“Che coraggio, la Consulta: sul 4bis ha ricordato che la pena non è vendetta” di Errico Novi Il Dubbio, 6 dicembre 2019 Intervista a Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale. “La decisione che ha reso non assoluto il vincolo della collaborazione perché il detenuto ostativo possa ottenere permessi ricorda che si deve perseguire il reato, non il nemico: mafioso o corrotto che sia”. “Avevo un timore. Devo ammetterlo. Nel leggere il primo comunicato della Corte costituzionale, diffuso subito dopo la camera di consiglio sui permessi ai detenuti ostativi, ho temuto che i giudici volessero un po’ mettere le mani avanti, di fronte all’uragano delle critiche, per non dire dei tentativi di pressione. In particolare nel passaggio in cui si precisava come il perimetro della decisione fosse limitato ai soli permessi e non agli altri benefici. E invece, l’ampio comunicato della Consulta arrivato poche ore fa è esemplare nella forza con cui afferma che “è giusto premiare chi collabora, ma non si può punire chi non collabora”. Ricorda che non si può perché altrimenti si aggiunge ulteriore afflizione alla pena, si punisce lo pesudo-reato della non collaborazione, e si irroga dunque una pena disumana”. Giovanni Maria Flick rilegge le motivazioni della sentenza costituzionale che ha dichiarato illegittima la presunzione assoluta secondo cui il detenuto ostativo che non collabora resta legato all’organizzazione criminale e quindi non può ottenere permessi. Il presidente emerito della Consulta se ne compiace non solo per passione civile ma anche per aver partecipato, da giudice delle leggi, a precedenti decisioni che non sempre avevano avuto la stessa coraggiosa determinazione in materia di esecuzione penale. Adesso, Presidente Flick, il fronte allarmista paventa rischi eccessivi per i giudici di sorveglianza. Si ipotizza un collegio unico nazionale che sollevi i singoli magistrati. Che ne pensa? “Come fa un collegio unico a valutare con accuratezza, magari da Roma, se un detenuto ostativo di Canicattì conserva o meno legami con il contesto criminale? Posso usare un’espressione antipatica, per dire cosa penso di simili argomentazioni?”. Siamo qui per questo... “E allora le dico che mi pare davvero una carità pelosa. Nel momento in cui non si trovano altri argomenti ci si aggrappa alla necessità di proteggere il giudice dal rischio della decisione. Si dimentica o si finge di dimenticare che il rischio della decisione è la sostanza ultima del “mestiere di giudice”. E poi mi chiedo: perché ci si preoccupa di sostituire il singolo magistrato con un collegio in fase di esecuzione e non si ha la stessa premura per il giudice che ordina le misure cautelari?”. Perché nell’esecuzione il principio di umanità si impone in modo per qualcuno insopportabile? “Ecco, ci arriviamo tra un attimo. Vorrei prima segnalare che tante preoccupazioni sono sorprendentemente, diciamo così, rivolte verso quello stesso giudice sul quale si scarica magari una funzione sussidiaria nelle tematiche relative al rapporto tra diritto penale ed economia. Non aggiungo altro se non il fatto che simili responsabilità finiscono per esondare dal carico istituzionale e costituzionale che in realtà spetta al giudice”. Ma insomma, un giudice di sorveglianza è affidabile o no? “Lei ironizza, evidentemente. Mi pare chiaro che dietro la preoccupazione per i presunti nuovi rischi a cui la sentenza sul 4bis esporrebbe i magistrati di sorveglianza vi sia tutto quello sfondo di sostanziale sfiducia nei confronti dei giudici che assumono decisioni ritenute troppo clementi, troppo buone. Vi è cioè quella ricerca di automatismo legislativo che sottrae al giudice il suo preciso compito di valutazione del caso concreto: si pensi alla riforma alla legittima difesa”. Come quella sulla Rigopiano? “Ecco, è l’altra faccia della stessa medaglia. È il motivo che mi spinge a parlare di carità pelosa. È doveroso che i giudici, tutti, siano adeguatamente protetti; non è accettabile diffidare di loro per il semplice fatto che si distaccano dalle aspettative dell’opinione pubblica”. La sentenza sul 4bis ha riaffermato il principio di umanità della pena? “Lo ha fatto nella misura in cui ha ricordato che la pena non può mai essere priva di speranza, altrimenti è appunto disumana e contraria alla dignità. Ma la Corte si è soprattutto allontanata da un’idea di esecuzione penale incentrata esclusivamente sull’inasprimento della sanzione, sulla vendetta. Inasprimento che troppo spesso non è tanto proporzionato alla gravità del fatto quanto ad altre finalità come quella di evitare la prescrizione. Ha implicitamente disvelato come una simile visione rischi di celarsi dietro alcune delle argomentazioni finora richiamate per difendere il nesso assoluto fra permessi e collaborazione: mi riferisco alla cosiddetta immodificabilità del dna mafioso. Ora, nel comunicato che riporta le motivazioni della Consulta, si ricorda che la pronuncia sui permessi riguarda tutti i reati assoggettati all’ostatività dell’articolo 4bis. E noi sappiamo che la categoria ormai comprende anche fattispecie del tutto estranee alla mafia, come la corruzione. La legge che ha esteso il regime ostativo alla corruzione segnala proprio quell’idea tutta basata sull’inasprimento delle pene di cui le dicevo”. “Non si può punire chi non collabora”: esemplare. Ma perché la Corte ci arriva solo ora? “La disumanità di una pena senza speranza era venuta da tempo all’attenzione della Corte, anche a proposito dell’ergastolo. In quel caso la si è superata in virtù di una contraddizione: nel senso che a un “fine pena mai” illegittimo nella sua dichiarazione si è contrapposta la legittimità della sua esecuzione, offerta dalla prospettiva della liberazione condizionale, quando sia meritata. Rispetto al 4bis, nel 2003 ricordo bene, da giudice costituzionale, le perplessità all’interno della Corte, che impedirono di accogliere la questione di legittimità costituzionale posta dalla Cassazione. Però nello stesso tempo si è passati poi progressivamente per le pronunce sui casi di collaborazione inesigibile e di ammissibilità alle misure alternative in casi come quello della madre che deve accudire figli piccoli. Certo, solo con la conclusione di questo percorso, la Corte costituzionale ha avuto ora il coraggio di quell’affermazione così netta: non puoi punire qualcuno solo perché non collabora”. Quali sono gli altri pilastri della decisione? “Il primo: la presunzione secondo cui chi non collabora conserva legami con l’organizzazione criminale non è irragionevole ma non può essere assoluta. Secondo: una simile presunzione impedisce al giudice di valutare in concreto il percorso del singolo condannato. Terzo: sempre quella presunzione assoluta si fondava su una presunzione statistica che non ammetteva controprova. Si escludeva che un detenuto ostativo potesse rifiutare la collaborazione per motivi diversi dal suo legame con la organizzazione criminale. Naturalmente la Corte ha indicato criteri rigorosissimi per la valutazione dell’effettiva rescissione di quel legame. Serve una prova che abbia la stessa forza di quel legame, basata anche su quel sistema di controlli da parte degli organi di polizia e di valutazioni dalla Procura nazionale antimafia che possono avere un rilievo ostativo molto rilevante, e che tengono conto anche del contesto esterno, non solo di quello personale in carcere”. Ma la sentenza sui permessi è il primo passo verso il superamento dell’ergastolo ostativo? “Non faccio pronostici da allibratore, mi perdoni. Penso, questo sì, che la tendenza debba essere quella di un superamento di una concezione che sta affermandosi e che non mi sembra condivisibile. Mi riferisco al paradosso per cui nell’accertamento processuale si dovrebbe giudicare il fatto e la pena e invece ora si giudica l’uomo, vale a dire il “mafioso” o il “corrotto”. Tanto è vero che le pene previste, ad esempio, per la corruzione impropria sono diventate ad esempio quasi più aspre di quelle previste per la corruzione propria, come se si guardasse appunto alla natura insuperabile di corruttore e non al fatto specifico. Allo stesso modo nella fase di esecuzione si è andati verso il rovesciamento del principio per cui occorre giudicare l’uomo e il suo percorso rieducativo: adesso si pretende di veder giudicata, nell’esecuzione, anche, se non soprattutto, la gravità del fatto in sé. Mi auguro questo sì, che la smettiamo di ragionare per apriorismi e per affermazioni di tipo dogmatico e torneremo a difenderci da chi viola un unico codice penale, e a farlo nei limiti delle regole del codice di rito e secondo la Costituzione. Senza distinguere tra codice penale e processuale per il nemico e codice per tutti gli altri”. “Siamo a rischio da sempre, ma alcuni magistrati se ne ricordano solo ora” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 dicembre 2019 Permessi-premio: parla Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma. “La decisione della Consulta ci restituisce quella attività di giurisdizione che la preclusione e l’automatismo imposti dall’art. 4bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario avevano congelati”. “abbiamo giurisdizione nazionale esclusiva sui reclami, sull’imposizione o la proroga del 41bis e sulle istanze avanzate dai collaboratori di giustizia”. “La caduta della preclusione rende giustizia al diritto alla speranza di ogni persona detenuta e amplia l’ambito di giurisdizione della Magistratura di Sorveglianza, quale giudice dei diritti delle persone detenute”. Maria Antonia Vertaldi, da due anni presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, commenta al Dubbio la sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, primo comma, dell’Ordinamento penitenziario. Dottoressa Vertaldi, ritiene che anche chi si è macchiato di gravi delitti ed è stato condannato per mafia e terrorismo abbia diritto alla speranza? “Ritengo che non si debba mai privare nessuno del “diritto alla speranza come diritto di ricominciare”. Papa Francesco rivolgendosi ai detenuti ha detto: “Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza” e li ha invitati ad avere “il coraggio umile di chi non mente a sé stesso”. Ha così indicato loro la via della revisione critica del proprio passato al fine di iniziare un cammino nuovo che potrà comportare anche rescissione di legami criminali e, di conseguenza, scemare sensibilmente il profilo di pericolosità sociale di chi ha commesso reati anche molto gravi. È anche il verificarsi di tale percorso che la magistratura di Sorveglianza dovrà accertare per poter fare accedere anche i condannati per reati di criminalità organizzata a permessi - premio pur in assenza di collaborazione con la giustizia, la quale penso abbia dato e dia i suoi frutti nel contrasto alla criminalità organizzata. Non so quante siano, tuttavia, le scelte collaborative “libere”. In ogni caso sono servite a chi le ha operate e sono servite a chi le ha utilizzate per riconquistare territori massacrati. Non credo, tuttavia, che collaborazione con la giustizia sia anche necessariamente ravvedimento, rieducazione e volontà di fare per gli altri in una ottica riparativa. Sarà interessante anche verificare il numero delle collaborazioni che interverranno a seguito della sentenza della Corte costituzionale. La magistratura di Sorveglianza saprà cogliere dai risultati del trattamento condotto in carcere, caso per caso, tutti gli elementi necessari per la più corretta formulazione del giudizio prognostico, ipotizzando all’uopo anche l’adozione di protocolli operativi di indagini patrimoniali al fine di far confluire nel procedimento concreti elementi di fatto e non solo generiche affermazioni circa la attualità della sussistenza delle diverse organizzazioni criminali e la appartenenza ad esse dei diversi soggetti. Si tratta di un giudizio di valutazione, complesso e composito, rigoroso come sempre, sul profilo di pericolosità sociale del condannato detenuto e sulla sua partecipazione al trattamento condotto nei suoi confronti, più che sulla mera condotta carceraria. Viene valutato il suo allontanamento dalle organizzazioni criminali ed esaminato il contesto socio-familiare nel quale il soggetto dovrebbe pur brevemente rientrare”. Molti hanno criticata questa decisione perché così i magistrati di Sorveglianza potrebbero essere ricattati e/o minacciati al fine di concedere i benefici ai detenuti. Il presidente della Consulta Lattanzi ha risposto “Non abbiamo giudici che si fanno intimorire”... “La magistratura di Sorveglianza ha sempre esercitato la sua peculiare giurisdizione con grande responsabilità. Per quanto ricordi, il tema “possibilità di intimidazione” del magistrato di Sorveglianza non si è mai posto. Né mai alcuna straordinaria particolare tutela è stata adottata, ad esempio, per i magistrati di Sorveglianza, nemmeno per quelli del Tribunale di Sorveglianza di Roma che di volta in volta compongono i collegi giudicanti in materia di art. 41bis dell’Ordinamento penitenziario, contrariamente a quanto accade, sempre a mero esempio, per i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia che partecipano alle medesime udienze. L’esposizione a rischio minaccia è da ritenersi verosimilmente uguale per il giudice penale, per il Pm e per il magistrato di Sorveglianza. Enfatizzare oggi una ipotetica maggiore esposizione del magistrato di Sorveglianza nel momento in cui quest’ultimo opera nella materia oggetto della pronuncia della Corte costituzionale in parola conduce al risultato, certamente non voluto, di riconoscere quasi una astratta forza intimidatoria posta a presidiare tale giurisdizione e, dunque, una vulnerabilità della magistratura di Sorveglianza. La decisione della Consulta, invece, restituisce alla magistratura di Sorveglianza, che deve essere però dotata di adeguato organico per bene operare, quella attività di giurisdizione che la preclusione e l’automatismo imposti dall’art. 4bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario avevano congelati”. Dalla sua esperienza, come giudica la concessione di misure alternative? “Rilevazioni statistiche nazionali ed internazionali evidenziano come l’espiazione della pena, o parte di essa, in regime alternativo alla detenzione contenga molto il rischio di ricadere nella commissione del reato. In effetti la necessità di dedicarsi a uno stabile lavoro o altra attività socializzante, il doversi adoperare nei confronti della vittima del reato e tutte le altre prescrizioni responsabilizzanti che il tribunale di Sorveglianza, caso per caso e sulle rilevate esigenze, impone sulla base della osservazione condotta in carcere dal condannato da professionisti esperti, aprono a quest’ultimo la via della legalità e del rispetto delle regole di civiltà. Deve, tuttavia, dirsi che non tutte le misure alternative hanno buon esito e che in ordine alla loro concessione incidono in negativo alcuni fattori. La mancanza di offerta di lavoro e di accoglienza da parte del territorio per chi risulta portare lo stigma del detenuto. La mancanza di idoneo domicilio e riguardo a soggetti portatori di dipendenze, l’assenza, la genericità e/o l’inadeguatezza dei piani terapeutici indicati nonché, il ridotto numero di Comunità terapeutiche accreditate specialmente per l’accoglienza e cura soggetti con doppia diagnosi”. Molti avvocati lamentano che nel tribunale di Sorveglianza di Roma persista una “intollerabile situazione che da tempo contraddistingue l’esercizio delle legittime prerogative difensive”... “Solo recentemente sono state coperte le tre vacanze nell’organico dei magistrati. La situazione del personale amministrativo è tragica in quanto presenta una scopertura complessiva attuale vicina al 37%, che sarà del 40% tra pochi mesi. Nelle sedi competenti nessuna iniziativa risolutiva, sempre richiesta, è stata adottata. Il tribunale di Sorveglianza di Roma ha un bacino di utenza esteso a tutto il Distretto della Corte di Appello di Roma con tre Uffici di Sorveglianza (Roma, Frosinone e Viterbo). Parliamo di un territorio sul quale insistono tredici gli Istituti di pena. Il tribunale di Sorveglianza di Roma esercita, inoltre, giurisdizione nazionale esclusiva in ordine ai reclami avverso la imposizione e/o la proroga del regime di cui all’art. 41bis dell’Ordinamento penitenziario e in ordine alle istanze avanzate dai collaboratori di giustizia. Iniziative di riorganizzazione degli uffici sono state da me assunte sia riguardo alla creazione di strutture amministrative, orientate a rendere più fluide e veloci le lavorazioni delle diverse procedure, sia riguardo all’organizzazione del lavoro dei magistrati. Purtroppo la mancanza di risorse umane da impiegare condiziona negativamente i risultati auspicati. Anche la inadeguatezza dei locali destinati agli Uffici, nonché la loro insufficiente informatizzazione, frustrano molto non solo l’utenza ma, anche lo stesso personale amministrativo oltre che i magistrati che tutti i giorni, anche con grande impegno, lavorano in una tale situazione di disagio. Tale realtà lavorativa genera la intollerabile situazione che da tempo contraddistingue l’esercizio delle legittime prerogative difensive, come talvolta l’avvocatura lamenta. Il ministro della Giustizia nell’immediatezza della pronuncia della Corte costituzionale sul primo comma del 4bis ha affermato che la questione merita priorità. Mi auguro che lo sia anche al fine della predisposizione delle risorse e dei mezzi per consentire la migliore conduzione della ulteriore attività complessa della magistratura di Sorveglianza che la pronuncia suddetta richiede”. Innegabile è il problema del sovraffollamento. La soluzione è quella della costruzione di nuove carceri? “Rendere migliore la vita di chi è in espiazione di pena detentiva pensando innanzitutto agli spazi, secondo il dettato della Cedu, è giusto. Penso, tuttavia, che non sia la sola costruzione di nuove carceri a poter risolvere il problema del sovraffollamento. Credo che sia contemporaneamente necessario dare dei contenuti alla pena detentiva affinché diventi veramente occasione per il condannato di riflessione sul suo vissuto, di responsabilizzazione e di progettazione di un proprio futuro, nell’ottica del contenimento del rischio di recidiva in una dimensione di prevenzione generale della criminalità nonché del sovraffollamento carcerario. Inoltre, in una auspicata revisione generale dell’intero sistema dell’esecuzione penale, occorrerebbe individuare altre tipologie di pene, diverse da quella detentiva e nell’alveo delle misure alternative. Tenendo presente che le prescrizioni, imposte e formulate sulla dichiarata volontà del soggetto, in una sorta di “patto” di voler fare per sé e per gli altri, siano più responsabilizzanti per il condannato e, dunque, più rispondenti all’esigenza di tutela della sicurezza sociale. Bene sarebbe, infine, aumentare il numero di Istituti a custodia attenuata per particolari categorie di soggetti condannati a pena detentiva, con particolare riguardo ai portatori di dipendenze e di doppia diagnosi nonché, alle esigenze delle detenute con prole in tenera età”. “Polizia, oltre il penitenziario”, quel video promozionale che desta perplessità di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 dicembre 2019 Un video molto “fisico” nel quale non si vede mai il carcere né il lavoro negli istituti con le persone recluse. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, ha chiesto al ministro spiegazioni sulle finalità e le modalità di preparazione del video. Da qualche tempo circola in rete un video promozionale dell’addestramento della Polizia penitenziaria che desta un po’ di stupore e qualche perplessità: pochi minuti per illustrare una giornata di training di uomini e donne, affidato a un ente privato, che mostra un’immagine del Corpo poco dedita al rapporto con i detenuti e molto più simile a una sezione d’intervento per operazioni speciali. Con tanto di armi da fuoco in bella mostra, allenamento fisico in stile marines, tiro al bersaglio, interventi di soccorso, salvataggio di persone in pericolo, arresti in flagranza e tanto altro. Un video molto “fisico”, nel quale non si vede mai il carcere né il lavoro negli istituti con le persone recluse che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha voluto elogiare in occasione della presentazione del calendario della Penitenziaria: “Il ruolo di questi servitori dello Stato, troppo spesso dimenticati, non si limita alla sorveglianza, ma comprende il fare in modo che i detenuti abbiano un percorso di rieducazione che li porti a non delinquere più”. Di questo aspetto - il principale - sottolineato dal Guardasigilli non c’è però traccia nel filmato realizzato con personale del penitenziario milanese di Opera e, sembra, qualche figurante, nel quale compare il logo di questa branca di polizia che conta circa 38.000 arruolati. Non si tratta di una promozione ufficiale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma è stato realizzato con personale e materiale dell’amministrazione. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, ha chiesto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede spiegazioni sulle finalità e le modalità di preparazione del video, preoccupato per la visione che se ne ricava della funzione degli agenti di custodia e il tipo di approccio al loro lavoro. Qui potete vedere il video: https://www.youtube.com/watch?time_continue=187&v=TF4qlKs8hOc&feature=emb_logo Polizia penitenziaria. Bonafede: “negli ultimi anni assunti oltre 2.000 agenti” ansa.it, 6 dicembre 2019 Calendario 2020 dedicato ai 30 anni dalla riforma. “Costantemente trovo servitori dello Stato all’interno delle carceri che sono stati dimenticati per decenni, eppure ci credono ancora. Trovo passione, determinazione, coraggio e discrezione”. Parla così del Corpo di Polizia Penitenziaria il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede alla presentazione del calendario, che celebra il trentesimo anniversario della riforma del 1990. “L’agente penitenziario - ha detto il ministro - non svolge un lavoro di sorveglianza e basta. Il suo ruolo è fare in modo che il detenuto abbia un percorso di rieducazione che lo porti a non delinquere più, e questo riguarda la sicurezza di tutti noi”. Bonafede ha spiegato anche che l’anno scorso sono stati assunti 1.300 agenti, 754 quest’anno: “Investiamo in un Corpo di polizia che non sarà mai più di serie b. Il riordino lo pone su un piano uguale alle altre forze di polizia. Si stabilisce che la Polizia Penitenziaria avrà un ruolo importante nelle procure, nella magistratura di sorveglianza e in Eurojust”. La riforma del 1990 ha portato la smilitarizzazione, l’accesso delle donne con pari funzioni, la partecipazione alla attività rieducative dei detenuti. Sono oltre 38mila i poliziotti penitenziari, donne e uomini che lavorano nelle carceri e non solo. Come ha spiegato il capo del Dap, Francesco Basentini: “Da quando si è passati alla demilitarizzazione si sono valorizzati i compiti extra-penitenziari. Dall’altro lato il ministero cerca di portare il carcere anche all’esterno”, nel caso dei lavori di pubblica utilità i poliziotti penitenziari svolgono “sorveglianza proattiva fuori dal carcere, ad esempio per quei detenuti che curano i giardini a Roma”. “Le doti della Polizia Penitenziaria? La fedeltà e il coraggio, non è facile lavorare in un carcere, ogni giorno subiscono e gestiscono emergenze”, conclude. Le foto del calendario sono state scattate nelle carceri, da Nisida a San Vittore, e nella Scuola della Polizia Penitenziaria Parma. È stato stampato in 45mila copie nella tipografia di Sant’Angelo dei Lombardi, che impiega lavoratori detenuti. “Che impresa lavorare dietro le sbarre” di Monica Peruzzi Il Giorno, 6 dicembre 2019 Luciana Delle Donne e il progetto “Made in Carcere”, con cui vengono prodotti accessori di abbigliamento: “È una luce accesa nel buio”. Tendere la mano a chi ha sbagliato, dare una seconda opportunità a quelle donne che stanno pagando un conto in sospeso con la giustizia, il carcere inteso davvero come luogo di rieducazione, come vuole l’articolo 27 della nostra Costituzione, per reintegrare nella società coloro che dalla società sono stati emarginati a causa dei reati che hanno commesso. Soprattutto le donne, che della popolazione carceraria italiana rappresentano un abbondante 4 per cento e che spesso finiscono dentro per reati minori, dallo spaccio di droga alla prostituzione. “Lo scenario è disperato, dietro le sbarre, per questo è importante dare a queste donne gli strumenti per diventare indipendenti economicamente, permettere che acquisiscano competenze e fiducia nelle loro capacità”, mi spiega Luciana Delle Donne, mente e cuore del marchio ‘Made in Carcerè. “Le nostre ragazze stanno facendo miracoli. È come se avessimo acceso una lampadina nel buio, perché per la prima volta si sentono al centro dell’attenzione di qualcuno che crede in loro, scoprono doti che non immaginavano di avere”. Luciana ha dato vita ai suoi marchi dopo aver lavorato per 20 anni nell’alta finanza. Prima tacco a spillo e collana di perle, 250 dipendenti, vacanze in resort esclusivi e una vita segnata dal lusso. Poi qualcosa cambia, a guidarla forse un po’ della follia che la contraddistingue. Chi la conosce bene non esita a definirla, bonariamente, un po’ pazza. E se i pazzi sono sognatori che restano svegli (questa l’abbiamo rubata nientepopodimeno che a Freud) lei ha saputo sognare non soltanto per sé. “Mi sono sempre occupata di innovazione - racconta - prima tecnologica, ora sociale. La curiosità mi ha spinto a cambiare vita, perché mi rendevo conto che il mondo reale era molto diverso dalla gabbia dorata che conoscevo. Sono sempre stata molto ambiziosa, volevo solo dimostrare che potevo vincere su tutto, fare carriera. Eppure, le persone che rimanevano ai margini mi facevano stare male. Se abbiamo intelligenza e cuore, abbiamo anche il dovere di far crescere gli altri”. Ora Luciana continua a essere “ricca”, ma in una maniera completamente diversa, grazie a tutte le donne che ha aiutato a rimettersi in gioco e a uscire dalla spirale di violenza ed emarginazione in cui erano finite, che le hanno restituito, ognuna in maniera differente, un po’ di quello che hanno ricevuto. “Made in carcere” sono piccoli accessori, come braccialetti o borse, realizzati utilizzando i materiali di scarto che le più importanti aziende della moda italiana non utilizzano, in modo da ridare loro nuova vita ed evitare che finiscano nell’inceneritore. “Il turnover è violento, fra trasferimenti e uscite - spiega Luciana. Abbiamo bisogno che i prodotti siano facilmente realizzabili”. Intanto, dopo aver imparato i rudimenti di un lavoro, queste donne possono diventare imprenditrici, mettere in piedi un modello di economia rigenerativa che va a trasformare il tessuto economico e sociale delle periferie. Arrivare ai margini, facendoli tornare al centro della vita di una comunità, partendo da chi, ai margini, ci è finito, per scelte sbagliate. “Noi diciamo che i nostri sono ‘valori forzati’ - sorride Luciana - Nel futuro sto pensando proprio a un progetto per monitorare l’impatto sociale che generiamo. Il lo chiamo il BIL, il benessere interno lordo”. Ma intanto, l’orizzonte di “Made in carcere” si è allargato dalle donne ai minori, a cominciare da quelli che vivono con le madri negli appositi centri di detenzione, ragazzi spesso fragili che, statistiche alla mano, hanno più possibilità di finire, a loro volta, dietro le sbarre. E non solo. “Stiamo lavorando con i minori detenuti con un progetto sull’educazione alimentare. In una pasticceria di Bari produciamo questi biscotti che abbiamo chiamato “scappatelle”. Stiamo aspettando la certificazione del biologico”. Quella mano tesa a chi ha sbagliato, è anche un modo per ricordarci il dovere che abbiamo, soprattutto verso noi stessi: mettersi in gioco, anche quando la partita sembra persa, provarci. Perché la vita è fatta di scelte, non di occasioni. Lo yoga nelle carceri come terapia riabilitativa vanityfair.it, 6 dicembre 2019 “Yogamare Retreats”, il progetto di Ela Mare intende portare questa antica disciplina nelle carceri, luogo di isolamento ed emarginazione, come terapia di guarigione rivoluzionaria di corpo e spirito. Le origini dello yoga si perdono nei secoli. Questa antichissima disciplina orientale, nata in India, è una vera e propria filosofia di vita per collegare in armonia attraverso le asana (posizioni) e il controllo del respiro, corpo e mente, testa e cuore. Il Saluto al Sole, per esempio, è una sequenza dinamica di asana che ha effetti benefici per il corpo e per la mente. Basta praticarne dieci saluti al sole ogni mattina per permettere al corpo di lasciarsi andare e di eliminare stress e tensioni, per tonificare le articolazioni, i muscoli e gli organi interni, per migliorare la postura, la flessibilità e l’equilibrio, per stimolare il sistema cardio vascolare, ossigenare il sangue e rinforzare il cuore. Questa disciplina, in origine, aveva un approccio più mentale, era un modo per superare un livello ordinario di vita e creare, attraverso l’unione di corpo e mente, una via per raggiungere una realtà straordinaria, non quotidiana. Quando approda in Europa, a metà dell’800, lo yoga applica una visione più ampia dell’esistenza alla vita quotidiana. Insomma, lo yoga può davvero essere utile per migliorare sé stessi a 360° tanto da essere stato introdotto in alcune carceri degli Stati Uniti e italiane. Nonostante la mancanza di fondi e (forse) la poca attenzione sociale all’importanza rieducativa carceraria rendano questi propositi di non facile applicazione, c’è chi ci crede fortemente tanto da fondare un’associazione a supporto. Stiamo parlando di Ela Mare, che dopo anni di esperienza, attraverso la sua l’associazione Yogamare Retreats, ha deciso di portare esercizi di respirazione, meditazione, mantra nelle carceri, luogo di isolamento ed emarginazione, come terapia di guarigione rivoluzionaria di corpo e spirito. “Dalla mia esperienza come insegnante e guida spirituale, la pratica della meditazione/yoga è incredibilmente potente nel curare anche diverse forme di dipendenza, depressione e disturbi cognitivi, agendo direttamente sul sistema nervoso, creando un ambiente fisiologico e piscologico ed emozionale più equilibrato e consapevole”, spiega. Un progetto ambizioso, ma che potrebbe essere estremamente efficace in ambito riabilitativo. E anche se troppo spesso si tende a dimenticarlo, il presupposto fondamentale della detenzione carceraria è proprio rieducare il condannato, esattamente come sancito dall’articolo 27 (comma 3) della nostra Costituzione (“le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”). L’integrazione di corpo mente e respiro, percorso e fine ultimo dello Yoga, dona alle persone che lo praticano uno strumento di auto osservazione esterna ed interna, di capacità di restituirsi autonomamente calma e concentrazione soprattutto in casi di criticità individuale o ambientale. Questa possibilità, in condizioni di detenzione, assume un’importanza vitale. In più, attraverso il lavoro di gruppo, promuovendo il rispetto del corpo e della dignità propria e altrui è possibile rinnovare la consapevolezza dei valori utili al proprio benessere interiore e funzionali a quello che vorremmo come progetto ultimo della detenzione: favorire un reinserimento sociale dignitoso e di successo duraturo. Giustizia, la tregua che nasconde le ambiguità di Carlo Nordio Il Messaggero, 6 dicembre 2019 Pare che il governo, e la legislatura, non cadranno a causa del conflitto emerso nella maggioranza sulla legge che sospende la prescrizione. La politica è l’arte del possibile e anche dell’impossibile, e nulla impedisce che le parti invertano i ruoli e si confondano in una ennesima transazione compromissoria, arbitrata da un premier che si è sempre definito soprattutto un avvocato. Sappiamo che le parti si sono avvicinate e che un compromesso è all’orizzonte sulla riforma del processo breve. I grillini insistono sull’entrata in vigore immediata; i democratici la subordinano all’approvazione di una riforma del processo penale; i renziani, consapevoli che questa riforma è di là da venire, si dicono pronti a votare con l’opposizione per un rinvio. Qualcuno può anche pensare, e molti lo pensano, che il dissenso della vigilia occulti un più generale sfaldamento della maggioranza, nel cui ambito si affronterebbero due forze: l’una decisa a stare al proprio posto per “il bene del paese” o, come insinuano i maligni, per salvare la poltrona; l’altra convinta che la corda, ormai troppo tirata, si debba spezzare, per non arrivare logorati alle prossime elezioni regionali e comunque per non assecondare un inarrestabile declino lasciando il posto a nuove formazioni più o meno spontanee. Non intendiamo attribuirci funzioni oracolari davanti all’ enigma avvolto in un indovinello dentro un mistero che è oggi la nostra direzione politica. Ma ci preme sottolineare che, ancora una volta, il contrasto più dirimente si è acceso sulla giustizia. Ma mentre un tempo gli schieramenti erano, sia pur grossolanamente, identificabili e definibili, oggi il tradizionale binomio tra la sinistra giustizialista e la destra del Cavaliere, può dirsi sfumato. Ne è esempio lo stesso ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che, pur nella sua concezione essenzialmente giacobina, ha proposto il sorteggio dei membri del Csm, tesi che i magistrati respingono con orrore e che a suo tempo è stata sostenuta da varie formazioni garantiste. D’altro canto, contro questa mostruosità della prescrizione si sono pronunciati illustrissimi giuristi mai sospettati, né sospettabili, di simpatie berlusconiane. Tutto questo avviene mentre la credibilità della nostra Giustizia è caduta a livelli algebrici: lo Stato non riesce a recuperare i miliardi delle multe irrogate ai condannati; inchieste lunghe e costose si concludono con generalizzate archiviazioni; il destino della più grande acciaieria italiana è ipotecato da due inchieste giudiziarie virtualmente incompatibili, con la prospettiva bizzarra che la soluzione venga demandata al tribunale civile; Renzi, e non solo, lui, guarda perplesso a centinaia di perquisizioni presso terzi non indagati; mentre tutti aspettano l’esito dell’inchiesta che ha decapitato il Csm, e che dopo le fulminanti rivelazioni sul giudice Palamara si è assopita in un limbo insondabile. In questo deplorevole sfacelo, che tra l’altro ci costa quasi due punti di Pil, raziocinio vorrebbe che la politica si attivasse ad abbreviare i processi penali e civili, render più certe le sanzioni, evitare le inchieste evanescenti e le intercettazioni invasive, modificare la carcerazione preventiva, eliminare i reati inutili, cambiare un codice penale firmato da Mussolini, e tante altre cose, per coniugare le garanzie degli imputati con quelle delle vittime. Ecco invece che si impantana in una questione che per coscienza civica e vincolo costituzionale dovrebbe essere semplicemente rimossa: perché, ripetiamolo, con questa riforma sulla prescrizione, i processi si allungheranno all’infinito. Ben più grave di questa conseguenza devastante, è comunque l’atteggiamento ondivago del governo. Il premier Conte e il ministro Bonafede avevano solennemente promesso che questa riforma sarebbe stata contestualmente accompagnata da quella volta a ridurre i tempi processuali, mentre ora pare viaggiare da sola. Mancare alla parola data, non è una bella cosa, neanche nello spregiudicato anfiteatro della politica. Prendiamo dunque per buona l’intenzione del compromesso che arriverebbe a consegnare entro l’anno un impegno solenne che accompagni la prescrizione lunga al processo breve. Di sicuro, se realizzata, sarebbe un segno di ravvedimento. Che poi sia dettata più dall’istinto di sopravvivere dei governanti o da un soprassalto garantista del Pd, poco importa. L’importante è che sia messa nero su bianco. E che metta al riparo i cittadini dal terribile rischio di una doppia mannaia. Prescrizione, tutto ma non la crisi: pronta “l’ultima offerta” Pd ai 5S di Errico Novi Il Dubbio, 6 dicembre 2019 Orlando e Franceschini siglano la tregua con Di Maio e Bonafede: “addio legge Costa”. Ci sono momenti in cui ci si trova davanti al baratro. E si riflette. Al Pd e ai 5 Stelle dev’essere successo proprio questo. Nel giro di poche ore, addirittura di minuti, prima Luigi Di Maio dice che “sulla prescrizione le buone proposte sono ben accette”. Poi Andrea Orlando apprezza “il passo avanti, l’attenzione di Bonafede” e “il tono diverso” del capo politico. Quindi spiega: “È il momento di interrompere la discussione a distanza e di fare proposte concrete, non vogliamo essere accusati di non aver cercato una soluzione”. E la soluzione, come chiarisce sempre il vicesegretario dem, “è stata annunciata al ministro Bonafede: mi riservo di telefonare al presidente del Consiglio per spiegargliela”. In realtà la proposta è chiara. Non solo. E stata anche accennata al guardasigilli. Perché le rassicurazioni, e il tono giustamente spiccio che Orlando sceglie per il bollettino con i cronisti, arrivano molte ore dopo la conversazione col suo successore a via Arenula. Conversazione mattutina e altrettanto schietta, in cui il numero due Nazareno assicura che “invieremo in modo formale tra pochi giorni”, un’ipotesi normativa. Evita di farsi dire no prima di porre la questione, perciò non entra nei dettagli. Ma in realtà la exit strategy che a breve i democratici offriranno a Bonafede funziona più o meno così: “Lasciamo perdere la prescrizione processuale, rassegnamoci pure a far entrare in vigore la tua norma che blocca i termini dopo il primo grado, ma poi modifichiamola nella riforma del processo penale, in modo che il blocco diventi sospensione e sia più lungo di quello già previsto nella mia riforma. Da 18 mesi di stop dopo il primo grado e 18 dopo l’appello, possiamo arrivare a 24 più 24, o al massimo a 30 più 30”. Visto che per alcuni mesi sarà in vigore solo il blocca-prescrizione caro ai 5 Stelle, Orlando già chiarisce che “servirà una specifica previsione che riguardi il regime transitorio del processo”. E cioè, considerato che la norma del Pd finirà nella più ampia riforma penale, destinata a diventare legge se tutto va bene a primavera inoltrata, si dovrà prevedere che le persone accusate di reati commessi nell’intervallo tra blocca-prescrizione e successivo aggiustamento dovranno beneficiare del regime a loro più favorevole, cioè del secondo. Come finirà? Bonafede sembra prudente. Poche ore dopo aver sentito Orlando, si limita a dire che “con il Pd abbiamo praterie a disposizione per rendere più veloci i processi”. E alza un muro sull’altra ipotesi ventilata nei giorni scorsi dall’alleato, la prescrizione delle fasi processuali “Vorrebbe dire far rientrare dalla finestra la prescrizione uscita dalla porta”. Però dice anche di non poter credere che “maggioranza M5s- centrosinistra possa mettere in crisi il governo sulla prescrizione”. E soprattutto confessa la sua “massima, totale e sincera disponibilità a vagliare le proposte del Pd e delle altre forze della maggioranza”. Ieri, intanto, ha finalmente potuto portare in Consiglio dei ministri almeno il testo di riforma del processo civile. Il capo politico forse si sbilancia un po’ di più del ministro. Dice che “sulla prescrizione ogni buona proposta che punti a far pagare chi deve pagare e vada dunque nella direzione auspicata dal M5s è ben accetta”. Basta che non si minaccino “proposte individuali con l’unico fine di alimentare spaccature interne”. Tradotto: Di Maio è ben felice che il Pd abbia almeno per ora rinunciato all’idea di proporre un testo di legge con la prescrizione processuale a prescindere dal consenso del Movimento, e a costo di votarselo con Renzi e il centrodestra. E oltretutto, il ministro degli Esteri sa bene che mentre lui parla, i deputati suoi e di Zingaretti in commissione Giustizia hanno negato a FI, Lega, Fratelli d’Italia e alla stessa Italia viva l’accelerazione nell’esame della legge Costa, quella che abrogherebbe tout court la norma Bonafede. “Pd e Movimento 5 Stelle sono protagonisti di un balletto vergognoso”, protesta il responsabile Giustizia degli azzurri. Ma la crisi di goverrno dev’essere sembrata un prezzo troppo alto. La legge Costa non andrà in Aula né prima né subito dopo Natale, il Pd ha accettato di sgombrare il campo dalla mina più devastante. E forse, con quello di Orlando, il sigillo alla tregua lo imprime Dario Franceschini: “Vogliamo un accordo politico sulla ragionevole durata del processo, non è impossibile, non è pensabile avere Salvini a Palazzo Chigi per la prescrizione o la plastic tax”. Metà avvertimento all’alleato, metà distensione. Tutto risolto? In teoria. Il Pd è convinto di avere pronta una proposta che Di Maio e Bonafede non potranno rifiutare: blocca-prescrizione superato, anche se ex post, con una sospensione dei termini allungata dopo primo grado e appello. Si tratterebbe di un appesantimento della riforma Orlando, e sul tavolo con Conte il Nazareno dirà che un simile sforzo dev’essere apprezzato, e che non si può pretendere che un partito, ossia il Pd, rinneghi del tutto una propria riforma per far posto a un’altra che l’alleato ha scritto col vecchio partner, cioè con la Lega. Logico. Il massimo della realpolitik. Ma non del diritto. A Orlando lo hanno detto presidente e segretario dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza ed Eriberto Rosso. Lo hanno visto ieri al Nazareno, in un intervallo della loro instancabile maratona oratoria. “Sulla prescrizione si rischia la contemporanea operatività quantomeno di tre diversi regimi sostanziali”, hanno ricordato al vicesegretario dem. Che è un intelligente ex guardasigilli. Ma che ora dovrà scegliere tra diritto e compromesso. Prescrizione, il Pd propone un “lodo”. Il M5S apre, ma poi ci ripensa di Daniela Preziosi Il Manifesto, 6 dicembre 2019 Orlando sente il ministro Bonafede. Il vicesegretario incontra i penalisti impegnati nella maratona oratoria contro il “fine processo mai”. Poi all’indirizzo dei 5 stelle: serve una moratoria sulle stupidaggini, finisca la discussione a distanza e passiamo alle proposte concrete. La quadratura è difficile ma non impossibile. Sembrano allentarsi le tensioni nella maggioranza sulla legge della prescrizione che ormai l’ex ministro Orlando chiama legge “Bon-Bon”, giusto per ricordare che è figlia tanto del ministro pentastellato Bonafede quanto della ex ministra leghista Bongiorno. La giornata di ieri si è aperta con le dichiarazioni distensive di Di Maio e dello stesso Guardasigilli. Il primo, dimentico di aver accusato il Pd di cercare un nuovo patto del Nazareno, in mattinata spiega: “Non vedo motivo di alimentare tensioni inutili nel governo e non comprendo i toni duri usati negli ultimi giorni da parte di qualcuno. Sulla prescrizione ogni buona proposta che punti a far pagare chi deve pagare e vada dunque nella direzione auspicata dal M5S è ben accetta”. Anche il secondo stempera i toni: “Mi rifiuto di pensare che una maggioranza in cui c’è il M5s e il centrosinistra possa mettere in crisi un governo sulla prescrizione”. Sarà che i 5 Stelle hanno ormai la ragionevole certezza che dal primo gennaio andrà in vigore la cancellazione della prescrizione dopo il primo grado, come da desiderata. Oppure sarà che “Bonafede e Di Maio sono nel panico. Si sono accorti che il rischio di una crisi di governo è reale e concreto”, come dice il forzista Francesco Giro. Fatto sta che nel pomeriggio una telefonata fra Bonafede e Andrea Orlando, ex ministro della giustizia e vice di Zingaretti, riapre il dialogo. Ai cronisti di Montecitorio il dem spiega che “il cortocircuito” sulla legge “Bon-Bon” si può superare a patto di “una moratoria sulle stupidaggini”, “come quelle di Salvini che dimentica che il problema lo ha creato il suo governo”. L’altra stupidaggine “è evocare casi di prescrizioni che non sarebbero stati risolti con la legge che entrerà in vigore a gennaio, come Eternit in cui la prescrizione è arrivata prima del processo”. Insomma, spazzando via la propaganda leghista ma anche grillina l’accordo è possibile. Al ministro, Orlando annuncia che il Pd presto consegnerà a lui e a Conte “una proposta che conterrà anche l’esigenza di gestire la fase transitoria”. Non si parte da posizioni radicalmente opposte, tranne che sulla prescrizione, “nel ddl Bonafede ci sono cose, sul processo penale o sulla riforma del Csm, che condividiamo”, spiega. Orlando non nega che la quadratura del cerchio “è difficilissima”, ma intanto “è il momento di interrompere la discussione a distanza e di fare proposte concrete”. Ottimista anche il dem Michele Bordo, uno degli sherpa in parlamento: “Abbiamo finalmente ascoltato toni diversi da parte dei 5 stelle, prendiamo atto di una disponibilità a costruire convergenze”. Dal Pd filtra qualche indicazione sul testo che verrà proposto per la legge delega sulla durata del processo. Dopo il primo grado di giudizio la prescrizione si fermerebbe per 24 mesi, più dei 18 del testo precedente, ma verrebbe introdotto un solido meccanismo di garanzia nel caso i processi si allunghino troppo. Un “lodo”, insomma, da approvare in consiglio dei ministri prima della fine dell’anno. Ma se i 5 Stelle dovessero tergiversare o non accettare modifiche, il Pd ha un piano B: una legge da presentare in parlamento, un “paracadute”, sul quale chiedere il voto libero dei parlamentari. Eventualità estrema. Ma non così remota perché in serata, all’uscita del vertice di maggioranza Di Maio torna ai toni combat: “La prescrizione per noi entra in vigore il 1 gennaio 2020, su questo non si discute” poi “sui tempi dei processi, sulla riforma del processo penale, si può continuare a discutere. Ma se si vuole modificare la spazza-corrotti, non è accettabile”. E all’indirizzo di Orlando: “Non è una sciocchezza parlare dei processi Eternit e di come una serie di furbi l’abbiano fatta franca in questi anni”. È chiaro che gli ondeggiamenti del capo M5S sono dovuti al marasma interno dei suoi. Non è chiaro invece come e quanto il governo potrà andare avanti a queste condizioni. Prima di sentire il ministro, Orlando aveva incontrato gli avvocati penalisti guidati dal presidente dell’Unione delle camere penali Domenico Caiazza. Dall’inizio della settimana - e fino a sabato - stanno tenendo una maratona oratoria a Roma, a piazza Cavour, davanti al Palazzo di Giustizia, per chiedere l’abolizione dello stop alla prescrizione. Un’iniziativa trasmessa in diretta web da Radio Radicale e che sta impegnando centinaia di avvocati da tutt’Italia. Al gazebo ieri mattina è arrivata una delegazione di Italia viva guidata da Maria Elena Boschi. Il giorno prima è stata la volta della destra, la pattuglia di Forza Italia, Lega e Fdi. Ma in questi giorni, alla spicciolata, sono arrivati anche esponenti del Pd e persino due senatori 5s, Urraro e Grassi. Tutti parlamentari che si sono dichiarati pronti a votare per l’abolizione della legge Bonafede. Così come Emma Bonino che per +Europa ha tenuto con loro una conferenza stampa al senato. I penalisti hanno anche ricordato l’appello di 120 docenti universitari. E che con l’Ucpi danno voce a quella parte del paese che, fuori dalle stanze degli equilibristi del governo, è contro il “fine processo mai”. Prescrizione, la mossa di Italia Viva: pronti a bloccare i 5 Stelle di Valentina Ascione Il Riformista, 6 dicembre 2019 Prove di disgelo nella maggioranza, Orlando ribadisce a Bonafede: “Presto le proposte del Pd per abbreviare i processi”. Ma Di Maio tuona: “Valuteremo, ma l’entrata in vigore della riforma non si discute”. Prove di disgelo nella maggioranza sulla riforma della prescrizione. “Accettiamo tutte le proposte sui tempi dei processi ma non sulla norma della prescrizione che deve partire dal primo gennaio”, tuona Di Maio in serata. Ma dopo giorni di muro contro muro, la giornata di ieri restituisce la sensazione che il dialogo tra Pd e il MSS, alla ricerca di un’intesa per superare lo scoglio su cui rischiava di incagliarsi il governo giallo-rosso, sembra essere ripartito. Lo scontro, in corso da settimane, riguarda la norma della “Spazza-corrotti” che dal 1 gennaio prossimo cancellerà la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. La schiarita arriva nella giornata ieri quando i toni tra i due alleati si ammorbidiscono, e in serata il vicesegretario dem Andrea Orlando riferisce di una telefonata con il ministro Alfonso Bonafede per annunciargli che a giorni il Pd sottoporrà a lui e al presidente del Consiglio Conte una propria proposta sulla prescrizione. La giornata si era aperta malissimo. Per tutta la mattina i democratici e i Cinque stelle, infatti, si erano incalzati a distanza con attacchi e minacce incrociate, restando ognuno sulle proprie posizioni. A rompere lo stallo è Italia Viva. Come annunciato, un’ampia delegazione parlamentare, guidata dalla capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi ieri ha partecipato alla maratona oratoria “per la verità sulla prescrizione” davanti alla sede della Corte di Cassazione organizzata dall’Unione delle camere penali per spiegare le ragioni del no alla riforma Bonafede. In questi giorni la piazza dei penalisti - che in più di mille da tutta Italia stanno prendendo la parola per raccontare come questa norma intrappolerà le vite di cittadini imputati, rei e vittime in processi senza fine, in violazione di principi costituzionali fondamentali - sta diventando il teatro dell’agone politico sul tema della giustizia. Prima dei renziani erano stati i parlamentari di Forza Italia a intervenire in numerosi alla maratona, sposando la battaglia degli avvocati e attaccando il Pd che in Aula aveva bocciato la richiesta di discutere subito la proposta di legge dell’azzurro Enrico Costa per fermare l’entrata in vigore della riforma. E anche i democratici Alfredo Bazoli e Walter Verini, al lavoro sul dossier si erano palesati per ribadire la propria contrarietà alla riforma senza garanzie sulla durata dei processi. Prendendo la parola ieri in Piazza Cavour Maria Elena Boschi si è schierata al fianco dei penalisti e ha ribadito la richiesta di una soluzione rapida “vorremmo fosse nell’ambito della maggioranza, che fosse il governo a trovare una soluzione”, ha premesso, ma “se così non fosse, dobbiamo immaginare di individuare in Parlamento delle alternative” ha annunciato, confermando la possibilità di intese cori l’opposizione a cui aveva aperto Matteo Renzi. “Sosteniamo la proposta Costa - ha aggiunto quindi Boschi - era vice ministro del nostro governo, e ha lavorato con il ministro Orlando a una riforma che era la nostra riforma e ora si limita a chiedere di tornare alle proposte dei governi Renzi e Gentiloni”, E proprio Enrico Costa rivela che ieri nell’ufficio di presidenza della Commissione, “i gruppi di Fi, Fdi, Lega e Italia Viva hanno chiesto di fissare un calendario dei lavori che porti al voto la mia proposta entro il 23 dicembre ma Pd e M5S hanno detto no perché “non sanno che pesci pigliare”. Nel pomeriggio arrivano i primi segnali di distensione. Il ministro Bonafede assicura di “non voler aprire una crisi” sulla sua riforma e di vedere “praterie” per un’intesa con i dem. Di Maio saluta come “ben accetta ogni buona proposta”, ma che l’entrata in vigore della riforma non si discute. Per Andrea Orlando “la questione fondamentale ora è come tecnicamente proporre questa difficilissima quadratura del cerchio di una condizione che - ricorda - è stata determinata da una scelta del governo precedente”. Il vicesegretario Pd non entra nel merito delle soluzioni da avanzare a Bonafede e Conte, ma le ipotesi allo studio per mitigare gli effetti del blocco della prescrizione, esaminate ieri una riunione degli esperti dem, sono principalmente due: una è l’allungamento della sospensione della prescrizione dopo il processo di primo grado, portando l’attuale termine di 18 mesi previsto dalla riforma Orlando a due o tre anni. La seconda è una prescrizione processuale, cioè con una tagliola sui tempi dei diversi gradi di giudizio. I penalisti ieri in un incontro hanno ribadito a Orlandola richiesta di “immediate iniziative legislative per la cancellazione della nuova disciplina della prescrizione”. “La complessità delle dinamiche di maggioranza è comprensibile, ma non si può accettare lo scenario dell’entrata in vigore senza se e senza ma della riforma dal I gennaio”, chiarisce il presidente Caiazza. Intanto ieri una mozione per impegnare il governo a fermare l’applicazione del blocco della prescrizione è stata presentata in senato da Emma Bonino e firmata da senatori di Fl e del Psi. La prescrizione, ovvero la bomba atomica che tutti vogliono disinnescare, tranne M5S di Francesco Damato Il Dubbio, 6 dicembre 2019 In attesa di vedere se e come la maggioranza giallorossa riuscirà a trovare in Parlamento a tempo debito un’intesa sul documento che dovrebbe permettere al presidente del Consiglio di partecipare in sede comunitaria alle decisioni sul controverso meccanismo di stabilità o fondo salva- Stati, salgono di tono all’interno della coalizione di governo, e fra una parte di essa e l’opposizione di centrodestra, sulla nuova disciplina della prescrizione che scatterà il 1° gennaio prossimo. I cui effetti, non riguardando i processi in corso ma quelli per i reati da compiere da quella data in poi, hanno reso il presidente del Consiglio un po’ impermeabile alle proteste al pari del guardasigilli, convinti entrambi che vi sia tutto il tempo per interventi correttivi. Contestata invece da fior di giuristi, costituzionalisti e avvocati, ricorsi anche allo sciopero e ad assemblee fuori e dentro i tribunali, la riforma ha già prenotato nel codice il blocco, cioè la soppressione, della prescrizione al momento del giudizio di primo grado. E ciò a prescindere dall’applicazione finalmente concreta e vincolante della “ragionevole durata” del processo stabilita dall’articolo 111 della Costituzione con una modifica risalente - pensate un po’ - a vent’anni fa. Durante i quali l’Italia si è guadagnata in Europa il primato costoso, sotto tutti i punti di vista, delle censure per l’eccessiva e per niente ragionevole lunghezza dei processi. Con la nuova disciplina il primato diventerebbe mondiale. Si realizzerebbe, anche per un imputato assolto in primo grado con una sentenza impugnata dall’accusa, il fenomeno del processo a vita o “dell’ergastolo del processo”, secondo la drammatica ma azzeccata espressione coniata dal sociologo ed ex parlamentare di sinistra Luigi Manconi, noto per una misura di sincero garantismo un po’ controcorrente dalle sue parti politiche, dove sono generalmente garantisti a corrente alternata, secondo i casi personali o le circostanze politiche, per non chiamarle convenienze. Voluta ad ogni costo dai grillini, durante l’esperienza del governo gialloverde con i leghisti, nella cosiddetta legge spazza-corrotti; criticata persino dal Consiglio Superiore della Magistratura ma ugualmente promulgata undici mesi fa dal presidente della Repubblica, e dello stesso Consiglio Superiore, con l’eroica speranza che nel frattempo la maggioranza volesse e sapesse riformare il processo penale per abbreviarne davvero la durata, i nodi della soppressione affrettata della prescrizione sono impietosamente arrivati tutti al pettine. I grillini, confortati dal presidente del Consiglio, fiducioso nel solito compromesso all’ultimo momento e convinti di avere piantato nell’ordinamento giudico una bandiera con le loro mitiche cinque stelle, sono contenti come una Pasqua. E scambiano tutti gli avversari o semplici critici, nella maggioranza e all’opposizione, che reclamano il rinvio della nuova disciplina al momento in cui saranno definiti i tempi davvero “ragionevoli” dei processi, per complici dei delinquenti di ogni risma, o - sul piano politico- del solito e odiato Silvio Berlusconi. Che rimane ai loro occhi il prototipo, diciamo così, del male, pur all’età che ha, con i debiti con la giustizia regolarmente pagati, col ruolo che ancora gli conferiscono liberamente gli elettori e con una qualità di frequentazioni internazionali che i suoi avversari sono costretti a invidiargli. Nello spettacolo delle proteste e delle recriminazioni il ruolo più scomodo e imbarazzante, bisogna dirlo con chiarezza e forza, è quello dei leghisti, senza il cui consenso, la cui tolleranza, la cui disinvoltura - chiamatela come volete- mai e poi mai i grillini sarebbero riusciti a infilare come una supposta la sostanziale e incondizionata soppressione della prescrizione nella legge “spazza corrotti”. A carico dei leghisti, il cui capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha appena accusato il Pd di non avere il coraggio di contrastare davvero la posizione irremovibile del Movimento 5 Stelle, avendo contribuito a negare l’urgenza ad un intervento correttivo proposto dai forzisti, gioca come aggravante la qualità della persona delegata da Salvini nel governo gialloverde ad occuparsi di questa vicenda. È l’avvocato di grido e di grinta, allora ministra della funzione pubblica, Giulia Bongiorno. Che giustamente, con l’esperienza professionale che si ritrova, definì allora, e continua a definire oggi, “una bomba atomica” quella imposta dai grillini. Ma per lealtà o obbedienza politica anche lei dovette fare buon viso a cattivo gioco e scommettere - ahimè - sulla ragionevole e successiva disponibilità degli allora alleati di governo a disinnescare la bomba al momento giusto. Da magistrato dico: la riforma Bonafede peggiora il sistema giustizia di Alberto Cisterna Il Riformista, 6 dicembre 2019 Bisognerebbe guardare al bicchiere mezzo pieno e partire da lì per colmarne l’altra metà. E invece non accade. Partiamo da alcuni dati di fatto confutabili solo a prezzo di un’insopportabile conformismo. I giudici di primo grado sono quotidianamente schiacciati da una mole enorme di fascicoli (spesso urgenti) e quasi mai si stracciano le vesti di fronte a un reato prescritto. Quando qualche imputato rinuncia alla prescrizione lo guardano, in genere, un po’ di traverso con l’aria di uno che cerca rogne. Celia a parte della prescrizione, in verità, il nostro attuale sistema processuale non può fare a meno perché è l’unica valvola di sfogo, è solo il modo con cui i giudici monocratici di quasi tutte le sedi giudiziarie d’Italia sopravvivono al nugolo quotidiano di convalide d’arresto, di procedimenti per omicidio stradali o per colpa sanitaria di grande difficoltà, alla miriade di reati che sono stati rimessi alla sua cognizione e che ogni anno aumentano a dismisura (alcune dozzine in più dal 2008 fa oggi. ma il calcolo è a spanne). Nuovi reati spesso sospinti da una legislazione vittima di emergenze cicliche e che - come sappiamo da anni - scarica nel processo ogni inefficienza e qualunque distorsione sociale. Siamo, tanto per intendersi, la nazione in cui non si riesce a debellare neppure la fastidiosa presenza dei parcheggiatori abusivi, ragion per cui il primo decreto sicurezza Salvini ha previsto per questi il carcere nei casi di recidiva. Si dice che la responsabilità della falcidia prescrizionale sia da addebitare alla riforma messa in piedi dal Governo di centro- destra del 2005, ma questo è vero solo in parte: 1) il fenomeno era imponente anche prima; 2) tant’è che a nessuno viene in mente di tornare al regime precedente suggerendo di abrogare la cosiddetta legge ex Cirielli; 3) la tanto vituperata Prima Repubblica governava, con una certa dose di cinismo e di saggezza, il problema dispensando cicliche amnistie e indulti. Prendiamo in esame questi ultimi due corni del dilemma. Di amnistie inutile parlarne dopo la riforma costituzionale del 1992 che ha imposto “la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. Quanto al perché nessuno proponga di ripristinare il regime ante Cirielli la risposta non è chiara, o forse lo è perfettamente, ma nel feroce dibattito in corso si preferisce mettere lo scomodo inciampo sotto lo zerbino. Azzardiamo un’ipotesi: non si pensa di tornare indietro perché è a tutti evidente che i reati continuerebbero comunque a morire di prescrizione e ciò a causa della grave inefficienza che ingrippa la macchina giudiziaria italiana, persa tra garanzie superflue e organici inadeguati. Tornare indietro vorrebbe dire solo praticare uno stolto accanimento terapeutico capace di far sopravvivere il reato e il processo solo per un po’ più di tempo di adesso, ma mai per un tempo sufficiente ad arrivare a una sentenza definitiva. Con l’ulteriore danno che la massa dei “morituri” ingolferebbe ancora di più le corsie dei tribunali, gremite di malati e di casi d’emergenza, rischiando di portare a morte anche il più giovane virgulto. Secondo la profezia della riforma dal 2023 in poi la questione dovrebbe andare a risolversi. I tribunali da polverosi e mefitici lebbrosari gravidi di processi moribondi diverrebbero provvidenziali sanatori in cui ogni reato commesso dopo il l° gennaio 2020 avrebbe l’insperata chance di essere immune da prescrizione. Tutto ciò grazie a un’ingegnosa terapia: la sentenza di primo grado. Una sorta di miracoloso elisir che darebbe vita eterna al reato e al processo, destinati a sopravvivere, potenzialmente per sempre, dopo la decisione di primo grado. Si discute animatamente di questa cura immaginando che questa possa portare via anche la malattia, ossia le disfunzioni del sistema processuale, ma la questione è più complessa. A nessuno viene in mente di tener in conto i danni arrecati alle parti civili, alle vittime dei reati, alla collettività, ai parenti, ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro chiamati a convivere con un altro malato, questa volta non guaribile e, anzi, contagiato potenzialmente per sempre: l’imputato ovvero il sospetto colpevole. La presunzione di innocenza in Costituzione, lo sappiamo, proclama che nessuno può essere considerato colpevole sino a una sentenza definitiva, ma questa presunzione, in questo Paese, è un bene, come dire, facilmente deperibile e che, spesso, non sopravvive alla prima ondata inquisitoria, soprattutto se ben programmata mediaticamente. I danni collaterali della durata del tutto imprevedibile del processo sono enormi e non solo per gli indennizzi che saranno comunque dovuti dalla Stato per l’irragionevole durata del processo (legge Pinto). Certo gli idolatri dell’azione penale pensano che sono guai dell’imputato il quale, con incomprensibile ostinazione, insiste a proclamarsi innocente anziché patteggiare la sua pena e pretende, pensate un po’, persino un appello in caso di condanna. Ora se tutto il cerino della prescrizione resta nelle mani del giudice di primo grado che deve, con una certa velocità, concludere il giudizio per evitare impicci e rimproveri, un appello è il minimo che ci si può aspettare, perché - statene certi - anche solo il rischio di quella fretta e di quella concitazione impone da solo forza un secondo grado. Naturalmente c’è chi - con spensierata innocenza - pretende addirittura di tenere insieme le due cose. ammirando l’idea di un processo esemplare come l’unico vero deterrente (come negli Usa) per indurre l’imputato alla piena sottomissione alle ipotesi d’accusa. Non dimentichiamo, però, la parte piena del bicchiere. Non è detto che. nel lungo periodo (diciamo dal 2025 in poi), le corti d’appello e la Cassazione vedrebbero per forza aumentare i propri carichi di lavoro. per effetto della mancata bonifica operata oggi dalla prescrizione che ha. soprattutto in appello, un’incidenza significativa. In verità potrebbero esservi dei benefici insperati: la soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio dovrebbe, innanzitutto, assicurare una maggiore serenità nell’affrontare i processi, rifuggendo dal benché minimo sospetto che l’imputato l’abbia impugnato per arrivare a una prescrizione divenuta irraggiungibile. Certo il reprobo potrebbe lavorare per evitare una sentenza definitiva di condanna, ma qui veniamo agli auspici ultimi dei sostenitori della riforma. Se il reato non si prescrive l’imputato “reo” (solo per il suo foro interiore sia chiaro) ha tutto l’interesse a patteggiare la pena, se patteggia il processo si chiude e così appelli e ricorsi diminuiscono. Il tutto funziona a una duplice condizione 1) che il processo in primo grado si concluda effettivamente entro gli attuali termini di prescrizione del reato, altrimenti anche i “colpevoli” non rinunceranno alla chance di tirarla per le lunghe e 2) che i reati siano scoperti tempestivamente ovvero senza che passi troppo tempo dalla loro commissione. E qui le cose si complicano perché oltre il 50% dei reati si prescrivono già nella fase delle indagini ossia nelle mani dei pubblici ministeri e non (sempre) per inerzie, ma perché gli autori dei reati vengono scoperti con ritardo. Per il restante 50% circa la prescrizione si consuma in un periodo più o meno lungo (un 25% circa in primo grado). Questa cifra oscura (il 75% circa delle prescrizioni) non è direttamente scalfita dalla modifica approvata e può ritenersi che resti praticamente incomprimibile anche dopo la riforma che entra in vigore il prossimo 1’ gennaio se non intervengono modiche strutturali profonde. Quindi si sta lavorando per salvare il restante 25% circa di processi. ossia i processi che si estinguono per prescrizione innanzi alle corti d’appello e, in minima parte, alla Cassazione. Qualcuno dirà che comunque sarebbe un buon risultato e che anche i detrattori della riforma potrebbero farsene una ragione. Forse è vero, ma un imputato a vita non giova alla collettività e genera costi economici (non solo indennizzi Pinto) e sociali non ben calcolati. Costi che, comunque, dovrebbero porsi in equilibrio con l’interesse che lo Stato dovrebbe conservare a punire (o meglio a sperare di punire, le assoluzioni in appello sono numerose) reati per lo più bagattellari, posto che i crimini più gravi sono già ora, e per fortuna, praticamente imprescrittibili. Prescrizione, nella sanità non porta giustizia ma impunità di Fulvio Aurora* Il Manifesto, 6 dicembre 2019 Il procedimento contro i medici della clinica Santa Rita o quello contro l’Eternit di Casale Monferrato, sono stati tra i molti esempi di mancata giustizia. Il 6 dicembre avrebbe dovuto esserci un’udienza in Cassazione per il processo contro Brega Massone e Presicci, ex primari di chirurgia toracica nella ex Clinica Santa Rita di Milano, accusati di aver causato la morte di quattro pazienti sottoposti a interventi chirurgici non necessari. Medicina Democratica è presente al processo come parte civile. In precedenza davanti alla Corte d’Appello di Milano vi era stata una condanna all’ergastolo per il primo imputato (già condannato in via definitiva a 15 anni di reclusione per truffa e lesioni nei confronti di altre 80 persone). Al seguito del ricorso al successivo grado di giudizio, la Cassazione aveva rilevato che, sostanzialmente, non vi era stato da parte dell’imputato così condannato una condotta dolosa, da cui il rinvio di nuovo davanti alla Corte d’Appello che in diversa composizione ha indicato una pena ridotta a 15 anni di reclusione. La Corte d’Appello si era a essa conformata, quindi ancora una volta era stato proposto un ricorso in Cassazione del procuratore Generale e degli avvocati degli imputati. Il 6 dicembre sembra però che non ci sarà nessun dibattito, perché da parte degli avvocati penalisti è in corso un’astensione dalle udienze della durata di 5 giorni. Il motivo riguarda la legge che sarà vigente dal 1 gennaio 2020 modificando i termini di decorrenza della prescrizione, che resterà in vigore non oltre il primo grado di giudizio. In altre parole: ci potrà essere ricorso in appello delle parti interessate, ma la prescrizione non potrà più essere calcolata includendo i tempi dei gradi di giudizio successivi. Perché gli avvocati penalisti vogliono mantenere la prescrizione? Per inciso: il processo per la ex Clinica Santa Rita è iniziato nel 2009. Facciamo un altro esempio. Eravamo presenti, come associazione costituita parte civile alla sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione il 19.11.2014 (n. 7941/2015) nel processo Eternit di Casale Monferrato, che ha dichiarato la prescrizione dei reati contestati al responsabile della multinazionale, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny. C’erano in campo 2897 parti offese, di cui 1800 deceduti per esposizione all’amianto. Difficile dire che senza condanna e risarcimento i loro diritti siano stati garantiti. E per quanto siano passati anni, la ferita è tutt’altro che chiusa. Da allora ci siamo battuti per limitare i termini del calcolo di prescrizione dei reati, segnatamente per quelli ambientali e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, e con il senatore Felice Casson, da noi conosciuto quale Pubblico Ministero nel processo contro il Petrolchimico di Marghera, avevamo visto l’opportunità di richiedere al legislatore di sospendere e/o bloccare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Siamo quindi stati contenti quando è stata approvata la legge 3 gennaio 2019 n. 3. Abbiamo poi visto che vi è stata una certa opposizione, addirittura un primo sciopero degli avvocati penalisti contro i suoi contenuti. Per la verità, questa reazione non ci ha stupito. Essendo stati parte civile in diversi processi riguardanti la sicurezza nei luoghi di lavoro, con specifico riferimento al tema dell’esposizione all’amianto, abbiamo ben visto come gli avvocati della difesa operino per allungare i tempi dei processi, arrivando così alla dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, pur in presenza di responsabilità evidenti. Non comprendiamo come vi sia chi sostiene che il blocco della prescrizione possa allungare i tempi dei procedimenti. È certamente vero che la durata dei processi è, in molti casi, eccessiva, ma che c’entra la prescrizione? Per ridurla occorrerebbe che il ministro della Giustizia, il Governo e il Parlamento prendessero concreti provvedimenti, che sono già stati da molti indicati, al fine di implementare il personale per ottenere una migliore e più efficiente organizzazione della macchina giudiziaria. Del resto nel processo civile l’istituto della prescrizione opera già con gli effetti voluti dalla nuova legge in campo penale e nessuno si è mai sognato di criticare tale scelta. Se dopo il primo grado, non ci fosse più la prescrizione, l’imputato (oltre alle vittime del reato) sarebbe ben contento di arrivare al più presto a una sentenza definitiva, al di là della sofferenza per il reato commesso (se la sentenza fosse di condanna). È vero che la prescrizione non è l’assoluzione, ma nel senso comune ad essa equivale. Indipendentemente dall’ideologia politica sposata, il coraggio della verità sta proprio nel non rincorrere arcaici istituti processuali, (si pensi infatti che in molti paesi europei la prescrizione decade al primo grado di giudizio) non più compatibili con i tempi della nostra giustizia che vanificherebbero la pretesa punitiva della Stato a discapito delle vittime di questi odiosi reati posti in essere nei luoghi di lavoro. *Responsabile vertenze giudiziarie di Medicina Democratica, Movimento di Lotta per la Salute Piazza Fontana. Troppi verdetti senza colpevoli o con colpevoli fuori tempo massimo di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 6 dicembre 2019 Tuttavia (dopo 12 procedimenti in 44 anni) le prove, anche se troppo tardi, ci sono. E indicano i neofascisti Freda e Ventura e i loro seguaci. Se chi oggi passa per piazza Fontana la crede soprattutto un capolinea del tram, e sino alla nuova più visibile installazione (appena annunciata dal Comune) faticava a distinguere la lapide coni nomi dei 17 uccisi dalla bomba di so anni fa che molti giovani confusamente collegano alle Brigate Rosse, non può stupire che nella memoria collettiva l’altalenante catena processuale -12 tra dibattimenti e procedimenti in 44 anni - scolori nella liquidatoria e pigra litania della “strage senza verità”. E invece, nonostante verdetti senza colpevoli o con colpevoli fuori tempo massimo a causa degli ostruzionismi di apparati istituzionali che da subito distolsero le indagini dai veri responsabili e tentarono di indirizzarle verso falsi colpevoli come l’anarchico Pietro Valpreda, non è proprio così. Perché, parafrasando l’“io so ma non ho le prove” di Pasolini nel 1974, mezzo secolo di sentenze contengono comunque tanta materia per oggi poter dire di sapere, e di avere (magari troppo tardi) le prove. Il ruolo di Ordine Nuovo Si sa che in Veneto, nell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, a un gruppo eversivo diretto da Franco Freda e Giovanni Ventura (morto nel 2cno) va attribuita la serie di 17 bombe fatte esplodere nel 1969 prima delle 5 del 12 dicembre. Si sa (perché l’ha scolpito la Cassazione del 2005, pur nel confermare l’assoluzione in appello del trio Zorzi-Maggi-Rognoni condannato in primo grado all’ergastolo nel 2000), che Freda e Ventura - definitivamente assolti in Cassazione nel 1987 per la strage dopo il ribaltamento (in appello nel 1981 a Catanzaro e nel 1984 a Bari) dell’iniziale ergastolo del 1979 a Catanzaro - sono storicamente tra i responsabili della strage di piazza Fontana; e che nelle aule giudiziarie (dove poi non sono più stati riprocessabili in forza del divieto del ne bis in idem) sarebbero stati condannati se, al tempo di quei loro dibattimenti, fossero state già disponibili le nuove prove, emerse invece solo nelle inchieste successive allo “scippo” dell’istruttoria milanese/padovana/ trevigiana scandalosamente trasferita nel 1972 dalla Cassazione. Si sa (perché per le loro condotte falsificatorie sono stati condannati in via definitiva) che, nell’allora controspionaggio del Sid-Servizio informazioni della Difesa, il vicecapo del servizio Gian Adelio Maletti (generale riparato da11980 in Sudafrica) e il capitano Antonio Labruna operarono per depistare le indagini alle quali in momenti decisivi sottrassero protagonisti cruciali: o facendoli scappare con falsi passaporti all’estero come Marco Pozzan, o occultando che fossero stati collaboratori del servizio segreto in anfibi rapporti con i neofascisti tombaroli, come il giornalista di destra e “agente Z” Guido Giannettini. Erodoto, informatore Cia Si sa, perché lo confessò lui stesso, che Carlo Digilio, neofascista di Ordine Nuovo morto a fine 2005, ebbe un ruolo divenuto verità giudiziaria quando nel 2000 è passata in giudicato la prescrizione del reato, maturata per il prevalere (sulle aggravanti) delle attenuanti riconosciutegli appunto per la sua collaborazione. Si sa (dalla seconda tornata di indagini milanesi del giudice Guido Salvini e della pm Grazia Pradella negli Anni 90) che gli americani rispetto ai progetti eversivi degli ordinovisti veneti, nel 1969 ebbero un molo quantomeno di “osservazione senza intervento”, attraverso la ricostruita catena di comando statunitense che gestiva proprio il neofascista Digilio come informatore Cia con il nome in codice Erodoto. Si sa (in forza della prescrizione del favoreggiamento in Cassazione nel 2005 per Stefano Tringali) che ancora a metà Anni 90, durante le indagini sul medico neofascista veneto Carlo Maria Maggi e sul camerata Delfo Zorzi riparato in Giappone, si attivò una rete di protezione (fatta di lettere a ex estremisti e promesse di soldi) per “sterilizzare” possibili riscontri a carico di Zorzi, poi assolto grazie anche all’alternarsi di accuse e ritrattazioni del collaboratore Martino Siciliano. Si sa che dagli scavi giudiziari su piazza Fontana sono poi affiorate alcune delle prove che in Cassazione nel 2o17 hanno determinato la definitiva condanna all’ergastolo di Maggi (scomparso nel 2018) per gli 8 morti e i feriti di un’altra strage fascista, quella di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974. E soprattutto si sa che, se tutto questo si sa, è solo perché, proprio mentre uomini dello Stato intralciavano la ricerca della verità, altri uomini dello Stato si spendevano per rimontare quella corsa ad handicap. Fino al paradosso - come nel caso dei magistrati Emilio Alessandrini (erede della “pista” raddrizzata dai colleghi trevigiani Stiz e Calogero) o Guido Galli (sotto processo disciplinare per aver protestato alla testa dell’Anm milanese contro lo scippo del processo d Milano) - di vedersi poi “imputare”, dai terroristi di opposta coloritura (rossa) che anni dopo li avrebbero assassinati, di essere state toghe “riformiste” e “garantiste”, capaci di ridare credibilità e efficienza allo Stato. Mae: in caso di reati tributari consegna anche senza doppia punibilità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 5 dicembre 2019 n. 49545. Per la consegna del cittadino italiano, nell’ambito del mandato d’arresto europeo, accusato di reati fiscali, non serve la condizione della doppia punibilità. La sesta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza 49545depositata ieri, respinge il ricorso contro la decisione del presidente della Corte d’Appello di applicare la misura cautelare dell’obbligo di presentazione giornaliero alla Polizia giudiziaria. Un provvedimento, adottato dopo la convalida dell’arresto provvisorio del ricorrente, finalizzato alla sua consegna alle autorità giudiziarie tedesche, richiesta con un mandato d’arresto europeo cautelare. La difesa ha molte obiezioni relative al mancato rispetto delle garanzie nell’eseguire l’arresto e nel comunicare il Mae. Dall’omessa informazione della facoltà di nominare un difensore nello Stato di emissione, alla mancata traduzione in lingua italiana del Mae o dell’informativa del Sistema integrato Schengen. Ma l’errore maggiore commesso dai giudici, ad avviso dell’indagato, stava nel non aver tenuto conto del difetto della doppia punibilità. Il cittadino richiesto era, infatti, accusato di reati tributari, e la difesa segnalava ai giudici che l’evasione contestata al suo assistito ammontava a poco più di 185 mila euro, mentre il tetto di rilevanza penale previsto dal giudice interno fissa la soglia per il reato a 250 mila euro. Nessuno degli argomenti spesi in favore del ricorrente coglie però nel segno. Sul piano delle garanzie la Suprema corte specifica che la nullità riguarda esclusivamente la completezza del verbale. E non era questo il caso.? Mentre le altre violazioni, avrebbero dovuto essere contestate in sede di convalida davanti al giudice. Cosa che non era avvenuta. Per quanto riguarda la mancata traduzione del Mae non fa scattare la violazione del diritto di difesa, se sono state fornite analoghe informazioni. Non passa neppure l’appunto sulla condizione della doppia punibilità, prevista dalla legge 69/2005, per eseguire la consegna. La Cassazione spiega che la norma è mitigata proprio in riferimento alla materia delle tasse e delle imposte. Non viene, infatti, richiesta “la necessità di una perfetta sovrapposizione tra la fattispecie prevista dall’ordinamento estero e quella contemplata dall’ordinamento italiano”. Per dare via libera all’esecuzione del mandato, basta che le due norme siano “analogicamente assimilabili”. Partendo da questo presupposto i giudici hanno escluso che per i reati tributari sia rilevante il superamento della soglia di punibilità. Una chiarimento che la Cassazione offre al ricorrente, che aveva considerato solo l’accusa di evasione dell’Iva, malgrado il chiaro riferimento, nella parte descrittiva del Mae, alle frodi carosello che, pur nelle possibili varianti, presuppongono in genere l’emissione di fatturazioni per operazioni inesistenti. Dunque non c’era solo l’Iva evasa alla base della richiesta delle autorità tedesche. Reati tributari, subito la stretta sulle dichiarazioni infra-annuali di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2019 Con la pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale” della legge di conversione del decreto fiscale - che sta concludendo la prima lettura alla Camera dove nella tarda serata di ieri ha ottenuto la fiducia con 310 voti a favore e 199 contrari - entreranno in vigore le modifiche ai reati tributari apportate anche dagli emendamenti. In concreto, per la maggior parte dei contribuenti le nuove e più severe regole, almeno sui reati dichiarativi, si applicheranno con la presentazione della dichiarazione dei redditi del 2019, e quindi, verosimilmente, a novembre 2020. Tuttavia, vi sono parecchi casi che comporteranno l’applicazione anticipata dei nuovi illeciti penali. Si tratta in particolare delle: a) dichiarazioni Iva (fraudolenti e/o infedeli) che si presenteranno al 30 aprile 2020; b) dichiarazioni “infra-annuali” presentate successivamente all’entrata in vigore della legge, risultate fraudolente per effetto dell’utilizzo di false fatture o altri documenti equipollenti, in quanto la condotta illecita criminalizza qualunque dichiarazione e non soltanto quelle annuali. È il caso, ad esempio, di dichiarazioni “infra-annuali” per messa in liquidazione, trasformazione, fusione, scissione, dichiarazioni di operazioni intracomunitarie eccetera; c) dichiarazioni presentate successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione da parte di coloro che hanno l’esercizio sociale cosiddetto “a cavallo”. Per questi casi valgono da subito le nuove regole e, in particolare: ? in ipotesi dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di documenti per operazioni in tutto in parte inesistenti, si applicheranno le nuove sanzioni da 4 a 8 anni di reclusione (per imponibili superiori a 100mila euro) e non più da 18 mesi a 6 anni; ? in caso di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici si applicherà la reclusione da 3 a 8 anni (attualmente da 18 mesi a 6 anni); ? per le dichiarazioni infedeli il reato scatterà al superamento di imposta evasa superiore a 100mila euro e non più 150mila euro (ovvero imponibile superiore a 2 milioni e non più tre milioni) e la nuova pena sarà la reclusione da 2 anni a 4 anni e 6 mesi, in luogo di quella ora prevista da 1 a 3 anni. Vi sono poi tutti i casi di omessa presentazione delle dichiarazioni del sostituto di imposta e dei redditi di quest’anno, scadute rispettivamente alla fine del mese di ottobre 2019 e di novembre 2019. Il reato omissivo, infatti, si consuma non alla data della scadenza bensì decorsi, infruttuosamente, 90 giorni, che certamente sono successivi all’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge di conversione al decreto legge 124/2019. Ciò comporta che alle dichiarazioni delle imposte sui redditi e del sostituto di imposta omesse (con imposta evasa superiore a 50mila euro) si applicheranno da subito le nuove regole e, in particolare, la reclusione da 2 a 5 anni in luogo dell’attuale da 18 mesi a 4 anni. Le false fatture - Per quanto concerne, invece, coloro che emettono false fatture, trattandosi di un reato che si consuma con il semplice rilascio del documento, le nuove norme troveranno immediata applicazione. In sostanza chi emetterà una falsa fattura dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, andrà incontro immediatamente alla più grave reclusione da 4 a 8 anni (sempre che gli elementi fittizi siano superiore a 100mila euro per periodo di imposta). Da segnalare, infine, che in sede di conversione in legge del decreto fiscale si intende ripristinare la soglia di 250mila euro (in luogo di 150mila euro prevista inizialmente dal decreto fiscale) e quindi il reato, che si consuma il prossimo 27 dicembre, non ha subito modifiche. Sardegna. Carceri sovraffollate, Caligaris (Sdr): “Siamo un centro di smistamento” ansa.it, 6 dicembre 2019 “Le carceri sarde vengo utilizzate per alleggerire i penitenziari della Penisola”. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “Le carceri sarde vengo utilizzate per alleggerire i penitenziari della Penisola: negli ultimi quattro mesi il numero dei detenuti è aumentato del 6,19%, passando da 2.148 a 2.281. In crescita anche gli stranieri, da 653 a 704”. La denuncia arriva da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha analizzato gli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia relativi alla situazione detentiva nell’Isola al 31 agosto scorso. “Questi numeri - spiega - documentano come la Sardegna venga utilizzata per alleggerire altre strutture penitenziarie d’Italia, facendo venir meno il principio della regionalizzazione della pena. Occorre ricordare che i detenuti sardi sono 1.086”. A soffrire sono le case circondariali di Cagliari-Uta, con 578 detenuti per 561 posti di capienza massima, e di Sassari-Bancali (473). “Si tratta di 1.051 persone, molte con gravi problematiche psichiche - sottolinea Caligaris - concentrate in due istituti dove peraltro il numero degli operatori penitenziari è insufficiente per garantire interventi riabilitativi e di reinserimento sociale. Alla carenza di personale si aggiunge quella dei direttori. Sono ancora cinque per dieci istituti, quasi tutti con doppi e tripli incarichi ulteriormente aumentati durante l’estate”. Una situazione potenzialmente esplosiva che “non sembra essere all’attenzione dei parlamentari sardi - attacca la presidente dell’associazione. Di qui l’appello “per un serio intervento” del governatore Solinas affinché “l’isola non sia più considerata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria un luogo di smistamento”. Liguria. A.A.A… Garante per i detenuti cercasi di Ramon Fresta* progettouomo.net, 6 dicembre 2019 La Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia della Liguria (Crvgl) - Associazione nata nel 2000 che riunisce diverse associazioni di volontariato impegnate da anni, e a vario titolo, nello svolgimento di attività all’interno delle carceri o del circuito penale esterno - ha organizzato un incontro sul tema del “Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”, più comunemente definito “il garante dei detenuti”. L’incontro si è svolto nella suggestiva cornice della sala “Eugenio Montale” a Palazzo Ducale, sede scelta non a caso in quanto il palazzo nella sua storia è stato sede del Tribunale di Genova ed è stato anche un carcere. Il titolo dato all’iniziativa- Imprigionate le garanzie - può essere letto in due modi: una denuncia della mancanza forzata delle garanzie per un target particolare, o come esortazione a portare le garanzie all’interno delle prigioni, di qualunque tipo esse siano. Fabio Ferrari, responsabile regionale della Crvgl, all’apertura dei lavori ha ricordato come la nostra Regione, unitamente alla Basilicata, non abbia ancora una legge istitutiva del Garante Regionale dei detenuti. La figura del Garante Nazionale, istituita con la Legge 10 del 21 febbraio 2014, è un’autorità di garanzia, collegiale e indipendente, non giurisdizionale che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dagli istituti di pena, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), ai trattamenti sanitari obbligatori e coordina il lavoro dei garanti regionali. Una prima proposta di legge in tal senso nella nostra regione è addirittura datata 2006! Ne esiste un’altra del 2016, proposta dopo che il Garante Nazionale nel report della sua visita in Liguria sottolineava questa mancanza, una proposta assolutamente bipartisan che ha come primo firmatario il consigliere Pastorino e siglata anche da esponenti di Forza Italia, M5S e Pd. Ha terminato ricordando l’urgenza di portare in aula la proposta di legge di cui sopra, perché in Liguria abbiam avuto 2 suicidi e undici tentati suicidi da inizio anno in un sistema che presenta un sovraffollamento preoccupante; ha ribadito anche la disponibilità del Terzo Settore che opera in ambito carcerario a mettersi a disposizione delle istituzioni per dare anima e braccia al Garante Regionale al fine di migliorare la situazione della regione. Il Ruolo e la funzionalità della figura del Garante Regionale sono stati tratteggiati da Bruno Mellano - Garante del Piemonte; dal suo intervento sono emersi anche spunti interessanti, utili indicazioni nel momento in cui si avrà una Garante ligure: l’istituzione di garanti comunali, collegati alla dislocazione degli istituti di reclusione, scelta dettata dalla volontà di essere maggiormente vicini alle diverse problematicità; un richiamo alle istituzioni regionali affinché diano il giusto rilievo alla sanità penitenziaria, faceva presente come problemi sanitari banali all’esterno possano diventare fonte di sofferenza all’interno di un carcere, tra gli altri ha citato l’esempio di persone tossicodipendenti (presenti in grande numero)per le quali le cure odontoiatriche possano diventare un grande problema. Sempre sul versante sanità, ha fatto presente come tra i compiti del Garante vi sia quello di tutelare le persone soggette a trattamenti sanitari “forzati” come coloro sottoposti a Tso (abbiamo tutti memoria di casi eclatanti di morti durante questi trattamenti in Italia e anche nella nostra regione) o le persone ospitate nelle Rems (Residenza per l’Esecuzione Misure di Sicurezza). Altro argomento trattato la tutela delle persone inserite in percorsi migratori, problema molto sentito in Piemonte dove ha sede un Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) ma che a livello nazionale è deflagrato con i casi di Nave Diciotti e quello di Open Arms. Alberto Rizzerio dell’Associazione Antigone- una realtà nata alla fine degli anni ottanta cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, parlamentari, studiosi e cittadini che si interessano di giustizia penale- ha fatto un excursus sui dati dell’annuale rapporto sulle carceri che fa l’Associazione, giunto alla quindicesima edizione nel 2019. Dai dati forniti dal Dap - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria- aggiornati a novembre, risulta che i detenuti in Liguria sono 1537 a fronte di una capienza di 1104 posti della capienza regolamentare, di questi 844 sono stranieri e 73 le donne. L’anno è iniziato con 1512 presenze, ha raggiunto l’apice ad agosto, 1568 detenuti, per arrivare agli attuali 1537. Ha poi presentato una serie di tavole riguardanti temi diversi: i dati riguardando gli eventi critici, quelli inerenti la sanità con il monte ore del personale sanitario e il numero di detenuti con patologie particolari, una fotografia su lavoro e formazione professionale ed una che riporta dati sulla quotidianità detentiva (alternanza tra orari con celle aperte e chiuse) e i contatti con l’esterno. Tutti questi dati si possono consultare sul sito www.antigone.it alla sezione osservatorio detenzione. Sull’ultima slide presentata campeggiava la scritta nessuno deve marcire in galera, riferendosi ad un lessico - purtroppo - comune che sembra prefigurare come l’articolo 27 della Costituzione possa essere ridotto ad un orpello formale “…le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rizzerio sottolineava, invece, come la dignità dei detenuti debba diventare un fatto importante per tutti, anche chi non è in carcere, perché sinonimo di civiltà. L’ultimo intervento, dell’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani, è stato a due voci, gli Avvocati Massimo Benoit Torsegno ed Emilio Robotti, hanno ribadito come la garanzia dei diritti di tutti, stabiliti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quindi anche delle persone detenute perché la situazione di detenzione non fa perdere altri diritti alla persona se non la libertà. Hanno insistito sul fatto che sia bene denunciare sempre le violazioni dei diritti, perché è il modo per tenere alta l’attenzione. L’Italia ha sottoscritto tutte le convenzioni internazionali sui diritti, malgrado gli impegni assunti non ha ancora istituito un’Autorità Indipendente per la Tutela di Diritti Umani; a questo proposito hanno ricordato come proprio nella nostra città si sia verificata una delle più gravi violazioni dei diritti durante il sanguinoso G8 del 2001. A questo punto la palla è in mano alla politica regionale che deve decidere se tergiversare ancora, per chissà quale motivo, o mettere in campo una (o più figure) che possano aiutare un processo di qualità migliore per il mondo carcerario, e parlo veramente di tutto il sistema perché vale la pena ricordare che lo scorso anno sono stati 10 i suicidi tra i poliziotti penitenziari. *Centro di Solidarietà di Genova Nuoro. Giustizia riparativa, una necessità di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 6 dicembre 2019 Il vescovo Mura all’incontro sull’ergastolo ostativo: “Le carceri devono sempre avere un orizzonte”. “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. È questo il titolo dell’incontro organizzato dall’associazione di volontariato e cooperativa sociale “Ut Unum Sint” nella sala della Camera di Commercio di Nuoro in occasione della settimana Internazionale della “Giustizia Riparativa” e rivolto al mondo della detenzione. L’evento organizzato da don Pietro Borrotzu ha visto la partecipazione del prefetto di Nuoro, Anna Aida Abruzzese, del vescovo Antonello Mura, del magistrato di sorveglianza Adriana Carta, dell’onorevole Cosimo Ferri, del senatore Giuseppe Luigi Cucca e di Giovanna Serra garante dei detenuti. Recentemente la Corte Costituzionale ha dichiarato che l’ergastolo ostativo è incostituzionale perché troppo severo. La decisione della Corte arriva dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che aveva condannato l’Italia per i trattamenti disumani riservati a chi viene condannato all’ergastolo ostativo. La durezza di questa pena viene ora ritenuta contraria all’articolo 27 della Costituzione, dove si legge che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un tema messo in luce dal vescovo di Nuoro che ha sottolineato la necessità di “una giustizia per la vittima, senza giustiziare l’aggressore - ha ribadito Antonello Mura -. Le carceri devono avere sempre una “finestra”, un orizzonte, devono guardare al reinserimento. Questo è importante anche per i detenuti, bisogna fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Una panoramica sull’attuale fase legislativa l’ha proposta il docente Giovanni Barroccu che ha spiegato la necessità di costruire una giurisprudenza adeguata a partire dalle motivazioni che accompagneranno la sentenza della Corte Costituzionale. Particolarmente toccante la testimonianza del detenuto condannato all’ergastolo, Marcello Dell’Anna, laureato in carcere e che dopo tanti anni di detenzione, ha iniziato ad intravedere insieme ad altri suoi compagni un filo di speranza pensando a un reinserimento sociale. La voce della politica è stata portata dal senatore Giuseppe Luigi Cucca, che ha descritto la difficoltà a mettere insieme in una sintesi positiva le grandi differenze presenti tra le diverse forze politiche in una materia così delicata, anche in riferimento all’opinione pubblica non sempre favorevole al cambiamento. All’incontro erano presenti anche otto detenuti dell’alta sicurezza di Badu e Carros, un segno dell’apertura della magistratura di sorveglianza del tribunale e dell’istituto penitenziario nuorese, in riferimento alle opportunità da offrire ai detenuti che hanno fatto passi significativi, specialmente con il percorso della giustizia riparativa. La parte conclusiva del seminario è stata affidata a suor Annalisa Garofalo, della congregazione ancelle della Santa Famiglia e collaboratrice della cooperativa sociale “Ut Unum Sint”, che ha messo in evidenza alcune delle azioni “riparative” realizzate dai detenuti. L’evento si è concluso il giorno dopo nell’auditorium della Parrocchia Beata Maria Gabriella con un incontro tra gli autori di reato, le vittime, le loro famiglie, i volontari e quattro classi dell’Itc Chironi. Enna. I detenuti riscoprono il benessere psico-fisico grazie all’Avis avis.it, 6 dicembre 2019 Anche nelle carceri si può portare un messaggio di solidarietà e dignità di ogni persona umana. L’ultimo esempio ci arriva da Enna, con il progetto “Educazione alla Legalità e Benessere Psicofisico” che ha coinvolto, in diverse iniziative, i detenuti e ha visto come protagonista anche la sede comunale Avis. All’interno di uno spazio chiuso e disciplinato da severe norme regolamentari, il rischio di non riconoscere più il valore della persona è molto elevato. Il progetto - come è stato spiegato dall’Avis Enna - ha portato a riflettere i detenuti, attraverso attività mirate, sul proprio benessere psicofisico, ricordando che ogni uomo ha un valore e può avere un’occasione di riscatto sociale. I laboratori, organizzati con e per i detenuti, hanno coinvolto molte figure professionali ed anche i familiari, permettendo l’acquisizione di competenze e la soddisfazione di scoprire quanto si è abili e capaci. Il Tutor Massimiliano Palillo, per Avis Comunale di Enna, ha curato il “Laboratorio di Benessere Psicofisico” per promuovere salute e benessere grazie ai benefici dell’attività fisica. Per conquistare l’interesse dei detenuti si è cercato, quindi, di strutturare il laboratorio in attività divertenti, a tratti ludiche, così che venissero percepite come un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato di salute psico-fisica ma anche al miglioramento delle relazioni reciproche all’interno dell’Istituto. Tutti i laboratori si sono svolti presso la Casa Circondariale “Luigi Bodenza” di Enna grazie al finanziamento della Chiesa Valdese, l’OnG Luciano Lama ente capofila e al partenariato con l’Associazione Culturale “Innova Civitas”, il Movimento Difesa del Cittadino e l’Avis di Enna. Torino. Nove detenuti si diplomano in inglese nel carcere Lorusso e Cutugno di Leonardo Di Paco La Stampa, 6 dicembre 2019 Provare a costruirsi un futuro in attesa di riconquistare la libertà, iniziando a ritrovare fiducia in se stessi, studiando inglese tra le sbarre. È a Torino, nella casa circondariale Lorusso e Cutugno, che 9 detenuti hanno ottenuto il diploma “Cambridge B1, Preliminary” - più noto come “Pet, Preliminary English Test” - grazie al primo corso in Italia rivolto alla preparazione per la certificazione della lingua inglese in carcere. Il progetto intitolato “La certificazione linguistica internazionale in carcere: a change for the better” ha avuto inizio il 1 marzo scorso e si è rivolto a studenti detenuti e personale carcerario ed educativo. L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con il Cpia1 (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti), il liceo Artistico dell’istituto e con il supporto del centro autorizzato Cambridge English Exams di Torino e del centro Cambridge English Assessment. “Si tratta di un progetto pilota unico e ambizioso - ha spiegato la professoressa Rosa Scimone, referente del progetto - sia perché ha permesso agli studenti di ottenere un’opportunità per entrare nel mondo del lavoro, sia perché ha rappresentato una forma di controllo attivo sulla propria vita favorendo la percezione dell’utilizzo del tempo in carcere come tempo della ricostruzione dell’Io sociale”. “Imparare una lingua avendo ben in mente uno scopo, in questo caso l’ottenimento di una certificazione internazionale, può accendere la motivazione, stimolare l’apprendimento, e permette di ottenere una competenza che rappresenta un valore aggiunto nei processi di selezione di tante realtà nel mondo del lavoro” ha invece commentato Peter McCabe, head of Italy per Cambridge Assessment English. Bologna. Dedicata al regista Claudio Caligari la videoteca del carcere di Cinzia Valente gnewsonline.it, 6 dicembre 2019 La Casa Circondariale “Rocco D’Amato di Bologna” da oggi è dotata di una videoteca con oltre 700 dvd. Significativa l’intitolazione: un omaggio a Claudio Caligari, regista scomparso nel maggio del 2015, autore di Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998) e Non essere cattivo (2015), fautore di un cinema che punta lo sguardo sugli emarginati delle periferie romane. Per celebrare la memoria di Claudio Caligari sono in corso a Bologna diversi eventi. Oggi si terrà l’inaugurazione della “Videoteca Claudio Caligari” alla presenza di autorità e rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria, Rai Cinema, docenti Dams, Hera, Legacoop e Fondazione Del Monte. L’iniziativa è stata realizzata grazie al contributo di Rai Cinema che ha voluto donare all’Istituto 700 Dvd. Sono stati gli stessi detenuti a svolgere il lavoro di catalogazione, sulla base della metodologia prevista in ambito cinematografico. Lo hanno fatto dopo aver frequentato un corso ad hoc sotto la guida di docenti del settore che hanno insegnato loro ad utilizzare un programma specifico utilizzato nelle cineteche. Tra i titoli presenti nel catalogo dell’istituto troviamo i grandi classici del cinema e anche uscite molto recenti, film italiani e stranieri, documentari che fanno parte del patrimonio filmico di Rai Cinema. Una collezione che verrà incrementata e costantemente aggiornata con le pellicole che verranno proiettate nelle sale. Dopo l’inaugurazione della sala AtmospHera, nel penitenziario ci sarà quindi un altro spazio dedicato alla settima arte. “La videoteca risiede nel reparto penale dell’Istituto all’interno di cui c’è una piccola sala ricreativa con videoproiettore e una tv a schermo grande che potrà essere utilizzata dai detenuti del reparto stesso - afferma la direttrice Claudia Clementi -. L’idea poi, è di utilizzare i film per proiezioni nella sala cinema inaugurata a ottobre dotata di attrezzature all’avanguardia e meritevole di essere impiegata per altre iniziative. Una visione destinata ai detenuti, al personale e, con aperture programmate, al pubblico esterno”. Catanzaro. “La partita con papà” al carcere di Siano è diventata un pomeriggio di festa di Antonia Opipari calabria7.it, 6 dicembre 2019 Sarebbe dovuta essere La partita con papà quella di oggi presso la Casa Circondariale di Catanzaro e invece, per colpa della pioggia, padri detenuti e i loro piccoli non sono potuti scendere in campo; hanno trascorso, però, lo stesso il pomeriggio insieme nel teatro del carcere: hanno giocato, chiacchierato e fatto merenda con le prelibatezze preparate per l’occasione dai “pasticceri” del laboratorio di dolci. La partita con papà, comunque, è un’iniziativa dell’associazione Bambinisenzasbarre onlus e del Ministero della Giustizia Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, che si tiene su tutto il territorio nazionale ed è già alla sua quinta edizione; si tratta di una manifestazione nata con l’intento di sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini in Italia (2,1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto e che spesso e volentieri si trovano ad essere vittime inconsapevoli di pregiudizi altrui; “i figli dei detenuti pagano per un crimine che non hanno commesso” ha spiegato il direttore del carcere di Siano Angela Paravati. “Un papà detenuto è solo un uomo che ha commesso un errore e lo sta scontando. Il suo ruolo genitoriale non si ferma alle mura del penitenziario e anzi, il più delle volte è la motivazione che spinge chi ha sbagliato una volta a non farlo mai più, fuori da qui”. Milano. A San Vittore la “prima” della Scala in diretta per i detenuti Corriere della Sera, 6 dicembre 2019 L’Istituto milanese, diretto da Giacinto Siciliano, è pronto ad accogliere rappresentanti delle Istituzioni e della società civile. L’organizzazione della serata sarà sostenuta dall’Associazione “Quartieri Tranquilli”. Anche quest’anno la Casa Circondariale di Milano San Vittore “Francesco Di Cataldo” aprirà le sue antiche porte all’ormai tradizionale appuntamento con la Scala di Milano. La sera del 7 dicembre, rispettando una consuetudine che si rinnova ormai dal 2013, il Comune di Milano torna a offrire la proiezione della “prima” alla Scala ai detenuti dello storico Istituto milanese. La “Tosca” di Giacomo Puccini sarà seguita alla Rotonda del carcere attraverso uno schermo che riprodurrà in diretta l’esecuzione dal Teatro della Scala. L’Istituto milanese, diretto da Giacinto Siciliano, è pronto ad accogliere rappresentanti delle Istituzioni e della società civile. L’organizzazione della serata sarà sostenuta dall’Associazione “Quartieri Tranquilli”. Saranno circa duecento le persone, tra ospiti e detenuti, che assisteranno insieme alla proiezione in diretta dell’opera pucciniana. “È una preziosa occasione di incontro e confronto tra le istituzioni, la realtà cittadina e le persone detenute, utile ai fini del processo di risocializzazione e rieducazione”, scrive il direttore. L’ingresso, previsto per le ore 17, è consentito su invito. L’opera pucciniana, che avrà inizio alle 18, verrà presentata nello spazio della Rotonda da due detenuti volontari, un uomo e una donna, preparati per l’occasione dalla Presidente della Fondazione Culturale Pensare Oltre, Elisabetta Armiato, durante un incontro tenutosi all’interno del quinto reparto detentivo. Durante il primo intervallo (18.45 - 19.15) nel corridoio del primo raggio sarà offerto un rinfresco light con i dolci preparati dalle mamme dell’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per donne madri), e dai detenuti e detenute studenti della Libera Scuola di Cucina, mentre nel corso del secondo intervallo (20.00 - 20.40) si darà spazio agli interventi e saluti delle Autorità presenti. Al termine (21.10 circa) il buffet del dopo Scala, con il tradizionale risotto giallo, sarà allestito dalle detenute e dai giovani adulti, allievi della Libera Scuola di cucina. Saranno serviti inoltre prodotti e specialità da realtà lombarde e nazionali. Accanto all’Opera che inaugura la stagione Scaligera, si è deciso, grazie all’apporto della Fondazione Maimeri e alla curatela di Andrea Dusio, di dare continuità alla mostra dello scorso anno dedicata alla “Musica Dipinta” di Gianni Maimeri, individuando le opere che vengono proposte quest’anno nella produzione di Giancarlo Vitali (1929-2018), grande Artista di Bellano di cui ricorre in questi giorni il novantesimo della nascita. Lungo il primo raggio, che conduce alla Rotonda, potranno essere ammirate le opere dedicate alla musica di questo artista lombardo. Alcuni dipinti verranno esposti per la prima volta, altri sono a tutti gli effetti inediti. “Una tradizione che si rinnova, una grande occasione di incontro tra carcere e chi può aiutarlo ad essere migliore, nel nome dell’arte e della cultura dell’integrazione”, dice il direttore Giacinto Siciliano, che ringrazia la grande rete che il territorio milanese sviluppa intorno al mondo del carcere. Anche quest’anno la realizzazione dell’evento è stata resa possibile grazie alla sinergia delle risorse istituzionali e del territorio. In particolare, i dolciumi della cooperativa “Dolci in libertà” del carcere di Busto Arsizio, i panettoni dell’Associazione “Buoni dentro” dell’Istituto minorile Beccaria e della pasticceria milanese Panzera e quelli preparati dalla pasticceria “Vivi il Dolce”, aderente all’ Apa Confartigianato di Milano, Monza e Brianza. E poi le aziende Frescobaldi e Berlucchi con i loro vini, la Riso Gallo e la Coop Lombardia, che ha donato panettoni e clementine, così confermando un impegno che dura nel tempo e che dimostra una sensibilità particolare alla realtà del mondo carcerario. Viterbo. “Lo sport entra nelle carceri”, due squadre di calcio sfidano i detenuti tusciaweb.eu, 6 dicembre 2019 Si chiude oggi pomeriggio a Viterbo, con una festa finale, il progetto “Lo sport entra nelle carceri”. L’iniziativa fa parte di “Coni & regione compagni di sport” che ha come obiettivo il recupero dei detenuti tramite il coordinamento di varie attività sportive messe in atto nelle strutture penitenziarie, per promuovere la salute e il benessere, grazie ai benefici che l’attività fisica può dare. Per questo appuntamento sono state organizzate due partite di calcio e un torneo di scacchi. Avversari dei detenuti del carcere viterbese saranno gli arbitri della sezione Aia di Viterbo e una selezione di atleti di varie discipline sportive della Tuscia. Di quest’ultimo gruppo faranno parte tre giocatori di rugby, uno di nuoto, ex giocatori della Viterbese e alcuni tecnici di calcio di Viterbo e Civita Castellana che hanno aderito all’invito del Coni di Viterbo. È previsto anche un torneo di scacchi seguito dagli istruttori della scuola scacchistica viterbese, Massimiliano Marini e Gianfranco Massetti. In questo periodo a Mammagialla i detenuti hanno effettuato anche dei corsi in palestra seguiti da Umberto Battistin. “È una bella occasione per consentire ai ragazzi che sono all’interno dell’istituto di vivere una bella giornata di ‘normalità’ grazie agli sport - ha detto il presidente del Coni Lazio Riccardo Viola. Un particolare ringraziamento a tutte e le associazioni che, hanno contributo a formare le due squadre. Chi non potrà scendere in campo potrà cimentare con uno sport della mente”. Per la direzione della casa circondariale di Viterbo saranno presenti Natalina Fanti (responsabile dell’area educativa) che ha seguito il progetto del Coni e della regione Lazio fin dall’inizio, il comandante del reparto di polizia penitenziaria Daniele Bologna e il suo vice Tullio Volpi. 21×17 Geometria della Giustizia di Claudio Bottan sguardidiconfine.com, 6 dicembre 2019 Il documentario sulle carceri italiane dalla sentenza Torreggiani a oggi. “21×17 geometria della giustizia”, il documentario diretto da Christian Letruria, che da qualche giorno è visibile a tutti, parte dalla rievocazione della famosa sentenza Torreggiani con la quale il sistema giustizia del nostro Paese è stato messo sotto accusa grazie al ricorso a Strasburgo di pochi detenuti. Le testimonianze di chi c’era danno voce al silenzio di quelle celle e ci mostrano le difficoltà di ribellarsi alle ingiustizie all’interno di un’istituzione totale come il carcere. Era l’8 gennaio 2013 e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannava l’Italia ponendo l’attenzione sul sovraffollamento carcerario del nostro Paese, definito espressamente come “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”. Eppure sarebbe bastato un foglio di block notes per capirlo. La Corte Europea, con la sentenza pilota sul ricorso di Mino Torreggiani e altre sei persone detenute a Busto Arsizio e Piacenza, ha stabilito che le condizioni di detenzione dei ricorrenti era disumana e degradante: celle minuscole, sovraffollamento, violazione di diritti fondamentali. È stata ravvisata la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quindi tortura. Nei penitenziari italiani erano rinchiusi 66mila detenuti a fronte di 48mila posti di capienza regolamentare. Persone ammassate con meno di tre metri quadrati di spazio vitale a disposizione per ciascuno. “Eppure non era complessa come operazione matematica” dice Roberta Cossia, magistrato di sorveglianza del tribunale di Milano, in “21×17 geometria della giustizia”. Il documentario diretto da Christian Letruria, che da qualche giorno è visibile a tutti, parte proprio dalla rievocazione della piccola grande storia di denuncia, la famosa sentenza Torreggiani, con la quale il sistema giustizia del nostro Paese è stato messo sotto accusa grazie al ricorso a Strasburgo di pochi detenuti. Una ricerca di Oriana Blinik, con Roberto Cornelli e Annalisa Zamburlini, che ha raccolto le testimonianze di chi c’era. Parole che danno voce al silenzio di quelle celle e ci mostrano le difficoltà di ribellarsi alle ingiustizie all’interno di un’istituzione totale come il carcere, ma è anche l’occasione per interpellare direttori di carceri, magistrati di sorveglianza e altri operatori del settore per analizzare il cambiamento che questa sentenza ha imposto: sorveglianza dinamica, ampliamento delle misure alternative e introduzione della messa alla prova per adulti. Le misure introdotte nel post-Torreggiani funzionano? La condannata Italia ha superato la sua messa alla prova? Da allora sono stati compiuti alcuni passi in avanti grazie a interventi prevalentemente di carattere emergenziale, con una momentanea riduzione della popolazione carceraria, ma non è stato risolto in modo strutturale e definitivo il problema del sovraffollamento per ristabilire le condizioni essenziali dello Stato di diritto. A quasi sette anni dalla condanna della Corte Europea, infatti, pare che nulla sia cambiato. Continua ad aumentare costantemente il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane: al 30 novembre 2019, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, sono 61.174 a fronte di 46mila posti. Aumentano anche le detenute madri con figli al seguito, sono 52 con 56 bimbi (erano 49 con 52 bimbi un mese fa). Intanto si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la probation (o messa alla prova) ovviamente quando ci sono le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva, e gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso. La conseguenza logica dell’atteggiamento securitario porta a rendere le prigioni una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attesta il numero di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). Infatti, nonostante il numero dei reati sia in calo, offuscati dal mantra della “certezza della pena” non ci si accorge che in carcere le persone ci vanno per davvero, anche per piccolissimi reati. Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettare la disperazione di quelli che non resistono: dall’inizio dell’anno sono 45 i casi di suicidio su un totale di 120 morti nelle patrie galere. “Partiamo da un presupposto: il carcere in generale, in quanto istituzione totale che tende ad annullare le individualità, le propensioni e le attitudini del singolo dando risposte uguali a problematiche diverse, è di per sé un’istigazione al suicidio” dice Rita Bernardini. “Ma una cosa è per noi del Partito Radicale chiarissima: i responsabili di queste violazioni dei diritti umani fondamentali devono essere individuati e denunciati in ogni sede, confidando molto nelle giurisdizioni superiori, come è stato per la memorabile sentenza Torreggiani che, se ha umiliato il nostro Paese ritenuto responsabile di sistematici trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti, ha almeno restituito loro un po’ di dignità e di sollievo umano e civile”. Un sistema costoso, sicuramente in termini sociali ma anche in termini strettamente economici. Sono quasi 2,9 miliardi di euro i fondi destinati all’Amministrazione Penitenziaria nel 2019. Ciascun detenuto costa ogni giorno circa 130 euro, la maggior parte dei quali, il 76,47% del totale, riguarda il personale, e in particolare quello di polizia penitenziaria (ben 68,03%). Solo il 10% è destinato a misure di accoglienza e reinserimento sociale, tra le quali si contano le spese per il vitto, per l’istruzione, per retribuire i detenuti che lavorano. Le misure alternative alla detenzione, che tanto sono avversate negli ultimi tempi poiché confuse con una quasi totale libertà che minerebbe il principio della certezza della pena, costano notevolmente meno del carcere e dimostrano di essere assai più efficaci in termini di abbattimento della recidiva. E quale sarà attualmente la situazione a Busto Arsizio, uno dei due istituti da cui è scaturita la sentenza Torreggiani? Disarmante, e lascia aperti i margini perché la Corte di Strasburgo emetta nuove pesanti condanne contro l’Italia: 428 persone detenute a fronte di 240 posti. Il documentario può essere visto a questo indirizzo: https://vimeo.com/210040450 Come è difficile definire il diritto alla privacy di Sebastiano Maffettone Corriere della Sera, 6 dicembre 2019 Molto di ciò che era ritenuto privato non è più tale e viceversa. Così ora alcuni filosofi e giuristi parlano di specifiche forme di tutela di singoli spazi di vita. Tik Tok è una app cinese. Pare che la vedano circa un miliardo di persone. I video propinati dall’app in questione durano 15 secondi. Il loro contenuto, dal punto di vista intellettuale, è di media deprimente. Ma, come è naturale, ci sono eccezioni. Di recente, i giornali hanno dato giusto risalto a quel video di Tik Tok in cui una ragazza parla dei lager in cui sono tenuti gli Uiguri (una minoranza musulmana) in Cina, mentre placidamente si rifà il trucco. Un caso classico di eterogenesi: uno strumento tipicamente privato come il make up viene adoperato per un fine decisamente pubblico come lo è una denuncia politica. Fatto è che i nuovi media rendono sempre più difficile distinguere tra pubblico e privato. E l’idea stessa di privatezza - o se preferite privacy - è a rischio. Cosa questa che impone una riflessione seria. La privatezza - difficile negarlo - è un valore non rinunciabile, uno spazio protetto che serve psicologicamente a costruire noi stessi e socialmente ad avere buone relazioni con gli altri. Ma se cerchiamo di definirlo, questo valore, ci rendiamo conto di quanto sia impalpabile e vago. Vengono in mente parole come intimità, confidenzialità, anonimità, solitudine, esclusione, domesticità e così via. Non è chiaro però come mettere in relazione l’atmosfera che tali termini determinano con prerogative forti o diritti. Insomma, non sappiamo come collegare tutto ciò ches so io al diritto di una persona famosa a non far sapere che ha il cancro o una relazione amorosa segreta, oppure a quello di un impiegato alla riservatezza sulla sua salute nei confronti del datore di lavoro. Proprio per questo motivo, non sono mancati filosofi e giuristi che hanno dubitato della possibilità di definire con chiarezza un generale diritto alla privacy, preferendo parlare di specifiche forme di tutela di singoli spazi di vita. La cosa, già di per sé non semplice, è complicata dall’avvento delle Ict (Information Communication Technologies) e del web. Quanto rilevato da Edward Snowden, e più di recente la scoperta di Cambridge Analytica, sembrano mostrare che le invasioni delle sfere protette degli individui sono reali con conseguenze assai pericolose. Le capacità tecnologiche di raccogliere, collezionare e usare per fini propri enormi quantità di dati personali sono aumentate a dismisura e adoperate per fini commerciali e politici. Big Tech (Google, Amazon, Facebook, Microsoft, Apple) ha costruito un sistema basato sullo sfruttamento dei dati personali che Shoshana Zuboff ha battezzato “capitalismo della sorveglianza”. Se una volta era il personaggio famoso la cui vita era sotto la luce dei riflettori, ora siamo tutti e sempre osservati, spiati, manipolati. Molti, perciò, lamentano il fatto che il web sta erodendo la spazio del privato. Se, mettendo per un attimo da parte i big data, guardiamo fenomeni micro abbastanza comuni come il sexting (scambio di comunicazioni sessuali esplicite tra adolescenti) o il revenge porn (dove l’amante lasciato si vendica postando foto esplicite di rapporti sessuali precedenti) si capisce bene che eventi prima ritenuti del tutto privati ora non sono più tali. Con i pericoli del caso. Ma non si tratta solo di erosione dello spazio privato. Accade infatti anche l’inverso. Basta pensare ai post di propaganda di Salvini, in cui biopoliticamente il suo corpo privato gioca un ruolo pubblico, per comprenderlo. Per non parlare del suo seguace leghista Di Muro che fa domanda di matrimonio in Parlamento. In ultima analisi, molto di quello che era ritenuto privato ora è pubblico, e viceversa aspetti tipici del pubblico diventano privati. Questo perché il web cambia le nostre attitudini nel profondo. Naturalmente, altra cosa è descrivere per sommi capi i sintomi di una fenomenologia dal valutarla positivamente. Più chiaramente: non è detto che tutto ciò sia un bene. Può mettere a rischio un valore fondamentale come quello della privacy. Nel qual caso, bisognerebbe cercare rimedi. Pensare a una sorta di auto-riforma che porti a minore invasività dei network è utopico. Trasformare i diritti alla privacy in diritti reali, dando loro una tutela più forte come quella che protegge la proprietà dal furto, è legalmente complesso. Forse, la strada migliore consiste, sulla scia di quanto pensava Stefano Rodotà, nel creare un diritto costituzionale all’autonomia della persona. Che sarebbe poi la possibilità di “essere lasciati soli” quando lo desideriamo, come scrissero poeticamente due giudici famosi (Warren e Brandeis). Gli odiatori social si scatenano dove c’è più disuguaglianza: ecco la mappa della rabbia di Gloria Riva L’Espresso, 6 dicembre 2019 Messaggi razzisti. Post omofobi. Insulti via twitter. “Nelle aree in cui è più ampia la forbice economica e in quelle dove è maggiore il timore di perdere il posto di lavoro si concentrano i fenomeni di odio virtuale” - Gli attacchi vigliacchi a Liliana Segre. La strafottenza digitale al medico Roberto Burioni. Gli insulti twittati a Elsa Fornero. Il cyberodio ha contagiato l’Italia e ogni angolo di mondo connesso. Di fronte allo sconcerto generale qualche nazione ha cercato di arginare gli insulti digitali con una legge, mentre in Italia, al dipartimento di Scienze Sociali del Gran Sasso Science Institute di L’Aquila, si è scoperta l’origine del fenomeno, il virus che ha provocato il contagio: la precarietà. Le economiste Alessandra Faggian e Daria Denti hanno mappato l’Italia dell’odio digitale e l’hanno sovrapposta a quella della criminalità, della discriminazione razziale, della povertà, della violenza fisica, del disagio sociale. Hanno fatto centinaia di tentativi riscontrando zero connessioni fra un fenomeno e l’altro, come se i tweet aggressivi fossero totalmente scollegati dal contesto, dalla realtà in cui vivono gli odiatori del web. La soluzione è poi arrivata applicando gli indicatori di incertezza economica e disuguaglianza, che corrispondevano perfettamente all’odio online: “Nelle aree in cui è più ampia la forbice economica e in quelle dove è maggiore il timore di perdere il posto di lavoro si concentrano i fenomeni di odio virtuale”, spiega la ricercatrice Denti. Negro, zingaro, terrone, frocio, usuraio, rabbino, puttana sono le parole d’odio più utilizzate nei tweet. I bersagli? Le minoranze etniche nel 42 per cento di casi, le donne (41 per cento), i disabili, il mondo lgbtq. E sono in crescita, sia in volume, sia in diffusione tanto che negli ultimi tre anni i fenomeni di cyber hate sono praticamente raddoppiati. Si tratta dunque di una delle sfide più rilevanti poste dalle piattaforme online di social media se si considera che l’anno scorso Facebook ha rimosso 7,9 milioni di discorsi di odio in tutto il mondo, mentre YouTube cancella in media più di 15mila canali a trimestre. Twitter ha ricevuto oltre 250mila segnalazioni di contenuti d’astio tra gennaio e giugno 2018, nella sola Germania. Un dato che è possibile conoscere perché soltanto i tedeschi hanno una legge sugli hate speech on line, per obbligare i principali social network, come Facebook e Twitter, a rispettare le severissime leggi di Berlino in materia di diffamazione, incitamento all’odio e minacce, in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale. In Germania, la mancata immediata rimozione di quei cinguettii fa scattare multe salate per i titolari dei social media. La commissione europea ha invece raggiunto un accordo con le piattaforme, che hanno l’obbligo di vigilare sui contenuti, lasciando però alla loro sensibilità la possibilità di cancellare o meno un commento. Il dibattito negli Stati Uniti si è fermato di fronte all’inviolabile diritto alla libertà di parola, che in qualunque caso viene prima di tutto. Eppure Tarlach McGonagle, docente di Legge dell’Informazione all’Università di Amsterdam, sfruttando le analisi dei criminologi, ha scoperto che sebbene sia solo verbale, l’impatto di un tweet crudele è estremamente duraturo e ha effetti non peggiori rispetto a un gesto violento: “Attraverso l’hiyperlinking, i motori di ricerca e i contenuti condivisi dagli utenti, i messaggi di odio rimangono tracciabili e recuperabili, determinando un perdurare significativo del danno alla vittima e alla minoranza a cui essa appartiene”, scrive il professor McGonagle. In un’indagine di Eurobarometro, il 75 per cento degli intervistati ha affermato di aver assistito a discorsi di odio online su piattaforme sociali e i dati mostrano che gli odiatori virtuali non fanno parte di alcun gruppo di odio organizzato, ma sono persone comuni, normali. A favorire i comportamenti più aggressivi e radicali, spiega la criminologa Barbara Perry dell’International Network for Hate Studies, è la generale percezione di anonimato, l’illusione di non essere identificati per quanto detto online e di non doverne rispondere. “Mai prima d’ora si era pensato di connettere il cyberodio con l’economia e con i temi della disuguaglianza”, spiega Alessandra Faggian, professore di Economia Applicata e vice rettore del Gran Sasso Institute. Che continua: “I risultati parlano di una relazione determinante forte, aprendo quindi la strada a una strategia di riduzione del fenomeno”, che passa attraverso il tema dell’incertezza occupazionale e della diminuzione della disuguaglianza, più frequente nelle grandi città, dove il divario di ricchezza tra centro e periferia è sempre più accentuato, e nelle aree più colpite dalla crisi economica del 2009. L’analisi utilizza 75mila tweet georeferenziati generati in Italia nel 2017, in parallelo con gli indicatori di Benessere economico sociale (Bes) realizzati dall’Istat per misurare l’agiatezza di un territorio al di là del reddito procapite. “Utilizzando i dati della percezione del lavoro, abbiamo scoperto che i tweet d’odio si concentrano nei territori in cui è maggiore il timore di perdere il proprio lavoro nei prossimi sei mesi e di non trovarne più uno simile. Dove è più alto il grado di instabilità percepita, maggiore è l’aggressività digitale. L’insicurezza economica è quindi una delle cause principali che muove l’astio e non ha nulla a che vedere con la paura dello straniero, con la criminalità, la marginalizzazione sociale”, spiega Denti. A questo si aggiunge il fenomeno dell’inuguaglianza economica, misurato calcolando l’indice di Gini sul reddito, che è un numero compreso tra zero e uno stimato di anno in anno su dati del dal ministero dell’Economia. Zero corrisponde alla perfetta redistribuzione, valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, al contrario, più il grado si alza, più la distribuzione del reddito diventa diseguale. “Abbiamo sovrapposto la mappa dell’odio con quella della disuguaglianza: i risultati mostrano come l’inuguaglianza economica si caratterizzi come una determinante del volume di hate tweet”, conferma Denti. Sorprendentemente è il Nord a essere più colpito dal mix di precarietà e disuguaglianza e quindi a produrre più cinguettii d’insulti: “Specialmente al Nord ci sono aree in cui, prima del 2009, c’era benessere, lavoro in abbondanza e nessuna preoccupazione rispetto al futuro occupazionale. La grande crisi ha provocato uno shock negli abitanti di quelle zone, per nulla preparati a gestire l’incertezza, la possibilità di perdere il proprio lavoro, l’urgenza di ricollocarsi. L’impatto è stato fortissimo e non si è sviluppato alcun modello alternativo, o di contenimento, per alleviare la tensione economica e sociale provocata dalla precarizzazione”, dice Denti. Ecco perché la massiccia presenza di tweet proveniente dalla bresciana e dal vicentino. La prima, pur restando un motore economico trainante del Paese, ha subito forti sconvolgimenti, mentre l’area di Vicenza è stata doppiamente colpita, prima da una crisi del manifatturiero, poi dal dramma finanziario della Popolare di Vicenza. Lo stesso dicasi per Genova, dove nell’ultimo decennio non solo la crisi ha colpito duramente, ma la politica non ha saputo trovare una risposta alternativa all’abbandono industriale e alla fragilità bancaria. Più in generale è il Veneto, seguito da Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna a evidenziare la maggior percentuale di tweet d’astio. “Sono il territorio in cui le persone sono rimaste scottate da un cambiamento del paradigma economico che non hanno saputo gestire. Da qui l’arrabbiatura e la tendenza a manifestare il proprio malessere sfruttando i social network”, continua la ricercatrice. Non c’è invece alcuna relazione con il livello d’istruzione: “Dall’operaio al manager, dal professore al commesso, la disuguaglianza sembra essere un fattore di “moderazione di capitale umano”. Significa che, se c’è una grande disuguaglianza nel contesto in cui vivo, anche le persone istruite appaiono più propense a generare tweet di odio. Questo significa che la disuguaglianza rappresenta un fattore di rischio che colpisce il territorio in modo rilevante. E questa ricerca mostra esattamente quanto le persone soffrano per le difficoltà dovute al contesto socio-economico in cui si trovano. Penso che se riuscissimo a migliorare quelle condizioni gli hate speach si ridurrebbero molto”, commenta Faggian. Una dinamica analoga si riscontra anche in Inghilterra, che insieme a Italia e Grecia è la nazione più diseguale d’Europa secondo l’Ocse: “La ricerca inglese si basa sul bullismo nelle scuole superiori e dimostra come il fenomeno sia crescente nelle zone più diseguali. Sostituendo l’indice di disuguaglianza con quello di povertà non si ottiene lo stesso risultato. Significa che è l’ineguaglianza (e non la povertà) ad aumentare il bullismo”. Nonostante i tweet siano spesso a fondo xenofobo, la componente razziale ha poco a che vedere con il fenomeno, mentre risulta essere centrale nel caso di violenza fisica, di atti vandalici veri e propri. “provocati da una percezione di minaccia all’identità socioculturale”, spiega Denti. Che continua: “Dove c’è più fiducia nelle istituzioni e maggiore integrazione delle minoranze etniche si riscontrano meno fenomeni di odio reale. L’elevata presenza di stranieri in un territorio non provoca di riflesso eccessi d’astio, se questi fanno parte della comunità locale, mentre la questione è più problematica dove esistono centri di accoglienza per rifugiati che non si integrano con la realtà locale”. In quest’ultimo caso la loro presenza viene percepita come qualcosa di lontano, diverso, soprattutto perché i cittadini non sono stati coinvolti in quella decisione. Migranti. Cosa dice davvero la sentenza del Tribunale di Roma sui respingimenti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 dicembre 2019 Il 28 novembre il Tribunale civile di Roma si è pronunciato sulla causa - appoggiata da Amnesty International Italia e Associazione studi giuridici sull’immigrazione - presentata da 14 richiedenti asilo respinti in mare verso la Libia nel 2009. Una sentenza estremamente importante, della quale tuttavia molti commentatori non hanno colto l’aspetto centrale. Non si tratta, come pure si è detto e letto, che il Tribunale di Roma abbia stabilito che i respingimenti sono illegali. Fosse questo il punto, la causa e la sentenza sarebbero state superflue. Che i respingimenti siano illegali lo dicono già le norme italiane e internazionali, a tal punto che il divieto di respingimento fa ormai parte del diritto internazionale consuetudinario. Peraltro, già nel 2012 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani, nella nota sentenza Hirsi Jamaa e altri contro l’Italia. Questo, tra l’altro, spiega perché da allora il nostro paese abbia cercato a tutti i costi un partner cui affidare questo “lavoro sporco”, trovandolo alla fine nella Libia e nella sua guardia costiera. L’aspetto innovativo e fondamentale della sentenza del Tribunale di Roma è un altro: il respingimento dei 14 ricorrenti ha impedito loro la possibilità di presentare domanda d’asilo e che ora è dovere dello stato italiano, oltre al risarcimento economico del danno, consentire a quelle persone di entrare in Italia per chiedere protezione internazionale. In altre parole, la sentenza riconosce che le persone in questione possano esercitare il diritto che gli è stato negato. E c’è di più. Riporto la parte della sentenza che riconosce la necessità di “Espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della Carta dei diritti dell’Unione europea”. La sentenza farà precedente: potrà essere applicabile a tutti i casi di respingimento non solo nel mar Mediterraneo centrale ma anche nell’Egeo così come a quelli - tanti e poco conosciuti - di respingimento dagli aeroporti. Droghe. Una vittima ogni 26 ore: aumentano le morti e arrivano nuove sostanze di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 6 dicembre 2019 Eroina osservata speciale: in crescita la percentuale dei giovani fra 15 e 19 anni che l’hanno provata almeno una volta. In leggero calo il consumo di cocaina, ma raddoppia il principio attivo. L’utilizzo di droghe, in Italia, miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, 38 in più dell’anno precedente. In media, una ogni 26 ore. Fra i più giovani, sono 660mila gli studenti che hanno fatto uso, nell’ultimo anno, di almeno una sostanza illegale: cannabis in testa (25,6%), ma seguita dalle Nps, le nuove (e micidiali) sostanze psicoattive come il Fentanyl, col 7%. In generale, il costo annuo per la cura e il trattamento delle tossicodipendenze è quantificabile in poco meno di “due miliardi di euro”, in base a “una stima sicuramente in difetto”, perché non tiene conto delle patologie correlate ai comportamenti a rischio legati al consumo, come le malattie infettive (Epatite B e C, Hiv e Aids). Sono alcuni dei dati, non certo rassicuranti, contenuti nella Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze per il 2019, realizzata dal Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del consiglio. Lo scorso 29 ottobre, il testo è stato trasmesso alla Camera dei deputati dal ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà e potrebbe essere diffuso in queste ore. Ieri Avvenire ha potuto visionarlo: in 283 pagine, suddivise in sei capitoli, contiene la fotografia più aggiornata (basata su dati consolidati relativi al 2018) del consumo di sostanze, del trattamento sanitario, del contrasto giudiziario e delle attività di prevenzione nel nostro Paese. Cannabis, regina del mercato - Nel 2018, le operazioni antidroga sono state 25.596. E fra i 123.186 chilogrammi di droghe sequestrate, la cannabis resta la sostanza più diffusa, con una “spesa stimata intorno ai 4,4 miliardi di euro l’anno” e “una percentuale di purezza alta” (12% per la marijuana, 17% per l’hashish). Dosi o carichi di “erba” o di “fumo” vengono scoperti nel 58% delle operazioni antidroga e assommano al 96% del totale di sequestrati. Inoltre, l’80% delle segnalazioni di consumo (illecito amministrativo ai sensi del noto articolo 75 del Dpr 309/1990) e il 48% delle denunce alle autorità giudiziarie sono relative ai cannabinoidi (marijuana, hashish e piante di cannabis). Un terzo degli studenti delle superiori ha “fumato” almeno una volta, con una “iniziazione” spesso intorno ai 15-16 anni. Inoltre, sono circa 150mila gli studenti tra i 15 e i 19 anni che potrebbero necessitare di un sostegno clinico. Nps, la nuova minaccia online - Attraverso il web, iniziano ad arrivare in Italia “nuove sostanze psicoattive”: cannabinoidi, catinoni e oppioidi sintetici (come il famigerato Fentanyl, responsabile quest’anno negli Usa di 72mila decessi), in genere ordinati su Internet e ricevuti per posta. Sono “oltre 400”, si legge a pagine 246, i “siti/forum/account social molto usati soprattutto dai giovani”, come “piattaforme di vendita online”, per i quali sono state “avanzate al ministero della Salute, 17 proposte di oscuramento di siti”. Le indagini hanno “portato al sequestro di quasi 80 kg e 27mila dosi di sostanze sintetiche”. E nel solo 2018, 5 decreti del ministero della Salute hanno inserito 49 nuove droghe nelle tabelle delle sostanze illegali. E il “Sistema nazionale d’allerta precoce” (Snap) “permette di identificare in tempi sempre più ridotti nuove sostanze in circolazione”: 39 nuove molecole scoperte nel 2018 (soprattutto catinoni sintetici e triptamine), in 15 casi con esami su persone “giunte in pronto soccorso per intossicazioni acute”. Coca e incidenti stradali - Il mercato della “neve” è stabile ma fiorente, con una spesa stimata di “6,5 miliardi”. Dopo la cannabis resta “la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori” e uno “dei pericoli sociali di maggiore rilevanza”, per gli incidenti stradali dovuti al suo abuso. Quella in circolazione adesso è più pura: dal 33% di principio attivo del 2016 è passata al 68% nell’ultimo biennio, con ricoveri e casi di decesso cresciuti rispettivamente del 38% e 21%. Eroina per quindicenni - Sul fronte degli oppiacei, i dati mostrano una crescita: nel 2018, una tonnellata di eroina è stata sequestrata dalle forze dell’ordine; il principio attivo è del 18%, più alto che in passato; sale il prezzo di spaccio e raddoppiano le denunce per traffico. Ne fanno uso 6 persone ogni mille. Soprattutto, ed è l’aspetto più allarmante, “l’aumento della disponibilità di eroina” si accompagna alla crescita della percentuale dei giovani fra 15 e 19 anni, che l’hanno provata almeno una volta: “Dall’1,1 all’1,5%”. Decessi e ricoveri d’urgenza - Di droga si muore di più di prima: “Si è verificato un incremento dei decessi direttamente droga-correlati”, passati “dai 296 casi del 2017 a 334 nel 2018”. Una vittima ogni 26 ore, per intendersi. Con un inquietante raddoppio (“+92%”) dei decessi fra “le donne over 40”. In generale, s’incrementa il numero delle persone “in trattamento” per l’uso di stupefacenti (con un 14% di “nuovi utenti”) per un totale di 133.060 (88% uomini, dipendenti soprattutto da eroina e coca). Ma se i 568 servizi pubblici per le dipendenze e le 839 strutture socio-riabilitative censite (su 908 presenti) notano un “invecchiamento della propria utenza”, sono i dati sui ricoveri a indicare come molti assuntori non siano consapevoli dei rischi. In un anno, infatti, sono state 7.452 persone finite in ospedale, più di 20 al giorno. E “più della metà di tali diagnosi fa riferimento a sostanze miste o non conosciute”, col sospetto che sia la punta dell’iceberg di una “popolazione insorgente di utilizzatori di sostanze sintetiche e Nps, in maggioranza giovani”. Il dramma delle carceri - Secondo la relazione, sale la cifra dei “soggetti segnalati per detenzione di sostanze per uso personale” (cannabis in 8 casi su 10). Resta invece stabile il numero dei denunciati alla magistratura per traffico, spaccio e altri reati; 35.745 persone, con aumento degli over 35 e delle donne. Il narcomercato genera “conseguenze nell’ambito penitenziario”: la popolazione carceraria “è costituita per un terzo da detenuti” per reati collegati alle droghe e “per un quarto da soggetti tossicodipendenti” in cura. Prevenzione nelle scuole - Il Dipartimento politiche antidroga ha siglato un accordo con la direzione generale per lo studente del Miur e ha promosso progetti e convenzioni (circa 70) con università ed enti non profit. “Gli interventi di prevenzione - osservano gli esperti del Dpa - rivestono un ruolo fondamentale, in particolar modo in ambito scolastico” per “identificare tempestivamente i comportamenti a rischio e le condizioni di vulnerabilità” dei ragazzi. Droghe. La regolamentazione della cannabis light porterebbe allo Stato 5 miliardi l’anno di Andrea Lijoi Milano Finanza, 6 dicembre 2019 Dopo la sentenza del 30 maggio 2018 con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto illecita la vendita di cannabis, anche quella light, si aspettava la chiusura immediata delle migliaia di canapa shop fioriti in tutta Italia. Anche Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno del primo governo Conte, provò a eseguire la sentenza e proclamò “li chiuderò uno a uno”. In realtà la sentenza, come osservarono in molti, è piuttosto ambigua e lascia ai giudici ordinari il compito di verificare caso per caso se i prodotti a base di cannabis, esposti nelle vetrine degli shop, sono idonei “a produrre in concreto un effetto drogante”. A conti fatti, i negozi con le classiche foglie verdi a forma di lancia per insegna continuano a esporre e a vendere biscotti, tisane, bustine di erba e altre decine di prodotti a base di cannabis sativa. Nei giorni scorsi a Milano si è anche tenuta la seconda edizione di Canapa Expo, la fiera internazionale dedicata al mondo della canapa e ai suoi prodotti, con centinaia di espositori e migliaia di visitatori, con decine di esperti giunti da tutta Europa che in tre giorni di workshop e dibattiti hanno insistito sulla necessità di fare finalmente chiarezza nel settore. “Anche perché”, sostengono i promotori, “è una risorsa incredibile e con la legalizzazione può fare molto per l’economia, il sociale, oltre ai già noti vantaggi dal punto di vista medico e ambientale”. In effetti, l’uso terapeutico delle infiorescenze della canapa è già autorizzato e in uso da anni, prescritto legalmente dai medici per alleviare dolori cronici di varia origine. Ed è impensabile che la Finanza vada a chiudere farmacie e ospedali dove si somministrano farmaci a base di cannabis sativa, che comunque sono fuori dal perimetro indicato, anche se con confini non proprio netti, dalla sentenza della Cassazione. Inoltre, questa marijuana terapeutica è prodotta nello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, unico “spaccio” autorizzato per farmacie e ospedali a un prezzo per i pazienti fissato dal ministero della Salute. Il problema sorge per la cannabis light (cioè la canapa sativa con principio attivo The inferiore allo 0,6%) venduta proprio in quei negozi, spuntati all’improvviso dopo la legge n. 242 del 2016 che ha aperto lo spiraglio della regolamentazione, come avvenne per le botteghe del vaping quando scoppiò la moda delle sigarette elettroniche. E proprio come per le e-cig, il problema della cannabis light è, al di là della legalizzazione, la regolamentazione da parte dello Stato di un fenomeno già in atto. Come? Attraverso le imposte. Se il tabacco e i suoi derivati pagano le accise, che fruttano ogni anno all’erario x miliardi di euro, e se anche le sigarette elettroniche pagano la loro quota di accise, perché mai la cannabis e i suoi derivati usati per motivi ricreativi non devono dare il loro contributo di imposte? Che così debba essere ne sono convinti anche diversi parlamentari, in questi giorni alle prese tra l’altro con la manovra economica per far quadrare il bilancio pubblico. Uno di questi è Massimo Ungaro di Italia Viva, autore di un’interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio e ai ministri dell’Economia, dell’Interno, della Salute e della Giustizia, in cui pone un problema sociale (il libero accesso all’acquisto di cannabis light anche per i minorenni, non solo negli shop ma soprattutto nei canali online) e un problema erariale. Secondo uno studio dell’Università di Messina citato da Ungaro, applicando alla cannabis una tassazione simile a quella dei tabacchi, le entrate per lo Stato sarebbero pari a circa 5 miliardi di euro l’anno, oltre a una riduzione della spesa pubblica legata alla repressione dello spaccio illegale per 540 milioni di euro. “Un inquadramento di legge”, afferma nell’interrogazione, “permetterebbe di sottrarre ingenti risorse alla criminalità organizzata, assicurando al contempo nuovi significativi introiti per lo Stato che rappresenterebbero, altresì, entrate certe, perché provenienti da una rete controllata e sicura”. Un tema ripreso anche in due proposte di emendamento alla legge di Bilancio in discussione al Senato, primi firmatari Francesco Mollame e Matteo Mantero del M5S, che mirano a sottoporre a imposta di fabbricazione la biomassa di canapa e a tassare la commercializzazione delle infiorescenze di canapa. Ma gli emendamenti, con grande disappunto dei presentatori, sono stati ritirati. “Vi chiedo scusa”, ha postato sul suo profilo social Mantero, rivolto ai suoi elettori dopo aver scoperto che gli emendamenti erano stati ritirati dal suo gruppo in commissione bilancio. Ma poi assicura: “Non tutto è perduto, ripresenteremo l’emendamento alla Camera”. Libia. Padre Zerai: “un piano internazionale per salvare gli immigrati” Vita Trentina, 6 dicembre 2019 Nei centri di detenzione libici le condizioni di vita di centinaia di africani sono disumane. Mentre in Libia si continua a combattere, molte vite sono a rischio, se non vi sarà un piano o un intervento internazionale per salvare i detenuti, poveri e inermi. All’Agenzia Fides padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni impegnato nel sostegno agli immigrati, racconta delle testimonianze raccolte dal campo di Zawiya, dove “circa 650 persone, donne e uomini di diverse nazionalità di cui 400 eritrei ed etiopi vivono costantemente nella paura. Si avvertono spari nelle vicinanze, ma i detenuti sono chiusi lì, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco: rischiano la vita”. Padre Zerai lancia un appello “a tutte le istituzioni europee e delle agenzie per i diritti umani”: “Si mobilitino per mettere in atto un piano straordinario di evacuazione di questi fratelli e sorelle che oggi si trovano in queste condizioni. Ogni rinvio mette in pericolo la vita di centinaia di vite umane”. Le condizioni di vita nei centri di detenzione libici, rileva, sono al limite dell’umano. Nelle testimonianze raccolte da don Zerai, i detenuti affermano: “Sono mesi che non riceviamo nulla per l’igiene personale, siamo costretti a bere acqua salata della quale non sappiamo la provenienza. Problemi di salute sono all’ordine del giorno, i più gravi sono i malati di tubercolosi: circa 40 persone, di cui 10 non hanno mai avuto nessuna assistenza, tre sono in condizione gravissime, con il grave rischio di trasmettere a tutti noi la malattia”. I migranti si sentono abbandonati, molti sono caduti in depressione, altri tentano la fuga per prendere la via del mare, in preda alla disperazione. Algeria. Fine della campagna elettorale segnata dalla repressione amnesty.it, 6 dicembre 2019 A una settimana dalle elezioni presidenziali del 12 dicembre in Algeria, Amnesty International ha denunciato l’aumento della repressione nei confronti delle proteste, che ha dato luogo ad arresti di massa, sgomberi di manifestazioni pacifiche e procedimenti giudiziari nei confronti di decine di attiviste e attivisti. L’appuntamento elettorale è oggetto di ampie contestazioni in tutta l’Algeria, promosse soprattutto dal movimento di protesta “Hirak”. Gli arresti dei manifestanti sono iniziati a settembre ma sono aumentati a partire dal 17 novembre, data d’inizio della campagna elettorale. “Da allora, le autorità algerine hanno dato l’assalto alla libertà d’espressione e di manifestazione, dimostrando tollerare assai poco le richieste di cambiamento provenienti dalle proteste”, ha dichiarato Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Nel corso delle proteste settimanali degli ultimi 10 mesi milioni di algerini hanno fatto vedere che credono nelle manifestazioni pacifiche come mezzo collettivo per chiedere il cambiamento. Invece di attaccarli, le autorità algerine dovrebbero proteggere i loro diritti alla libertà d’espressione e di manifestazione pacifica”, ha aggiunto Morayef. Il giro di vite nei confronti delle proteste contro le elezioni - Secondo avvocati per i diritti umani e la Lega algerina per la difesa dei diritti umani, solo dal 17 al 24 novembre ci sono stati almeno 300 arresti. Il 17 novembre almeno 37 manifestanti pacifici contrari alle elezioni presidenziali sono stati arrestati a Tlemcen mentre era in corso il comizio di uno dei candidati, Ali Benflis. Quattro di loro sono stati condannati per “istigazione a manifestazione non armata” a un anno e mezzo di carcere mentre ad altri 14 sono stati inflitti due mesi di carcere con sospensione della pena. Il 20 novembre, secondo una denuncia del Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti, oltre 150 manifestanti sono stati arrestati ad Algeri nel corso di una protesta notturna. La maggior parte di loro è stata rilasciata ma otto sono stati accusati di “minaccia alla sicurezza nazionale” e “istigazione a manifestazione non armata” e si trovano tuttora in detenzione preventiva. Altri 21 sono a piede libero ma dovranno comparire in tribunale il 6 gennaio 2020 per rispondere di “istigazione a manifestazione non armata”, “disobbedienza civile” e “minaccia alla sicurezza nazionale”. Queste azioni repressive sono state accompagnate da una crescente narrativa ostile nei confronti di coloro che protestano contro le elezioni. Halim Feddal, difensore dei diritti umani e fondatore dell’Associazione nazionale algerina contro la corruzione, è stato arrestato il 17 novembre a Chlef al termine di una manifestazione pacifica e si trova attualmente in detenzione preventiva. Altri arresti di attivisti contrari alle elezioni hanno avuto luogo a Ouargla, Boumerdes, Annaba e altre città in cui si svolgevano comizi elettorali. Amnesty International è a conoscenza di almeno tre casi di maltrattamento di detenuti. Gli avvocati di Chems Eddine Brahim Lalami, un attivista di Bordj Bou Arréridj arrestato il 20 novembre, hanno denunciato che il loro cliente presentava ematomi sul volto e su un braccio e non era in grado di stare in piedi. Dal giorno dell’arresto è detenuto in isolamento e ha iniziato uno sciopero della fame. Un altro attivista, Sofiane Babaci, è stato picchiato dopo l’arresto, avvenuto il 26 novembre a Boumerdes. Younes Redjal, un attivista di Orano arrestato lo stesso giorno, è stato rintracciato dagli avvocati della Lega algerina per la difesa dei diritti umani in una stazione di polizia, semi-incosciente e con ematomi su un braccio. Un’ondata di arresti contro i militanti del movimento Hirak - Da settembre in poi, le autorità hanno preso sempre più spesso di mira i manifestanti del movimento Hirak, che scendono in piazza ogni settimana dal 22 febbraio. Il 22 novembre molti di loro sono stati arrestati in più città. Tra questi, Kaddour Chouicha, esponente anche della Lega algerina per la difesa dei diritti umani, e due attivisti del Movimento d’azione giovanile, tutti accusati di “istigazione a manifestazione non armata” e “minaccia alla sicurezza nazionale”. Il 28 novembre ad Algeri una protesta delle madri dei detenuti del movimento Hirak è stata dispersa con la forza. Il 29 novembre almeno 25 manifestanti pacifici sono stati arrestati, sempre ad Algeri. Almeno tre di loro restano in detenzione preventiva. “Esprimere contrarietà alle elezioni presidenziali o criticare le autorità non sono reati. Le autorità algerine devono rilasciare immediatamente e senza condizioni tutte le persone finite in carcere solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà d’espressione e di manifestazione”, ha sottolineato Morayef. Attivisti pacifici condannati - Almeno 28 manifestanti pacifici sono stati condannati unicamente per essere in possesso della bandiera della comunità amazigh. L’11 novembre 22 di loro sono stati condannati a un anno di carcere di cui sei mesi di pena sospesa e a una multa. Il giorno dopo la stessa pena ma senza la multa è stata inflitta ad altri sei imputati. “Punire col carcere chi è in possesso di una bandiera è vergognoso e viola gli obblighi dell’Algeria rispetto al diritto internazionale dei diritti umani. Queste condanne sono un segnale pericoloso dell’intolleranza delle autorità algerine verso il dissenso pacifico”, ha commentato Morayef. Oltre che contro i manifestanti pacifici, le autorità algerine hanno rivolto le loro attenzioni anche nei confronti di giornalisti: dal 28 novembre ne sono stati arrestati ad Algeri almeno cinque. Quattro sono stati rilasciati poche ore dopo l’arresto. Uno di loro ha riferito ad Amnesty International che gli è stata confiscata l’attrezzatura e che è stato minacciato di venire incriminato di “offesa a pubblico ufficiale” se non avesse firmato il verbale d’interrogatorio. Il 26 novembre, secondo quanto denunciato dal Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti, è stato arrestato l’artista di Orano Abdelhamid Amine, noto come Nime, “colpevole” di aver realizzato alcuni ritratti satirici dei candidati, del capo di stato maggiore delle forze armate e dell’ex presidente della Repubblica, ampiamente circolati sui social media. È attualmente detenuto in attesa di processo. “Nessuno dovrebbe subire intimidazioni, minacce o arresti per aver seguito le proteste o aver criticato i candidati alle elezioni”, ha dichiarato Hassina Oussedik, direttrice di Amnesty International Algeria. Stati Uniti. Le sevizie della Cia nei disegni di un detenuto a Guantánamo ansa.it, 6 dicembre 2019 Le torture della Cia attraverso gli occhi del torturato: dal “waterboarding” che induce il senso della morte imminente per soffocamento, al confinamento forzato in una gabbia dove nessun movimento è possibile. Una serie di disegni pubblicati per la prima volta in uno studio della Seton Hall University gettano una luce raccapricciante sulle maniere “forti” usate dall’agenzia di intelligence dopo le stragi dell’11 settembre. Autore dei disegni e vittima allo stesso tempo è Abu Zubaydah, un palestinese tuttora detenuto a Guantánamo senza essere mai stato incriminato, Zubaydah fu il primo jihadista sottoposto ai “metodi di interrogatorio rafforzati” adottati con l’imprimatur del presidente George W. Bush dopo le stragi di al Qaida. I disegni del prigioniero sono un macabro diario per immagini di quanto accade in un “sito nero” della Cia in Tailandia nell’agosto 2002. “Hanno paura di me”. Un prigioniero politico di 85 anni nelle galere ucraine di Maurizio Vezzosi farodiroma.it, 6 dicembre 2019 Mekhti Logunov, 85 anni, è il più anziano tra i prigionieri politici attualmente detenuti nelle carceri ucraine. Lo scorso ottobre nei suoi confronti è stata emessa dalla Corte di appello di Kharkov (Ucraina orientale) una sentenza di condanna a ben 12 anni di reclusione con l’accusa di essersi appropriato di informazioni riservate e di voler commettere atti terroristici contro l’Ucraina. Le accuse, rigettate con sdegno dall’ultraottantenne sono da lui descritte come il prodotto una macchinazione dei servizi segreti ucraini (SBU). Secondo gli agenti, Mekhti Logunov avrebbe infatti raccolto informazioni con finalità di terrorismo a proposito delle ricerche condotte dall’Istituto di Fisica e Scienza di Kharkov, in particolare sul nucleare. Tuttavia, l’accusa con cui Mekhti Logunov è stato incriminato è quella di tradimento allo stato, e non quella di spionaggio. Un fatto che sarebbe assai anomalo se le accuse di spionaggio potessero dirsi in qualche modo fondate. Mekhti Logunov, classe 1934, è stato arrestato a Kharkov il 17 agosto 2017 ed ha trascorso oltre due anni nella struttura Sizo - acronimo in lingua russa ed ucraina di “struttura di isolamento investigativo” - del carcere di Kharkov. L’ottantacinquenne si trova tutt’ora in carcere in condizioni critiche: durante l’udienza dello scorso ottobre Mekhti Logunov ha raccontato che a causa dell’età, ma soprattutto delle dure condizioni di detenzione prolungata ha perso ben quindici denti. Un problema che rende assai complicata e faticosa la sua alimentazione. Per avere un’idea di quali possono essere le condizioni detentive che Mekhti Logunov si trova ad affrontare - insieme a molti altri detenuti politici e non - si possono visionare le foto scattate segretamente alcuni mesi fa nella struttura Sizo di Odessa. La Corte di appello, secondo il detenuto, avrebbe preso in considerazione solo una parte dei documenti riguardanti l’indagine, escludendo l’ammissibilità di tre fascicoli senza fornire spiegazioni in merito alla scelta. L’ottantacinquenne, di origine abcasa ma da decenni cittadino di Kharkov (Ucraina orientale), ha un’importante carriera scientifica alle spalle: per anni ha insegnato nel Politecnico di Kharkov e con i suoi studi ha brevettato macchinari e strumentazioni tecniche. Respingendo il teorema che lo descriverebbe con un “agente russo”, Mekhti Logunov anche da detenuto ha ribadito con durezza le critiche da lui mai risparmiate alla deriva politica che ha caratterizzato l’Ucraina degli ultimi anni. “L’SBU - i servizi segreti ucraini, NdA - è un’organizzazione di affaristi. Temono che io, una volta fuori dal carcere, racconti quello che so. […] Un giorno l’SBU verrà dichiarata un’organizzazione criminale, come la Gestapo” ha dichiarato Mekhti Logunov. In mancanza di un provvedimento da parte del governo o della presidenza riguardo la sua detenzione, Mekhti Logunov dovrà attendere la revisione del caso da parte della Corte di Cassazione prevista tra alcuni mesi. Alcune settimane prima dell’udienza in cui Mekhti Logunov è stato condannato, a Kharkov era stato organizzato un presidio per chiedere la liberazione dell’ottantacinquenne. Lo svolgersi dell’iniziativa è stato interrotto da alcuni neofascisti locali, che hanno minacciato i presenti, accanendosi in particolare contro il consigliere del municipio di Kharkov Andrey Lesik, uno dei promotori dell’iniziativa: i neofascisti hanno inoltre scandito slogan che chiedevano il carcere anche per il consigliere, a sua volta additato come “agente russo”. (Qui il video) Mekhti Logunov non è l’unico ucraino detenuto per ragioni politiche, ma riguardo il loro numero complessivo non esistono dati certi. Le autorità di Kiev negano l’esistenza della persecuzione politica, preferendo descrivere gli oppositori come delinquenti comuni, o più spesso come “agenti russi”. Ben poche sono le possibilità di raccogliere dati ed informazioni sul tema. Secondo indiscrezioni, comunque, il numero minimo di cittadini ucraini attualmente detenuti per ragioni politiche andrebbe stimato nell’ordine delle centinaia. Secondo altre stime, come quelle di Daria Morozova. responsabile per i diritti umani dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, il loro numero sarebbe superiore alle 1300 persone. A questi, nonostante alcuni scambi di prigionieri concordati recentemente tra il governo di Mosca e quello di Kiev, si sommano un numero cospicuo di prigionieri di guerra, in buona parte cittadini ucraini, benché descritti dalle autorità ucraine come “militari russi”. Si attende intanto il vertice tra le rappresentanze di Francia, Germania, Ucraina e Federazione Russa che si svolgerà a Parigi il prossimo 9 dicembre per affrontare ancora una volta l’irrisolto problema della guerra civile esplosa in Ucraina nel 2014: un conflitto che è costato già oltre tredicimila vittime, e che seppur congelato dai primi mesi del 2015, continua a mietere vittime pressoché quotidianamente. In vista del vertice l’ex parlamentare ucraino Aleksey Zhuravko ha inviato un appello per la liberazione di Mekhti Logunov al presidente francese Emmanuel Macron ed alla cancelliera tedesca Angela Merkel. Nonostante le speranze riposte nel nuovo presidente ucraino Vladimir Zelenskij, la situazione del paese resta profondamente critica nel suo complesso.