legati alla formazione del personale e all’adeguamento delle misure organizzative da attivare nelle Procure per gli apparati elettronici e digitali. Proprio questo necessario adeguamento è stato l’appiglio delle proroghe decise da Bonafede, che hanno congelato finora la riforma approvata nel 2017 - tra le proteste di pm e avvocati, per la prima volta uniti - dal governo Pd-Ncd. La prima proroga risale al luglio 2018: era appena nato il governo gialloverde. La seconda è di aprile 2019 fino ad agosto, quando è stata disposta la terza, che scade a fine anno. Ma cosa potrebbe cambiare la riforma Orlando? In base alla vecchia normativa, la polizia giudiziaria è tenuta a redigere il “brogliaccio”, cioè un riassunto delle registrazioni, in modo che pm e avvocati possano avere sotto gli occhi, a grandi linee, tutto il materiale e valutare se ci siano intercettazioni utili anche in un momento successivo alla prima selezione. Con la legge Orlando ciò non avverrà più: la polizia giudiziaria potrà scrivere solo data e ora delle intercettazioni che ritiene irrilevanti (un giudizio di merito affidato ad agenti di polizia giudiziaria, dipendenti gerarchicamente dal governo, e non più ai pm) e che finiranno in un archivio riservato delle Procure. A questo punto sarà il pm che “con decreto motivato” potrà ordinarne la trascrizione se ne valuta “la rilevanza per i fatti oggetto di prova”. Ma ciò che in un certo momento è irrilevante può diventare importante nelle indagini successive. Per non parlare delle conseguenze per gli indagati, i difensori e anche per la stampa, con le tante intercettazioni che resteranno chiuse negli archivi e mai verranno rese pubbliche. Non solo. La riforma targata Pd prevede anche il divieto di riportare le intercettazioni nei provvedimenti se non per riassunto: pm e gip potranno riportarle solo “quando è necessario” e nei “brani essenziali”. Infine, in barba ai diritti di difesa, gli avvocati potranno solo ascoltare le intercettazioni ritenute irrilevanti senza farne copia, né prendere appunti né leggerne la trascrizione. Tutte norme nate dalla volontà di impedire che certe notizie, magari penalmente irrilevanti ma politicamente importanti per la loro rilevanza pubblica, finiscano sui giornali. Ora il Governo dovrà rispondere ai procuratori. Il ministro Bonafede non ha mai nascosto l’ostilità al “bavaglio” di Orlando, difeso a spada tratta dal Pd. Un nuovo fronte si apre così nella maggioranza giallo-rosa, intrecciandosi con quello sulla prescrizione. Mafia e visite in carcere, accuse a Occhionero di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2019 Nel fermo del suo segretario, arrestato per mafia, veniva descritta come un deputato strumentalizzato ma incorruttibile, ma ora Giusy Occhionero, ex LeU, parlamentare di Italia Viva, viene sospettata di avere fatto passare il radicale Antonello Nicosia per suo collaboratore nonostante il rapporto di lavoro fosse stato formalizzato solo successivamente. La Procura di Palermo coordinata da Paolo Guido le ha inviato un avviso di garanzia per falso in concorso e nei prossimi giorni verrà probabilmente interrogata. Il pregiudicato agrigentino Nicosia, secondo l’accusa, era affiliato alla cosca di Sciacca e per questo è stato arrestato ai primi di novembre. Per i pm “si è speso attivamente per contribuire a uno dei progetti più ambiziosi di Cosa Nostra, la rivisitazione del cosiddetto “carcere duro” e ciò, in modo palese ed evidente, non per il perseguimento di una legittima (seppur discutibile) scelta di politica criminale bensì per favorire, in ultima istanza, la stessa associazione mafiosa”. Per i magistrati, Nicosia aveva agganciato la Occhionero “per avere una sicura chiave d’accesso agli istituti penitenziari (accesso avvenuto in almeno cinque occasioni)” e per “monitorare lo stato d’animo dei singoli mafiosi detenuti per dissuaderne eventuali iniziative collaborative”. Il deputato era diventato il suo passe-partout perle carceri che ospitavano mafiosi: per l’accusa Nicosia entrava al seguito della Occhionero per “favorire trasferimenti di detenuti mafiosi; per veicolare informazioni fra i detenuti e l’esterno” incontrando gli associati mafiosi in modo assolutamente riservato e senza la vigilanza delle guardie penitenziarie”. E in un messaggio vocale inviato il 23 marzo 20191e diceva, riferendosi al superlatitante Matteo Messina Denaro: “Onorevole Occhionero... mai, mai si deve dire che siamo stati contro San Matteo, non si può sapere mai... mai contro a San Matteo, per ora c’è San Matteo che comanda e noi siamo, preghiamo San Matteo... grazie San Matteo per quello che ci dai tutti i giorni”. Iniziato a metà 2018, il rapporto di Nicosia con la Occhionero, avvocato di 41 anni, molisana, eletta alle ultime Politiche nelle liste di Leu e recentemente passata in Italia Viva, si è interrotto a maggio di quest’anno, presumibilmente hanno scritto i pm nel fermo, perché lei si era mostrata incorruttibile: Nicosia, secondo l’accusa, le aveva proposto di modificare una relazione ispettiva nel carcere della Giudecca a Venezia, “ammorbidendola”: “Quando chiamano, dici senta io non ho tempo, le sto dando Iban, in base a quello che mandano eventualmente modifichiamo le dichiarazioni, ma... capisci che non si può fare gratis questa cosa”, è il testo di un messaggio vocale di Nicosia intercettato dal Gico. Il rapporto si interrompe quando il deputato scopre che l’assistente le aveva raccontato una serie di balle, compresa un’inesistente laurea. Pena detentiva al recidivo che commette altri reati fiscali di Debora Alberici Italia Oggi, 7 dicembre 2019 Niente pena pecuniaria al posto di quella detentiva all’imprenditore recidivo che negli ultimi cinque anni ha commesso reati fiscali anche se di diversa natura. Sono rilevanti l’intenzione di sottrarre somme all’Inps o all’Erario e la medesima tecnica delittuosa. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 49717 del 6 dicembre 2019, ha respinto il ricorso del contribuente. La difesa dell’uomo insisteva per la pena sostitutiva sostenendo che il manager aveva posto in essere reati puniti da norme diverse. In particolare, era stato accusato di omesso versamento di ritenute previdenziali e poi di ritenute certificate. La tesi non è stata accolta con favore dal Collegio di legittimità che ha invece confermato la recidiva spiegando che ai sensi dell’art. 101 cod. pen. reati della stessa indole sono non soltanto quelli che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni. Alla stregua di tale criterio, più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l’inclinazione verso un’identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell’altrui diritti rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa. Nel caso sottoposto all’esame della Corte, dice la Cassazione, è evidente la identità dell’indole del reato oggetto della sentenza impugnata e di quelli di cui alle precedenti condanne dallo stesso riportate, determinati da motivi analoghi (e cioè dalla intenzione di trattenere somme dovute agli enti previdenziali o all’erario), aventi identica struttura (omissiva) e realizzati nel medesimo contesto, indicativi, dunque, dell’attitudine dell’imputato a commettere reati qualitativamente omogenei e dell’insufficiente efficacia dissuasiva della misura sostitutiva. Enna. Detenuto 41enne si toglie la vita in cella, interviene il Garante regionale newsicilia.it, 7 dicembre 2019 Lo scorso 3 dicembre un detenuto serbo si è tolto la vita all’interno del carcere di Enna. L’uomo, un 41enne, si sarebbe trovato in carcere per maltrattamenti in famiglia e dal suo arrivo in cella pare avesse sempre ricevuto visite psicologiche e psichiatriche, l’ultima due giorni prima del triste evento. A dire la propria riguardo il gravissimo caso è stato Giovanni Fiandaca, il Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia. Il comunicato del Garante - Il suicidio di un serbo quarantunenne nel carcere di Enna, avvenuto il 3 dicembre scorso, ripropone il grave e delicato problema del rischio suicidario nelle carceri, rispetto al quale l’attenzione del personale penitenziario e sanitario non è mai troppa. In questo caso si è trattato di un soggetto in custodia cautelare per il reato di maltrattamenti in famiglia, il quale, secondo quanto risulta dalle prime informazioni, sarebbe stato sottoposto ad assidua sorveglianza e osservazione psicologica a opera sia degli agenti penitenziari, sia dello psicologo dell’istituto. Sarebbe stato, altresì, visitato due giorni prima dell’evento infausto da uno psichiatra, il quale non avrebbe però segnalato concreti rischi di atti auto lesivi. Quest’ennesimo caso di suicidio fa riemergere da un lato il problema della difficile prevedibilità dei gesti suicidari ma, dall’altro lato, mette in evidenza l’esigenza che gli psichiatri addetti alle carceri maturino una sempre più affinata competenza nel diagnosticare e prevedere il pericolo concreto di atti autolesivi da parte di soggetti detenuti affetti da quelle forme di disagio psicologico che lo stato detentivo provoca o aggrava nei soggetti più disturbati o più fragili. Milano. Morì impiccato in carcere a 21 anni: fu suicidio o omicidio? di Anna Giorgi Il Giorno, 7 dicembre 2019 Riaperte le indagini e disposta una perizia. La famiglia del giovane morto nel 2012 ha portato nuovi elementi utili per fare luce sulla verità. La procura riapre il caso di Alessandro Gallelli, il 21enne che oltre sette anni fa, nel febbraio 2012, venne trovato cadavere in una cella del carcere milanese di San Vittore. Una morte archiviata come suicidio, ma sulla quale la famiglia del ragazzo non si arrende. I genitori hanno presentato nuovi elementi, tra cui una perizia medica, che supporterebbe la loro tesi di omicidio volontario. I legali dei familiari del giovane, tra cui l’avvocato Antonio Cozza, hanno depositato una consulenza nella quale si sostiene che Gallelli venne ucciso “mediante strozzamento con successiva attività di staging” per simulare un suicidio. Da qui la nuova denuncia trasmessa all’aggiunto Tiziano Siciliano che a sua volta, aprendo un modello 44 a carico di ignoti, ha già affidato un incarico a un consulente di parte. Ieri i familiari del 21enne, con il legale Cozza, hanno incontrato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, dopo aver manifestato per chiedere giustizia davanti a palazzo di giustizia. Sul caso della morte del giovane, trovato impiccato con un laccio, in passato erano già state archiviate altre indagini, che riguardavano, come si legge negli atti, “ipotesi di responsabilità omissiva nella forma del non aver impedito la morte” o dell’aver “indotto il ragazzo al suicidio”. Era stato archiviato anche un fascicolo che vedeva indagati per omicidio colposo due agenti della polizia penitenziaria. Una richiesta di archiviazione di un’ultima indagine per omicidio colposo a carico di ignoti era stata presentata nei mesi scorsi dall’aggiunto Siciliano. I legali della famiglia si erano opposti e sulla base della consulenza avevano puntato sulla richiesta di nuove indagini per omicidio volontario. Il Gip aveva disposto l’archiviazione spiegando di non poter accogliere la richiesta di ordinare alla Procura di indagare per omicidio volontario quei “soggetti che potevano avere accesso alla cella” dove era detenuto Gallelli. Ciò che viene prospettato nella consulenza, aveva scritto il gip, è un “fatto del tutto diverso” rispetto al procedimento di omicidio colposo. Per il giudice, però, era “chiaro che il tenore e il contenuto della consulenza di parte” dovranno “essere nel caso utilizzati” o come “fondamento di una nuova denuncia” oppure come elemento nuovo e “utile” per riaprire le indagini. Avellino. Detenuto malato di cancro, una lettera ora può salvargli la vita thewam.net, 7 dicembre 2019 Potrà ora essere curato in una struttura specialistica. Il 60enne, A.P., originario del napoletano ma detenuto ad Avellino, sta scontando nove anni di carcere per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. L’uomo, malato di cancro, non ha una casa dove tornare e l’unica familiare reperibile non vuole saperne nulla di lui. Così i domiciliari non potevano essere una soluzione adeguata per garantirgli cure fondamentali per la sua sopravvivenza. Il magistrato di Sorveglianza, Maria Bottoni, ha disposto che la direzione sanitaria del carcere trovi al 60enne una struttura adeguata a curarlo. A doverla trovare sarà l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) di Avellino L’avvocato dell’uomo, il legale Alberico Galluccio, ha scritto una lettera per chiedere aiuto. “Questo signore di sessant’anni sta espiando una pena per reati commessi nel lontano 1991. Dopo alcuni anni di detenzione ha iniziato ad accusare forti dolori all’addome… gli è stato diagnosticato un adenocarcinoma infiltrante del terzo distale dell’esofago. Con questa malattia non può ricevere cure adeguate e non ha un domicilio dove potersi curare adeguatamente. Con questa mia lettera vorrei avere la possibilità di sensibilizzare qualche anima buona per poter permettere al mio assistito di trovare un luogo dove andare per potersi curare adeguatamente. Nel ringraziarla per l’attenzione mi auguro di riuscire nel mio intento e donare una speranza a una persona che soffre”. Caserta. Detenuti al lavoro, ecco i dettagli del piano edizionecaserta.com, 7 dicembre 2019 Patto Asi-Ministero. Interventi di manutenzione, ripristino e valorizzazione dei territori rientranti nell’Area di Sviluppo industriale per la Provincia di Caserta (Asi) saranno presto svolti a titolo volontario e gratuito da detenuti degli istituti penitenziari campani. A coordinare e programmare i progetti di lavoro di pubblica utilità, sulla base del ben noto modello di reinserimento “Mi riscatto per…”, sarà un Tavolo tecnico appositamente istituito. È quanto prevede il “Protocollo d’intesa ed istituzione del tavolo tecnico di coordinamento e programmazione permanente per la promozione, lo sviluppo e l’attuazione di progetti di lavoro di pubblica utilità” sottoscritto oggi a Caserta”. L’accordo è stato firmato dal Direttore Generale della Formazione del Dap Riccardo Turrini Vita - delegato dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - dal Provveditore Regionale Antonio Fullone, dalla Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Adriana Pangia e dalla Presidente del Consorzio Asi Raffaela Pignetti. I detenuti da occupare nei lavori di pubblica utilità, in affiancamento ai dipendenti del Consorzio, saranno individuati con la supervisione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. I quattro componenti del Tavolo, designati dal DAP e dal Consorzio Asi di Caserta, potranno avvalersi della consulenza di professionisti esterni. Tra i principali impegni del Tavolo, quello di attuare la cooperazione tra Amministrazione centrale dello Stato, Amministrazioni ed enti territoriali periferici e altre realtà produttive di una zona che, con 15 agglomerati industriali e circa 4.000 aziende, è un’area industriale tra le più grandi e significative del Mezzogiorno. Un territorio in cui l’incentivazione di attività di recupero e valorizzazione “può costituire - si legge nel protocollo - un acceleratore di sviluppo e di crescita per tutto il Paese, con ricadute positive sull’occupazione e con benefici reputazionali per il nostro Mezzogiorno”. Il Consorzio Asi ha aderito al progetto “Mi riscatto per” in quanto coerente con due aspetti fondamentali dei suoi compiti: la tutela e lo sviluppo delle aree territoriali ricadenti nel suo ambito, con particolare attenzione alla salvaguardia dell’ambiente, e il percorso di promozione della legalità e trasparenza dell’azione pubblica intrapreso come ente capofila del progetto Pon-legalità 2014-2020 promosso dal Ministero dell’Interno. Porto Azzurro (Li). Borse fatte a mano grazie al lavoro dei detenuti del carcere Il Tirreno, 7 dicembre 2019 Si chiama “Ventosa” la nuova creazione dell’azienda Dampaì che da mesi ha aperto un laboratorio artigianale nell’istituto. Alla Two e alla Three, le due borse artigianali a mano/tracolla in gomma espansa e alla borsa in rete Lilly trasformabile in zaino, interamente realizzate all’intero dell’istituto penitenziario di Porto Azzurro, si aggiunge ora l’ultima nata, la Ventosa che sarà ufficialmente presentata la mattina del 14 dicembre a forte San Giacomo, nel carcere di Porto Azzurro. Il marchio è quello di Dampaì, il brand specificatamente elbano nato nel 2011 e specializzato nel produrre bijoux, borse e accessori vari moda. Dal 2017 la ditta ha trasferito il suo magazzino all’interno della Casa di reclusione Pasquale De Santis, grazie alla collaborazione tra l’architetto Simona Giovannetti, creatrice del gruppo, e Francesco D’Anselmo, direttore della casa di reclusione elbana. Dalla loro cooperazione è maturata l’idea di aprire un vero e proprio laboratorio di produzione artigianale. Due detenuti sono stati scelti sia per gestire il magazzino, sia per realizzare i nuovi accessori moda. Dampaì ha effettuato una formazione professionale specifica alle persone scelte, che sono state poi assunte e stipendiate dall’azienda di moda/design. Il percorso si è sviluppato velocemente, con particolare attenzione agli aspetti gestionali e umani innescati dal processo produttivo che deve confrontarsi con le regole di un carcere. Il primo prezioso frutto di questo delicato lavoro di squadra è stato la messa in commercio, presso i Dampaì stores dell’isola d’Elba e presso alcuni rivenditori Dampaì in Italia, dei primi tre modelli di borse interamente confezionate all’interno del carcere: la Two e la Three, due borse a mano/tracolla in gomma espansa e la borsa Lilly. Sabato prossimo sarà presentata Ventosa (di vento), la borsa in pelle realizzata a mano, con grandi cuciture anch’esse in pelle e in diversi colori che il cliente potrà scegliere, con l’aiuto di simulazioni computerizzate, tra più soluzioni. È il frutto del ‘lavoro etico’, l’impronta che ha voluto imprimere Francesco D’Anselmo all’iniziativa, che mira, attraverso questo progetto, alla riabilitazione dell’individuo e fornirlo di strumenti in base ai quali possa, una volta restituito al mondo civile, aspirare a una professione. Forlì. Scambio di auguri nei laboratori produttivi in carcere forlitoday.it, 7 dicembre 2019 Il Sindaco Zattini: “Strumenti per un efficace reinserimento sociale”. Il carcere di Forlì conta ad oggi circa 160 detenuti di cui 25 donne ed è fortemente impegnato in 4 laboratori produttivi. Si è tenuto venerdì lo scambio di auguri di Natale tra i detenuti, coinvolti nei due laboratori produttivi interni alla Casa Circondariale di Forlì, e i numerosi ospiti tra cui istituzioni, imprese ed operatori. In particolare, oltre a diverse imprese del territorio sono intervenute numerose autorità tra cui i Consiglieri Regionali dell’Emilia Romagna Lia Montalti e Paolo Zoffoli, il sindaco del Comune di Forlì, Gian Luca Zattini con i due assessori comunali, Paola Casara e Rosaria Tassinari, il presidente della Provincia, Gabriele Fratto, l’assessore del Comune di Cesena, Carmelina Labruzzo, il presidente dell’Unione Rubicone e mare Luciana Garbuglia, gli assessori del Comune di Sarsina, Maria Vittoria Cesaretti ed Elsa Cangini. Oltre 70 persone hanno partecipato allo scambio di auguri, ascoltando direttamente dalla voce dei protagonisti, detenuti, imprese ed operatori, l’andamento dei laboratori in questo anno di attività; l’occasione è stata, infatti, propizia per tirare le somme di fine anno, facendo un bilancio in termini economici, etici e sociali, delle due esperienze. I due laboratori, l’uno di assemblaggio e l’altro di cartiera, fiore all’occhiello del carcere mercuriale, sono coordinati dall’ente di formazione Techne che ne gestisce la regia e ne monitora quotidianamente le attività. “Anche quest’anno abbiamo voluto rinnovare gli auguri ai 6 detenuti del laboratorio di assemblaggio Altremani ed ai 4 del laboratorio Manolibera - spiega Lia Benvenuti, direttore generale di Techne - per testimoniare che il lavoro è l’unico vero strumento di riscatto sociale, rieducazione alla legalità e alle regole della società civile”. “È un piacere accogliere tanti ospiti per festeggiare con noi il Natale ed i risultati di fine anno per nulla scontati di questi laboratori - sottolinea Palma Mercurio, direttrice della Casa Circondariale di Forlì - ottenuti grazie al lavoro e alla collaborazione di una rete territoriale fatta di enti pubblici e privati nonché di preziosi collaboratori interni ed esterni al carcere”. Il carcere di Forlì conta ad oggi circa 160 detenuti di cui 25 donne ed è fortemente impegnato in 4 laboratori produttivi nati per dare lavoro ai detenuti ed insegnare loro un mestiere: oltre al laboratorio di assemblaggio Altremani e al laboratorio di cartiera artigianale Manolibera, ci sono il laboratorio di recupero apparecchiature elettriche ed elettroniche e il laboratorio di sartoria. Il carcere di Forlì, in tal senso, investe moltissimo affinché lo “spazio” della detenzione venga riempito di contenuti siano essi di istruzione, formazione e lavoro per permettere alla persona una vera e propria riabilitazione nella società. “Realtà come quella del carcere di Forlì - evidenzia il sindaco Zattini - rappresentano una vera e propria comunità educante in cui l’aspetto sociale è strettamente connesso a quello produttivo, in grado di sostenersi grazie ad una rete territoriale di imprese e istituzioni che crede ed investe nelle attività lavorative in carcere quale strumento per un efficace reinserimento sociale”. Il laboratorio di assemblaggio Altremani, nato nel 2006, rappresenta un’iniziativa di grande successo, per nulla scontato all’interno di un carcere, sia in termini occupazionali che economici. Questa realtà tutta forlivese, infatti, rappresenta un’eccellenza nel panorama carcerario nazionale non solo per gli oltre 70 detenuti che in questi anni ha assunto, ma anche grazie all’indipendenza economica raggiunta, superando le difficoltà strutturali, logistiche, normative e relazionali caratterizzanti le attività in carcere che spesso ne compromettono la sostenibilità. Tredici anni di successi grazie soprattutto alle due imprese virtuose del territorio forlivese e cesenate, Mareco Luce e Vossloh Schwabe che da anni forniscono le commesse grazie alle quali il Laboratorio si sostiene e sviluppa. A queste aziende “storiche”, da un anno, si è aggiunta una nuova impresa committente, la Cepi Spa, che sta consolidando con il Laboratorio una proficua collaborazione. A questi protagonisti, si unisce la cooperativa Lavoro Con che si fa carico dell’assunzione dei detenuti, permettendo di raggiungere indici produttivi e qualitativi di ottimo livello. Il laboratorio di cartiera Manolibera nasce nel 2011 dalla progettazione congiunta di Techne, Hera e Casa Circondariale, partenariato che si è ampliato nel tempo coinvolgendo la Cooperativa Cils, la legatoria Berti, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ravenna-Forlì-Cesena-sede di Forlì, la Provincia di Forlì Cesena, la Camera di Commercio della Romagna - Forlì-Cesena e Rimini, il Comune di Forlì, l’Unione dei Comuni Valle del Savio e l’Unione Rubicone e Mare. Da scarti di legatoria, attraverso un’antica tecnica di lavorazione arabo-cinese, trovano nuova vita prodotti di carta eco-sostenibili, raffinati e interamente realizzati a mano. Tra i prodotti, manufatti preziosi, ricercati e personalizzabili, si possono trovare bomboniere e partecipazioni, album, quaderni, cornici, biglietti di auguri e carta da lettera. Il laboratorio impiega oggi quattro detenuti e, dal 2011, complessivamente sono state coinvolte oltre 40 persone, garantendo loro un’indennità economica. Sassari. Bancali, carcere senza direttore e comandante La Nuova Sardegna, 7 dicembre 2019 Sventato il suicidio di un detenuto. Sale la tensione dopo lo spostamento del capo degli agenti. Nuovo campanello d’allarme nel carcere di Bancali: ieri gli agenti della polizia penitenziaria hanno sventato il tentativo di suicidio di un detenuto. A denunciare l’ennesima tragedia sfiorata è stato il delegato nazionale del Sappe Antonio Cannas. E a Bancali la situazione continua a essere particolarmente critica per la mancanza di un comandante della polizia penitenziaria e di un direttore in pianta stabile (attualmente la reggenza è affidata alla direttrice del carcere di Alghero che deve coprire anche Tempio). Sull’argomento è intervenuto Francesco Laura, responsabile del coordinamento dell’Uspp (Unione sindacati di polizia penitenziaria) per esprimere dissenso rispetto alla decisione del Dap di revocare l’assegnazione provvisoria del comandante di reparto. “L’istituto di Bancali, per la complessità della struttura e la peculiarità dei detenuti presenti (quasi 100 41bis e AS2) non può essere lasciato senza un commissario comandante. Al di là delle motivazioni riconducibili ad un episodio verificatosi durante un’operazione di servizio piuttosto delicata, che avrebbero potuto indirizzare verso altre soluzioni, anche raccogliendo nell’immediatezza le testimonianze del personale di polizia penitenziaria operante - sostiene Laura - quel che stupisce è che finora non erano emersi problemi di alcun genere circa l’operato del comandante. Perché improvvisamente è stato ritenuto non più in grado di svolgere le funzioni assegnategli fino a quel momento?” Il responsabile dell’Uspp auspica che “il Provveditore incaricato possa procedere all’accertamento dei fatti e concludere in fretta la sua inchiesta amministrativa affinché venga stabilita la verità e le preoccupazioni di organismi esterni al carcere vengano superate e il comandante possa tornare al suo posto”. Milano. “La bellezza salva le persone, anche in carcere” di Maria Teresa Santaguida agi.it, 7 dicembre 2019 Intervista al direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, che vuole trasformare il penitenziario milanese in un “quartiere della città”. Dove sta scritto che il carcere debba essere considerato un luogo perdente per definizione? Che innovare sia impossibile? Che anche un luogo “brutto” non possa essere un’eccellenza nella città che ne vanta tante, Milano? E soprattutto dove sta scritto che chi ha sbagliato non possa imparare di nuovo a seguire e perfino amare le regole? Non sta scritto da nessuna parte e infatti Giacinto Siciliano queste domande le pone agli altri in modo provocatorio, mentre a sé stesso ha smesso di farle, perché ha deciso che a scrivere i nuovi paradigmi vuole essere lui: 53 anni, molti dei quali a Milano, nonostante la spiccata inflessione meridionale, è l’uomo che trasforma i penitenziari più difficili d’Italia in luoghi di sperimentazione. Dopo la rivoluzione di Opera, ora tocca a San Vittore, che vuole trasformare “non in un hotel di lusso, ma in un quartiere della città, con le sue bellezze”. Tutta una vita, la sua, passata ‘in carcerè: “Fra le mura ci sono nato e cresciuto, perché mio nonno era comandante degli agenti di custodia, mio padre direttore, e come tutti aveva l’obbligo di alloggiare ‘dentro’. Io ero convinto che non lo avrei mai fatto: volevo essere un tranquillo professore universitario, oppure un notaio, per fare tanti soldi e lavorare poco. Poi tentai il concorso con una collega: lei fu scartata, io vinsi. Ho sbagliato tutto? Non so, ma sono qua, dopo 26 anni”. San Vittore è stato per lui una sfida e un modo “per non ripetersi”, dopo i risultati positivi del precedente incarico. Quando ha accettato però era consapevole delle difficoltà di dirigere una casa circondariale: “Qui arrivano gli arrestati, a volte anche 30 in una notte: restano poco ed è per questo che si concentrano la marginalità e il disagio più disperati”. Su 1.070 detenuti circa 800 sono stranieri, e non restano per più di 90 giorni: “Il tempo per lavorare sul recupero è poco, ma non ci si può fermare alla gestione dell’ordinario, altrimenti ci si livella tutti verso il basso. San Vittore è la porta d’ingresso: ma da luogo di sfollamento può diventare centro di accoglienza e orientamento verso altri istituti, con un percorso già iniziato” Fin qui parole le dà direttore, i progetti, la visione. Ma è la riflessione e l’umanità dell’uomo che emerge sotto la volontà di raggiungere gli obiettivi: “Non devo trattare il carcere da carcere, altrimenti qui dentro diventiamo tutti carcerati e carcerieri”. ?? E cosa deve essere allora San Vittore, per Lei? “Uno spazio di cultura e di bellezza. Nessuno parla di mondanità, però io da direttore ho la necessità che sul carcere ci sia attenzione vera, quindi devo attirare figure, intelligenze, istituzioni, chiunque possa aiutarci. Accanto ai bisogni quotidiani, come i vestiti e le sigarette, devo incidere sul contesto. San Vittore ha un fascino - che hanno cantato anche i grandi come Jannacci - maggiore di Opera o Bollate. Lo vediamo ogni anno alla Prima della Scala: molti preferiscono venire qui ormai, che andare a Teatro. Se ogni mese offriremo uno spettacolo culturale di alto livello si attiverà un processo di osmosi tra dentro e fuori: il risultato sarà la percezione di questo come un quartiere della città esattamente come gli altri. Nel corridoio principale abbiamo cominciato con una mostra fotografica: di recente è stata la volta di Andrea Bianconi con le sue frecce: si intitolava ‘Come creare una direzione’, un monito che qui assume una valenza particolare per la vita dei detenuti”. Sembra assurdo pensare a questo come un luogo di bellezza, Le hanno mai detto che ha idee bizzarre? “Tutt’altro. Se io, da detenuto, sono nemico delle istituzioni per definizione, e tu, come Stato, mi tieni in un posto brutto che motivo ho di migliorare? Se invece lo Stato cerca di far capire che c’è, che si impegna, con tutti i suoi limiti a trasformarsi, il risultato è diverso. Perché in ogni cosa o persona brutta c’è comunque del bello su cui lavorare. Al detenuto arriva un messaggio: “Lamentati quanto vuoi dell’Istituzione che ti sta tenendo dentro, ma intanto questa Istituzione c’è”. Mentre dal canto nostro si crea l’attenzione, alla persona, allo spazio, ai contenuti di quello spazio. E si crea cultura: da quando abbiamo le mostre nei corridoi non ci sono più cicche per terra, è già un risultato”. Siamo il mensile di strada e sappiamo che fra coloro che vivono “fuori” ci sono anche i pochi cosiddetti irriducibili. Le è mai capitato di incontrare gli occhi di un detenuto di cui ha pensato che fosse “un irriducibile” del crimine? “Mi è capitato di pensarlo, sì, ma mi è capitato anche di essere smentito. Esistono i cosiddetti ‘delinquenti professionali’, sia fra i criminali comuni che fra i mafiosi, ad esempio. Ma sono convinto che di assolutamente irriducibile non ci sia nessuno: se si ha molta attenzione alla persona prima o poi si fa breccia, perché tutti hanno dei bisogni. E se l’unica volta in cui quel bisogno è emerso l’istituzione l’ha capito ed è intervenuta, una breccia si aprirà sicuramente. Certo, è molto faticoso: è più semplice dire ‘ci stai o non ci stai’, che andare a cercare le persone e aiutarle”. Dopo tanti anni di lavoro immagino si sia posto una domanda: il carcere è necessario? “C’è un’ultima cosa, ed è la più importante: piaccia o non ci piaccia, questo è l’unico posto dove tanti hanno un’attenzione e una cura che fuori non avrebbero: a volte qui c’è il primo aggancio col sistema sanitario, soprattutto per gli stranieri. In questo momento, ad esempio, abbiamo una serie di ospiti sono stati già scarcerati, ma rimangono perché non potrebbero vivere in strada, dove sarebbero un pericolo per sé e per gli altri. Ecco, viviamo un paradosso: il carcere diventa il posto dove c’è una risposta per tutti”. Come vede San Vittore quando sarà trasformato anche esteticamente? “Grazie alla collaborazione con la Triennale abbiamo deciso di portare qui dentro la bellezza. Abbiamo cominciato con l’imbiancare le pareti: sappiamo che non basta, ma è un segno. Gli architetti che ruotano attorno al presidente Stefano Boeri, verranno qui e ascolteranno le esigenze dei detenuti, vivranno con loro e penseranno a come ristrutturare, anche con pochi fondi. Vogliamo produrre 10 progetti e poi cercare dei finanziatori. Ormai va molto di moda nel privato l’analisi del contesto e coinvolgimento delle persone nel progetto. Dove sta scritto che non si possa fare anche nel pubblico e che non troveremo qualcuno che voglia far parte del grande progetto e contribuire alla sua realizzazione?”. Napoli. Intervista Carmine Uccello, presidente dell’associazione Carcere Vi.Vo. di Emanuela Belcuore pinklifemagazine.com, 7 dicembre 2019 Carmine Ucello è il Presidente dell’associazione Carcere Vi.Vo. Da ben 22 anni opera nelle case circondariali di tutta la Campania, con l’obiettivo di donare un sorriso a chi è sofferente. L’ascolto e l’accoglienza, i suoi strumenti. Si batte per le pene alternative, perché: “Un cane che morde non può essere scacciato ma deve essere rieducato”. Il suo progetto a lungo termine: scrivere un libro per mettere nero su bianco tutto quello che le sue orecchie e i suoi occhi hanno sentito e visto. “Bisogna umanizzare il carcere”. Come è nata l’associazione Carcere Vi.Vo.? “È nata sulle orme di San Vincenzo de Paoli che nel 600? incominciò a seguire i galeotti francesi, di poi, suor Vittoria, una vincenziana, iniziò ad entrare nel carcere e dopo di lei la giovane suor Anna nell’87 e nell’89 alcuni laici, attualmente impegnati tra le case circondariali di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli. L’associazione apporta anche un aiuto morale, legale e grazie ad alcuni benefattori e ai vari spettacoli teatrali organizzati, anche economico alle famiglie dei detenuti”. Racconta un caso che ti ha deluso e uno che ha superato le tue aspettative... “La storia di un detenuto che aveva 5 figli, con lo sfratto di casa esecutivo. La moglie mi contattava ogni giorno chiedendomi aiuto. Per lui mi sono speso tanto, aveva avuto l’affidamento al lavoro come gommista poi non mi ha cercato più. Era un caso pietoso, con un bimbo piccolo che giocava bene a pallone ma non parlava, abbiamo aiutato anche lui durante l’incontro con le famiglie, presso via Andrea d’Isernia, dove c’è il centro ascolto, dove facciamo riunioni, attività ricreative e tanto altro. Un caso positivo, invece, è quello di un detenuto greco, arrestato per droga; dopo ben sette anni è uscito, ora lavora e si è ben integrato. Bisogna sconfiggere i pregiudizi e il preconcetto”. Quali sono le criticità del carcere di Poggioreale? “La struttura è del secolo scorso, con la venuta del Papa nel 2015 si è fatta una pulizia generale ma le celle sono piccole e spesso gironzolano i ratti, la socialità diventa solo un momento di confusione. Il carcere dovrebbe essere più aperto ai volontari. Il padiglione Napoli è veramente complicato da gestire, ci sono detenuti che entrano ed escono dal carcere; il Torino per i reati commessi non ha troppi contatti con gli altri; il padiglione Roma ha un edificio a parte, ci sono i tossicodipendenti e gli accusati di violenza sessuale; il Salerno ospita i trans dove vado a fare la catechesi; il padiglione Milano, invece, ospita gli stranieri e i reati comuni”. Che ne pensi della legge che vorrebbe dare più potere ai comandanti della polizia penitenziaria rispetto ai direttori? “Il carcere deve essere rieducativo per cui se gli oneri rimangono in mano ai direttori c’è più possibilità di fare progetti e far entrare i volontari; il comandante ha un’impostazione mentale diversa, quella militare, quindi dovrebbe occuparsi di altro come ha sempre fatto, garantendo la sicurezza ma lasciando poteri decisionali all’area educativa-trattamentale e ai direttori”. Ferrara. “Universit’Aria”, i detenuti a lezione con Unife di Davide Soattin estense.com, 7 dicembre 2019 Inaugurato il ciclo di seminari presso il penitenziario di via Arginone. Il prefetto Campanaro: “A questo genere di iniziative, le porte della prefettura saranno sempre aperte”. Il penitenziario di via Arginone apre le proprie porte all’Università di Ferrara e lo fa attraverso il progetto Universit’Aria, una serie di lezioni e conferenze che per tutto l’anno accademico saranno tenute - a titolo volontario e gratuito - da docenti dell’ateneo estense, presso l’istituto di detenzione cittadino, con l’obiettivo di stimolare nell’uditorio la voglia di imparare, approfondire le tematiche affrontate o intraprendere un corso di studi. Di questo ciclo educativo e culturale, in cui più di trenta professori offriranno ai detenuti un’ora d’aria differente e dedicata alle più diverse discipline, si è già tenuta la prima lezione con il professor Paolo Trovato, ordinario di Linguistica italiana che, nel pomeriggio di venerdì 6 dicembre, presso la sala teatro della struttura carceraria, ha inaugurato il folto calendario con una chiacchierata interattiva e dialogata su Dante, l’Inferno e la sua Divina Commedia. Tra i componenti di una folta platea - quasi un centinaio i detenuti che hanno ascoltato con attenzione e curiosità la lezione - anche il prefetto Michele Campanaro, entusiasta dell’iniziativa: “Credo sia davvero importante partecipare a questo appuntamento, perché evidenzia certi valori e principi, che sono capisaldi della nostra Costituzione. Tutti quanti dobbiamo credere nel valore della funzione rieducativa, un tassello aggiuntivo che permette di recuperare una parte di vita connotata negativamente da alcuni fatti. A questo genere di proposte, così lodevoli e importanti, le porte della prefettura saranno sempre aperte”. Un pensiero ripreso anche dalla direttrice del penitenziario Maria Nicoletta Toscani, presente insieme al comandante Annalisa Gadaleta e al responsabile delle attività educative Loredana Onofri: “Avere qui oggi il prefetto significa che il carcere è nella città ed è in tutti i sensi seguito dal governo. Queste manifestazioni di cultura e libertà sono un ulteriore passo verso i valori costituzionali, oltre che una importante apertura verso il recupero e il reinserimento dei carcerati a livello sociale”. A spiegare la genesi creativa del ciclo di seminari all’interno della struttura di via Arginone, tra obiettivi e finalità della manifestazione, ci ha pensato in conclusione Stefania Carnevale, delegata di Unife per i rapporti con la casa circondariale e ideatrice dell’evento: “Attraverso questo tipo di progetto vogliamo gettare un ponte stabile tra Unife e l’istituto penitenziario. Tutto è nato nei mesi scorsi, quando ho illustrato la possibilità di venire a fare lezione qua a diversi docenti. Credevo di avere poche risposte e invece ho avuto un riscontro incredibile da parte dei colleghi. In tantissimi si alterneranno a portare le loro esperienze, nella speranza che sia uno scambio di natura proficua sia per loro che per i detenuti. Per noi ambasciatori dell’articolo 27 si tratta di un qualcosa che ci piace moltissimo, grazie soprattutto a un nuovo modo di intendere l’ora d’aria”. Fossombrone (Pu). La prima laurea di un detenuto studente presso la Casa di Reclusione viveremarche.it, 7 dicembre 2019 Mercoledì 11 dicembre sarà un giorno diverso dagli altri, per gli ospiti della Casa di Reclusione di Fossombrone: è in programma il conseguimento della prima laurea di un detenuto studente del Polo Universitario attivato dall’Università di Urbino. Un’iniziativa nata nel 2015 e operativa dal 2016, che vede a oggi iscritti 20 studenti a 10 corsi di laurea differenti. Il primo di loro conclude il percorso triennale e raggiunge il traguardo della laurea: conseguirà il titolo in Scienze e Tecniche Psicologiche ed è già ammesso a proseguire il suo percorso di studi alla laurea Magistrale in Psicologia Clinica. Partner dell’iniziativa sono l’Università di Urbino, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche e il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Marche. La commissione di laurea sarà presieduta dal Magnifico Rettore, Prof. Vilberto Stocchi, e dalle docenti del corso di laurea, Daniela Pajardi, Elena Acquarini, Manuela Berlingeri, Alessandra D’Agostino. Lo studente discuterà una tesi con la prof.ssa Pajardi sulla devianza, letta secondo le teorie sociali e le nuove prospettive delle neuroscienze. Il Polo Universitario rappresenta una realtà complessa dal punto di vista organizzativo e fa riferimento al Prof. Fabio Musso come pro-rettore alla Terza Missione, alla Prof.ssa Daniela Pajardi come coordinatore, a due tutor, Dott.ssa Vittoria Terni de Gregory e Dott.ssa Silvia Lecce e a diverse collaboratrici nel supporto allo studio degli studenti detenuti. “Si tratta di un’iniziativa volta a promuovere e sostenere sia l’attività di studio che il contatto con il mondo esterno” spiega la professoressa Pajardi “sia con professori che con studenti dell’Ateneo con i quali vengono organizzati diversi incontri durante l’anno. Sono stati coinvolti in questi anni oltre 70 docenti a svolgere lezioni e attività seminariali oltre all’espletamento degli esami. È anche stato attivato un progetto per l’insegnamento della lingua inglese trasversale a tutti i corsi di laurea, gestito dal Prof. Roberto Salvucci e dalla Prof.ssa Rowena Coles.La realtà dei Poli Universitari in carcere è una realtà diffusa in alcuni atenei e Urbino partecipa al Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari, attivata presso la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui). Urbino ha un particolare rilievo nel panorama nazionale; è un Polo di media numerosità ma con la caratteristica di un’ampia offerta di corsi universitari e una grande attenzione all’attività di tutoraggio e di supporto allo studio. L’iniziativa permette di coniugare sia un’attività didattica che un’attività di promozione sociale e di inclusione a favore della popolazione detenuta, di contatto per studenti e docenti con una realtà così lontana da loro, ma è importante” sottolinea e conclude Pajardi “dal punto di vista etico, sociale e umano, che venga conosciuta in modo diretto e non solo dall’immagine che ne viene data dal senso comune e dai mass media”. Roma. “Non siamo soli” di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 7 dicembre 2019 Presentata nella Casa di reclusione di Rebibbia la raccolta degli scritti dei detenuti. L’uomo contemporaneo è molto meno capace di sopportare la solitudine in una società che lo rende paradossalmente più solo. Figuriamoci in carcere, dove gli “affetti” rappresentano il legame mentale ed emotivo che unisce una persona alle altre e sono anche ciò che tiene assieme diverse parti e aspetti della persona dotandola di coerenza e di senso. Il tema della solitudine fa da sfondo alla raccolta degli scritti degli ospiti della Casa di reclusione di Rebibbia intitolata “Non siamo soli”. Si tratta della quinta pubblicazione curata da suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo e volontaria nel carcere romano, ed evidenzia la difficoltà di sopravvivenza e il desiderio di amore di tanti ragazzi che ogni giorno lei stessa assiste e accompagna nel difficile cammino di redenzione e di reinserimento nel tessuto sociale. Una pubblicazione intimista che pone l’accento su un problema di grande attualità, non soltanto per chi vive dietro le sbarre. “La solitudine è un vissuto complesso” ha detto il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila, rivolgendosi agli autori della pubblicazione che si sono ritrovati nel teatro del carcere per l’occasione. “Non bisogna identificare la solitudine fuori con la solitudine dentro. Si può essere soli fuori per circostanze particolari per cui vengono a mancare i contatti, ma dentro si ha la certezza di essere accompagnati, di essere vicini ad altri. C’è la consapevolezza che la propria sorte è condivisa e questa è una consapevolezza fondamentale”, ha spiegato il porporato, aggiungendo che “il problema è quando si è soli dentro anche quando non si è soli fuori. La solitudine dunque non è legata al regime detentivo e va sconfitta perché è una forma di asfissia. Si supera solo con la mobilitazione di tutti. Dobbiamo riscoprire l’arte di vivere insieme”. Esiste dunque il pericolo che la solitudine possa diventare (e in alcuni casi lo diventa) una patologia che presenta persone che non riescono più a emozionarsi, ad avere passioni. E per passioni intendiamo soprattutto attaccamento a un’idea, un progetto, un gruppo di appartenenza e, non ultimo, alla propria personalità. Una sorta di “depersonalizzazione” con la conseguente perdita di contatto con il quotidiano. Patologia che ha un evidente riscontro anche nella realtà “fuori” con la tossicodipendenza, la violenza, l’insopportabilità per i limiti, la delinquenza. “La cosa più dura è entrare in carcere, o uscire, senza mai nessuno che dica: Ciao, come stai?”, ripetono spesso gli ospiti che abbiamo incontrato. Proprio perché cresce sempre più l’isolamento a causa dell’abbandono di parenti e amici. Suor Emma conosce i sentimenti di chi vive in questo moderno lazzaretto e interpreta il ruolo del volontario partendo da una diversa angolatura. “Questi ragazzi hanno dimostrato di sapersi aprire, hanno scritto cose che non avrebbero mai detto. Gran parte dell’opinione pubblica ritiene che il carcere abbrutisca. Invece io penso che esperienze come queste gratificano. Continuo a misurami con loro ogni giorno e, devo confessare, che mi rendono più buona, capace di accogliere e di relazionarmi meglio anche in comunità”. Suor Emma sa bene che il suo lavoro quotidiano è cambiato negli anni e che l’attenzione si è spostata su difficoltà personali che derivano dal contesto sociale di provenienza. E le sue iniziative diventano il luogo nel quale la persona può ritrovare quelle lacune che si porta dietro sin dall’infanzia. È un lavoro difficile e complesso che tende a rivalutare l’uomo o la donna che ha sbagliato anche attraverso un riavvicinamento alla cultura e, nello specifico, alla scrittura. Secondo la direttrice della casa di reclusione di Rebibbia, Nadia Cersosimo, “È un veicolo importante, è un modo per far uscire fuori tanti sentimenti, tante riflessioni che in carcere a volte assumono un valore diverso ed è fondamentale che ci sia una proposizione all’esterno di questi scritti perché non solo serve come forma epurativa per i nostri detenuti, ma serve anche a far conoscere quanto di bene all’interno c’è”. Per la direttrice “mettere su un foglio bianco determinate parole è terapeutico, è una forma utile a chi vive ristretto della libertà personale”. L’obiettivo è dunque ambizioso: far conoscere a tutti le sfumature della sofferenza per dire che esiste un disagio che punge il cuore del detenuto, la solitudine appunto, e che questo disagio va superato facendo rete, coinvolgendo chi è fuori, aprendo a un progetto di community care. Ovvero a un tipo di assistenza che non sia solo tecnico funzionale, ma concorra a risolvere la solitudine esistenziale e sociale, offrendo sostegno psicologico e consentendo un ampio margine di autonomia a chi è stato privato della libertà. Non facendo leva solo sulla rete formale (istituzioni), ma anche su quella informale, che si avvale del supporto particolare del volontariato e integri la famiglia o la sostituisca quando è scomparsa. Per monsignor Dario Edoardo Viganò, vice cancelliere delle Pontificie Accademie delle scienze, che ha introdotto la giornata con una riflessione sulla preghiera del Padre nostro, “in una casa di reclusione, imparando a farsi carico l’uno dei pesi dell’altro, l’uno i peccati e i reati dell’altro, si intraprende la grammatica del perdono e proprio per questo si è in grado di aprire il cuore all’amore misericordioso del Padre”. E infine loro, i protagonisti che non hanno fatto mancare la loro testimonianza, rinnovando l’impegno per una sesta edizione già in cantiere. “Suor Emma ci ha dato l’opportunità di manifestare quelli che sono i nostri pensieri, gli umori che ci accompagno in questi anni di detenzione. È un esercizio che ci fa bene perché rinnova in noi sensazioni che non siamo più abituati a provare e ci ridà speranza”, ha detto Danilo. In un’epoca in cui si sono annullate le distanze geografiche con la velocità della tecnologia, si sono ampliate quelle “umane”. Leggere raccolte di scritti come queste è un po’ fare compagnia a chi li ha composti facendoli sentire meno soli. Alessandria. Il Festival delle arti recluse oggicronaca.it, 7 dicembre 2019 Partito venerdì 6 dicembre, ad Alessandria, il Festival delle Arti Recluse. Il Festival, organizzato da Ics Onlus, con l’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta”, nasce con l’intento di presentare alla città le opere e le esperienze in campo artistico realizzate dai detenuti nelle carceri di Alessandria nell’ambito dei vari laboratori artistici, teatrali e culturali, che vedono la collaborazione di artisti e volontari del territorio. L’iniziativa, quest’anno alla seconda edizione, presenta un programma fittissimo di eventi che avranno come centro nevralgico Palazzo Cuttica. Le associazioni del territorio con le quali gli organizzatori sono riusciti a fare rete sono Uepe di Alessandria, Il Cantastorie, Coompany & Coperativa Sociale, Odv Betel, Libreria Libraccio, Isses SocialWood, Unione Induista Italiana, Il Grappolo di Libri, Passodopopasso, APS Paper Street con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, Comune di Brescia, Csva Asti Alessandria. Fondamentale è la partecipazione attiva della scuola con il protocollo d’intesa firmato dall’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta” con ICS Onlus e l’Ufficio Scolastico Regionale ambito di Alessandria e Asti, grazie al quale moltissimi giovani del triennio finale della provincia visiteranno il carcere come percorso di educazione alla legalità e alla cittadinanza, come ribadito durante la riunione della commissione dalla Direttrice del Carcere Elena Lombardi Vallauri che tiene molto a queste iniziative, anche per l’impatto positivo sulla motivazione e lì’impegno dei detenuti. L’I.S.S. Saluzzo Plana, inoltre, grazie al Dirigente Roberto Grenna, supporta attivamente il Festival e ospita diversi eventi, come quello attesissimo del 13 dicembre, durante il quale Mario Calabresi presenterà il suo libro “La mattina dopo” agli studenti e al pomeriggio ai collaboratori di Giustizia presso la Casa di Reclusione di San Michele. Non mancano eventi di formazione specifica per i docenti all’interno del Festival gestiti dal Cesp con la presenza della Referente nazionale Anna Grazia Stammati. Artiviamoci evoca l’arte, come volano per il futuro e collegamento tra la città il carcere e le istituzioni culturali. Grazie al fondamentale contributo dell’Azienda Culturale Costruire Insieme e di Cristina Antoni le opere realizzate durante i laboratori che si tengono in carcere saranno esposte presso il “Salotto di Alessandria” ovvero Palazzo Cuttica, con l’inaugurazione il 6 dicembre alle ore 11. Interverranno le autorità cittadine e i partner del Festival che si ritroveranno nell’adiacente Auditorium del Conservatorio “A. Vivaldi”. I laboratori artistici nascono con una finalità risocializzante e con il sogno di poter aprire anche eventuali prospettive lavorative. Il Festival segnala committenze quali l’Ospedale Infantile e Marco Bagliano, giovane imprenditore che ha deciso di arricchire la sua Sala Funeraria di Alessandria proprio con una di queste opere, diventando a pieno titolo “main sponsor” del Festival. “Consideriamo le due case di reclusione come quartieri di Alessandria ed è per questo che vorremmo portare l’arte ai cittadini e viceversa con questo Festival che vedrà anche la partecipazione di almeno cento persone “esterne” alla serata teatrale e musicale che si terrà il 6 dicembre presso la Casa di Reclusione di San Michele” ha affermato il Vicepresidente Ics Onlus Giovanni Mercurio. Infine, di particolare rilievo sarà anche il convegno “Il dialogo e le sue interpretazioni” che si terrà presso l’Università di Alessandria l’11 dicembre alle 11,00 e che ha per tema proprio la realizzazione concreta di esecuzione pene alternative per i detenuti in articolo 21 al fine di un percorso altamente risocializzante. Il Festival delle Arti Recluse, Artiviamoci, che vede la collaborazione di oltre 80 persone a titolo completamente volontario, inizia con un pre festival il 29 novembre presso la libreria Il Libraccio con la lettura di racconti scritti dai detenuti e poi l’inaugurazione della mostra di ritratti, realizzati a quattro mani da Massimo Orsi con i detenuti, presso il pub Di Noi Tre. Si concluderà con una cena conviviale presso la Ristorazione Sociale il 13 dicembre alle 20,00 con musica del duo M.I.L.F. alla quale si invita la cittadinanza a partecipare, prenotandosi al numero 3292329806. Oltre al presidente Carmine Passalacqua e ai consiglieri, erano presenti alla Commissione il referente del Progetto Artiviamoci di ICS Onlus Pietro Rodolfo Sacchi, il vicepresidente iCS Onlus Giovanni Mercurio, docente I.S.S. Saluzzo Plana, la direttrice dell’Istituto Penitenziario di Alessandria, Elena Lombardi Vallauri, Cristina Antoni per l’Azienda Culturale Costruire Insieme, Paola Debernardi, volontaria del progetto Collaboratori di Giustizia e lo sponsor Marco Bagliano della Casa Funeraria di Alessandria oltre a Valentina Piacentini, responsabile per la comunicazione ICS Onlus e docente dell’I.S.S. Saluzzo Plana. Novara. Detenuti e figli in campo insieme oggi al carcere novaranetweek.it, 7 dicembre 2019 Detenuti e figli saranno protagonisti di una partita entusiasmante al carcere di Novara quest’oggi sabato 7 dicembre. Anche il penitenziario di Novara aderisce alla campagna lanciata da Bambinisenzasbarre onlus. Sono 68 gli istituti italiani che partecipano al progetto nel mese di dicembre. Grazie a questa iniziativa i detenuti potranno giocare una partita a calcio con i loro figli, condividendo un momento di normalità e vicinanza nonostante la detenzione. Fino al 28 dicembre, inoltre, sarà attiva anche la campagna di raccolta fondi con numero solidale 45594 a sostegno delle attività che Bambinisenzasbarre organizza nelle carceri italiane per difendere i diritti dei figli dei detenuti e combattere l’emarginazione e lo stigma a cui sono soggetti. Al fianco dei bambini con un papà dietro le sbarre - “Tutti i bambini sono uguali - dicono dalla onlus - anche i 100mila bambini che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo vengono emarginati e stigmatizzati. Ciò significa anche che ci sono 100mila figli che, a causa del distacco dovuto alla detenzione, corrono un alto rischio di interrompere il legame affettivo con il proprio genitore, fondamentale strumento di protezione e prevenzione per contrastare fenomeni di abbandono scolastico, disoccupazione, disagio sociale, illegalità e detenzione. Si stima infatti che, senza un’adeguata tutela della relazione con il genitore, il 30% dei figli di detenuti sia a rischio di diventare detenuto a sua volta (Federazione dei Relais Enfants Parents, Parigi)”. L’idea dello Spazio Giallo - Lo Spazio Giallo è un sistema di accoglienza pensato per i bambini che entrano in carcere per trascorrere del tempo con il genitore detenuto, un luogo fisico destinato all’attesa dell’incontro insieme a operatori formati che accompagnano i bambini e le famiglie nell’esperienza della detenzione. L’ingresso in un penitenziario, luogo estraneo e perturbante, può essere un’esperienza traumatica per i bambini se non viene resa comprensibile con l’aiuto degli adulti di riferimento (familiari, insegnanti, ecc.), che invece tendono spesso a costruire dei tabù a causa del pregiudizio sociale e del rischio di emarginazione sociale (a scuola, nel quartiere, nello sport). I bambini, attraverso strumenti di comunicazione non verbale come il gioco e il disegno, e i genitori, attraverso i “gruppi di parola”, vengono aiutati a esprimere le emozioni e le preoccupazioni legate al complesso periodo di vita che stanno attraversando; a condividere il momento con altre famiglie nella stessa situazione; ad affrontare con maggiori strumenti di consapevolezza il tempo complesso della detenzione. Prato. Metti una sera a cena… in carcere tvprato.it, 7 dicembre 2019 Alla Dogaia serata d’eccezione con i detenuti chef e camerieri della alberghiera. È stato un evento originale e ben riuscito quello andato in scena alla Dogaia con i detenuti impegnati come chef e camerieri in sala. L’iniziativa si chiama “Cucine aperte” e ha rappresentato il primo appuntamento di un accordo di rete promosso da Caritas diocesana, istituto alberghiero Datini e la struttura carceraria in collaborazione con la Provincia di Prato e la sezione dei soci pratesi di Unicoop Firenze. Tutti insieme nel 2017 hanno dato vita al progetto “Cucina galeotta” con l’intento di rendere il carcere non soltanto una realtà meno anonima ma di trasformarlo in risorsa per coloro che hanno commesso degli errori. “Imparare un mestiere, acquistare consapevolezza di essere in grado di lavorare e lavorare bene diventa così un segnale di rinascita, anche per chi è detenuto”, osserva Rodolfo Giusti, referente Caritas del progetto. Cannolo di pasta fritta ripieno alla mousse di mortadella di Prato, sformatino di carciofi su crema di pecorino toscano, tartara di manzo alla senape. Questi erano gli antipasti, poi due primi, un secondo, il dolce e vini, il tutto preparato dall’associazione Cuochi Pratesi, dagli insegnanti del corso alberghiero in carcere e gli allievi carcerati che frequentano il terzo anno. Poi c’è stata una accoglienza in sala all’altezza del menù, curata sempre dai detenuti guidati dai loro insegnanti. Il vino è stato somministrato sotto la guida dell’associazione italiana sommelier, delegazione di Prato. Una cena di alto livello dunque, alla quale hanno partecipato 64 persone, fra queste un gruppo consistente del Lions club Prato Centro e una folta rappresentanza dei soci Coop. Presente anche il presidente della Provincia Francesco Puggelli, a nome di tutte le istituzioni cittadine, il direttore del carcere Vincenzo Tedeschi, la comandante Barbara D’Orefice e Luigi Mezzacapo dell’ufficio attività. “È stato bello vedere come gli allievi detenuti siano stati professionali nel loro ruolo di cuochi e camerieri - dice ancora Rodolfo Giusti -, una operosità la loro che ha suscitato espressioni come: “oggi mi sono sentito non carcerato”. Particolarmente emozionante è stato il momento finale dei ringraziamenti, dove è stato possibile scambiare considerazioni e emozioni. “Nei detenuti allievi è emersa la consapevolezza che il percorso scolastico che stanno facendo potrà essere per loro una preziosa risorsa da sfruttare al momento dell’uscita dal regime carcerario, sempre di più le statistiche dimostrano infatti che chi ha la possibilità di fare percorsi rieducativi prima dell’uscita definitiva, difficilmente ritorna a delinquere”, conclude Rodolfo Giusti. Nei giorni scorsi Caritas ha presentato il progetto Confezione, attraverso il quale nel carcere della Dogaia verrà aperta una azienda di confezioni dove saranno impiegati detenuti a fine pena. Caso WikiLeaks. “Liberate Assange”: in gioco c’è il diritto a essere informati Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2019 Giulian Assange, fondatore ed editore di WikiLeaks, è attualmente detenuto nel carcere di alta sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato e poi processato negli Stati Uniti in base all’Espionage Act. Assange rischia una condanna al75 anni di prigione per avere contribuito a rendere pubblici documenti militari statunitensi relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq e una raccolta di cablogrammi del Dipartimento di Stato Usa. I War Diaries hanno provato che il governo statunitense ha ingannato l’opinione pubblica sulle proprie attività in Afghanistan e Iraq e lì vi ha commesso crimini di guerra. WikiLeaks ha collaborato con un grande numero di media in tutto il mondo, media che hanno pubblicato a loro volta i War Diaries e i cablogrammi del Dipartimento di Stato Usa. L’azione legale promossa contro Assange, dunque, rappresenta un precedente estremamente pericoloso per i giornalisti, per i mezzi di informazione e per la libertà di stampa. Noi, giornalisti e associazioni giornalistiche di tutto il mondo, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la sorte di Assange, per la sua detenzione e le pesantissime accuse di spionaggio che gli vengono mosse. Il suo caso è centrale per il principio della libertà di espressione. Se il governo statunitense può perseguire Assange per avere pubblicato documenti segreti, in futuro i governi potranno perseguire ogni giornalista: si tratta di un precedente pericoloso per la libertà di stampa a livello planetario. Inoltre, l’accusa di spionaggio contro chi pubblichi documenti forniti da whistleblower è una prima assoluta che dovrebbe inquietare ogni giornalista e ogni editore. In una democrazia, i giornalisti devono poter rivelare crimini di guerra e casi di tortura senza il rischio di finire in prigione. Questo è il ruolo dei mass media in una democrazia. L’utilizzo da parte di governi contro giornalisti ed editori di leggi che perseguono lo spionaggio, li privano del loro più importante argomento di difesa - l’avere agito nel pubblico interesse - un argomento non previsto dalle leggi contro lo spionaggio. Prima di essere imprigionato nel carcere di Belmarsh, era agli arresti domiciliari e sette anni all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove gli era stato riconosciuto l’asilo politico. In questo tempo, sono stati violati i suoi più essenziali diritti: basti pensare che è stato spiato durante conversazioni confidenziali con i suoi legali da organizzazioni alle dirette dipendenze dei servizi Usa. I giornalisti che, in questi anni, si sono recati a visitarlo sono stati sottoposti cuna sorveglianza invasiva. Assange ha subito restrizioni nell’accesso all’assistenza legale e alle cure mediche, è stato privato dell’esercizio fisico e dell’esposizione alla luce del sole. Nell’aprile 2019, il governo Moreno ha permesso alla polizia britannica di entrare nell’ambasciata per arrestarlo. Da allora, Assange è detenuto in regime di isolamento per 23 ore al giorno e, secondo la testimonianza di chi lo ha potuto incontrare, è “fortemente sedato”. Le sue condizioni fisiche e psichiche nel tempo sono nettamente peggiorate. Già nel 2015 il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite (Glda) ha stabilito che Assange era detenuto e privato della libertà in modo arbitrario, ha chiesto che fosse liberato e gli fosse versato un risarcimento. Nel maggio del 2019 il Glda ha ribadito le sue preoccupazioni e la richiesta che Assange sia rimesso in libertà. Riteniamo i governi di Usa, Regno Unito, Ecuador e Svezia responsabili delle violazioni dei diritti umani di cui Julian Assange è vittima. Assange ha dato un contributo straordinario al giornalismo, alla trasparenza e ha permesso di richiamare i governi alle loro responsabilità. È stato preso di mira e perseguitato per avere diffuso informazioni che non avrebbero mai dovuto essere celate all’opinione pubblica. (...) Le informazioni fornite da Assange sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini di guerra sono di importanza storica, al pari delle rivelazioni dei whistleblower Edward Snowden, Chelsea Manning e Reality Winner, che oggi sono in esilio o in prigione. Contro tutti loro sono state lanciate campagne diffamatorie che spesso si sono tradotte sui media in informazioni errate e in un’attenzione insufficiente alle difficili condizioni in cui si trovano. L’abuso sistematico dei diritti di Julian Assange negli ultimi nove anni è stato sottolineato dal Committee to Protect Journalists, dalla Federazione Internazionale dei giornalisti e dalle più importanti organizzazioni di difesa dei diritti umani. Eppure nei media c’è stata una pericolosa tendenza a considerare normale il modo in cui è stato trattato. L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, dopo avere indagato il caso ha scritto: “Per finire, mi sono reso conto che ero stato accecato dalla propaganda e che Assange è stato sistematicamente denigrato per distogliere l’attenzione dai crimini che ha denunciato. Una volta spogliato della sua umanità tramite l’isolamento, la diffamazione e la derisione, come si faceva con le streghe bruciate sui roghi, è stato facile privarlo dei suoi diritti più fondamentali senza suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale. In questo modo, grazie alla nostra stessa compiacenza, si sta stabilendo un precedente che in futuro potrà e sarà applicato anche dinanzi a rivelazioni pubblicate dal Guardian, dal New York Times e da Abc News. (..) In vent’anni di attività a contatto con vittime di guerra, violenza e persecuzione politica, non ho mai visto un gruppo di Paesi democratici in combutta per deliberatamente isolare, demonizzare e violare i diritti di un singolo individuo così a lungo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo Stato di diritto”. Nel novembre del 2019, Melzer ha raccomandato di impedire l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti e di rimetterlo al più presto in libertà. (...) Nel 1898 lo scrittore francese Emile Zola scrisse la lettera aperta “J’accuse...!” per denunciare l’ingiusta condanna all’ergastolo per spionaggio dell’ufficiale Alfred Dreyfus. La presa di posizione di Zola è entrata nella storia e ancora oggi simboleggia il dovere di battersi contro gli errori giudiziari e di mettere i potenti dinanzi alle loro responsabilità. Questo dovere vale ancora oggi, mentre Julian Assange è preso di mira dai governi e deve fare fronte a 17 capi di imputazione in base all’Espionage Act statunitense, una legge vecchia più di cento anni. Come giornalisti e associazioni giornalistiche che credono nei diritti umani, nella libertà di informazione e nel diritto della pubblica opinione di conoscere la verità, chiediamo l’immediata liberazione di Julian Assange. Esortiamo i nostri governi, tutte le agenzie nazionali e internazionali e i nostri colleghi giornalisti a chiedere la fine della campagna scatenata contro di lui per avere rivelato dei crimini di guerra. Esortiamo i nostri colleghi giornalisti a informare il pubblico in modo accurato sugli abusi dei diritti umani da lui subìti. (...) Tempi pericolosi richiedono un giornalismo senza paura. *Appello sottoscritto da 200 giornalisti Migranti. Espulsioni, interviene il Viminale di Michela Nicolussi Moro Corriere di Verona, 7 dicembre 2019 Rimpatri “bloccati” dalla burocrazia. Il sottosegretario Variati: cambieremo la norma. Cie, Verona si candida. La conferma arriva dal sottosegretario agli Interni Achille Variati: le norme sulle espulsioni vanno cambiate. E il caso del tunisino arrestato due volte in una settimana e poi lasciato libero per “impedimenti burocratici” arriva sul tavolo del ministro Lamorgese. Intanto Verona si candida per ospitare un Cie. Per la seconda volta, dopo la disponibilità espressa nel gennaio 2017 dall’allora sindaco Flavio Tosi, il Comune di Verona si candida a ospitare il Centro di permanenza per il rimpatrio dei clandestini, l’ex Cie. Ma non è mica vero che la struttura risolverebbe tutti i problemi del Veneto. Qualcuno sì, ma non tutti, perché la gestione dei posti non spetterebbe alla prefettura della città ospitante, chiamata a occuparsi solo della logistica, bensì al Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, come avviene per ogni Cpr d’Italia. “Significa che se il centro dovesse sorgere a Verona, non servirebbe solo il bacino locale e regionale, ma entrerebbe a far parte della rete nazionale a disposizione di tutte le questure del Paese - spiega il prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto. La priorità d’ingresso nei Cpr non viene attribuita agli stranieri irregolari scoperti nella città più vicina, bensì al grado di pericolosità sociale che rappresentano. Detto ciò, la struttura va attivata anche in Veneto, per due motivi: la legge Minniti ne prevede una in ogni regione, da cento posti, e poi è utile a togliere dalla strada gente che delinque”. Quanto alla candidatura di Verona, il prefetto che coordina i colleghi del Veneto osserva: “Secondo la normativa che li regola, i Cpr devono sorgere accanto ad un aeroporto e ai consolati, per le espulsioni, requisiti che Verona soddisfa. In più è baricentrica, facilmente raggiungibile da tutto il Veneto, Belluno escluso, come Padova e Vicenza, però sprovviste di scalo”. Ma formalmente al Viminale non è ancora arrivato alcun progetto dal Comune interessato. “E noi come questura non siamo stati coinvolti”, dice il questore Ivana Petricca. Nell’ultimo anno in Veneto sono scattate 746 espulsioni il capoluogo scaligero sia il primo d’Italia, seguito da Padova e Roma, per identificazioni, rilievi e denunce effettuati dai vigili e relativi alla violazione delle norme sull’immigrazione. Le tre città insieme hanno collezionato il 75,9 % delle 89.848 verifiche eseguite in Italia nel 2018. “Non abbiamo formalizzato ancora nulla perché è cambiato il governo e perché il nostro è un approccio rigido - illustra Polato - ho fatto presente che siamo pronti ad ospitare il Cpr solo se prima verranno modificate le regole attuali. Le quali non garantiscono né sicurezza al Comune ospitante né territorialità. La nostra disponibilità è condizionata alla possibilità di realizzare un carcere, e non un hotel, adeguatamente sorvegliato, temporaneo e in grado di adempiere alla domanda locale e regionale. Non intendiamo creare spazi a beneficio di altri e su questo punto è d’accordo il governatore Luca Zaia. Insomma, non ci candidiamo alla cieca - aggiunge l’assessore veronese alla Sicurezza - ci dev’essere prima un passaggio politico che assicuri il cambio delle regole, il personale necessario, tempistiche chiare e un bacino territoriale in grado di interrompere questi continui spostamenti di clandestini e poliziotti nel resto d’Italia, con relativi esborsi (ogni rimpatrio costa tra i 3mila e i 5mila euro, ndr). Altrimenti non si risolve il problema e allora non ne facciamo niente”. E per accelerare l’iter, Polato ha parlato con l’onorevole Vito Comencini (Lega), il senatore Stefano Bertacco e il deputato Ciro Maschio (Fratelli d’Italia). Quanto alla scelta del sito, precisa: “Prima di identificare l’area più idonea, è necessario un confronto con i Comuni della provincia. Per esempio quelli di Villafranca e Sommacampagna, se parliamo di vicinanza all’aeroporto Catullo. Una volta trovato un accordo di massima, sarà la Regione a fare sintesi, quindi saremo in grado di presentare una proposta completa al Viminale”. Va ricordato che Verona conta una serie di caserme dismesse e una ex base dell’aeronautica attigua al Catullo, alla quale si era già pensato all’epoca della prima candidatura. “Non c’è ancora nessuna novità”, frena però il prefetto Giovanni Cafagna. Migranti. La Bosnia chiude il campo della vergogna di Gianluca Modolo La Repubblica, 7 dicembre 2019 “Entro la fine della prossima settimana, il campo profughi di Vucjak sarà chiuso”. Dopo la pressione della comunità internazionale e di molte Ong, ieri l’annuncio del ministro della Sicurezza bosniaco, Dragan Mektic, e del premier del cantone di Una Sana, Mustafa Ruznic. Nel campo, aperto il 16 giugno di quest’anno sul sito di una vecchia discarica in un’area ancora infestata dalle mine del conflitto jugoslavo degli anni 90, a una decina di chilometri da Bihac, nel nord-ovest della Bosnia Erzegovina, si trovano attualmente tra gli 800 e i 1000 migranti. Costretti a vivere in condizioni “da incubo”. Mancano le infrastrutture più elementari, non c’è acqua corrente e neppure l’elettricità. I migranti sono costretti a vivere in tende di fortuna non riscaldate e qui, in inverno, la colonnina può scendere anche fino a -20°. “Non è un luogo dove possano vivere degli esseri umani”, aveva denunciato infatti due giorni fa la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, la bosniaca Dunja Mijatovic. “Stiamo preparando una caserma vicino a Sarajevo dove poter portare i migranti già lunedì”, ha continuato il ministro Mektic. Ma i migranti minacciano di non volersene andare, se non con la forza. “Da qui non ci muoviamo”, hanno detto ieri alla tv Nl. Il campo infatti è a meno di un’ora di cammino dal confine croato. In molti in questi mesi hanno provato “the game”, il gioco: attraversare quella linea di frontiera ed entrare così in Europa. Solo quest’anno in Bosnia Erzegovina sono arrivati in 28.327, quasi 5mila in più rispetto all’anno scorso. Intanto il caos politico nel paese balcanico - senza governo da più di un anno - si è risolto l’altro ieri con la nomina di Zoran Tegeltija a primo ministro. Frutto di un faticoso accordo raggiunto dai tre membri della presidenza del Paese. Siamo il nulla in Libia di Francesco Maselli Il Foglio, 7 dicembre 2019 Di Maio non crede alla presenza dei russi vicino a Tripoli e ci dice che la strategia è attendere (il disastro) Roma. L’analisi ufficiale del governo italiano su quanto accade in Libia, ripetuta dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un colloquio concesso al Foglio e ad altri quotidiani italiani è che “non esiste una soluzione militare alla crisi libica”. È un’analisi che non considera un fatto rilevante: lo strumento militare è ormai centrale per definire i rapporti di forza al tavolo dei negoziati, e ignorarlo non aiuta a difendere gli interessi nazionali italiani. L’Italia ha una notevole presenza sul terreno, in particolare l’ambasciata a Tripoli e un ospedale militare difeso da 300 soldati a Misurata, ma è passiva. E se la guerra degenera, per tutto il paese è un problema. Le milizie del generale Khalifa Haftar, che assediano a Tripoli il governo riconosciuto dall’Onu e sostenuto dall’Italia dallo scorso aprile, hanno da poco ricevuto un aiuto cospicuo da mercenari russi (a seconda delle fonti i numeri variano da poche centinaia a duemila), e appaiono sempre più vicine all’obiettivo. Tanto che, secondo quanto riportato da Repubblica, l’Italia starebbe preparando un piano per l’evacuazione del premier libico Fayez al Serraj. La presenza russa sul terreno non è riconosciuta dalle autorità italiane, come ha spiegato il ministro durante il colloquio che si è svolto a margine dell’incontro bilaterale con il suo omologo russo Sergei Lavrov: “Dobbiamo ancora verificare le informazioni che danno i libici o gli americani, noi chiediamo soltanto che nessuno interferisca. Io e Lavrov non abbiamo parlato di questo, abbiamo parlato in generale del fatto che la Russia è uno stato importante per arrivare al cessate il fuoco”, ha detto Di Maio. È tuttavia molto difficile credere che l’Italia, in Tripolitania tra le nazioni più informate su quanto accade sul terreno grazie al lavoro congiunto di diplomazia e servizi, non sappia da chi sono composte le forze che assediano da mesi il governo riconosciuto dall’Onu. Ai piani alti della Farnesina sostengono che Khalifa Haftar “si illude” di entrare a Tripoli per conquistarla, perché questo semplicemente sposterebbe la guerra civile all’interno della capitale. Se però questa eventualità è concreta, ci spiega un diplomatico italiano, lo scenario che si profila sarebbe catastrofico, e Roma farebbe bene a essere molto preoccupata: “L’ingresso farebbe degenerare i termini del confronto, è difficile che Haftar possa conquistare e controllare Tripoli, ma potrebbe generare la caduta del governo legittimo e aprire la strada a ulteriori violenze”. Intorno a Tripoli resiste una sorta di cordone difensivo alzato dalle milizie del Gna aiutate dalla Turchia: se dovesse cedere si arriverebbe a combattimenti casa per casa, che darebbero un notevole impulso alle partenze di profughi verso i paesi confinanti via terra (Tunisia e Algeria) e via mare Alla domanda del Foglio, che ha chiesto al ministro se sono previste delle azioni concrete dell’Italia volte a evitare che il generale Haftar entri a Tripoli, magari con sanzioni dirette ai suoi padrini, la risposta è chiara: “C’è una tale escalation in Libia che l’atteggiamento da parte dell’Italia deve andare verso il cessate il fuoco. Eventuali reazioni non farebbero che peggiorare la situazione”. In altre parole il governo italiano non intende spendere capitale politico per cercare di fermare Haftar, pur condannando la sua offensiva. Roma ripone la sua piena fiducia nell’eventuale conferenza di Berlino sulla Libia, che per adesso consiste in continue riunioni tecniche (questa settimana la decima), pochissimi passi avanti, e nessuna data. Iran. Onu: almeno 7 mila arresti nelle proteste Associated Press, 7 dicembre 2019 Sarebbero almeno 7 mila le persone arrestate in Iran durante le violente manifestazioni delle scorse settimane contro il rincaro della benzina. Lo denuncia l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Bachelet ha precisato di aver ottenuto “video verificati” in cui le forze di sicurezza della Repubblica islamica sparano contro i manifestanti, con apparente intento di uccidere. Denunciando “serie violazioni dei diritti umani” nella repressione delle proteste, Bachelet ha confermato il bilancio di “almeno 208 morti” accertati diffuso nei giorni scorsi da Amnesty International, secondo cui il numero reale potrebbe essere molto più alto. L’Alto commissario delle Nazioni Unite ha precisato dal canto suo che ci sono notizie di un numero di vittime che sarebbe “il doppio”, ma il suo ufficio non è riuscito finora a verificarle. Secondo gli Usa i morti potrebbero essere stati “oltre mille”. Le cifre erano state respinte come “menzogne assolute” da Teheran, che però non ha fornito un bilancio chiaro al riguardo. Il numero degli arresti indicato oggi dall’Onu è più alto dei circa 2 mila riconosciuti dalle autorità locali, ma coincide con il dato riferito da un deputato iraniano. Molti dei detenuti non avrebbero avuto accesso a un legale e sarebbero tenuti in centri di detenzione “sovraffollati e in condizioni dure”, ha aggiunto Bachelet, chiedendo alle “autorità di rilasciare immediatamente tutti i manifestanti che sono stati privati arbitrariamente della loro libertà”. India. La polizia uccide i 4 sospetti assassini di una donna stuprata Il Giornale, 7 dicembre 2019 “Esecuzione extragiudiziale”. La reazione a un’imboscata o più probabilmente un’esecuzione studiata. È tutta da chiarire la dinamica di un episodio di cronaca che scuote l’India. Tutto nasce dal caso della studentessa di veterinaria di 27 anni stuprata e uccisa a fine novembre a Hyderabad, nel Sud del Paese, vicenda orribile che ha provocato un’ondata di sdegno generale, con attiviste dei diritti delle donne in piazza in molte città del subcontinente e una corrente di pensiero favorevole alla pena di morte immediata per i colpevoli senza attendere i tempi della giustizia. La polizia aveva arrestato quattro giovani tutti tra i 20 e i 24 anni, poi ieri li ha presi e portati sul luogo del femminicidio, un parcheggio dove la giovane è stata aggredita dopo aver lasciato il motorino. L’obiettivo della polizia sarebbe stato acquisire elementi utili all’indagine. Fatto sta che il sopralluogo si è risolto in un bagno di sangue. Secondo la ricostruzione degli agenti i quattro avrebbero attaccato gli agenti con pietre e bastoni, avrebbero rubato delle armi e iniziato a sparare. Gli agenti li avrebbero invitati ad arrendersi ma i quattro non si sarebbero dati per vinti e così i poliziotti avrebbero sparato uccidendoli tutti. Un portavoce della polizia ha aggiunto che i quattro avevano confessato i crimini. Il massacro ha suscitato due diverse reazioni in tutto il Paese. Da un lato c’è chi festeggia per la fine dei quattro stupratori diventati dei mostri in un Paese in cui gli stupri sono una piaga sociale. Centinaia di persone sono accorse sul luogo del massacro sparando fuochi d’artificio e lanciando petali di fiori agli agenti. E anche la sorella della ragazza non è andata tanto per il sottile: “Sono felice - ha detto in tv - che i quattro accusati siano stati uccisi, questo caso sarà un esempio”. Festeggiamenti sono seguiti anche in altre zone del Paese, mentre in molti sui social media hanno elogiato la polizia online. Ma dall’altro lato c’è chi mette in dubbio la ricostruzione della polizia, che viene accusata di aver portato a termine una vera esecuzione extragiudiziale, una modalità molto frequente in un Paese in cui gli agenti sono spesso indotti a bypassare il processo legale a causa delle pressioni ambientali. L’attivista e avvocata Vrinda Grover ha definito gli omicidi “assolutamente inaccettabili”, mentre Meenakshi Ganguly di Human Rights Watch sostiene che “per calmare la rabbia pubblica per le carenze dello Stato contro le aggressioni sessuali, le autorità indiane commettono un’altra violazione”.