La Consulta: “Ecco perché il 4bis è contro la Costituzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2019 Giusto premiare il detenuto che collabora, inammissibile punirlo ulteriormente per la mancata collaborazione. Permessi premio agli ergastolani e agli altri detenuti ostativi: le motivazioni della consulta sull’illegittimità costituzionale dell’art. 4bis, comma 1. Giusto premiare il detenuto che collabora, inammissibile punirlo ulteriormente per la mancata collaborazione. Questo è il fulcro delle motivazioni della sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se vi sono elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione al sodalizio criminale e il pericolo di un ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Nelle motivazioni relazionate dal giudice della Corte Costituzionale Nicolò Zanon, viene evidenziato che ovviamente non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità - non più assoluta ma relativa - può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale. Quindi nessun automatismo come alcuni organi di stampa e taluni magistrati hanno fatto presagire. Per usufruire del permesso premio, non basta solamente avere una buona condotta, ma tanti altri elementi saranno valutati rigorosamente dai magistrati di sorveglianza per concedere o meno tali benefici penitenziari. La Consulta detta anche dei paletti: ovvero che la valutazione in concreto di questi cambiamenti dev’essere svolta sulla base di criteri particolarmente rigorosi, proporzionati alla forza del vincolo criminale di cui si esige dal detenuto il definitivo abbandono. Il magistrato di sorveglianza compirà queste valutazioni non da solo, ma sulla base sia delle relazioni dell’Autorità penitenziaria sia delle dettagliate informazioni acquisite dal competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Nelle motivazioni, inoltre, si sottolinea che l’incostituzionalità della norma - derivante dal contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione) - è stata estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’articolo 4bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, anche puniti con pena diversa dall’ergastolo ostativo. La Corte precisa che le questioni sollevate non riguardano chi ha subito una condanna a una determinata pena, ma chi ha subito una condanna (nella fattispecie all’ergastolo) per reati cosiddetti ostativi, in particolare di tipo mafioso. La Consulta sottolinea che se non venisse estesa per tutti gli altri reati ostativi, ne deriverebbe una paradossale disparità di trattamento in danno dei detenuti per i quali possono essere del tutto privi di giustificazione, sia il requisito della collaborazione con la giustizia sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un inesistente sodalizio criminale di originaria appartenenza. In sostanza la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante perde il carattere di assolutezza e diventa relativa. Cade quindi l’assolutezza della presunzione che impediva al magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso carcerario del singolo condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale. Infine, la presunzione assoluta si fondava su una generalizzazione a base statistica, cioè sulla probabilità che la mancata collaborazione del detenuto fosse sintomo dell’attualità dei suoi collegamenti con il sodalizio criminale originario. Tuttavia la Consulta specifica che, trattandosi del reato di affiliazione a un’associazione mafiosa (e dei reati ad esso collegati), notoriamente caratterizzato dalla forte intensità del vincolo associativo imposto dal sodalizio criminale, la valutazione in concreto di questi cambiamenti dev’essere svolta sulla base di criteri particolarmente rigorosi, proporzionati alla forza del vincolo criminale di cui si esige dal detenuto il definitivo abbandono. Valutazioni che già sono ben definite. Nessuna preclusione per gli autori di sequestri di persona aggravati Recentemente la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla preclusione sui permessi premio anche per i condannati a pena temporanea per sequestro aggravato dalla morte della vittima. La Consulta è stata investita della questione di legittimità costituzionale, promossa dai Magistrati di sorveglianza di Padova e Milano, avente ad oggetto l’art. 58quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui prevede che i condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630, secondo comma, del codice penale, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati dall’art. 4bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario se non abbiano effettivamente espiato almeno due terzi della pena irrogata. I giudici hanno rilevato l’incompatibilità della disposizione censurata con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Due sono i casi sollevati. Uno in particolare si tratta di una detenuta condannata in via definitiva alla pena di ventiquattro anni di reclusione per concorso in sequestro di persona a scopo di estorsione, aggravato dalla morte della persona sequestrata come conseguenza non voluta, ai sensi dell’art. 630 del codice penale, in relazione al ruolo da lei assunto nel rapimento di un bimbo, conclusosi con la sua uccisione da parte di altri correi. Al momento della presentazione dell’istanza, la detenuta aveva espiato effettivamente tredici anni, un mese e dodici giorni di reclusione, avendo altresì maturato due anni, sette mesi e cinque giorni di liberazione anticipata. Nell’istanza la condannata aveva asserito la propria totale estraneità a contesti di criminalità organizzata e aveva dedotto, altresì, l’evidente impossibilità di una sua collaborazione “attiva” in quanto le condotte a lei ascritte erano state integralmente accertate con sentenza passata in giudicato. tuttavia, alla stregua della disposizione censurata, l’istanza avrebbe dovuto essere ritenuta inammissibile non avendo la condannata ancora espiato i due terzi della pena detentiva inflitta. Tra le varie motivazioni, una in particolare è la mancata parità di trattamento con gli ergastolani. Con la sentenza n. 149 del 2018 nei confronti degli ergastolani, aveva prodotto l’irragionevole conseguenza che, oggi, essi godono di un trattamento penitenziario più favorevole rispetto a quello riservato ai condannati a pena detentiva temporanea per i medesimi titoli di reato dato che i condannati alla pena dell’ergastolo, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, possono - in forza della citata sentenza del 2018 - accedere al beneficio del permesso premio dopo aver espiato dieci anni di pena, riducibili sino a otto anni grazie alla liberazione anticipata, mentre i condannati a pena detentiva temporanea per il medesimo titolo delittuoso, prima che venisse emessa questa sentenza, potevano invece accedere al predetto beneficio, solo dopo aver scontato i due terzi della pena inflitta. La Consulta, recependo tali motivazioni, ha ritenuto necessario rimuovere la preclusione stabilita dall’art. 58- quater, comma 4, anche con riferimento ai condannati a pena temporanea per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato (dolosamente o colposamente) la morte del sequestrato. Oltre a ciò, così come era avvenuto nella sentenza n. 149 del 2018, la presente dichiarazione di illegittimità costituzionale viene estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla parte della disposizione censurata che si riferisce ai condannati a pene detentive temporanee per il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289 bis del codice penale, che abbiano cagionato la morte del sequestrato. “Negare i permessi premio è punizione ulteriore” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 dicembre 2019 Reati ostativi. La motivazione della Consulta per la sentenza di incostituzionalità dell’art. 4bis che nega automaticamente i benefici penitenziari agli ergastolani non collaboranti. “Il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente - negandogli benefici riconosciuti a tutti - se non collabora”. Viceversa, non basta che sia un “detenuto modello”, che aderisca ai programmi di rieducazione o che dichiari la dissociazione ai clan mafiosi di cui era sodale, perché l’ergastolano non collaborante possa automaticamente accedere ai benefici penitenziari. Lo spiega la Corte costituzionale nelle motivazioni, depositate ieri, della sentenza con la quale, il 23 ottobre scorso, è stato dichiarato incostituzionale quella parte dell’art. 4bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario che preclude automaticamente ai condannati all’ergastolo per mafia, terrorismo, e altri tipi di associazione criminale che non abbiano collaborato con la giustizia di accedere ai permessi premio. In sostanza, affermano i giudici nella sintesi dell’ufficio comunicazione della Consulta, “la presunzione di pericolosità - non più assoluta ma relativa - può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale”. Motivazioni, quelle depositate ieri, che non hanno spostato di un millimetro le convinzioni del ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, assolutamente contrariato dalla decisione della Corte presieduta da Giorgio Lattanzi: “Sono sicuro che le forze politiche saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza”, ha detto il Guardasigilli, mentre dal ministero fanno sapere che “i tecnici sono già al lavoro per verificare, insieme al Parlamento, un’adeguata e tempestiva soluzione”. A ben guardare, Bonafede riflette le preoccupazioni di una parte del mondo della giustizia riguardo il possibile impatto negativo della sentenza sulla lotta alle mafie. Se è vero infatti che la decisione della Consulta abolisce solo l’automatismo lasciando al tribunale di sorveglianza la decisione ultima sulla concessione dei permessi premio, da prendere caso per caso, è pur vero, come sostiene un magistrato antimafia che vive sotto scorta e che vuole rimanere anonimo, che “lontano dai territori di origine delle mafie (dove sono confinati quasi sempre questo tipo di detenuti) si fa fatica a comprendere il grado di internità ai clan, che perdura anche a distanza di decenni, e la stessa magistratura è meno preparata alle possibili ritorsioni e minacce”. La Consulta però, basandosi sui principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (art. 3 e 27 della Costituzione) è giunta alla conclusione che una norma siffatta è incostituzionale anche per “tutti i reati compresi nel comma 1 dell’articolo 4bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, anche puniti con pena diversa dall’ergastolo”. Nel comunicato infatti si precisa che le questioni di legittimità portate davanti alla Consulta “non riguardano il cosiddetto ergastolo ostativo, su cui si è di recente pronunciata la Corte di Strasburgo (13 giugno 2019 caso Viola contro Italia)” ma solo i casi specifici di due mafiosi condannati all’ergastolo. In contesti come questo, “la presunzione (di pericolosità, ndr) assoluta si fondava su una generalizzazione a base statistica”. Il magistrato di sorveglianza invece compirà le sue valutazioni “non da solo”, ma sulla base delle relazioni dell’Autorità penitenziaria, del competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica e mai in contrapposizione con il parere dell’antimafia o dell’antiterrorismo o del Procuratore distrettuale. Bruti Liberati: “Atto di civiltà che indebolirà le mafie” di Errico Novi Il Dubbio, 5 dicembre 2019 Dalla sentenza della Consulta sui permessi ai reclusi in regime ostativo viene il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle mafie”. A dirlo è Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano. Edmondo Bruti Liberati è stato un procuratore di Milano rigoroso, ed è tuttora considerato un punto di riferimento, in ambito associativo, da molti colleghi. “Tengo a ricordare di essere stato anche un magistrato di sorveglianza: in tale veste, nel 1975, ho avuto modo per la prima volta nella storia della Repubblica di applicare l’istituto del permesso: era stato introdotto con la riforma penitenziaria, si trattava del primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta. Ed è l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”. Appena lette le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che indica la “collaborazione” come presupposto insuperabile per concedere permessi ai reclusi sottoposti al 4bis, Bruti Liberati non esita ad auspicare che “i principi affermati dalla Consulta trovino applicazione anche per la liberazione condizionale per l’ergastolo”. La pronuncia, in ogni caso, “è un segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e chiude idealmente la presidenza Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri”. Si può parlare anche di un “atto di coraggio”, considerata l’impopolarità che suscitano principi pure chiarissimi nella nostra Carta, a cominciare dal fine rieducativo della pena? “La sentenza della Corte costituzionale è importante per la decisione presa e per i principi affermati. Richiama i principi costituzionali sulla esecuzione della pena e lo spirito originario della riforma penitenziaria del 1975. Quella legge, abrogando il regolamento fascista, chiuse la stagione delle riforme della prima metà degli anni Settanta. Il Parlamento ebbe il coraggio di fare entrare in vigore la riforma nonostante il crescente allarme per la criminalità organizzata e il terrorismo”. Viene riproposta idealmente la stessa sfida lanciata allora dal legislatore nei confronti di quelle minacce? “Assolutamente sì. Ma è anche opportuno precisare il perimetro esatto della pronuncia di cui sono appena state depositate le motivazioni. Lo Corte, nonostante polemiche disinformate, non affronta la questione di fondo del cosiddetto ergastolo ostativo. Interviene soltanto, perché questa era la questione portata al suo esame, sulla disciplina dei permessi. La legge parla, con dizione fuorviante, di “permessi premio”: non si tratta per nulla di un premio per la buona condotta in detenzione, ma, di norma, del primo passaggio nel percorso di reinserimento del condannato nella società”. Ma è un’idea che suscita agitazione in una parte evidentemente maggioritaria dell’opinione pubblica... “Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare l’istituto dei permessi: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella”. Grazie allo scrupolo dei magistrati di sorveglianza la percentuale di mancati rientri fu modestissima, ma l’istituto del permesso ha risentito delle emergenze: di quella relativa al terrorismo alla fine degli anni 70, e poi dell’emergenza mafia. Così si spiegano gli andamenti oscillanti di chiusure e riaperture”. La sentenza riguarda solo i permessi, certo: ma i principi affermati prefigurano secondo lei un superamento complessivo dell’ostatività ex 4bis anche per l’ergastolo? “La pronuncia della Corte riguarda solo i permessi ma i principi affermati sono di carattere generale. È prevedibile e auspicabile che tali principi trovino applicazione anche per le misure alternative della semilibertà e dell’affidamento e per la liberazione condizionale per l’ergastolo. Le presunzioni assolute e insuperabili, previste per alcuni gravi reati, di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato che non collabori con la giustizia sono incostituzionali, anche se la condanna è all’ergastolo. La Corte afferma che la “collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento”; aggiunge anche che “non è affatto irragionevole presumere che il condannato che non collabori mantenga vivi i contatti con l’organizzazione criminale”. Ma per rispettare i principi costituzionali occorre prevedere che “tale presunzione sia relativa e non già assoluta, e quindi possa essere vinta da una prova contraria”. Parte della maggioranza di governo insiste nell’ipotizzare addirittura una legge che “limiti” l’applicabilità della sentenza... “Gli allarmi lanciati prima ancora di conoscere la motivazione della sentenza sono ingiustificati. Afferma la Corte che non basta certo la sola regolare condotta carceraria o la mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno una sola dichiarata dissociazione. Occorre acquisire “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Il sistema che ne emerge è netto nell’affermare i principi costituzionali e insieme attento alle esigenze di sicurezza. L’intervento di urgenza del legislatore, da taluni invocato, non ha spazi se non con la reintroduzione di rigidità incostituzionali”. La sentenza è anche un riconoscimento della funzione svolta dai giudici di sorveglianza? “Si può dire questo: una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Ancora una volta la Corte indica un percorso, sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia”. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia, che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi a pigre formulette del genere “non si può peraltro escludere che…”. È un mutamento culturale che si richiede, appunto, anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo antidoto alla recidiva. Tutt’altro che buonismo, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza”. Quindi gli allarmi su un’improvvisa invasione di boss sono immotivati? “Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose, casomai di ricordare che in carcere non ci sono organizzazioni ma persone. L’offrire una prospettiva di uscita, di rientro nella società, andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori di valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. Terrei a un’ultima notazione, che non è un tecnicismo. La prima eccezione di costituzionalità è stata sollevata dalla Cassazione: quella Corte per molto tempo attuò una sorda resistenza e talora uno scontro diretto con la Corte costituzionale in difesa della legislazione fascista. È un mutamento culturale ormai assestato che riafferma il prestigio della Corte che assicura il terzo e ultimo grado di giudizio. E la sentenza numero 253, estesa per la penna di una grande costituzionalista, chiude idealmente la presidenza di Giorgio Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri”. La Consulta: al mafioso che non parla non siano negati i benefici di Giuseppe De Tomaso Gazzetta del Mezzogiorno, 5 dicembre 2019 Il detenuto per un reato di mafia può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente - negandogli benefici riconosciuti a tutti - se invece compie la scelta opposta. Un simile trattamento - che si traduce nella “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare” - non è ammissibile dal punto di vista della Costituzione perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Carta, cioè con il principio della ragionevolezza e con la finalità rieducativa della pena. Lo sottolinea la Corte Costituzionale nelle motivazioni della sentenza 253 depositata oggi (relatore Nicolò Zanon), con cui ha aperto alla possibilità che siano concessi permessi premio ai detenuti condannati per mafia e per altri gravi reati anche se non collaborano, a condizione però che siano stati acquisiti elementi che escludano la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di ripristino di questi rapporti. La pronuncia ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4bis, primo comma, dell’Ordinamento penitenziario, introdotto dopo la strage di Capaci, che impediva in tutti i casi la concessione di permessi premio ai detenuti per mafia e per altri gravi reati, che non collaborano con la giustizia, presumendo che la scelta di non parlare dimostrasse in modo inequivocabile la persistenza di rapporti con la criminalità organizzata. Permessi premio ai mafiosi, ma solo se “non più mafiosi” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019 Non ci può essere un pregiudizio “assoluto” nei confronti di un detenuto, anche se condannato per mafia o per altro reato ostativo ai permessi premio, in mancanza di collaborazione con la giustizia. È il principio che ha spinto la Corte, sia pure spaccata quasi in due, a decidere a ottobre di dichiarare incostituzionale il divieto previsto dall’articolo 4bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario. Ieri, sono state depositate le motivazioni a firma del relatore Nicolò Zanon. “Sono sicuro che le forze politiche - ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza”. E proprio per studiare la sentenza e capire che interventi legislativi siano necessari, ieri a tarda sera, nonostante la fibrillazione per la riforma della prescrizione, c’è stata una prima riunione del Guardasigilli con il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra e i parlamentari del M5s che fanno parte sia dell’Antimafia che della commissione Giustizia. Secondo quanto si legge nelle motivazione della Corte, “è ragionevole” che un detenuto sia premiato nel caso collabori con la giustizia ma “non può essere ‘punito’ se non collabora”, non gli si possono negare a priori i benefici, concessi a tutti gli altri detenuti. Cioè, secondo la Corte, non può esserci una presunzione di pericolosità “assoluta” in caso di mancata collaborazione con la giustizia. La presunzione di pericolosità, pertanto, deve diventare “relativa” e va valutata caso per caso dal magistrato di Sorveglianza. Concetti espressi sulla base dei principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione). Se il magistrato competente ha degli elementi tali da poter escludere che il detenuto mafioso abbia ancora legami con l’associazione criminale o li possa ripristinare durante un permesso premio, allora può concedere il beneficio richiesto anche in mancanza di collaborazione con la giustizia. Quindi, non si deve dimostrare la pericolosità, che per i mafiosi si dà per scontata, ma da oggi relativamente, si deve dimostrare l’assenza di collegamenti criminali. Nelle motivazioni della Corte vengono indicate delle condizioni per questo cambio di rotta che ha il plauso degli avvocati e preoccupa tanti magistrati da anni in prima fila nella lotta alle mafie, consapevoli della pericolosa specificità del fenomeno mafioso italiano. Per il permesso premio non basta “la buona condotta” del detenuto o “la semplice dichiarazione di dissociazione” o “la mera partecipazione al percorso rieducativo”. Ci devono essere elementi “capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale”. Che ciò accada è possibile, secondo la Corte, perché la lunga detenzione può portare a un cambiamento non solo del detenuto ma anche del contesto esterno. Ma per valutare questi eventuali cambiamenti in positivo, la Corte si spinge a dire quali saranno le carte sul tavolo del magistrato di Sorveglianza per poter prendere la sua decisione: “Le relazioni dell’Autorità penitenziaria” e “le dettagliate informazioni acquisite dal competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Anche sul detenuto “che richiede il beneficio, grava l’onere di fare specifica allegazione”, cioè di portare degli elementi a favore delle tesi del mancato collegamento con la criminalità. Inoltre, la Consulta ricorda che tutti i benefici penitenziari “non possono essere concessi (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunica l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. La “dissociazione” dalla mafia non è il “pentimento” di Francesco Puleio* catania.livesicilia.it, 5 dicembre 2019 Quando da ragazzo giocavo, in verità molto male, al calcio, l’allenatore ci spiegava che, per capire quale giocatore avversario avrebbe tirato la punizione, non dovevamo prestare attenzione alle finte e alle manovre di disturbo degli avversari, ma osservare chi prendeva il pallone in mano e lo sistemava sul punto di battuta. Guardiamo ai fatti, non alle parole, ci diceva: offrendoci un insegnamento che non ho più dimenticato. Su questi presupposti, mi chiedo oggi: può un detenuto prendere pubblicamente le distanze dal proprio passato criminale, riconoscere le sentenze (del resto, ormai passate in giudicato) che lo hanno condannato, magari all’ergastolo, ed invitare i giovani a non seguire il suo esempio? Certamente. Anzi, è umanamente auspicabile che ciò avvenga, e nel maggior numero di casi possibile. L’idea della pena come strumento di rieducazione del condannato è uno dei principi fondanti della nostra Costituzione, e così qualunque manifestazione di ravvedimento, qualunque modifica del proprio percorso criminale, da chiunque provenga, deve essere consentita dalla legge ed accettata dalla coscienza comune. Lo Stato non deve mai togliere ad un uomo la speranza di poter cambiare. Da questa lecita e desiderabile revisione di un vissuto delittuoso devono poi discendere conseguenze sul piano giudiziario? Qui il discorso - da piano e universalmente condiviso -- comincia a farsi sdrucciolevole. Per evitare capitomboli, cominciamo col porre la fondamentale distinzione tra chi collabora e chi semplicemente si dissocia. Chi collabora con la giustizia, accusando sé stesso ed i propri complici dei delitti commessi, stipula un patto con lo Stato, che consente ai criminali di fruire di benefici altrimenti (sinora) impossibili da conseguire, ed alla Giustizia di smantellare intere organizzazioni, accertare fatti altrimenti destinati a rimanere sepolti e soprattutto impedire ulteriori delitti. Il collaboratore rompe, spesso traumaticamente, con il proprio passato, con la famiglia e l’ambiente di origine, si pone al di fuori del gruppo criminale di appartenenza e per ciò ottiene giovamenti premiali. Chi scrive generiche lettere di distacco, o ammette nelle aule di giustizia solo i propri delitti, senza chiamare in causa terze persone, né alzare il velo sugli affari del clan, non offre alcun contributo all’accertamento della verità. È un atteggiamento ambiguo, che può implicare una seppur indeterminata volontà di recidere i legami con l’ambiente delinquenziale, ma può celare talora una strumentalizzazione, dissimulatrice del persistere di una sottostante adesione al clan. Perché allora, senza rischiare un sostanziale scollamento dalla realtà, concedere sconti di pena (soprattutto nei processi per omicidio), permessi carcerari, ovvero, con riferimento ai detenuti di rango apicale, elidere il regime di massima sicurezza previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario, a fronte di una pubblica presa di distanza dall’organizzazione, inutile in quanto escludente ogni forma di concreto contributo, che non consente di acquisire elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione criminale e il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizza, e che rischia, anzi, di contribuire a rafforzare i clan? Poco senso ha invocare l’estensione ai dissenzienti di mafia dei meccanismi premiali già previsti dalla legge per i terroristi dissociati, facendone difetto i presupposti storici, ideologici e fattuali. Il fenomeno della dissociazione nacque in una fase in cui l’emergenza terrorista era stata sostanzialmente sconfitta sul piano militare (e proprio per la collaborazione con la giustizia) e si propose come una svolta politica, in cui il dissociato dichiarava la propria abiura dalla violenza politica e dal terrorismo in pubbliche sedi processuali. La verifica dell’ottenimento delle riduzioni di pena (peraltro in alcuni casi si trattò di rimodulare le condanne, escludendo le aggravanti introdotte dalle leggi speciali) divise per ordine di reati, spettava ai Tribunali che valutavano la possibilità di ottenimento delle stesse anche e soprattutto in base ai comportanti processuali tenuti dai singoli imputati: la condizione relativa all’ammissione delle proprie responsabilità penali ne fu in gran parte il meccanismo di verifica. Ma il dissociato operava una sorta di revisione autocritica che concorreva alla delegittimazione dei presupposti ideologici, dell’impianto concettuale e motivazionale ed ad una sorta di sradicamento dei meccanismi di riproduzione di tali fenomeni: fattori questi non riproponibili nell’universo della criminalità organizzata. È la natura stessa del patto connesso alla realizzazione del reato di associazione mafiosa (che riguarda racket, corruzione, omicidi, droga, e chi più ne ha più ne metta) a rendere inconcepibile il meccanismo della dissociazione in materia: la mafia si fa per arricchire, diceva il pentito Antonino Giuffré, non per cambiare il mondo, ci sia consentito aggiungere. Come ci si può dissociare dalla corruzione o dal riciclaggio di denaro od ammettere un omicidio eccellente senza fare riferimento a complici o interlocutori esterni al clan? Concludiamo, dunque. Non possono sussistere presunzioni assolute di colpevolezza, nemmeno nei confronti dei detenuti mafiosi, ed occorre perseguire ed incoraggiare il ravvedimento di tutti i condannati, siano essi capimafia o semplici gregari. Al contempo, riconoscere benefici o sconti di pena a chi si dissocia senza collaborare potrebbe implicare il rischio di aprire la strada ad una forma di negoziato che abbandona le falangi militari dei clan per salvaguardarne i vertici e i loro interessi nella corruzione e nel riciclaggio. *Procuratore aggiunto di Catania Le questioni sollevate dalla Consulta non intaccano la disciplina dell’ergastolo ostativo di Rosa Nuzzo periodicodaily.com, 5 dicembre 2019 Il condannato per associazione mafiosa può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere punito ulteriormente se non collabora, negandogli benefici riconosciuti a tutti. Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza 253/2019 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, l. ord. pen. laddove non prevede che, nelle condizioni indicate, il giudice possa concedere permessi premio al detenuto per reati ostativi. La natura della pericolosità - Questa sentenza rappresenta una svolta storica per il sistema penitenziario e la valutazione della presunzione di pericolosità sociale. Essa segna il passaggio epocale da una presunzione di natura assoluta ad una presunzione relativa. Spiega la Corte infatti che non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da una prova contraria. Questo vuol dire che, a differenza del passato, la presunzione di pericolosità può essere superata se il magistrato di sorveglianza acquisisca elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con la criminalità organizzata o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Non basta quindi la “buona condotta” o la mera partecipazione al percorso rieducativo né una dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità, può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale. La Corte, in sostanza, costruisce la motivazione della sentenza attorno ad un unico fulcro, la natura della presunzione di pericolosità. Ed evidenzia che la presunzione relativa risulta costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena. Al contrario non regge il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Perché solo la presunzione relativa è compatibile con la costituzione e questo per tre ragioni fondamentali: - perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena; - perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale; - perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza. Il giudizio individualizzato - Secondo la Corte è assolutamente necessaria una valutazione individualizzata nella materia dei benefici penitenziari, particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso. Quindi laddove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, la repressione finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo, in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena. Le argomentazioni spese dovrebbero quindi tranquillizzare piuttosto che allarmare chi continua a parlare di esultanza dei mafiosi. Il giudizio sulla concessione dei permessi premio non ha una strada spianata, anzi, il varco aperto dalla Corte per l’accesso ai benefici, a fronte della delicatezza degli interessi in gioco, per assurdo finisce per rendere del tutto analitica e per niente scontata la valutazione del magistrato di sorveglianza. Egli sarà obbligato a svolgere un’attenta analisi finalizzata alla stesura di una motivazione rafforzata di valutazione della pericolosità e sussistenza dell’attualità dei legami con la criminalità organizzata. Ciò vuol dire che non sarà per niente facile ottenere decisioni dall’esito favorevole in assenza delle condizioni appena dettate dalla Consulta. Un po’ di chiarezza sull’ergastolo ostativo - Quanto poi all’allarmismo in materia di ergastolo ostativo, la Corte ha precisato che le questioni sottoposte alla sua attenzione non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa all’ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la Cedu si è soffermata da ultimo la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia. Difatti le ordinanze di rimessione hanno censurato solo l’art. 4bis, comma 1, l. ord. pen. e non l’art. 2, comma 2, d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (recante Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto. Le questioni sollevate riguardano in sostanza una disciplina da applicarsi a tutti i condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e di “contesto mafioso”. La reazione della politica e l’inutile allarmismo - Il commento del Ministro Bonafede non si è fatto attendere “Sono sicuro che le forze politiche saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza”. Gli inutili allarmismi hanno sempre determinato solo tanta confusione nell’opinione pubblica, ma la Corte stavolta è stata più che esaustiva nelle spiegazioni delle ragioni della sua decisione. L’invito alle forze politiche è dunque quello di partire dal ragionamento della Consulta e impiegare tutte le competenze tecniche possibili per supportare chi sarà investito del compito più difficile, ossia i magistrati di sorveglianza, che dovranno fare i conti con valutazioni tanto impegnative quanto surreali per il sistema giustizia italiano. Bracciali elettronici, il flop. “In attesa 12mila detenuti” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 5 dicembre 2019 In Italia sono attivi 2000 congegni, manca il collaudo per i nuovi modelli. Tutti i punti di un fallimento annunciato. Quando entrarono in circolazione la prima volta in Italia (siamo all’inizio del decennio scorso), un prefetto si lasciò scappare una battuta: “I braccialetti elettronici costano quanto quelli di Bulgari, come se fossero gioielli”. Oggi, lo scenario è cambiato sul fronte dei costi, grazie a una tecnologia diventata via via sempre più abbordabile, anche se resta il problema di sempre: la mancanza di dispositivi, che rende pressoché effimero l’impiego di uno strumento nato per assicurare una vigilanza in tempo reale dei detenuti scarcerati e messi agli arresti domiciliari. Un caso nazionale che, in termini di carenze strutturali, parla anche e soprattutto napoletano. Mancano i braccialetti elettronici, tanti detenuti sono in lista di attesa, per ottenere la revoca del carcere, per poter indossare il “bip bip” in vista del ritorno a casa. Ma a riproporre l’attenzione sulla storia dei braccialetti elettronici (sempre troppo pochi per le richieste avanzate dai detenuti) sono i clienti “vip” delle strutture penitenziarie italiane. Qualche anno fa fece discutere il caso di Valter Lavitola, finito al centro di indagini sul caso Finmeccanica e sui rapporti con l’imprenditore Tarantini e l’ex premier Silvio Berlusconi, per il quale venne firmato il via libera alla scarcerazione (era difeso dall’avvocato Gaetano Balice) anche se rimase alcuni giorni a Poggioreale fino all’arrivo del braccialetto. Stessa scena sabato scorso per la presunta spia russa Aleksandr Korshunov, finito a Poggioreale lo scorso 30 agosto e tuttora ospite della casa circondariale napoletana. Scarcerato formalmente dalla ottava appello, resta detenuto, quanto basta a sollevare un caso sul flop del dispositivo elettronico. Uno scenario scandito da numeri e polemiche, proviamo a capire per quale motivo. Al momento esistono in circolazione - su tutto il distretto nazionale - circa duemila esemplari di braccialetti. Un numero decisamente risicato rispetto alle esigenze dei vari distretti, anche alla luce di un orientamento che spinge i gip ad applicare sempre più spesso (dove è possibile) i congegni elettronici, per sfoltire le nostre carceri. Basta considerare un altro dato numerico, per capire di cosa stiamo parlando: di fronte ai 2000 esemplari che girano in Italia, solo a Napoli nel 2018 sono stati censiti ben 3000 detenuti agli arresti domiciliari (tre dei quali si sono suicidati nel corso della detenzione domiciliare). Ma cosa rende spuntato l’uso del braccialetto elettronico? Al di là dei costi, c’è una questione di contratto e di collaudo. Andiamo con ordine: siamo nel 2018, che il gestore cambia, aggiudicandosi una gara al termine della quale si impegna a mettere in funzione ben 12.000 nuovi esemplari. Un numero che sarebbe in grado di abbattere le liste di attesa esistenti, di far decollare - a venti anni dalla sua istituzione - un sistema alternativo al carcere. Ma dal 2018 ad oggi, lo scenario resta fermo, bloccato, formalmente al palo. Il nuovo gestore c’è, ma manca la nomina da parte del ministero dell’Interno di una commissione di collaudo dei nuovi dispositivi elettronici. Si resta fermi, come hanno raccontato i vertici dell’Unione delle camere penali italiane nel convegno che si è tenuto sabato scorso a Firenze. Spiega il giudice Giovanna Ceppaluni, presidente della sezione Gip del Tribunale di Napoli: “Siamo favorevoli a un’applicazione sempre più ampia del braccialetto elettronico, ma siamo sempre alle prese con problemi di natura strutturale ed economica. Penso che il braccialetto elettronico sia uno strumento da utilizzare anche nei casi di violenza di genere, in modo tale da rendere efficaci ed effettivi provvedimenti come i divieti di avvicinamento o gli obblighi di allontanamento dalla casa familiare”. Un tema su cui si confronta da tempo il penalista napoletano Riccardo Polidoro, in qualità di responsabile dell’osservatorio carceri della Unione camere penali, che al Mattino non nasconde la propria amarezza: “Oggi il problema della mancanza di braccialetti si ripropone solo perché abbiamo un detenuto eccellente destinatario della misura, costretto a rimanere in carcere in attesa del reperimento dello strumento tecnologico. Al nostro osservatorio invece non sfuggono i tanti cittadini comuni che potrebbero essere scarcerati con un sistema più efficace”. Sulla stessa linea, il garante dei detenuti Samuele Ciambriello e la penalista Anna Ziccardi, alla guida della Onlus “Il carcere possibile”, per i quali occorre rendere efficace uno strumento che ormai da decenni fatica a decollare. Riordino carriere Polizia penitenziaria, audizione del ministro alla Camera di Raul Leoni gnewsonline.it, 5 dicembre 2019 Davanti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Difesa della Camera dei deputati, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha esposto le modifiche al sistema ordinamentale del Corpo di Polizia Penitenziaria contenute nello Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95. Il Guardasigilli ha precisato che l’obiettivo dell’intervento normativo è di “consentire a tutti gli appartenenti al Corpo di compiere finalmente un sostanziale e decisivo salto di qualità, atteso da tempo”, perseguendo “un effettivo ampliamento dell’orizzonte di crescita professionale”. In questa ottica per la prima volta viene dato espresso riconoscimento normativo alla “possibilità che unità di Polizia Penitenziaria vengano dislocate presso gli uffici giudiziari, così come già stabilmente avviene per le altre forze di polizia”. Il rapporto di collaborazione “sarà circoscritto alle sole categorie di uffici giudiziari il cui ruolo risulti funzionalmente omogeneo rispetto alle competenze della Polizia Penitenziaria, ossia i Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza, nonché le Procure Distrettuali per le loro attribuzioni in materia di esecuzione”. Bonafede ha evidenziato che “rispetto alle altre Forze di Polizia, solo la Polizia Penitenziaria è rimasta priva della figura del dirigente generale”: a questa situazione si è posto rimedio mediante la previsione di due unità dirigenziali generali da destinare alle nuove articolazioni da costituire nella Direzione Generale dei servizi logistici e tecnici del Corpo e nella Direzione Generale per le specialità del Corpo. Una particolare attenzione sarà posta al tema dei rapporti gerarchico-funzionali tra il direttore dell’istituto, dirigente penitenziario, ed il comandante del Reparto dirigente del Corpo di Polizia Penitenziaria, nello sforzo di armonizzare in concreto l’esercizio delle rispettive prerogative. Ulteriori interventi riguardano i ruoli non dirigenziali e, in particolare, la riduzione di due anni (da 8 a 6) del tempo di permanenza nella qualifica per l’attribuzione della denominazione di “coordinatore” per i profili professionali di assistente capo e sovrintendente capo, prevedendo nel contempo aumenti della pianta organica o l’incremento transitorio e corresponsione di assegni una tantum a ristoro di particolari situazioni di anzianità nel ruolo o nei riguardi del personale che non beneficia di riduzioni e permanenze, o delle relative anticipazioni. Analoghe provvidenze sono previste per gli appartenenti al ruolo degli Ispettori con le qualifiche di ispettore e di ispettore capo. Il ministro ha ricordato che “l’impostazione di sistema che ha animato il riordino, trasversalmente adottata per tutti i profili professionali, sia stata ispirata al duplice scopo di favorire una mobilità ascendente attraverso l’introduzione di meccanismi di facilitazione di accesso al ruolo superiore e di migliorare, per quanto possibile, il trattamento economico”. Con specifico riferimento al Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, l’emanazione del nuovo decreto legislativo perseguirà l’obiettivo di strutturare la carriera dei funzionari del Corpo con il conferimento di incarichi che tengano conto della rilevanza di Istituti, Uffici e Servizi di competenza. Nell’attuale bozza sono previste nuove norme per le diverse articolazioni del predetto Dipartimento, quali i Centri per la Giustizia Minorile, i Nuclei Interdistrettuali di esecuzione penale esterna e i vari livelli di Istituti per i Minorenni. Per quanto attiene alla dotazione dei funzionari del Corpo con carriera dirigenziale, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità risulterà avere a disposizione un dirigente superiore e 28 primi dirigenti. Il Natale “made in jail”: quando la solidarietà aiuta a non delinquere più di Francesca Milano Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2019 Solo il 27% dei detenuti viene inserito in un progetto lavorativo, e la stragrande maggioranza lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Ma il lavoro è fondamentale per ricostruirsi una vita dopo il carcere: per questo si moltiplicano le iniziative solidali. Che succede dopo il “fine pena”? Spesso per i detenuti il ritorno alla libertà porta con sé problemi di reinserimento lavorativo, anche perché il tempo passato in carcere non risulta “investito” nella formazione professionale: secondo i dati dell’associazione Antigone, al 31 dicembre 2018 su 59.655 detenuti complessivamente presenti nelle carceri italiane, i lavoranti erano solo 17.614, di cui 6.373 stranieri e 809 donne. L’economia carceraria è ancora troppo piccola, ma il Natale è un buon momento per farla crescere: da Nord a Sud si moltiplicano le iniziative di prom0zione dei prodotti realizzati dai detenuti. È il “made in jail”, un’economia gestita per lo più da cooperative che danno lavoro ai detenuti con un duplice obiettivo: da una parte offrire occasioni di guadagno a chi vive in carcere, e dall’altra creare professionalità spendibili anche dopo il “fine pena”. Ma come portare fuori dal carcere ciò che viene prodotto all’interno? Un esempio è il Consorzio Viale dei Mille di Milano, che dal 2015 è diventato un punto vendita dei prodotti che arrivano dagli istituti penitenziali di San Vittore, di Bollate, di Opera ma anche di Palermo e di altre realtà più distanti. Il Consorzio è nato su iniziativa dell’assessore alle Politiche del Lavoro del Comune di Milano con l’obiettivo favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, dentro e fuori dal carcere. “Non siamo solo uno spazio di vendita - spiega la presidente Luisa Della Morte - ma anche un luogo di incontro tra i cittadini e le cooperative che operano in carcere. A noi si rivolgono le cooperative che vogliono informazioni per attivare percorsi lavorativi con i detenuti, per esempio”. L’attivazione di queste collaborazioni è fondamentale perché in Italia la stragrande maggioranza dei detenuti (l’86,45%) che lavora è, in realtà, impiegata alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Dei detenuti impiegati, 15.228 risultano lavorare alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (pari al 86,45 %) e 2.386 alle dipendenze di altri lavoratori (pari al 13,55 %). All’interno della prima categoria, ben 12.522 sono impiegati nei servizi di istituto, 637 nelle lavorazioni, 249 nelle colonie agricole, 938 nella manutenzione ordinaria di fabbricati e solo 882 in servizi extra-murari. Tra coloro che non lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, i semiliberi impiegati in attività lavorative sono 661, di cui 39 lavorano in proprio e 622 per datori di lavoro esterni; 749 detenuti lavorano all’esterno ex art. 21, mentre lavorano in istituto ma per conto di imprese o cooperative rispettivamente 245 e 686 detenuti. Secondo quanto rilevato dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite del 2018, sono ben 17 gli istituti (pari al 20%) in cui non ci sono lavoratori alle dipendenze di soggetti diversi dall’amministrazione. Il Natale è per l’economia carceraria una boccata d’ossigeno: nei punti vendita del “made in jail” è possibile acquistare prodotti artigianali, manufatti, prodotti alimentari (birra, pasta, vino, conserve, biscotti e persino il pluripremiato panettone Giotto) che arrivano dagli istituti penitenziari. “Non si tratta solo di fare un gesto solidale nei confronti di chi vive in carcere - spiega Della Morte - ma anche di aiutare i detenuti a costruirsi un futuro lavorativo”. L’80% dei detenuti, dopo aver scontato la pena, torna a delinquere. La delinquenza in chi, invece, ha ricevuto una formazione professionale, è meno del 2 per cento. Prescrizione, scontro rinviato al 2020 di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 dicembre 2019 I 5 Stelle e Conte chiudono alle richieste del Pd: la riforma Bonafede che per il Pd è “incostituzionale” sarà applicabile dall’anno prossimo. Il braccio di ferro si sposta sui rimedi per garantire la ragionevole durata dei processi. I dem: pronti a fare da soli (con la destra). La lite sale di tono ma si comincia a intravedere la via per uscire dall’angolo in cui lo scontro sulla giustizia ha infilato la maggioranza di governo. Il presidente del Consiglio assicura che “c’è un tavolo al lavoro e arriveremo a una soluzione tecnica che terrà insieme l’esigenza di far concludere il processo” senza prescrizione con “un sistema di garanzia che assicuri una durata ragionevole del processo”. Ma quel tavolo non si riunisce da due settimane e ancora ieri Di Maio e Di Battista hanno fatto a gara nel respingere ogni ipotesi di mediazione con gli altri partiti della maggioranza, più o meno uniti contro la nuova disciplina della prescrizione introdotta un anno fa da Lega e 5 Stelle e che dal primo gennaio diventerà la regola nei tribunali italiani. Il Pd, anche aderendo alle proteste degli avvocati penalisti, conferma l’intenzione di non cedere alle “provocazioni” dei 5 Stelle e aggiunge chiari segni di insofferenza: “La corda si sta spezzando”, “la pazienza non è infinita”. Ma ha già spostato lo scontro dal disegno di legge delega Bonafede di riforma del processo penale, quello che dovrebbe accelerare i tempi della giustizia, e dal disegno di legge Costa, quello che cancella del tutto la riforma grillina della prescrizione, a una nuova proposta che il partito metterà in campo entro fine anno e di cui chiederà l’esame in abbinamento alla riforma Bonafede. Non è detto che riuscirà a ottenerlo. In ogni caso il confronto - molto duro - tra le opposte visioni dei 5 Stelle e di Pd, Leu e Iv è destinato a spostarsi dalla cancellazione della prescrizione dopo il processo di primo grado - a questo punto inevitabile visto che il primo gennaio sarà applicabile quanto previsto dalla legge “spazza-corrotti” approvata da Lega e M5S - ai rimedi da mettere in campo per evitare che questa riforma (“incostituzionale” per il Pd) produca il prevedibile effetto di allungare i gradi successivi di giudizio. Condannando, visto che non ci sarà più la prescrizione a dettare i tempi delle udienze, anche chi è stato assolto in prima istanza alla pena di un processo infinito. Lo schema che rischia di ripetersi è un po’ quello del taglio dei parlamentari, non a caso altra legge bandiera dei grillini, votata anche dal resto della maggioranza che adesso sta cercando di approvare qualche “rimedio”. Mentre Di Maio e Di Battista si esaltano a vicenda - “la nostra riforma dal primo gennaio diventa legge, su questo non discutiamo”, “bene Luigi, la prescrizione sarà bloccata punto” - Conte e Bonafede insistono sulla necessità di “lavorare sulla ragionevole durata del processo”, principio costituzionale nella maggioranza dei casi inapplicato. Il punto è che le proposte che ha fatto Bonafede sono giudicate del tutto insufficienti dagli alleati. Le idee del ministro, in effetti, contenevano la rassegnazione a tempi lunghi dei processi, prevedendo o una corsia preferenziale per gli assolti in primo grado (con danni a tutto il resto del sistema) o un indennizzo, alla fine, per i casi più clamorosi di giustizia lumaca. Anche Pd, Iv e Leu condividono con i 5 Stelle che la prescrizione è una patologia del processo e che bisogna accorciare i tempi della giustizia, ma la riforma Bonafede non fa che resuscitare le soluzioni che circolano da anni (soprattutto in tema di notifiche) mentre solo la cancellazione del rito abbreviato per i reati più gravi che hanno approvato Lega 5 Stelle qualche mese fa è in grado di annullare qualsiasi beneficio. Dove la maggioranza è divisa è su cosa fare se appello e Cassazione sforano la durata “ragionevole”. Bonafede si limita a prevedere sanzioni per i magistrati e indennizzi, Pd, Iv e Leu insistono per la “prescrizione processuale” che ha lo stesso effetto di estinguere il reato. Incalzato da Italia viva - “se l’alternativa è tra prescrizione o morte, allora morte”, ha detto il senatore Faraone - il Pd continua ad affidarsi a Conte per la mediazione. Ed è probabile che ripeterà la richiesta oggi, quando in Consiglio dei ministri arriverà la legge delega di riforma del processo civile, sulla quale invece c’è accordo. “Se Bonafede non ha nuove proposte le faremo noi”, ha detto il vice segretario del Pd Orlando. Proposte che in parlamento, con la destra, avrebbero senz’altro la maggioranza. Ma solo dopo che la nuova prescrizione sarà entrata in vigore. Oltre a una probabile crisi di governo, allora, questo esito può portare all’introduzione di due diversi regimi nel processo penale. Altro che semplificazione. Prescrizione, il Pd gela i 5 Stelle: “Processi brevi o ve la scordate” di Francesco Lo Dico Il Riformista, 5 dicembre 2019 I dem votano contro la proposta del forzista Enrico Costa che cancella la prescrizione breve, e gli entusiasmi dei 5 Stelle e dei fiancheggiatori del ministro Bonafede salgono alle stelle. “Chi si illudeva di far scattare una trappola, deve prendere atto che ha fallito”, gongola la presidente della commissione Giustizia alla Camera Francesca Businarolo. Però l’esultanza dura solo un attimo. Perché la scelta del Pd non è affatto “un’apertura” alla prescrizione breve fortissimamente voluta dal Guardasigilli, come titolano festanti le home page di alcuni giornali, ma solo la quiete prima della tempesta. O Bonafede presenta una proposta per accorciare i tempi dei processi, chiarisce dopo il voto il Pd, o presenterà una propria proposta. Che cosa è successo di preciso? A Montecitorio, dopo una lunga riunione del gruppo, i dem votano contro la proposta che chiedeva la corsia urgente per il suo ddl che impone lo slittamento della prescrizione “breve” di Bonafede, in vigore dal primo gennaio 2020. Ma se Italia viva non partecipa al voto in aperto contrasto con la riforma voluta dai 5 Stelle, il voto del Pd non si rivela affatto come un endorsement al ministro della Giustizia. Tanto che tra i democratici non affiora soltanto l’intento di prendere informalmente tempo, ma anche quello di mettere nero su bianco la volontà di rinviarla a tempo indeterminato tramite un emendamento nel prossimo Mille Proroghe. Del resto, a raggelare il quartier generale a 5 Stelle ridotto a una polveriera dopo la doppia mossa salvinista contro il Mes firmata Di Maio-Di Battista, ci pensa il fuoco di fila di dichiarazioni dei democratici. Sì, siamo stati leali verso gli alleati, chiosa Zingaretti. “Ma, come abbiamo sempre detto - la prende larga il segretario dem - riteniamo inaccettabile l’entrata in vigore delle norme sulla prescrizione senza garanzie sulle durate dei processi”. Poi le dure parole che aprono una faglia sempre più profonda con gli stellati. “Non si può rimanere sotto processo per un tempo indefinito, per lunghissimi anni”, ammonisce il segretario del Pd. Che poi, dopo mesi di ultimatum subiti dagli alleati renitenti, decide di arrivare al punto. E ribaltare il tavolo. “Senza un accordo nei prossimi giorni - avverte Zingaretti - il Pd presenterà una sua proposta di legge. Lavoriamo dunque insieme per trovare una soluzione credibile e cambiare in meglio le cose”, Il contropiede ormai è lanciato, la tregua finita. A chiarire bene come i dem non abbiano più intenzione di restare a guardare è anche il vicecapogruppo dem alla Camera, Michele Bordo. “Abbiamo spiegato molto chiaramente in aula le ragioni della nostra contrarietà alla dichiarazione d’urgenza avanzata da Forza Italia sulla proposta di legge Costa. Ma questo - insiste Bordo - non significa in alcun modo che concordiamo con l’entrata in vigore dal primo gennaio delle norme sull’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio”. “Siamo impegnati con la maggioranza, e non da oggi - aggiunge - nella ricerca di una soluzione che assicuri processi rapidi e con tempi certi. Per quanto ci riguarda, il tentativo di trovare convergenze su questo punto andrà avanti nei prossimi giorni con determinazione”. Poi, dopo l’invito al dialogo, il paletto. “Deve essere chiaro però - chiarisce Bordo - che se non si riuscirà in tempi brevi a trovare una sintesi, il Pd presenterà le sue proposte per impedire il rischio che con la nuova prescrizione i processi possano durare all’infinito. “La votazione meramente procedurale di oggi - è il monito del deputato Pd Stefano Ceccanti - non cambia in nulla, neanche in una virgola, quel motivato convincimento del gruppo Pd sull’incostituzionalità”. “Di conseguenza, trattandosi di norma non solo non condivisibile ma anche incostituzionale - prosegue - il Pd metterà in campo tutta la sua volontà di superarla prima possibile. Meglio, certo, se in modo consensuale nella maggioranza, ma altrimenti per iniziativa propria”. “Nessuno scambi il senso di responsabilità per una volontà di appeasement”, scolpisce Ceccanti. La riforma Bonafede è incostituzionale, colpisce al cuore la Costituzione”, tuona infine il dem Walter Verini. È la pietra tombale sulla prescrizione secondo i 5 Stelle. La pazienza è finita, insomma. Ma forse è anche l’inizio della fine. Prescrizione, è muro contro muro. Salgono i venti di crisi, timori al Colle di Roberta D’Angelo Avvenire, 5 dicembre 2019 Il dialogo tra sordi di Pd e M5S sulla prescrizione sfocia nella farsa, ma le minacce del Pd di mollare tutto rischiano di trasformarsi in una bomba destinata a esplodere nelle mani dei due alleati. Se su Mes, autonomia regionale differenziata, ex Ilva, Autostrade e parti della manovra la coalizione continua a scricchiolare, sulla giustizia si arena totalmente e non sembra praticabile neppure la proposta avallata da Leu di inserire un emendamento nel Mille Proroghe per rinviare l’entrata in vigore delle nuove regole, previste dal primo gennaio. Di Maio, Bonafede e l’outsider Di Battista (ormai riferimento principe del ministro degli Esteri) non cedono di un millimetro. Così appare a dir poco velleitario l’ottimismo del premier Giuseppe Conte, certo che si troverà “una soluzione”. Anche perché per Di Maio non si discute che “la nostra riforma dall’1 gennaio diventa legge”, mentre il Pd parla di “situazione grave”, e insiste con la determinazione a presentare una sua proposta, che troverebbe il sostegno certo delle opposizioni. Ma che per il capo politico di M5s sarebbe un punto di non ritorno. Insomma, la coalizione giallorossa resta impantanata. “E assurdo che su una conquista di civiltà di questo tipo ci si possa interrogare sulla durata del governo”, commenta il ministro Alfonso Bonafede. “La mia proposta” di mediazione “l’ho già presentata a inizio ottobre: mi aspetto lealtà dal Pd”, aggiunge. E però si tratta proprio della proposta respinta dal resto della coalizione. “Sin qui l’unico segno di lealtà l’abbiamo dato noi negando l’urgenza” sulla proposta di legge Costa, replica il vicesegretario dem Andrea Orlando. “Le soluzioni avanzate non garantiscono certezza dei tempi del processo. Bonafede dica se delle nuove proposte intende farle lui altrimenti le faremo noi”, avverte. Una schiarita in maggioranza arriva sulla legge elettorale: la strada scelta è quella di un sistema proporzionale con correzioni anti-frammentazione. Esce dalla trattativa il maggioritario, compreso il doppio turno nazionale caro al Pd. Ancora da definire se i correttivi al proporzionale saranno ottenuti attraverso una soglia di sbarramento nazionale (si ipotizza il 4-5%) o attraverso circoscrizioni medio-piccole. Per il resto è alta tensione. Oggi il Consiglio dei ministri dovrà esaminare la riforma del processo civile. E potrebbe essere l’occasione per un ennesimo confronto. Ma di fatto non ci sono incontri ufficiali di maggioranza in vista e Conte prova a placare i toni dello scontro sulla giustizia spiegando che le diverse esigenze possono trovare un compromesso perché i primi effetti del blocco della prescrizione si avranno in un arco di due anni”. L’incontro previsto è invece quello del Pd, che sul tema potrebbe presentare anche un emendamento alle proposte di Forza Italia messa a punto da Costa per stoppare la riforma. “Di Maio forse non ha capito la gravità della situazione - tuona il presidente dei senatori dem Andrea Marcucci. Sulla prescrizione non faremo passi indietro. Non si può accettare una norma anticostituzionale come il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Non si possono sottoporre i cittadini a processi infiniti. Consiglio al capo del M5s di smetterla con le provocazioni”. E il Movimento è sempre più diviso: ieri il senatore Nicola Morra ha riunito una trentina di parlamentari insoddisfatti della gestione Di Maio. Sullo scenario così precario continua a vigilare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che più volte ha chiesto di approvare la manovra nei tempi previsti e senza scossoni. Il capo dello Stato è attento anche al dibattito sull’Europa, mentre resta spettatore delle fibrillazioni interne ai partiti. Pronta la controproposta dem sulla prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 5 dicembre 2019 Gli esperti del partito studiano un compromesso che possa salvare la legge dei grillini, garantendo però tempi certi ai processi. Pronto in quattro, al massimo cinque giorni. Per presentarlo, con tanto di conferenza stampa, ovviamente a Montecitorio, già all’inizio della prossima settimana. Al disegno di legge anti-Bonafede, annunciato da Zingaretti e Orlando, stanno lavorando in queste ore il vice capogruppo del Pd alla Camera Michele Bordo, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, Alfredo Bazoli, capo della squadra Dem in commissione Giustizia, e il senatore Franco Mirabelli. Per come lo descrivono gli estensori sarà un modo per uscire dall’impasse della prescrizione “corta” del Guardasigilli Bonafede, cancellata cioè dopo il primo grado di giudizio. Ma non per eliminare la riforma Bonafede. Anzi, 5S e dem dovrebbero convergere su un doppio sistema di prescrizione. E allora andiamo a curiosare nelle carte del Pd, anticipando la loro idea. Che prende le mosse proprio da un’intervista a Repubblica dell’ex procuratore di Milano ed ex presidente dell’Anm Edmondo Bruti Liberati. Da sempre toga di Magistratura democratica, ma certamente moderato in questa sua proposta. Alla domanda: “Dopo oltre 40 anni di vita in toga, lei cosa farebbe?” Bruti risponde: “Ciò che si può fare subito è introdurre un sistema di prescrizione per gradi, come previsto in altri paesi: un tempo per le indagini preliminari, un tempo per l’appello, un tempo per la Cassazione. Vi sono da anni dettagliati progetti largamente condivisi dai giuristi”. Ecco qua, il ddl del Pd ruota proprio intorno a quella che la dottrina giuridica battezza “prescrizione processuale”. Nel senso che ogni fase del processo - indagini preliminari, primo grado, appello, giudizio in Cassazione - dovranno rispettare tempi certi. Secondo Bruti questa prescrizione è alternativa, e quindi sopprime quella di Bonafede, che non dovrebbe entrare in vigore ed essere cestinata. Gli esperti del Pd invece stanno studiando un compromesso che salva la prescrizione di Bonafede, ma introduce tempi certi in Appello e in Cassazione. “Non vogliamo fare la crisi sulla prescrizione - dice uno dei Dem che sta lavorando al progetto - ma stiamo mettendo in atto quello che ha garantito il premier Conte, e cioè un sistema di garanzie che assicurino la durata ragionevole del processo”. Un Pd innervosito dalle accuse grilline di “coprire i corrotti”, “un fatto inaccettabile perché noi abbiamo già approvato la legge Orlando (sospensione bloccata per 36 mesi dopo il primo grado)”; un Pd che propone “un processo di appello non strangolatorio, che renda impossibili anche le manovre dilatorie degli avvocati”. Idem in Cassazione. Se Conte riesce a mediare il Pd si ferma, altrimenti piazza il suo ddl come emendamento alla legge Costa sul rinvio della Bonafede, oppure presenta un ddl autonomo. Riforma della prescrizione: offesa la civiltà giuridica di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 5 dicembre 2019 Con una legge del gennaio di quest’anno la maggioranza di allora approvò una legge che introduceva una novità nell’operare della prescrizione dei reati. Per i reati che saranno commessi dopo il prossimo 1° gennaio, i termini, che la legge definisce più o meno lunghi a seconda della gravità dei reati, non opereranno più dopo la sentenza di primo grado. Questa sentenza, sia essa di condanna o di assoluzione, diverrà poi definitiva e esecutiva se non appellata né dall’imputato, né dal pubblico ministero oppure dopo che siano esauriti i giudizi di appello e di cassazione. L’intenzione del legislatore della riforma è quella di ridurre il gran numero di sentenze che dichiarano la estinzione del reato per prescrizione e di eliminare l’interesse degli imputati a presentare impugnazioni puramente dilatorie, nel solo intento di raggiungere la prescrizione. L’operare della riforma venne dilazionato per consentire al governo di introdurre riforme capaci di assicurare tempi brevi alla conclusione dei processi penali. Nessuna efficace soluzione essendo nel frattempo stata trovata al problema gravissimo della lunghezza dei processi, si è ora giunti al nodo su cui si oppongono, non solo maggioranza e opposizione, ma anche i partiti da cui il nuovo governo è sostenuto, nonché l’associazione dei magistrati e quelle degli avvocati. Benché non vi sia urgenza (gli effetti della riforma si avranno tra anni) e le possibili soluzioni alternative siano pressoché infinite, il governo rischia di perdere la sua maggioranza (irresponsabilmente nel bel mezzo della sessione di bilancio). La previsione di termini oltre i quali non si procede più per i reati ancora non definitivamente giudicati, è presente nei vari sistemi penali per la considerazione che, con il passar del tempo, l’interesse della società alla punizione (e prima ancora all’accertamento della verità) si affievolisce. Diventa difficile la raccolta delle prove e soprattutto la persona che a distanza di molto tempo venisse condannata è ormai persona diversa, ha vissuto, ha allacciato legami famigliari o di lavoro, non è più quella che era. Cosicché avrebbe poco senso punirla (specialmente con pena detentiva), se, come prescrive la nostra Costituzione, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. La disciplina della prescrizione era stata riformata già un anno prima, rendendola più rigorosa. Ora la novità che dovrebbe applicarsi ai futuri reati incide profondamente, fin quasi ad eliminarla dalla vita reale. In Italia i reati che non vengono giudicati definitivamente prima che operi la prescrizione sono numerosissimi: molti sono poco gravi, ma avviene anche per reati gravissimi (però i reati puniti con l’ergastolo non si prescrivono). La maggior parte si prescrive già nella fase delle indagini preliminari, ma molti si estinguono durante il giudizio, in appello e persino in Cassazione, quando lo Stato (e gli imputati, colpevoli e innocenti) hanno già speso molto in attività che si riveleranno inutili. Nel dibattito spesso si indica come particolarmente negativo il fatto che vi siano tante prescrizioni nella prima fase del procedimento. Ma maggiormente negativo è invece che esse maturino quando già (inutilmente) il processo si è trascinato nei vari gradi processuali. Una programmazione attenta al buon andamento della cosa pubblica - come prescrive la Costituzione - consiglierebbe di fermare prima ciò che si sa che non potrà utilmente proseguire poi. Occorrerebbe evitare una visione burocratica della funzione delle Procure, mandando avanti ad una fase successiva procedimenti che non potranno essere gestiti, con la scusa - oso dire - dell’obbligatorietà della azione penale. Perché il vero problema italiano è la clamorosa insufficienza del sistema processuale rispetto al numero di processi che bisognerebbe celebrare e concludere. Insufficienza di mezzi, estrema onerosità delle procedure, posti vacanti in magistratura e tra il personale di cancelleria (concorsi lunghissimi, quando ci sono). E incredibilmente nello stato attuale il governo pensa di accelerare i processi imponendo per legge termini brevi. Con la riforma che dovrebbe ora entrare in vigore, gran numero di condannati in primo grado, almeno quelli a pena detentiva, continueranno ad appellare e poi ricorrere in Cassazione per evitare che la sentenza divenga esecutiva. Gli assolti rimarranno sospesi in eterno con gravi conseguenze, non solo morali, se c’è impugnazione del pubblico ministero e, sovraccarichi di processi da svolgere, gli uffici di appello e cassazione non riterranno prioritari i loro processi. La riforma non sarebbe certo priva di effetto sul piano delle prescrizioni dei reati meno gravi e eviterebbe qualche grave fallimento della macchina giudiziaria, incapace di concludere processi anche seri. Ma patirà una offesa la civiltà giuridica di un Paese che, non sapendo assicurare la ragionevole durata dei processi, è disposto a farne pagare il prezzo non solo agli imputati, ma anche ai principi fondamentali che reggono e limitano il diritto e il dovere dello Stato a stabilire cosa sia reato, giudicare e punirne gli autori, assolvere gli innocenti. Penalisti: la riforma Bonafede distruttiva. Centrosinistra, fermala di Valentina Ascione Il Riformista, 5 dicembre 2019 I parlamentari di Forza Italia in piazza con gli avvocati contro lo stop alla prescrizione. Presenti anche i dem Bazoli e Verini. Oggi attesi i renziani. Questa riforma ci allontana da principi costituzionali come la presunzione di innocenza, la funzione rieducativa della pena, il diritto alla difesa”, ma fa anche di peggio, “va contro lo stesso “diritto alla vita”, quello garantito dall’articolo 2 della Costituzione: come può infatti organizzare la propria vita una persona che resta imprigionata in un processo senza fine?”. Ecco perché è “una riforma distruttiva”. Sferra un attacco senza mezzi termini l’avvocato Beniamino Migliucci, ex presidente dell’Unione delle camere penali, di fronte a oltre cento avvocati riuniti anche ieri, per il terzo giorno consecutivo, a Roma davanti alla sede della Corte di Cassazione per la maratona oratoria contro la riforma Bonafede che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio e che entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo. Uno dopo l’altro i penalisti si avvicendano al microfono. Sono venuti da tutta Italia, si sono registrati in 1500 per partecipare alla maratona che andrà avanti fino a sabato. Le arringhe le hanno lasciate nelle aule di tribunale. Qui in piazza Cavour vogliono spiegare le ragioni del loro no a questa riforma fortemente voluta dal ministro della Giustizia, e per farlo sfogliano il catalogo delle vite intrappolate nelle maglie di una giustizia dai tempi irragionevolmente lunghi, che con la cancellazione della prescrizione rischiano di diventare interminabili. L’avvocato Lorenzo Parachini della Camera penale di Busto Arsizio racconta il caso del suo cliente al quale vengono contestati episodi di cessione di stupefacenti tra il 2009 e il 2010. di cui alcuni risalenti a quando era ancora minorenne. Il procedimento del Tribunale ordinano si conclude in sei anni e alla fine del 2017 l’uomo ha finito di scontare la pena, ma a febbraio del 2018 gli viene notificato l’avviso per l’udienza preliminare nel procedimento del Tribunale dei minorenni. Solo che il minorenne di allora ha ormai 27 anni e il reato è prescritto. “Il ministro Bonafede vuole regalare al Paese un processo senza fine e quindi sofferenze senza fine per tutti”, rincara la dose Migliucci, che poi attacca l’Anm (“è bastato che il Guardasigilli, sorridente quanto inconsapevole, facesse promesse sul sorteggio al Csm per cambiare idea e riaffermare il suo molo di sindacato”) e chiede alla politica di far seguire alle parole i fatti: “se Zingaretti ha detto di non essere d’accordo e anche Italia viva, perché non fermano la riforma? Forse non vogliono andare a casa”. E al vicesegretario dem Andrea Orlando, ex Guardasigilli, dice: “tiri fuori gli attributi e la coerenza”. E di politici, ieri in piazza con i penalisti, ce ne erano tanti. A partire da una nutrita delegazione di parlamentari di Forza Italia, tra cui la capogruppo alla Camera Maria Stella Gelmini che ha ribadito la richiesta - già avanzata al presidente Fico - di discutere la Pdl di Enrico Costa che cancella lo stop alla prescrizione prima che la riforma entri in vigore. Tra i presenti lo stesso Costa, Stefania Craxi, Maurizio Gasparri e Deborah Bergamini, condirettrice del Riformista, che ricorda la vicenda di Enzo Tortora: “arrestato e poi condannato in primo grado nell’85, meno di un anno dopo è stato assolto in secondo grado e un anno e mezzo più tardi è morto. È morto innocente, ma probabilmente con la riforma Bonafede sarebbe morto da colpevole. Di innocenti non ne avremo più, avremo gente seppellita in un limbo eterno”. Nel pomeriggio, a sorpresa, arrivano anche Alfredo Bazoli e Walter Verini del Pd: “Sulla prescrizione abbiamo fatto una battaglia contro il precedente governo e abbiamo ereditato questa norma. Il confronto con l’attuale maggioranza è aspro ma il Pd è unito e compatto e speriamo dì ottenere risultati per garantire la ragionevole durata dei processi”, assicura il capogruppo dem in Commissione Giustizia. “Mi aspetto lealtà dal Pd”, fa sapere in serata il ministro Bonafede, “Se si tratta di lavorare per garantire tempi certi del processo ho già dato disponibilità mille volte”. Ma nella maggioranza la tensione resta alta. Oggi intanto alla maratona oratoria dell’Unione camere penali è attesa una delegazione di Italia Viva guidata dalla capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi. Giulia Bongiorno: “Prescrizione, è la catastrofe. Il Pd faccia una proposta seria” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 dicembre 2019 La leghista: “Accelerare i processi. I 5S in ansia, la legge è disastrosa”. Giulia Bongiorno, lei disse che il blocco della prescrizione sarebbe stata una bomba atomica sul processo. Siamo alla vigilia dell’esplosione? “Siamo alla vigilia di una catastrofe. Chiunque frequenti i tribunali, sa che le udienze vengono fissate in ragione del tempo che manca alla prescrizione. La prescrizione è una sorta di ghigliottina di fronte alla quale il sistema accelera. Nel momento stesso in cui la ghigliottina sparirà, inevitabilmente il sistema della giustizia si paralizzerà. Di una riforma della prescrizione si può pure parlare, allora, ma prima occorre velocizzare i tempi dei processi”. Queste cose lei le aveva spiegate a Di Maio e Bonafede? “Eccome. Ricordo bene alcune riunioni con loro due presenti. E mi sembrava che avessero compreso, tanto è vero che mi diedero ragione e accettarono di rinviarne l’entrata in vigore, subordinando lo stop della prescrizione alla riforma del processo penale. Adesso però vedo che hanno fatto marcia indietro. Hanno cambiato idea? La velocizzazione del processo non è più un problema? A me dissero di essere consapevoli che bloccare la prescrizione senza intervenire sulle lungaggini del processo sarebbe stato estremamente negativo”. Che cosa è successo, secondo lei? “Aveva promesso una riforma, ma finora Bonafede non è riuscito ascrivere una proposta seria per accelerare i processi. E siccome ora i Cinque Stelle sono in ansia da consenso, inseguono la vulgata che la prescrizione sia una forma di ingiustizia. Invece no, non è così. Direi che è il momento di essere un po’ responsabili”. In verità il ministro Bonafede ha presente il problema dei tempi lunghi… “Guardi, non vorrei che per tagliare i tempi, i Cinque Stelle pensassero di amputare pezzi di processo. Dico subito che le garanzie non si toccano. Se Bonafede pensa di eliminare un grado di giudizio, sappia che troverà il nostro no più deciso. Non vorrei mai che in Italia si sostituisse il principio di non colpevolezza con quello dell’infallibilità dei giudici. Eppure si possono eliminare le lungaggini tra un grado e l’altro; è soprattutto un problema organizzativo. Alla giustizia occorre infatti un massiccio investimento in personale: servono più cancellieri, più magistrati, e anche manager per far funzionare i tribunali. Eliminare i tempi morti dev’essere il punto di partenza”. Il partito di Renzi, Italia Viva, non ci sta al blocco della prescrizione senza aggiustamenti e non esclude di votare con Forza Italia. Il Partito democratico a sua volta annuncia che, nel caso non si trovasse un accordo di maggioranza, presenterà un suo progetto di legge autonomo. La Lega potrebbe votare la proposta del Pd? “Guardi, la Lega ha un approccio pragmatico ai problemi. Se qualcuno ci propone una buona soluzione, non ci interessa se viene da destra o da sinistra, da sopra o da sotto. Però mi faccia aggiungere, conoscendo il Pd e avendo presente il lavoro svolto da Andrea Orlando alla Giustizia, che sono lievemente prevenuta. Orlando è stato il ministro dei pannicelli caldi. Perciò mi aspetto l’ennesima soluzione-tampone, non qualcosa di risolutivo. Ormai serve una reale svolta”. Noi avvocati in piazza contro il processo infinito di Guglielmo Starace* Gazzetta del Mezzogiorno, 5 dicembre 2019 I penalisti italiani sino al 7 dicembre si astengono dalle udienze per dire no al processo senza fine. Come è noto, dal primo gennaio 2020 è prevista l’entrata in vigore di una norma secondo cui, dopo l’impugnazione di una sentenza di primo grado, la durata del processo non avrà più alcun limite perché il tempo necessario alla prescrizione del reato sarà fermato per sempre. La nuova disposizione è chiaramente in contrasto con la norma costituzionale che individua nella ragionevole durata del processo un fondamentale principio di civiltà giuridica. É infatti incivile consentire che un imputato rimanga eternamente sospeso nelle maglie di un processo che, essendo senza fine, rappresenta comunque una condanna in quanto assoggetta alla pena costituita dal processo medesimo. Allo stesso modo è incivile che la persona offesa rischi di rimanere per sempre in attesa di una pronuncia definitiva sui suoi diritti. Il principio che deriverebbe dalla nuova disciplina è quello secondo cui ogni cittadino potrà restare in balia della giustizia penale dopo la sentenza di primo grado fino a quando lo Stato non riterrà di concludere il processo. Quindi i tempi del processo potranno andare avanti all’infinito. Non ci sarà giustizia per nessuno e quindi non ci sarà giustizia per la società. Gli imputati innocenti non vedranno mai riconosciute le loro giuste ragioni. Gli imputati colpevoli saranno forse chiamati ad espiare una pena quando potrebbero ormai essere persone diverse: ad esempio, un buon padre di famiglia, ormai pienamente realizzato, potrebbe essere costretto a fare i conti con le conseguenze di un furto di biscotti in un autogrill durante una gita scolastica. Tutte le persone offese rimarranno comunque in eterna attesa di giustizia. L’istituto della prescrizione garantisce i tempi massimi di durata dei processi e non è un modo per aiutare “i delinquenti che la fanno franca”. Costituisce fatto notorio che i processi per reati che si prescrivono in tempi più dilatati (nel nostro sistema ci sono già numerosi reati con tempi di prescrizione lunghissimi) vengono celebrati molto lentamente perché è fisiologico che -a fronte di un carico di lavoro elevato rispetto a strutture carenti e personale insufficiente- si prediliga la trattazione dei processi con prescrizione vicina, inevitabilmente mettendo in secondo piano quelli con prescrizione lontana. Figuriamoci su che piano finiranno i processi senza prescrizione! Assistiamo quotidianamente a processi dalla durata insopportabile, con strutture che cadono a pezzi, penuria di personale, senso diffuso di ingiustizia, che certe volte non si consuma grazie all’impegno vero di donne e di uomini che si rimboccano le maniche e si impegnano gettando il cuore oltre l’ostacolo per cercare di dare giustizia ai cittadini. La soppressione della prescrizione equivale alla soppressione delle garanzie e delle speranze del cittadino e noi avvocati, davanti al grave pericolo corso dai principi costituzionali, continueremo nella nostra protesta contro questo ergastolo processuale. L’Unione delle Camere Penali Italiane in concomitanza con l’astensione dalle udienze sta una “maratona oratoria” a Roma, innanzi alla Corte di Cassazione per far comprendere alla gente l’errore commesso con la soppressione della prescrizione e la gravità delle conseguenze, manifestazione a cui ha attivamente preso parte anche una folta delegazione barese. Domani 6 dicembre nella nostra città gli avvocati della Camera Penale di Bari saranno in strada, dalle ore 18,30 in via Principe Amedeo angolo Via Melo, per incontrare i cittadini e spiegare il significato della battaglia che stanno conducendo non per interessi corporativi ma solo a tutela dei diritti di tutti. *Presidente della Camera Penale di Bari Chi e perché ferma le leggi giuste contro l’impunità di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019 In Italia convivono due sistemi penali. Il primo è il sistema antimafia che funziona molto bene perché è stato dotato di risorse adeguate (con magistrati che si occupano a tempo pieno solo di alcune tipologie di reati) e si avvale di norme speciali, come quelle che raddoppiano i termini di prescrizione e assicurano l’effettiva espiazione delle pene. Poi c’è il sistema penale ordinario che è in larga misura inefficiente e inefficace, tranne per i reati più gravi di particolare allarme sociale, come gli omicidi. Non è un caso che all’estero siamo ammirati per il sistema antimafia, preso a modello da altri stati, e invece talora compatiti per quello ordinario, oggetto di ripetuti rilievi in sede europea e internazionale. Questa inefficienza si manifesta in tanti modi: alcuni sono al centro dell’attenzione dei media come l’eccessiva durata dei procedimenti e la patologica percentuale di prescrizioni. Altri invece restano in un cono di ombra lontano dai riflettori, come l’anomala quota di pene definitive irrogate che finiscono nel nulla e la peculiare composizione della popolazione carceraria, formata quasi esclusivamente da soggetti appartenenti ai piani bassi della piramide sociale, con percentuali statisticamente irrilevanti di colletti bianchi. Esempio: le pene pecuniarie (multe e ammende) inflitte a seguito di vari gradi di giudizio con condanne definitive vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10% del totale, come risulta dalla Relazione del 7.3.2017 della Corte dei Conti. Quindi il 90% di tale tipologia di condanne si risolve in un colossale spreco di risorse e di tempo, nella perdita netta di notevolissimi introiti da parte dell’erario, nella caduta verticale della credibilità di uno Stato che si limita a una mera esibizione di muscoli, priva di reali conseguenze, con buona pace della funzione generai preventiva del sistema penale. Qualsiasi azienda privata con questo tipo di gestione e di risultati verrebbe messa in liquidazione. Chi non vuole pene certe e una giustizia efficiente É culturalmente ingenuo tematizzare la questione giustizia in Italia riducendola esclusivamente a un problema di efficienza e di resa produttiva degli apparati, come se i deficit, le falle di sistema, le disuguaglianze nel trattamento carcerario fossero sempre e solo il frutto di errate opzioni legislative per assicurare un sistema giustizia equo ed efficiente. In verità esiste una connessione profonda tra questione giustizia e questione della democrazia. Nel sistema penale si rispecchiano tutte le contraddizioni del sistema paese e il mutevole gioco dei rapporti di forza tra le varie componenti della società. Il diritto acquisisce capacità di farsi “ordinamento” della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è un caso dunque se il tema apparentemente tecnico della riforma della prescrizione è oggi al centro di uno scontro politico globale che a tratti sembra minacciare la stessa tenuta del governo. A proposito delle cause sociali del default del sistema giustizia, non mi sembra pienamente aderente alla realtà l’affermazione ricorrente secondo cui siamo tutti unanimemente interessati a creare una giustizia penale che coniughi efficienza e garanzie. Esiste in Italia un’illegalità di massa trasversale alle classi sociali che si declina in percentuali elevatissime di reati della più diversa tipologia: quelli edilizi, fiscali, patrimoniali e l’amplissimo inventario dei reati tipici dei colletti bianchi. Si tratta di una quota significativa della società civile dotata di un potere di negoziazione politica legittimo in un sistema democratico, e la cui forza di condizionamento si dispiega in tanti modi e per tante vie. In parte anche nell’ostacolare nella dialettica politica il varo di leggi adeguate o nel compromettere l’efficacia di quelle approvate. Un esempio tra i tanti: la storica impotenza repressiva del diritto penale tributario a fronte di percentuali di evasione fiscale che collocano l’Italia ai vertici della classifica dei paesi europei. Un altro spaccato interessante emerge sul terreno delle speculazioni edilizie e degli abusi urbanistici. I reati edilizi si prescrivono pressoché sistematicamente perché, grazie all’attuale regime della prescrizione, è impossibile definire i processi in tempo. I sindaci non demoliscono gli immobili abusivi neppure nei casi più gravi in zone di totale inedificabilità. I pochi che hanno adempiuto ai loro obblighi di legge hanno perso larghe quote di consenso. Taluni sono stati costretti a dimettersi perché sfiduciati dalle loro comunità e addirittura è stato necessario sottoporli a scorta, come per Angelo Cambiano, ex sindaco di Licata. I politici fanno a gara, tranne poche eccezioni, per proporre sanatorie contendendosi i voti degli abusivi. Il sistema di Tangentopoli ha poi rivelato come l’illegalità di massa sia realtà sociale anche all’interno di larghi settori delle classi dirigenti, come attesta il proliferare inarrestabile del fenomeno della corruzione. Esiste dunque una forte domanda di impunità che collide con l’esigenza di una sistema penale efficiente. Non è un caso che la crisi del sistema si sia molto aggravata dopo Tangentopoli, quando settori portanti delle classi dirigenti nell’impossibilità di impartire direttive di politica criminale alla magistratura, hanno utilizzato il potere legislativo per ridurre al minimo il rischio e il costo penale per i reati dei colletti bianchi con una sequenza di leggi che hanno creato una serie di sacche di inefficienza programmata nel sistema penale, compromettendone definitivamente la tenuta. Per un verso sono stati ridotti i tempi di prescrizione dei reati sia in generale con la legge “ex Cirielli” del 5.12.2005, sia in particolare con leggi che riducevano selettivamente le pene di reati di colletti bianchi e, quindi, i correlativi tempi di prescrizione. Per altro verso sono state introdotte nel tempo una serie di riforme che hanno ulteriormente prolungato i tempi dei processi, rendendone estremamente difficile la loro definizione in tempo utile dopo tre gradi di giudizio. Grazie alla combinazione “prescrizione breve-processo lungo”, si è così creata una micidiale falla di sistema che, come una “triangolo delle Bermude”, continua a inghiottire nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia di processi l’anno. L’operatività di tale falla di sistema è attestata dal discostamento statistico delle percentuali di prescrizione in Italia (10-11%) rispetto alla media europea (dallo 0,1 al 2%), sebbene le stesse statistiche attestino che la magistratura italiana è ai primi posti in classifica per produttività. La prescrizione “facile” si è trasformata in ulteriore fattore di rallentamento dell’iter dei processi, contribuendo ad affossare il sistema. Si è infatti fortemente disincentivata la scelta dei riti alternativi, perché la prospettiva di uno sconto di pena non è paragonabile a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizione. Il risultato è stato di ingolfare e rendere definitivamente ingestibili i ruoli dei dibattimenti. Basti considerare che nel 2018 i reati prescritti in materia edilizia sono stati ben 13260. Presumendo in via approssimativa un 50% di colpevoli, sarebbe stato logico che una gran parte di costoro scegliessero di definire la loro posizione rapidamente e con un significativo sconto di pena, scegliendo un rito alternativo. Ma perché farlo, se il sistema ti offre la possibilità dell’impunità col rito ordinario? Meccanismi analoghi sono stati replicati per una quota rilevante di reati puniti sino a 6 anni (tra cui rientrano un gran numero di reati strumentali alla corruzione) e anche con pene più gravi che pure si sono copiosamente prescritti perché scoperti a distanza di qualche anno dalla loro consumazione. Un lungo elenco di casi di denegata giustizia che è una ferita aperta per le vittime e per la credibilità delle istituzioni. Si pensi al processo Eternit concluso con l’annullamento in Cassazione per intervenuta prescrizione della condanna a 18 anni del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, dichiarato responsabile della morte di oltre 2000 persone uccise dall’amianto respirato in quattro sue fabbriche. I falsi allarmi sulla blocca-prescrizione Bonafede La riforma del ministro Bonafede ha il merito di avere smosso le acque, salvando dalla prescrizione i processi dopo la sentenza di primo grado ed aprendo un dibattito nazionale ad altissimo coefficiente di politicità caratterizzato da toni allarmistici a mio parere privi di fondamento se si ha riguardo alle cifre. Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, nel 2018 sono stati definiti per prescrizione 117.367 processi, di cui 57.707 nelle fasi iniziali del processo davanti al Gip o davanti al Gup; 27.747 davanti ai Tribunali, 2.550 dinanzi al giudice di pace, 29.216 in Corte di Appello e 646 in Cassazione. Poiché la riforma si limita a interrompere il decorso della prescrizione solo dopo la sentenza di primo grado, restano fuori dal suo raggio di azione tutte le fasi del processo antecedenti nelle quali si concentra la percentuale più elevata di prescrizioni: circa il 65%. Tenuto conto che in Cassazione la percentuale di prescrizione è estremamente esigua (l’1,1% dei processi trattati), la riforma riguarda in sostanza solo il 25,4% dei processi prescritti e meno del 3% dei processi trattati ogni anno. Levare gli scudi e ingaggiare una battaglia politica nazionale per il 3% dei processi, mi pare fuori misura, tanto più he proprio perché la riforma riguarda solo un segmento del processo e sarà operativa a partire dal 2024, vi è tutto il tempo per approvare prima un pacchetto di interventi legislativi mirati solo a sveltire i tempi della fase dell’appello, interventi peraltro già elaborati da tempo da varie Commissioni legislative e ministeriali. Sebbene meritevole perché limita i danni, la riforma Bonafede è tuttavia manchevole perché lascia irrisolto il grave problema della prescrizione di circa il 65% dei reati nelle fasi antecedenti all’appello. Piuttosto che ingaggiare un braccio di ferro per imporre uno stop a tempo indefinito della minimale riforma della prescrizione già realizzata in attesa di una palingenesi generale di là a venire non si sa quando e come, sarebbe ragionevole un approccio gradualistico che metta all’ordine del giorno dell’agenda politica una selezione di tutte le articolate e approfondite proposte di riforme già messe a punto da varie Commissioni di studio per ricondurre la percentuale di processi prescritti entro limiti fisiologici in tutte la varie fasi del processo e ripristinare condizioni minimali di agibilità del sistema penale. Sulla prescrizione, sono state proposte soluzioni che traggono spunto dai sistemi tedesco, spagnolo, austriaco e americano. In particolare è stato proposto di distinguere, come in altri paesi europei, la prescrizione dei reati dalla prescrizione del processo: due istituti con ragioni e scopi completamente diversi. Il fondamento della prescrizione dei reati è il sopravvenuto disinteresse dello Stato alla loro punibilità dopo il decorso di un determinato lasso temporale variamente graduato a secondo della gravità dei reati. Il fondamento della prescrizione del processo è invece la ragionevole durata del processo. Se il reato è accertato dopo il decorso del termine di prescrizione, la partita è chiusa. Ma se viene invece accertato prima del decorso di tale termine e l’azione penale viene esercitata, cessa la ragion d’essere della prescrizione del reato, e subentra la prescrizione del processo. Solo operando tale distinzione e depurando il tempo del processo dalla zavorra del tempo già trascorso dalla data di consumazione dei reati sino all’esercizio dell’azione penale (un tempo che variando da imputato a imputato determina gravi disparità di trattamento tra imputati della medesima tipologia di reati) è possibile operare su un tempo processuale uguale per tutti, ponendo la base per una ragionevole durata da realizzarsi con un ventaglio articolato di interventi sul piano legislativo ed organizzativo. E tuttavia dopo che gli studiosi esauriscono il loro lavoro, le proposte vengono lasciate nei cassetti o bocciate come impraticabili. Tutto il mondo civile è barbaro tranne l’Italia? Sembra quasi che tutti gli altri paesi del mondo dalle cui legislazioni si è tratto spunto per la riforma della prescrizione siano barbari e nemici giurati del garantismo. Si è detto no anche a riforme di elementare buon senso finalizzate a eliminare alcune delle cause più frequenti di ritardi patologici. Per esempio è stato bocciato per indebita “compressione dei diritti dell’imputato” l’emendamento dei parlamentari Casson e Cucca che proponeva che solo il primo atto di inchiesta venga notificato mediante consegna di copia alla persona, mentre le successive notifiche avvenissero con posta elettronica certificata all’indirizzo indicato dal difensore, eliminando margini di errore e condotte strumentali di imputati che non si fanno trovare dagli ufficiali giudiziari o cambiano di frequente domicilio per vanificare le notifiche e allungare i tempi. É stata scartata pure la proposta finalizzata a eliminare un’altra causa statisticamente rilevante di patologico aumento dei tempi del processo. Il codice prevede che il processo ricominci da capo a pena di nullità assoluta ogni volta che un componente del collegio giudicante deve essere sostituito perché trasferito, ammalato o per altri impedimenti, anche se il processo è alle battute finali. Per evitare tale esito era stato proposto di prevedere la videoregistrazione di tutte le udienze in modo che il nuovo giudice subentrato possa in breve tempo prendere cognizione di quanto è accaduto in precedenza in udienza, coniugando il principio dell’oralità con quello della celerità. Nulla da fare, anche in questo caso si è obiettato la violazione dei diritti incomprimibili degli imputati. Se non è possibile trovare un accordo neppure su tali proposte minimali, è realistico immaginare che si possa realizzare una generale revisione del sistema? É lecito dubitarne fortemente. Sì agli evasori in carcere: oggi sono meno che in Finlandia Alla luce dei rilevantissimi interessi in gioco, fondati dubbi sussistono anche sulla futura tenuta di un’altra importante riforma ad altissimo coefficiente politico: quella in materia di reati tributari approvata con il decreto legge 26.10.2019. Una riforma che, segnando una svolta di sistema, si propone l’ambizioso obiettivo di porre finalmente fine alla storica impunità sino ad oggi garantita al vasto e trasversale popolo degli evasori. Secondo uno studio dell’Institut de criminologie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. La media statistica consolidata degli evasori nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva si aggira intorno allo 0,4% della popolazione carceraria contro una media del 4,1% dell’Unione Europea. Una cifra quella italiana prossima a quella della Finlandia paese ad altissima fedeltà fiscale e di soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 55 milioni dell’Italia. Tra le varie misure previste dal decreto legge vi è anche il ripristino della punibilità penale di alcuni dei più odiosi reati fiscali, tra i quali la dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e l’emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, anche se l’importo delle fatture non supera i 100 mila euro. Grazie all’elevazione delle pene edittali è stata inoltre prevista la possibilità delle intercettazioni, indispensabili per portare alla luce i reati degli specialisti delle “carte a posto”. Com’è noto, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti è un tipico reato seriale praticato a tutti i livelli per l’evasione internazionale e la conseguente creazione di fondi esteri, ed è divenuto uno dei servizi più richiesti da operatori economici spregiudicati alle “mafie mercatiste” che, grazie alle loro società cartiere dislocate nei cinque continenti, possono offrire prestazioni eccellenti. È stata altresì prevista per i condannati per i più gravi reati fiscali la confisca dei beni sproporzionati e ingiustificati rispetto ai redditi dichiarati e al patrimonio accertato, una misura che si è rivelata vincente nei resti di mafia e in quelli di corruzione. Così come quella della prescrizione, anche questa riforma è a rischio ed è in corso un braccio di ferro. Si è arrivati al punto di proporre in sede di conversione del decreto l’abrogazione sic e simpliciter dell’intero art. 39 del decreto che contiene tutte le modifiche al Codice penale. Cosa accadrà? A decidere non saranno certo i giuristi adusi a scambiare il mondo astratto delle idee con la ferrosa realtà, ma il corposo gioco degli interessi e dei rapporti di forza del sistema paese. Quindi la partita resta apertissima su tutti i fronti e quanto mai incerta, soprattutto in un tempo di permanente instabilità degli equilibri macro-politici come quello attuale. Sulla giustizia prevale la finta di Bruno Tinti Italia Oggi, 5 dicembre 2019 Per sveltire i processi basterebbero poche cose. Ecco quali. Martedì 3 dicembre ho scritto del teatrino della politica, dove è andata in scena la farsa della legge fiscale. Siccome però il teatro c’è in quanto ci siano i teatranti; e siccome la politica italiana è composta (ahimè) di teatranti; ecco che oggi ci troviamo a parlare del teatrino della riforma della giustizia. Qui però, più che di una farsa, si tratta di una tragedia. Perché i teatranti, benché tutti d’accordo sul raggiungere un non-risultato (funzionale al loro scopo ultimo, incrementare o almeno non diminuire il consenso elettorale) cercano di conseguirlo con modalità diverse. L’opposizione, garantendo l’impunità al suo tradizionale bacino elettorale, indignato per la dilagante criminalità comune (a dispetto delle statistiche che la danno in forte diminuzione) e indulgente nei confronti della criminalità economica (tanto più perché in forte incremento). La maggioranza impegnata in riforme di bandiera (prescrizione, durata dei processi) prive di concreta fattibilità: sia per radicata ignoranza, sia per fumisterie pseudo garantiste. Entrambe comunque unite nella protezione degli interessi economici dell’avvocatura. Naturalmente, nessuno parla apertamente di tutto ciò: è tutto un vociare di diritti indefettibili dei cittadini; di inaccettabile durata dei processi, vera tortura per gli imputati e rovina economica per chi affronta interminabili processi civili; di abuso di carcerazione preventiva; di mancata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri (che non c’entra niente con la rapidità ed efficienza del processo, anzi lo pregiudica; ma gli avvocati ci provano sempre). Sicché, ecco come stanno davvero le cose. La riforma della prescrizione, voluta fortemente dai grillini. Ovvero, come fare la cosa giusta nel modo sbagliato. Finché il processo penale rimane quella fabbrica di inutili formalità e di interminabili gradi di giudizio che è ora (Tribunale della Libertà, reiterabile per N volte a scelta dell’avvocato; udienza preliminare; Tribunale; Appello; Cassazione con possibilità di ricominciare il processo in Tribunale o in Appello per N volte), se la prescrizione venisse interrotta dopo la sentenza di primo grado, la durata media del processo penale passerebbe da 8 anni a 16. Dunque è evidente che, prima, si deve riformare il processo penale e, poi, si deve riformare la prescrizione. Tutti i teatranti strepitano che la riforma del processo penale (e civile) è proprio quello che vogliono fare loro. Ed è tutto un fiorire di termini indefettibili. Il processo non deve durare più di 4 o 6 anni complessivamente; e, con riferimento alle singole fasi, 2 anni in Tribunale, 1 anno in Appello e 1 in Cassazione. E le indagini del Pm, quelle poi non devono superare i 6 mesi, l’anno, l’anno e mezzo. Non uno che spieghi come un indagine come Telekom Serbia, con più di 10 rogatorie estere, con decine di migliaia di documenti da studiare e mettere in relazione tra loro (che io, lavorando in pratica solo su questo procedimento, coadiuvato da due bravissimi colleghi, ci ho messo 3 anni a concludere) potrebbe essere terminato in 6 mesi o un anno mezzo che sia. E, di procedimenti di questo tipo ce ne sono centinaia. I teatranti mi ricordano Procuste, quel bel tipo che tagliava le gambe a chi era più alto di X e stirava i corpi di quelli che erano più bassi. Poi naturalmente i poveretti morivano ma la cosa non lo riguardava (anzi, era proprio quello che voleva). Lo stesso discorso vale per Tribunale, Appello e Cassazione. Considerando poi che, in Tribunale, il nostro demenziale codice di procedura prevede che tutto quanto fatto dal Pm venga buttato dalla finestra e si ricominci daccapo, con quel sistema che si vede in televisione, l’accusa che interroga, poi la difesa che interroga, poi l’accusa che ricomincia, poi la difesa. Con la differenza che, almeno, negli Usa il giudice interviene e dice agli avvocati di piantarla e, se insistono, li persegue per oltraggio alla Corte; mentre, qui da noi, il giudice, se volesse intervenire (e infatti non lo fa) deve redigere una ordinanza motivata che può essere impugnata in Cassazione. Il rimedio è ovvio. Abolire l’Appello: tanto chi l’ha detto che, se la sentenza di primo grado viene ribaltata in Appello, vuol dire che il giudice di primo grado s’è sbagliato? E perché non dovrebbe essersi sbagliato i giudice dell’Appello? Il che avrebbe una serie di conseguenze positive a cascata. Circa 2.500 giudici (con annesse strutture amministrative) andrebbero a integrare i circa 3 mila che lavorano in Tribunale. Un raddoppio della forza lavoro e, ovviamente, del prodotto finale, le sentenze. E soprattutto un incremento esponenziale dei patteggiamenti (ci si mette d’accordo sulla pena tra accusa e difesa e il processo non si fa). Perché, chi è così idiota da confessarsi colpevole subito e finire in galera invece che farsi processare, se condannato andare in Appello dove la pena comunque non potrà essergli aumentata, da qui in Cassazione, con il 40% circa di probabilità di godere della prescrizione? Quanto al processo civile, basterebbe adottare la procedura prevista per le controversie in materia di lavoro: una citazione, una memoria di risposta, tutti i documenti al giudice, interrogatorio dei testimoni, eventuale perizia e poi tutti ad aspettare la sentenza. Invece, oggi, è previsto uno scambio di memorie tra gli avvocati che occupa, considerati i termini processuali previsti dalla legge, circa 1 anno e tre mesi. Cioè, più di un anno in cui non si fa niente, tranne ripetere - a rate - quello che avrebbe potuto essere detto in una volta sola. Tutto ciò è ovvio; e anche banale. E allora? Come ho scritto all’inizio, ignoranza, fumisterie pseudo garantiste e, soprattutto, interessi economici dell’avvocatura. Chi glielo dice agli avvocati (250 mila in Italia, 40 mila in Francia) che il loro volume di affari è dimezzato o anche peggio? Niente Appello, via il 50% dei processi (oggi si appella tutto, tanto è gratis). Niente memorie obbligatorie, sono più o meno il 50% dell’attività parcellata. E, oltre a tutto questo, il timore della classe dirigente di vedersi sottoposta a un effettivo controllo di legalità: se abolisci la prescrizione, quante corruzioni, finanziamento illecito, falsi in bilancio, insider trading e frodi fiscali verranno processate invece che andare al macero? Toghe scatenate: Renzi deve tacere di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 dicembre 2019 I membri togati del Csm, cioè i magistrati che fanno parte del Consiglio superiore della magistratura, hanno approvato un documento di censura a Matteo Renzi, che è un senatore della Repubblica ed è anche il capo di uno dei partiti di governo. La censura a Renzi è dovuta al fatto che Renzi, giorni fa, aveva criticato i magistrati della procura di Firenze. I togati del Csm dichiarano che ciò non deve essere consentito. Al momento non si sono sentite reazioni significative dal mondo politico. La politica sembra ormai seppellita, o rincantucciata in piccoli nascondigli, tremante, in fuga dalla strapotenza giudiziaria. Ci sono precedenti nella storia della Repubblica a questa sedizione dei magistrati? Beh, ce n’è uno, che da un certo punto di vista è ancora più grave: siamo nel 1985 e il Csm si riunisce per censurare alcune frasi di Bettino Craxi, presidente del Consiglio, il quale aveva criticato i magistrati della Procura di Milano che, secondo lui, avevano indagato poco e male sull’uccisione del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. In quel caso l’attacco del Csm era addirittura al presidente del consiglio in carica, e per questo l’attacco può essere considerato maggiormente eversivo, rispetto a quello di oggi: eversivo lo giudicò il Presidente della Repubblica che interviene per fermarlo. Tuttavia, in quell’occasione, era il plenum del Csm che era riunito per discutere, in questo caso invece è una frazione di quel plenum, e cioè la componente togata, che assume l’iniziativa in contrasto aperto con la politica, e, in definitiva, con le istituzioni della democrazia. Non solo: in questo caso c’è un problema in più. Che i magistrati di Firenze difesi dai togati dovrebbero in realtà essere messi sotto accusa dai togati. Perché? Perché questi magistrati della procura di Firenze sono quelli ai quali sono sfuggite di mano carte coperte dal segreto istruttorio (sull’inchiesta Open, cioè sull’inchiesta contro Renzi e i finanziamenti alla sua corrente), che sono finite nelle mani dei giornalisti. Dunque possono essere indiziati, forse, per il reato di violazione del segreto di ufficio (da uno a tre anni di carcere) e certamente possono, anzi devono essere considerati probabili responsabili di violazione del codice di disciplina che prevede che sia sottoposto a procedimento chiunque, anche se non dolosamente, permetta la fuga di notizie. Il Csm, se non si deciderà a procedere all’indagine disciplinare e a sollecitare la Procura di Genova (competente su Firenze) perché proceda all’indagine giudiziaria, si troverà evidentemente in una situazione di illegalità. Per capire la gravità della situazione che si sta creando, nel silenzio di politica e giornali (ormai è difficile, nel campo giudiziario, rintracciare un giornalista che non sia abile e arruolato nel reggimento guidato dai Pm) basta ricordarsi di come reagì il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando seppe che il Csm voleva riunirsi per condannare una presa di posizione del Presidente del Consiglio. Mandò i carabinieri, guidati da un generale, per impedire la riunione. Per completezza di informazione, riportiamo il testo integrale del documento sottoscritto dai togati. Eccolo qui: “I sottoscritti Consiglieri chiedono l’apertura di una pratica ex art. 36 reg. interno a tutela dei magistrati della Procura di Firenze, ed a presidio dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione. Nei giorni scorsi, a seguito delle perquisizioni disposte dalla Procura di Firenze, il senatore Matteo Renzi si è espresso in più occasioni con dichiarazioni del seguente tenore: “Penso che siamo in presenza di un vulnus al gioco democratico, di una ferita al gioco democratico”. Le predette dichiarazioni non si limitano ad una critica, sempre legittima, del merito del provvedimento, ma costituiscono commenti che alimentano un clima di delegittimazione nei confronti dei magistrati della Procura di Firenze, come si evince dal contenuto dei numerosi post pubblicati sui social e delle dichiarazioni rilasciate agli organi di informazione nelle ultime ore. Per questo si impone l’esigenza dell’intervento del Consiglio a tutela dell’indipendenza ed autonomia della giurisdizione”. Il comunicato propone di negare a un senatore della repubblica (ma se non fosse un senatore non cambierebbe molto) la libertà di opinione e di parola. Poi dice che uno fa demagogia se cerca precedenti negli anni del fascismo. La Corte costituzionale affonda la “spazza-corrotti” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2019 Corte costituzionale - Sentenza 4 dicembre 2019 n. 253. Si incrina la monoliticità della “spazza-corrotti”. Non potranno più essere negati permessi premio ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione sulla base dell’assenza di collaborazione con la giustizia. È uno degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 253 scritta da Niccolo Zanon, depositata ieri. La pronuncia, proverbialmente nota come quella sull’”ergastolo ostativo” estende, lette le motivazioni, il passaggio da assoluta a relativa della presunzione che impediva la concessione dei permessi premio non soltanto ai condannati per reati di mafia. La dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale investe così tutti i reati inseriti nell’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario e, ultimi tra questi, dall’inizio dell’anno quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Tra l’altro, la Cassazione ha chiamato - con l’ordinanza n. 31853/2019 - espressamente in causa la Corte costituzionale per pronunciarsi sulla legittimità dell’inserimento dei condannati per reati di peculato nel perimetro dell’articolo 4bis. La Corte, con la sentenza di ieri, affronta il tema della rilevanza da dare alla collaborazione. E osserva che, sulla base dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di un valore premiale al comportamento di chi, anche dopo la condanna, fornisce una collaborazione utile ed efficace, un altro è la previsione di un trattamento peggiorativo al detenuto che non collabora, considerata persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa. Se nella fase cautelare, quando si procede per associazione mafiosa, è il carcere l’unica soluzione prevista dall’ordinamento (ma le esigenze cautelari possono essere contraddette da altri elementi), nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che “può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio”. Mentre non è irragionevole presumere che il condannato non collaborante non abbia tagliato i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, lo è invece impedire che quella presunzione sia superata da elementi diversi dalla collaborazione. L’assolutezza della presunzione impedisce al magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso carcerario del singolo condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale. La valutazione dei cambiamenti dovrà essere effettuata dal magistrato di sorveglianza con estremo rigore, visto che si tratta del reato di affiliazione a un’associazione mafiosa. A corroborarla dovranno essere le relazioni dell’autorità penitenziaria e le informazioni acquisite dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. La sentenza, infine, spiega con necessità di coerenza interne l’allargamento: “la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’articolo 4bis, Ordinamento penitenziario dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di “contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta”. No al controllo giudiziario? Via libera all’appello di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 46898/2019. L’impresa può fare ricorso in Corte d’Appello, anche nel merito, contro il provvedimento con il quale il tribunale nega il controllo giudiziale. Le Sezioni unite penali (sentenza 46898) indicano la strada che l’imprenditore, colpito da un’interdittiva antimafia, deve prendere se il tribunale nega la misura di prevenzione patrimoniale. I giudici ricordano che il controllo giudiziario (articolo 34,bis) é stato introdotto con la legge 161/2017 all’interno del Codice antimafia e può essere richiesto dal titolare dell’impresa destinataria di informativa prefettizia, per evitare sequestri, confisca e proseguire l’attività. La giurisprudenza si è spaccata tra le sentenze che hanno considerato ammissibile il solo ricorso per Cassazione, e quelle che hanno motivato le ragioni della inesistenza, nell’ordinamento, di qualsiasi base legale alla configurazione di tale mezzo di impugnazione come di altri. La prima tesi fa leva sul richiamo nella norma alla procedura camerale, che contiene al suo interno la previsione della ricorribilità per Cassazione del provvedimento emesso all’esito della camera di consiglio. E l’argomento è la necessità di una tutela, imposta dalla Carta con l’articolo 111, dei diritti garantiti come la libertà di impresa. Per un opposto orientamento invocare la Costituzione sarebbe fuorviante, perché il provvedimento del tribunale non incide sulla libertà personale e non ha carattere di definitività e, ancora meno, natura di sentenza. La libertà di impresa è limitata dalla interdittiva del prefetto e va dunque tutelata in sede di giustizia amministrativa. Una conclusione rafforzata da una finalità pubblicistica tesa ad assicurare che l’attività di impresa non venga utilizzata per accrescere lo sviluppo delle associazioni mafiose. Ad avviso delle Sezioni unite entrambe le tesi hanno dei limiti e non servono a fornire al problema una risposta sistematica, per la quale è necessario fare riferimento al sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione patrimoniale. I giudici decidono per analogia muovendosi sul terreno dei “casi analoghi”. La conclusione è che le decisioni del tribunale sulle richieste di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione alla amministrazione giudiziaria, “legate con le prime in un unico sottosistema” debbano essere soggette al mezzo di impugnazione generale, e dunque al ricorso in Corte d’Appello, anche nel merito, come previsto, dall’articolo 10 del Codice antimafia, per le altre misure patrimoniali. Una scelta necessaria per evitare disparità di trattamento normativo, in presenza di effetti del tutto simili su beni e interessi omogenei tutelati dall’ordinamento. Calabria. “Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale in Calabria” ilmetropolitano.it, 5 dicembre 2019 Si sono tenuti lo scorso 3 Dicembre presso la Sala Monteleone del Consiglio regionale della Calabria “Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale in Calabria”, promossi dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia, d’intesa con il Ministero della Giustizia, Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria e il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Una “titanica impresa” che ha registrato la corale partecipazione dei livelli apicali dell’Amministrazione Penitenziaria calabrese, rappresentata dal Provveditore regionale Liberato Guerriero e dal Vicario Rosario Tortorella, dalla gran parte dei direttori, comandanti di polizia penitenziaria e funzionari giuridico-pedagogici dei dodici istituti penitenziari presenti in Calabria, insieme ad una nutrita componente dell’intero corpo di Polizia penitenziaria. Hanno inoltre preso parte ai lavori i Dirigenti Generali dei Dipartimenti Sanità e Lavoro della Regione Calabria, Antonio Belcastro e Roberto Cosentino, insieme al Coordinatore regionale della sanità penitenziaria calabrese, Luciano Lucania, oltre a numerosi direttori delle diverse Asp territoriali e referenti delle aree sanitarie dei vari istituti penitenziari calabresi, nonché il Presidente della cooperativa che gestisce la Rems di Santa Sofia d’Epiro. I lavori si sono aperti con la relazione introduttiva del Garante regionale Agostino Siviglia che ha ripercorso l’excursus storico-politico della legislazione penitenziaria italiana, a partire dalla Costituzione Repubblicana fini ai giorni nostri, per poi focalizzare l’attenzione sulla realtà del sistema penitenziario calabrese e sulla prospettiva strategica per la costruzione di una solida piattaforma culturale-operativa comune, nell’ottica della realizzazione di una nuova governance della pena, interistituzionale e multidisciplinare. Un tentativo certamente ambizioso ma che a giudicare dalla corale presenza degli massimi livelli regionali dei vari settori interessati costituisce, a parere del Garante, “una speranza, pure venata di certezza, che la strada giusta è imboccata”. “Del resto - ha affermato Agostino Siviglia - la fatica e la bellezza del tentare hanno spesso il potere di meravigliarci”. È stata poi la volta degli indirizzi di saluto istituzionali del Presidente del Consiglio regionale della Calabria, Nicola Irto, primo firmatario delle legge regionale che ha istituto il Garante dei detenuti calabrese, che si è soffermato, fra l’altro, sulle gravi problematiche che affliggono anche la Polizia Penitenziaria, quotidianamente preposta alla salvaguardia della sicurezza in carcere, con importanti funzioni anche in ordine al trattamento penitenziario. Irto ha inoltre espresso la propria personale soddisfazione per il varo di una legge regionale, quella sul Garante dei detenuti, che costruisce un atto di civiltà giuridica e sociale riallineando la Calabria al resto delle regioni italiane. Il Provveditore Guerriero ha, invece, posto l’attenzione sull’importanza di una modalità di intervento sistemica in ordine all’esecuzione penale, che anche attraverso il contributo della società esterna al carcere, possa davvero favorire la rieducazione ed il reinserimento sociale delle persone detenute. Estremamente significativa la presenza e l’intervento di saluto del Procuratore della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che ha sottolineato come ci tenesse particolarmente a partecipare all’importante iniziativa sul tema dell’esecuzione penale in Calabria, perché, ha detto, “la Procura non manda soltanto le persone in carcere, ma mira anche a salvaguardare i diritti delle persone detenute, affinché una volta scontato il loro debito con la giustizia possano davvero intraprendere un percorso di cambiamento e reinserimento nella società”. La lunga giornata di lavori ha visto poi l’alternarsi delle tre tavole rotonde sui temi della sanità in carcere, della rieducazione penale e del reinserimento socio lavorativo, coordinate, rispettivamente, dal Garante Siviglia, dalla funzionaria del Prap Irrera e dal Dirigente interdistrettuale dell’Uepe Molinari, seguite dagli interventi programmati della sessione pomeridiana. Si sono, pertanto, alternati nei lavori, magistrati, direttori di istituti penitenziari, funzionari giuridico-pedagogici, comandanti di polizia penitenziaria, dirigenti sanitari, docenti universitari, esperti di settore e rappresentanti del mondo del volontariato e delle professioni che interagiscono con il complesso mondo del sistema penitenziario calabrese. Le azioni concrete che, in particolare, si è stabilito di intraprendere afferiscono, in specie, alla prossima ricostituzione e convocazione di due Osservatori permanenti regionali, rispettivamente, sulla sanità penitenziaria e sul lavoro, oltre all’imminente costituzione del Polo Universitario Penitenziario Calabrese, proposto dal prof. Arturo Capone delegato dal Rettore dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, Marcello Zimbone. Azioni concrete, dunque, che tracciano un percorso chiaro e netto da seguire per il miglior funzionamento del sistema penitenziario in Calabria, con il corale coinvolgimento di tutti gli attori interessati. Il Garante regionale dei detenuti, nell’esprimere, in chiusura dell’evento, grande soddisfazione per l’intensa e faticosa giornata di lavori, si è riproposto di dare a questa iniziativa cadenza annuale, al fine di registrare i progressi compiuti e le disfunzioni ancora da sanare. “È stata davvero una bella giornata per l’esecuzione della pena in Calabria”, ha concluso Siviglia, “non era facile, in poche settimane, riuscire a coinvolgere, praticamente, tutti i rappresentanti di settore per dare avvio ad una nuova modalità di intervento sui problemi della privazione della libertà, assiologica e multidisciplinare. La corale partecipazione di tutti gli interessati è la prova che insieme si può fare in modo che qualcosa accada davvero. Che è possibile, oltre che indispensabile, organizzare bene il bene, perché il male è molto bene organizzato”. Sardegna. Dal carcere alla palestra, i detenuti diventano istruttori di body building L’Unione Sarda, 5 dicembre 2019 Al termine del progetto di formazione del Csen Sardegna negli istituti di Sassari, Nuoro e Cagliari, gli allievi del corso hanno ricevuto il diploma. Ora possono lavorare in tutte le strutture dove serve un Tecnico sportivo. Anche lo sport può rivelarsi strumento di redenzione, la via attraverso cui ritornare a una vita normale dopo aver pagato per i propri errori, può costituire occasione di riscatto sociale. Lo sanno bene i trenta detenuti delle carceri di Sassari, Nuoro e Cagliari che attraverso lo sport e la formazione si sono giocati una occasione importante per dare una svolta alle loro vite e inserirsi, appena possibile, nel mondo del lavoro. Il progetto - Il progetto in questione, “Liberi nello Sport”, organizzato dal Csen Sardegna in collaborazione con la Regione e gli Istituti penitenziari isolani, è durato 7 mesi e ha preso corpo attraverso insegnamenti teorici e pratici. La genesi, lo svolgimento e i risultati ottenuti nel singolare corso di formazione saranno inoltre oggetto di un film di 8 ore realizzato da Directa Sport che documenta le fasi più importanti dell’iniziativa e contiene le interviste ai protagonisti. Una occasione di lavoro - Quel che conta tuttavia è il risultato finale della pregevole iniziativa. Adesso i trenta partecipanti possiedono un titolo professionale ufficiale, il diploma Nazionale di Istruttore di Body Building e Fitness, e possono ambire a inserirsi a pieno titolo nel mondo del lavoro nel settore sportivo. In pratica potranno trovare una occupazione in qualsiasi struttura dove sia prevista la figura del Tecnico sportivo. Senza contare che attraverso il corso gli allievi hanno avuto la possibilità di fare educazione corporea e motoria, abituandosi a una cultura sportiva fondata sui valori della continuità, della pratica, dell’autodisciplina e dell’aggregazione. La consegna dei primi 10 diplomi - Nella giornata di mercoledì la prima manifestazione per festeggiare il raggiungimento dell’obiettivo. Nella Casa Circondariale di Sassari - Bancali “Giovanni Bachiddu” è avvenuta la cerimonia per la consegna ai detenuti che hanno frequentato il corso dei primi dieci diplomi di istruttore di body building e fitness. A ciò si aggiunge l’abilitazione al primo soccorso con l’utilizzo del defibrillatore semiautomatico, conseguito grazie al corso Blsd. Cagliari e Nuoro - Lo stesso tipo di manifestazione per la consegna dei diplomi si terrà giovedì e venerdì nelle carceri di Cagliari e Nuoro con il resto dei detenuti che hanno preso parte al progetto. I diplomi ai primi dieci partecipanti che hanno raggiunto l’obiettivo sono stati consegnati nella struttura di Bancali dai presidenti nazionale e regionale del CSEN, Francesco Proietti e Francesco Corgiolu, alla presenza della direttrice del carcere sassarese, Elisa Milanesi, del comandante della Polizia penitenziaria e del garante dei diritti dei detenuti, Antonello Unida. I quattro moduli - Per la formazione dei partecipanti sono state utilizzate, come spiega la nota stampa diffusa da Csen, metodologie didattiche che comprendevano lezioni frontali ma anche discussioni, dimostrazioni, esercitazioni e tirocini. In tutto si è trattato di 56 ore di lezioni spalmate su quattro moduli formativi, con quattro ore dedicate all’esame finale. I detenuti interessati hanno acquisito la preparazione necessaria a progettare un programma di allenamento in grado di conciliare le fasi di riscaldamento con quelle del fitness cardiovascolare e/o di dimagrimento con attività isotoniche, fino a giungere alle fasi di defaticamento, che spesso includono anche lo stretching. Catanzaro. Il Garante Marziale in visita al carcere minorile noidicalabria.it, 5 dicembre 2019 Il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, ha incontrato oggi il personale e i detenuti del carcere minorile di Catanzaro, unica struttura in tutta la Calabria. “Come ogni anno - dichiara Antonio Marziale - mi sono recato a Catanzaro per formulare gli Auguri di Natale ai ragazzi detenuti e al personale che vi opera con grande attenzione. Voglio subito ringraziare la Vicedirettrice, la dottoressa Chiara Crociani, per la sua disponibilità, così come gli operatori di polizia penitenziaria, gli assistenti sociali e i volontari che quotidianamente prestano assistenza ai giovani detenuti. A Catanzaro, voglio ricordarlo - afferma Marziale - sono in atto detenuti 19 ragazzi, quattro italiani e quindici stranieri, di età tra i 14 e i 23 anni di età, che scontano pene per reati che vanno dall’omicidio al furto. Trovo prioritario, per l’attività di un Garante, che proprio in questi giorni che ricordano l’Avvento, un gesto, una parola, siano spesi anche per chi ha sbagliato, commesso gravissimi reati, perché comunque si tratta di esseri umani che torneranno in libertà. A loro ho detto che fuori da quei muri c’è una società che li aspetta, una realtà difficile all’interno della quale dovranno però collocarsi in maniera quanto più esemplarmente possibile, proprio perché reduci da una esperienza così forte, terribile, come la detenzione carceraria e la privazione della libertà. Ai ragazzi ho chiesto di riflettere sulle limitazioni che sono state loro, giustamente, imposte, sul valore della libertà e il decidere il proprio tempo come meglio credono, senza gli effetti sanzionatori della giustizia. Mi augurano che tutti ci riescano, per loro stessi e le loro famiglie”. A conclusione della visita, il Garante Marziale ha donato all’Istituto di pena dei libri per arricchire la biblioteca. “Ho voluto - infine - riaffermare a questi ragazzi come la cultura, il sapere, siano i deterrenti più efficaci per discernere il male e allontanarlo da sé, con la speranza che ciò sia accolto nella loro vita quotidiana”. Pescara. “Dalla pena al perdono, riflessioni su giustizia e sistema carcere” rpiunews.it, 5 dicembre 2019 Convegno con Gherardo Colombo e Rita Bernardini. “Dalla pena al perdono, riflessioni su giustizia e sistema carcere”, è il titolo del convegno organizzato dall’associazione “Voci di dentro” Onlus e dal Rotary Club Pescara Nord con il patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti dell’Abruzzo e della Camera Penale di Pescara, in programma domani giovedì 5 dicembre alle ore 15 nell’Aula Alessandrini all’interno del Palazzo di Giustizia di Pescara. Interverranno l’ex magistrato Gherardo Colombo saggista, fondatore dell’associazione “Sulle Regole”, Umberto Curi professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova e docente all’Università San Raffaele di Milano, Caterina Iagnemma dottore di ricerca in Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano, Francesco Lo Piccolo giornalista, presidente di “Voci di dentro”, Giuseppe Mosconi già Ordinario di Sociologia del Diritto all’Università di Padova, la giornalista Rai Angela Trentini autrice del libro “La speranza oltre le sbarre”. Ha inoltre confermato la partecipazione Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino”. L’incontro, moderato da Fabio Ferrante di “Voci di dentro”, sarà preceduto dai saluti di Massimo Di Cintio, presidente del Rotary Club Pescara Nord, del presidente del Tribunale di Pescara Angelo Mariano Bozza, del presidente della Camera Penale di Pescara Vincenzo Di Girolamo, e del presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Abruzzo Stefano Pallotta. Il convegno, pensato da Voci di dentro, associazione che da oltre dieci anni si occupa di carcere, vuole essere un momento di riflessione sul diritto penale sempre più lontano dai suoi paradigmi fondativi (tipicità del reato, proporzionalità eccetera) e sempre più vicino a una criminalizzazione di segmenti sociali (poveri, stranieri, immigrati). I relatori da più punti di vista esamineranno le fragilità del principio della retribuzione, l’irriformabilità del sistema carcere sempre più discarica sociale, le distorsioni operate dai media nella rappresentazione della pena. Concluderanno i lavori una serie di approfondite analisi sulla concezione della giustizia riparativa, sulle possibili ricadute nel sistema penale, sul perdono responsabile. Ai partecipanti saranno riconosciuti 4 crediti formativi professionali dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo e 3 crediti formativi dall’Ordine degli Avvocati di Pescara. Corato (Bat). “Oltre le sbarre”, la rieducazione per restituire alla società persone migliori di Guido Catalano coratoviva.it, 5 dicembre 2019 Ne hanno discusso i Rotary Club con esperti e addetti ai lavori. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. A dirlo è l’articolo 27 della Costituzione Italiana che nel suo terzo comma specifica il senso del carcere come luogo non di prigionia, bensì di recupero di chi ha commesso un reato. Ed è di questo tema che il Rotary Club di Corato, in un incontro interclub con i Rotary di Bisceglie, Bitonto Terre dell’Olio e Molfetta, ha scelto di affrontare insieme a chi quotidianamente vive la realtà del carcere per professione, interpretando il recupero del detenuto come propria missione professionale. Molto più di un convegno, quello che si è tenuto nella serata del 3 dicembre, ma la rappresentazione di esperienze vissute sul campo. “Oltre le sbarre”, questo il titolo dell’iniziativa del Rotary Club, è un invito a comprendere la complessità della realtà carceraria e le iniziative che costantemente gli operatori mettono in atto proprio per rispondere all’articolo 27 della Costituzione. A parlare alla platea intervenuta sono stati il prof. Claudio Sarzotti, docente di filosofia del diritto dell’Università di Torino ed esperto di diritto penitenziario, il direttore del carcere di Trani Giuseppe Altomare e Tommaso Minervini, sindaco di Molfetta ed educatore professionale specializzato ed esperto di giustizia ripartiva. Proprio partendo dall’enunciato costituzionale il prof. Claudio Sarzotti ha fatto luce su uno dei principali fondamenti del nostro ordinamento penale che costituisce, inoltre, l’espressione di una delle basilari funzioni della pena. Come è noto nei moderni sistemi giuridici il significato della punizione non è unico ma polivalente: si tratta quindi di un concetto che si estrinseca in una pluralità di funzioni. La vita nelle carceri non è semplice. Il sovraffollamento che caratterizza la gran parte degli istituti penitenziari italiani rischia di essere un freno alle attività di rieducazione del detenuto. Attività complesse e delicate che perdono di efficacia in condizioni di sovraffollamento. Di questo ha discusso il direttore degli istituti penitenziari di Trani Altomare che ha tra l’altro puntualizzato la posizione di condanna assunta dalla Corte Europea dei Diritti Umani nei confronti dell’Italia, assimilando il sovraffollamento carcerario alla tortura. Ad una situazione di sovraffollamento nello spazio degli istituti penitenziari, però, non corrisponde un potenziamento di professionalità in grado di condurre il processo di rieducazione del detenuto. Di questo aspetto si è occupato il dott. Tommaso Minervini che, nel suo intervento, ha posto in evidenza la necessità di potenziare sia il sistema carcerario sia il sistema di supporto ai detenuti, con psicologi e supporti morali per la rieducazione e l’inclusione sociale. All’interno delle carceri, grazie anche al contributo di aziende, associazioni e privati cittadini, si vanno sempre più sviluppando iniziative che puntano al recupero sociale della persona detenuta, attraverso attività di formazione e avviamento al lavoro. Caso emblematico è il progetto “Ripartiamo dalla pasta”, che da diversi anni vede impegnato il pastificio Granoro e la scuola di cucina “Factory del Gusto”. Una iniziativa partita nel 2013 con l’obiettivo di formare, con lezioni teoriche e pratiche, i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca, di semola, di grano duro nell’ottica finale di far comprendere le caratteristiche intrinseche del prodotto per una sua migliore rielaborazione al momento della sua preparazione. Una attività che oltre ad avere un carattere formativo in campo alimentare riesce a migliorare l’autostima e l’immagine di sé, individuale e di gruppo e a costruire una conoscenza accademica più approfondita intorno al tema dell’alimentazione. Roma. Se fischiare è libertà, anche dei detenuti al corso per arbitri di Orazio La Rocca Famiglia Cristiana, 5 dicembre 2019 Nell’ambito del progetto “Lo sport generatore di comunità”, Us Acli e Isola Solidale hanno promosso a Roma diverse lezioni per formare direttori di gara aperti anche a persone recluse provenienti da Regina Coeli, Rebibbia, Casal del Marmo e da altri istituti italiani. È possibile che in un prossimo futuro anche ai detenuti sarà offerta la possibilità - debitamente autorizzati dalle autorità giudiziarie e sportive - di dirigere partite di calcio ufficiali nei campionati giovanili, dilettanti e - perché no? - anche semi professionisti e professionisti. “Certo che è possibile”, rispondono decisi i responsabili dell’area sportiva delle Acli, la storica associazione dei lavoratori cristiani, al punto che - dopo una lunga fase di gestazione, da pochi giorni hanno dato vita ad una serie di corsi ad hoc per formare nuovi “fischietti” da utilizzare nei vari campi di calcio della Penisola, con una novità che ha tutto il sapore di una scommessa vinta, o, se si vuole, di un muro che, grazie al gioco del calcio, è stato abbattuto per permettere di avvicinare il mondo delle carceri al mondo dello sport ufficiale che prende vita e forma fuori dalle celle. Quasi un “miracolo” nel suo genere messo a segno dalla sezione sportiva delle Acli di Roma che per la prima volta ha avviato il suo tradizionale corso annuale di preparazione arbitrale anche a persone recluse provenienti dalle carceri romane di Regina Coeli, di Rebibbia, Casal del Marmo e di altri istituti italiani. Le lezioni sono iniziate nei giorni scorsi l’associazione “L’Isola Solidale”, istituzione di volontariato impegnata nel recupero dei detenuti attraverso corsi di formazione lavorativa ed ora anche sportiva, con sede sulla via Ardeatina, a Roma, dove i tecnici dell’U.S. Acli di Roma - grazie al progetto “Lo sport generatore di comunità” finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - formeranno i futuri arbitri di calcio. Tra i partecipanti al corso - completamente gratuiti, con cadenza bisettimanale fino al prossimo mese di marzo - per la prima volta sono stati ammessi un gruppo di detenuti ospiti su decisione del magistrato della stessa Isola Solidale, nella quale - in applicazione delle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000 - sono ospitate una quarantina di persone che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, non hanno riferimenti familiari precisi e sono costrette a vivere in stato di difficoltà economica. Un progetto tanto caro alle gerarchie ecclesiastiche romane, sulla scia - confessano all’Isola Solidale - delle esortazioni a favore del reinserimento sociale dei detenuti lanciate dai vescovi di Roma degli ultimi 50 anni, a partire da Giovanni XXIII il primo pontefice a visitare Regina Coeli, seguito da Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ed ora da papa Francesco, che non a caso nella Pasqua 2019 ha celebrato la Lavanda dei Piedi proprio tra i carcerati di Regina Coeli. Alla conclusione del programma del corso - tenuto dal responsabile della formazione arbitrale calcio dell’ US Acli Roma, Francesco Paone - gli allievi potranno accedere alla qualifica arbitrale dopo aver superato prove di esame scritte ed orali. Alla fine del corso, coloro i quali risulteranno idonei alle prove d’esame, effettueranno delle prove pratiche sul campo che consisteranno nella direzione di gare ufficiali di Calcio a 5, Calcio a 8 e Calcio a 11 davanti a un pubblico di tifosi, tecnici e familiari. “Grazie all’US Acli di Roma - spiega Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - siamo riusciti attraverso la pratica sportiva più popolare, il calcio e tutto quanto ruota intorno ad esso, ad abbattere ogni barriera legata al pregiudizio nei confronti di chi, per svariati motivi, è chiamato a pagare il suo debito con la giustizia in un istituto penitenziario. Una sfida impensabile fino a poco templ fa, ma che ci apprestiamo a vincere offrendo ai nostri ospiti la possibilità di iniziare un nuovo percorso riabilitativo partendo, mediante il corso di formazione arbitrale, anche dallo sport in quanto tale e dalle manifestazioni sportive, vale a dire da eventi concreti a forte impatto popolare come sono i tornei di calcio che si svolgono in tutte le fasce d’età previste dai regolamenti istituzionali, a partire dalle fasce d’età più piccole”. Il progetto, che vede come punto di riferimento il Centro Nazionale Sportivo Libertas e come partner l’US Acli, ha l’obiettivo - spiegano gli organizzatori - di strutturare e formalizzare interventi efficaci e duraturi favorendo, attraverso lo sport, il miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti in esecuzione di pena e il loro reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre, questa iniziativa si pone in continuità con gli interventi avviati in collaborazione con gli istituti penitenziari anche a seguito del protocollo firmato dall’US Acli con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nell’ottobre 2016, per sviluppare programmi motori, sportivi e formativi utili al periodo detentivo, al percorso rieducativo e al reinserimento sociale. Un programma giustamente ambizioso e necessario che ora si avvale anche del primo corso arbitrale aperto a chi è recluso in carcere. “Da anni lavoriamo insieme all’Isola Solidale - spiega infatti Luca Serangeli, presidente dell’Unione Sportiva delle Acli - a partire dal torneo delle parrocchie romane San Giovanni Paolo II e questo corso per arbitri è un ulteriore passo in avanti nel progetto che ci vede impegnati nelle attività di recupero e di reinserimento anche delle persone detenute”. La Spezia. “Fotogrammi dal carcere”, Francesco Tassara premiato a Napoli cittadellaspezia.com, 5 dicembre 2019 Con “Senza porte né finestre”, il videomaker aveva realizzato un film all’interno del carcere della Spezia Villa Andreino. “Senza porte né finestre” di Francesco Tassara vince la rassegna “Fotogrammi dal carcere” alla XXII edizione del Marano Ragazzi Spot Festival, manifestazione realizzata in partenariato con Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Fondazione Pubblicità Progresso e Rai responsabilità sociale, svoltasi a Marano di Napoli in collaborazione con l’IPM di Nisida. Il film, girato all’interno del carcere della Spezia Villa Andreino, è frutto di un laboratorio teatrale svolto dall’associazione Rcr Libera Iniziativa per i detenuti del penitenziario, protagonisti del film stesso affiancati da artisti esterni. Il soggetto, una realtà parallela costruita dai sogni di chi vive in cella, è scritto dal regista insieme a Luciana Consiglio, Riccardo D’Ambra (Visibì) e Andrea Bonomi (Mitilanti). Le riprese audio e video sono di Michele Borgia e Tassara. Le musiche sono di Visibì e German Jerson Bolanos. Gli interpreti sono Michele Longinotti, Sandro Giordano, Fortunato La Scala, Mohamed Grich, Francesco Ferrari, Franco Picelli, Giovanni Pitino, Gogo Wiliame, Tarik Fouhamy, German Jerson Bolanos, Andrea Bonomi, Leonardo e Samuele Artino Innaria, Luciana Consiglio ed Andrea Ruiu. I numeri della kermesse sono stati importanti: cinque concorsi per un totale di 161 film, in rappresentanza di 32 Paesi. L’associazione Agita Teatro è la curatrice della giuria che ha premiato il progetto spezzino come vincitore del 2019 tra gli altri video realizzati negli istituti penali di tutta Italia. Il film racconta una condizione di vita sospesa in un non tempo, la giornata di alcuni detenuti rinchiusi tra quattro mura ma liberi di spaziare per il mondo intero attraverso la parola, i sogni, il ricordo, la poesia e le aspettative. L’opera nasce dalla trasposizione di un testo teatrale originale costruito in carcere insieme ai detenuti. Lecce. “Tracce”, dieci detenuti in scena nel carcere di Borgo San Nicola leccesette.it, 5 dicembre 2019 Giovedì 5 e venerdì 6 dicembre, nella Casa circondariale “Borgo San Nicola”, appuntamento con lo spettacolo conclusivo del laboratorio “Tracce”, a cura di Koreoproject con la direzione artistica, la regia e la coreografia di Giorgia Maddamma e l’organizzazione di Sara Bizzoca. Quali sono le nostre tracce, i nostri percorsi, ciò che segnamo e le scie della nostra storia che lasciamo? Giovedì 5 e venerdì 6 dicembre la Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce ospiterà lo spettacolo conclusivo del laboratorio “Tracce” a cura di Koreoproject con la direzione artistica, la regia e la coreografia di Giorgia Maddamma. In scena dieci detenuti che in questi mesi hanno seguito tre laboratori tematici e che condivideranno il palco con la danza di Giorgio Mogavero, Mariella Rinaldi e Sara Bizzoca, le sculture di Matteo Lucca e la musica di Marco Bardoscia. Il reportage fotografico è curato del fotogiornalista Fabio Serino che ha seguito i laboratori catturando con i suoi scatti i momenti più avvincenti e nascosti dei protagonisti. La replica di venerdì 6 sarà aperta al pubblico (prenotazioni chiuse) e alla stampa. “Il termine traccia denota solitamente un segno, un’orma o una scia; lasciare una traccia di sé è una delle aspirazioni di ogni essere umano. Passare alla storia, raggiungere fama durevole oltre il breve arco dell’esistenza, affidare l’anima alla memoria dei posteri come surrogato dell’immortalità”, sottolinea Giorgia Maddamma. “Murakami ha scritto che ognuno lascia la sua impronta nel luogo che sente appartenergli di più. Lo spazio che viviamo si trasforma in relazione al nostro modo di vivere. In maniera più o meno marcata, lasciamo tracce della nostra presenza, attraverso le conseguenze delle abitudini del nostro fare quotidiano. A volte ci dimentichiamo che il nostro stesso corpo è la rappresentazione della nostra storia, porta dentro di sé le tracce del nostro passato, dei vissuti trascorsi. Come una cartina geografica, ci indica dove sono localizzate le esperienze e quali le emozioni ad esse associate. A differenza della “memoria classica” che si attiva per ricordi cognitivi, quella corporea lo fa con veri e propri ricordi fisici, attraverso le sensazioni e le reazioni fisiologiche”, prosegue la direttrice artistica del progetto. “Ecco perché il nostro linguaggio, quello del movimento esprime la purezza del nostro essere. Attraverso il nostro linguaggio artistico racconteremo storie di ognuno dei partecipanti, trasformandole in tracce musicali e di movimento, e con il supporto dell’arte della scultura punteremo a “visualizzare” la nostra storia e renderla eterna. L’interesse e la priorità educativa, cioè il vero tema che si voluto trattare, è il raggiungimento dell’universo interiore dei detenuti, universo tutto da scoprire e da far affiorare, al fine di condurli a descrivere il proprio mondo in maniera personale e rendere la loro visione una visione universale e teatrale”. Info e prenotazioni koreoproject@gmail.com. Gianrico Carofiglio unisce l’anima giudiziaria e quella esistenziale di Antonio D’Orrico Corriere della Sera, 5 dicembre 2019 “La misura del tempo” (Einaudi Stile libero): romanzo che è “un legal thriller e un viaggio nel tempo”. Una donna torna dal passato dell’avvocato Guerrieri: lui era alle prime armi in uno studio legale e lei, più grande d’età, lo guidò nel passaggio da ragazzo a uomo. A Bari, città del romanzo, forse commentarono, sghignazzando, che gli fece da nave scuola, ma le cose furono più complicate, spirituali e non solo carnali. Il futuro avvocato imparò da Lorenza a conoscere i libri e i film giusti, a capire meglio il bene e il male. Lorenza, che ambiva a fare la scrittrice, è rimasta una supplente di italiano, vive nella casa dei genitori (completando “un’orbita triste attorno ai propri sogni”), e ha un figlio di 25 anni condannato in primo grado per omicidio. Ed è questo il motivo per cui Lorenza riappare nella vita di Guerrieri alla vigilia del processo d’appello. L’avvocato accetta il caso (quasi disperato). “La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio è un legal thriller e un viaggio nel tempo (perdonate il bisticcio di parole). Il libro fonde le due anime (ma forse è una sola) dello scrittore: quella giudiziaria e quella esistenziale (per dirla in parole semplici). Ho sempre creduto nella prima e nel personaggio di Guerrieri. Ho invece avuto qualche dubbio iniziale (anche grosso) sulla seconda. Mi sbagliavo. Per finire, una divagazione alla Tristram Shandy (l’autore mi capirà). Carofiglio è diventato un personaggio pubblico, un protagonista dei dibattiti televisivi. I primi tempi era un po’ rigido (capita ai magistrati, ai letterati, a chi da ragazzo era molto timido; tutte caratteristiche riscontrabili in lui). In seguito si è sciolto, è diventato più simpatico, gradevole, autorevole (vedendolo nei salotti tv, ho poi più volte notato ospiti femminili guardarlo con malcelata concupiscenza). Nella Misura del tempo, malgrado la malinconia di molte pagine (che si riassume nella frase di Marcello Mastroianni: “Mi piace cenare con gli amici. Allora, perché devo morire?”), Carofiglio mi sembra di ottimo umore. E ha ragione di esserlo. Piazza Fontana, la strage nera. Il dovere della memoria di Antonio Carioti Corriere della Sera, 5 dicembre 2019 Le inchieste, i testimoni, l’ombra dei servizi: cosa sappiamo 50 anni dopo. L’intreccio tra eversori e apparati dello Stato. L’indagine riaperta negli anni Novanta. L’Italia repubblicana conosceva da sempre la violenza politica, ma la bomba esplosa cinquant’anni fa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, segnò una svolta agghiacciante. Il 12 dicembre 1969 vennero assassinate e ferite, a tradimento e a caso, persone innocenti e ignare, alle prese con gli impegni del lavoro e della vita quotidiana. Si colpiva nel mucchio, senza alcun riguardo. Da quel momento nessun cittadino poteva più ritenersi al sicuro. Mezzo secolo dopo, il bilancio che se ne può trarre è duplice. Da una parte la democrazia italiana ha respinto con successo l’aggressione del terrorismo, cominciata allora. Dall’altra non vi è stata giustizia: l’eccidio resta senza colpevoli, anche se dalle inchieste giudiziarie e dalle ricerche storiche emerge con sufficiente chiarezza che la responsabilità va addebitata all’estrema destra neonazista. Molti interrogativi però rimangono aperti, specie in riferimento al ruolo equivoco svolto da alcuni apparati di sicurezza. E resta il dovere della memoria verso le vittime e i loro cari, verso coloro che furono ingiustamente accusati (come l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto mentre era trattenuto illegalmente dalla polizia), verso la città e il Paese intero. I fatti. Su questi due versanti si muove il libro La strage di piazza Fontana (in edicola da sabato 7 dicembre), aperto da una prefazione di Giangiacomo Schiavi, con il quale il Corriere della Sera ha voluto portare un proprio contributo al dibattito. Abbiamo cercato di ricostruire i fatti: un contesto storico segnato da forti tensioni; la meccanica dell’azione terroristica, con cinque attentati (due a Milano e tre a Roma) in poche ore; l’avvio delle indagini, la perdita di credibilità della pista anarchica e l’affiorare di quella nera, con la scoperta di rapporti inquietanti tra eversori e servizi segreti. Inoltre abbiamo ripercorso, con Luigi Ferrarella, il tortuoso iter giudiziario, il controverso trasferimento del processo da Milano a Catanzaro, le condanne in primo grado e le assoluzioni in appello, la riapertura dell’inchiesta negli anni Novanta, le nuove sentenze, gli ultimi filoni battuti dagli inquirenti. Abbiamo puntato i riflettori anche su alcuni aspetti particolari: Giovanni Bianconi narra la sorte di tre coraggiosi magistrati (Vittorio Occorsio, Emilio Alessandrini, Antonino Scopelliti) che si occuparono degli attentati avvenuti nel 1969 e poi vennero assassinati per altre ragioni; Gianfranco Bettin esplora l’ambiente in cui maturò la trama criminale, l’estremismo di destra del Nordest. I testimoni - Abbiamo dato la parola ai testimoni: il nostro collega Giacomo Ferrari, che era nella banca in cui esplose l’ordigno; un maestro del giornalismo come Corrado Stajano, che fu tra i primi ad accorrere sul posto. E poi ci siamo rivolti, con Giampiero Rossi, all’Associazione delle famiglie delle vittime di piazza Fontana (17 furono in tutto i morti), che si è battuta coraggiosamente per ottenere giustizia e da parecchi anni svolge un lavoro encomiabile per evitare che vada dispersa la memoria di quanto accadde. Sul punto più spinoso, cioè sulle ragioni dell’eccidio e su quanta responsabilità portino alcuni settori dello Stato, specie per la mancata individuazione dei responsabili, abbiamo chiamato a confrontarsi due studiosi di opinioni diverse, Aldo Giannuli e Vladimiro Satta, che hanno dato vita a una discussione a tratti polemica, ma pacata e civile nei toni. Piazza Fontana è un evento lontano, ma denso d’insegnamenti. Bene hanno fatto il Comune e il sindaco Giuseppe Sala, nel cinquantesimo anniversario, a preparare una nuova installazione nel luogo dell’eccidio e a programmare una serie d’iniziative commemorative, alla quali parteciperà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Milano ha superato quella terribile prova, ma non la dimentica. La protesta dei giovani che cambia il mondo di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 5 dicembre 2019 In molti Paesi i giovani sono in prima fila nelle manifestazioni di piazza per l’ambiente e contro la corruzione dei governi e delle élite finanziarie. E cominciano a incidere. Cile, Hong Kong, Repubblica Ceca, Libano e adesso anche Italia, solo per citare alcuni Paesi in cui i giovani sono in prima fila nelle manifestazioni di piazza per protestare contro le sopraffazioni e le corruzioni dei governi e delle élite finanziarie. Probabilmente l’universo dei giovani si sta risvegliando dopo che per molto tempo li avevamo considerati troppo dipendenti dalla famiglia e privi di autonomia, addirittura “bamboccioni” come ne parlò Padoa Schioppa. Eppure i dati italiani di Eurostat del 2017 confermavano che il 67% dei giovani fra i 18 e i 34 anni vivevano ancora in famiglia senza una propria indipendenza lavorativa. Ma non è solo un’anomalia italiana anche negli Usa, nonostante siano il Paese di Zuckerberg che a vent’anni ha costruito con Facebook un impero finanziario, esiste un problema giovanile, perché i giovani per studiare sono costretti ad indebitarsi e non riescono a vivere in una propria casa perché gli affitti sono troppo elevati. Questi ritardi ad accedere al mondo dei giovani adulti hanno messo in discussione uno degli assiomi della psicoanalisi: con la fine dell’adolescenza non si raggiunge più un’identità personale e sociale stabile ma si rimane in un territorio indefinito. È una fase in cui l’età adulta comincia a emergere resa più difficile dall’instabilità esistenziale secondo la definizione dello psicologo americano Jeffrey Arnett, che ha coniato la definizione psicologica “Emerging Adulthood”, che indica il mancato raggiungimento di una direzione di sé. Sarebbe tuttavia ingeneroso addebitare questo ritardo ai giovani che si rifiuterebbero di crescere, è piuttosto la società degli adulti e degli anziani che ha creato molte barriere nei loro confronti, cominciando dalla precarietà degli sbocchi lavorativi. L’ingresso nel mondo adulto viene scoraggiato, ad esempio per votare nelle elezioni del Senato bisogna avere più di 25 anni in Italia e per candidarsi più di 40 anni. Non è un Senato aperto ai giovani, già la sua etimologia ne ratifica l’esclusività senile, confermata dall’età media di 61 anni dei senatori americani e di 55,8 anni in Italia. Anche la campagna americana per le elezioni presidenziali ne è un’ulteriore riprova, quasi tutti i possibili candidati repubblicani e democratici hanno superato abbondantemente i 70 anni. Questo divario generazionale comincia a pesare sulle nuove generazioni che cominciano a chiedersi quale sarà il loro futuro e che eredità riceveranno da quanti detengono oggi il potere. Gli adulti e i vecchi a loro volta difendono i loro privilegi e le loro condizioni di vita con una nostalgia per il passato, evidentemente poco disposti a chiedersi che cosa lasceranno ai propri figli. Questo divario generazionale è stato confermato nel referendum in Gran Bretagna per la Brexit, in cui il 73% dei giovani fra i 18 e i 24 anni si è espresso a favore della permanenza nella Comunità Europea, mentre al contrario il 60% degli elettori con più di 65 anni hanno votato a favore della Brexit. I giovani avendo una lunga vita davanti sono maggiormente interessati ad avere un mondo aperto agli scambi con gli altri Paesi europei, mentre i vecchi per gli anni che rimangono non vogliono staccarsi dal proprio passato. Già questo tema era al centro del famoso film di Ingmar Bergman “Il posto delle fragole” che vede la contrapposizione fra il vecchio Dottor Borg, chiuso nel suo egoismo, e i giovani autostoppisti, pieni di vitalità e di entusiasmo. Per tornare ai giovani che manifestano contro il riscaldamento globale oppure contro la vendita libera delle armi e le disuguaglianze economiche che si accentuano sempre di più e contro il razzismo e le discriminazioni sociali, vale quello che rivendicano nei loro cartelli: “Voi avete avuto un futuro lo dovremmo avere anche noi”. È questa la spinta che fa muovere milioni di giovani di tutto il mondo, non solo in Occidente, come era avvenuto per i movimenti di protesta degli anni ‘60 del secolo scorso, ma anche nei Paesi in via di sviluppo. E poi sono movimenti spontanei al di fuori dei partiti e delle ideologie politiche, motivati dal bisogno di garantirsi un futuro, ma anche un presente più vivibile. Tutto questo è favorito dai social network che creano un contagio mediatico fra i giovani, come è successo con Greta Thunberg per la quale uno non vale solo uno, ma anche milioni e milioni di follower. Ci troviamo di fronte a una mutazione antropologica ancora una volta sollecitata dai giovani, noi vecchie generazioni dovremmo guardare con favore questo fermento giovanile con la speranza che riescano là dove noi abbiamo fallito. E più che chiederci chi ci sta dietro a Greta Thumberg e al movimento dei giovani, dovremmo piuttosto confrontarci col significato delle loro richieste che dimostrano una consapevolezza della gravità della situazione della Terra: “Siamo noi a fare la differenza e se nessuno interviene lo faremo noi”. Non sparate sull’affido. È solidarietà ai bambini di Chiara Saraceno La Repubblica, 5 dicembre 2019 Sarebbe bello che tutti i bambini trovassero nella propria famiglia adulti in grado di sostenerli nel processo di crescita, di offrire loro sicurezza mentre imparano a diventare autonomi, affetto senza soffocarli, guida autorevole senza violenza (psicologica o fisica). Che tutti i bambini avessero non tanto “genitori perfetti”, che non esistono da nessuna parte, ma genitori responsabili e consapevoli, anche dei propri limiti, quindi anche capaci e disponibili a farsi aiutare, a condividere con altri, dentro, ma anche fuori dalla rete familiare, la responsabilità di far crescere bene un bambino. Non sono disposizioni e capacità che si sviluppano automaticamente dal dato biologico della procreazione. Richiedono maturità, processi di apprendimento, disponibilità emotiva e cognitiva. Crescere un bambino, inoltre, non può essere una avventura solitaria. Va condivisa, innanzitutto tra genitori (se ci sono entrambi), ma anche con altri - nonni, zii, insegnanti, anche amici - che possano costituire persone di riferimento aggiuntive per i piccoli e anche sostenere i genitori in momenti di difficoltà, o stanchezza. La normale consapevolezza dei propri limiti, la disponibilità alla condivisione delle responsabilità e la capacità di chiedere aiuto, e la possibilità di farlo, tuttavia, purtroppo non sempre ci sono, o sono sufficienti. Uno o entrambi i genitori possono essere seriamente inadeguati rispetto alla responsabilità di crescere un figlio, mettendone a rischio lo sviluppo e talvolta la vita stessa. Possono non avere nel loro intorno famigliare e amicale una rete di sostegno sufficiente, o adeguata al bisogno, o rifiutarla per un malinteso senso di autonomia e autosufficienza. In questi casi è assolutamente necessario che si attivino reti di relazione e protezione anche istituzionali, innanzitutto a difesa del bambino, al suo diritto a ricevere cure adeguate, a crescere in un ambiente sicuro anche dal punto di vista relazionale e affettivo. Salvo che nei casi in cui vi è il fondato sospetto, o l’acquisita certezza, di violenze e di rischi gravi per la bambina, in cui interviene il Tribunale dei minori, il primo intervento non comporta l’allontanamento provvisorio dalla famiglia, quindi il collocamento in una comunità o in una famiglia affidataria. Comporta invece un lavoro con la famiglia, i genitori e possibilmente il loro intorno sociale, per aiutarli a far fronte alle loro responsabilità e per individuare le criticità. Queste possono essere di ordine economico, ma più spesso sono di ordine culturale, cognitivo, psicologico. Mentre le difficoltà economiche possono essere, almeno in linea di principio, di agevole soluzione, le altre lo sono meno, richiedono tempi lunghi e non sempre si risolvono. Per compensarle, mettendo in sicurezza la bambina pur mantenendo la relazione genitoriale, può bastare un rafforzamento della rete di sostegno formale e informale e una maggiore presenza dei servizi educativi e sociali. Altre volte, tuttavia, questo non è sufficiente. Per la sicurezza del bambino ed anche per dare la possibilità ai, o al genitore di riprendersi, o di maturare un equilibrio soddisfacente, è necessario ricorrere all’allontanamento temporaneo, vuoi in modo consensuale, vuoi ricorrendo al tribunale. Si tratta sempre di decisioni drammatiche, veri e propri atti di riduzione del danno. Per questo non sono prese a cuor leggero. Contrariamente a ciò che sostengono coloro che hanno fatto del caso Bibbiano una bandiera a favore della “famiglia naturale” a prescindere e contro i servizi sociali percepiti come prepotenti intrusi, i servizi sociali e le famiglie affidatarie non “rubano i bambini” senza motivo a genitori con cui stanno bene. Ci possono essere casi specifici in cui si è agito, anche in buona fede, troppo frettolosamente, senza adeguate verifiche. Occorre sicuramente rafforzare i servizi di sostegno alla genitorialità e investire nella formazione e supervisione di chi opera nel campo delle fragilità famigliari, evitando decisioni troppo solitarie o basate su stereotipi del “buon genitore” (soprattutto della “buona madre”). Ma è anche necessario non adagiarsi nell’idea che la famiglia “naturale” sia sempre e comunque il luogo più sicuro e migliore in cui crescere. Non sempre, purtroppo, è così. E l’affido famigliare è uno straordinario strumento di solidarietà a favore di bambini, e genitori, in più o meno temporanea difficoltà. Migranti. L’Unhcr chiede la chiusura totale dei Centri di detenzione in Libia: di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 dicembre 2019 “Situazione terribile”. Vincent Cochetel a Bruxelles: “Negli ultimi 3-4 mesi ci sono addirittura persone che pagano per restare lì dentro nella speranza di essere redistribuite dall’Unchr perché fuori è ancora più rischioso per la loro vita”. Della rinegoziazione degli accordi bilaterali Italia-Libia non si sa più nulla. Tra le modifiche richieste dall’Italia il miglioramento delle condizioni nei centri di detenzione dove dovrebbe essere consentito libero accesso alle agenzie dell’Onu fino al loro svuotamento e alla creazione di centri di accoglienza gestiti direttamente dalle Nazioni Unite. Questo nel libro dei sogni perché la realtà è che la situazione nei centri di detenzione in Libia “era già cattiva ma adesso è diventata terribile”, con “una sovraffollamento, molti casi di tubercolosi, una inadeguata protezione e sicurezza, numerosi casi di abusi e violenza” oltre a diversi casi legati allo “sfruttamento sessuale”. E a dirlo sono proprio quelle agenzie dell’Onu la cui presenza in Libia è stata più volte sottolineata dal governo italiano come garanzia di rispetto dei diritti umani. Ma Unhcr e Oim hanno più volte detto di non essere assolutamente in condizione di garantire dignitose condizioni di vita in Libia. E ieri a Bruxelles, Vincent Cochetel, Inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo Centrale, ha ribadito la richiesta di “chiusura totale dei centri”. “Una delle nostre attività oltre ad occuparci degli sfollati interni e dei rifugiati è condurre grazie ai nostri staff delle visite nei centri di detenzione per cercare di comprendere i bisogni primari di queste persone”, ha spiegato Cochetel. Le cifre stimate indicano che ci sono più di 4.000 persone nei centri di detenzione ufficiali, quelli a cui l’Unhcr ha accesso, e si ritiene che 2.500 siano i rifugiati e i richiedenti asilo. L’inviato Onu ha poi spiegato che all’interno di queste strutture si trovano “due tipologie di persone: chi vuole lasciare la Libia imbarcandosi in modo irregolare e attraversare il Mediterraneo e chi invece paga per essere detenuto al suo interno”. Quest’ultima categoria, “un trend evidenziato negli ultimi 3-4 mesi” raggruppa le persone che “preferiscono essere detenute nella speranza di poter poi essere identificate dall’Unhcr e dunque redistribuite”, ha sottolineato Cochetel. Poi, ha aggiunto, ci “sono anche altre persone che preferiscono la detenzione in quanto si sentono più protette e sicure dentro questi centri”. Vivere fuori nei centri abitati potrebbe essere “più rischioso per la loro vita”. Migranti. In Bosnia campo profughi al collasso e digiuno forzato di Stefano Giantin La Stampa, 5 dicembre 2019 L’inferno in terra è una distesa di fango, punteggiata da piccole tende - alcune schiantate sotto il peso della neve - che non offrono riparo alcuno dalle intemperie. È un luogo dove centinaia di disperati, tanti con addosso miseri vestiti, alcuni con ai piedi solo dei sandali, sopravvivono alla neve, a temperature sottozero, sopra quella che un tempo fu era una discarica, vicino a colline ancora oggi disseminate di mine antiuomo. E praticamente senza servizi igienici e senza alcun tipo di riscaldamento, mentre d’estate il problema maggiore sono i serpenti. Abitato da 500 persone Inferno nel cuore dell’Europa che risponde al nome di Vucjak, il terribile campo profughi allestito mesi fa nei pressi di Bihac, in Bosnia, dove due giorni fa è caduta la prima neve, ultimo oltraggio per almeno 500 migranti che sopravvivono nel sito. E che hanno così deciso di rifiutare ogni tipo d’aiuto, inclusi cibo e acqua. Sciopero della fame che è una forma di protesta estrema dei migranti, hanno segnalato i media locali, contro le terribili condizioni in cui da mesi sono costretti a vivere, praticamente senza assistenza, mentre attendono la chance giusta per varcare irregolarmente la vicina frontiera con la Croazia e poi proseguire verso Nord, meta l’Europa più ricca. Ma è anche un ultimatum, reso manifesto su cartelli ottenuti da vecchi cartoni, su cui migranti e profughi hanno scritto “aprite la frontiera” e “vogliamo passare il confine”. Migranti che da martedì “rifiutano cibo caldo e tè”, ha confermato ieri al portale Klix un membro della Croce Rossa. Problema che perdura da troppo tempo, quello di Vucjak, malgrado gli appelli della comunità internazionale affinché Sarajevo chiuda il campo. L’ultimo in ordine di tempo - e il più drammatico - l’urlo indignato della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa (CoE), Dunja Mijatovic, anche lei bosniaca, in visita in questi giorni nel suo Paese natale. E la prima tappa è stata proprio Vucjak, “una vergogna per la Bosnia-Erzegovina”, qualcosa “che non avevo mai visto nella mia lunga carriera”, ha affermato. Le condizioni nel campo, ha aggiunto Mijatovic, non sono “degne di esseri umani”. L’unica cosa da fare ora è “chiudere” Vucjak, subito, spostare i migranti in luoghi accettabili, dove le loro richieste d’asilo possano essere esaminate. E bisogna farlo prima che “la gente inizi a morire”, perché il gelo vero, in Bosnia, deve ancora arrivare. Cina. Sorvegliare e punire, Xi contro gli uiguri di Francesco Radicioni La Stampa, 5 dicembre 2019 La Camera Usa: “Mettere sanzioni al regime”. Solo una manciata di giorni dopo che Donald Trump ha firmato una legge a sostegno dei manifestanti di Hong Kong, la Camera dei Rappresentanti ha approvato la proposta bipartisan con cui si chiede alla Casa Bianca di adottare misure più dure contro le politiche di Pechino nella regione musulmana e turcofona dello Xinjiang. Con 407 favorevoli e l’unico voto contrario di Thomas Massie, lo Uyghur Human Rights Policy Act impegna l’amministrazione a identificare e imporre sanzioni su quei funzionari cinesi “responsabili o direttamente coinvolti in gravi abusi dei diritti umani” contro la minoranza uigura. Sotto sanzioni potrebbe finire anche Chen Quanguo, segretario del Partito Comunista nella regione musulmana e membro del Politburo di Pechino. Inoltre, si prevede di rafforzare i controlli sulle esportazioni in Cina di tecnologia americana che potrebbe “essere usata per soffocare la privacy individuale, la libertà di movimento e gli altri diritti umani fondamentali”. In una nota il ministero degli Esteri di Pechino ha accusato gli Stati Uniti di “spargere calunnie sulla condizione dei diritti umani nello Xinjiang e sugli sforzi della Cina contro il terrorismo”. “La situazione dello Xinjiang - aggiungeva Hua Chunying - non riguarda i diritti umani, questioni etniche o religiose, ma la lotta alla violenza, al terrorismo e al separatismo”. Dall’inizio del 2017 sarebbero stati centinaia di migliaia i musulmani - uiguri, ma anche kazaki e kirghisi - rinchiusi nei campi di rieducazione altamente sorvegliati sparsi per la regione, mentre le organizzazioni per i diritti umani denunciano che i detenuti senza un processo sono sottoposti a sessioni di indottrinamento politico e di propaganda del Partito Comunista. La scorsa estate le autorità della Repubblica Popolare avevano prima negato le denunce delle Nazioni Unite secondo cui “almeno un milione di persone” sarebbe stata rinchiusa in quello che somiglia a “un imponente campo di internamento avvolto dal segreto”, anche se qualche settimana dopo Pechino ha ammesso che alcune persone “affette da pensieri di estremismo religioso” erano state portate in “centri di formazione”. Numerosi ex-detenuti hanno denunciato che si può finire nei campi per aver pregato regolarmente, letto il Corano o avuto contatti con l’estero. Stando alle centinaia di pagine di documenti filtrati dai palazzi del potere di Pechino e pubblicate dal New York Times, la creazione di campi di rieducazione di massa avrebbe seguito il viaggio di Xi Jinping nello Xinjiang della primavera 2014. Solo poche settimane prima, terroristi armati di coltelli avevano fatto irruzione nella stazione ferroviaria di Kunming, nel sud-ovest della Cina, uccidendo 31 persone e ferendone decine. Per garantire la “stabilità” in una regione strategica per la Cina nell’iniziativa Belt and Road, sulle strade dello Xinjiang sono stati rafforzati i controlli, mentre nelle città e nelle moschee installata un’onnipresente rete di telecamere dotate di tecnologia di riconoscimento facciale e raccolta un’enorme mole di dati personali e biometrici. Secondo i documenti raccolti dall’International Consortium of Investigative Journalism, le autorità dello Xinjiang userebbero una piattaforma per gestire dati personali molto dettagliati - dall’altezza all’uso dell’elettricità, fino alle abitudini con i vicini - mentre l’algoritmo segnala alle autorità gli individui sospetti. In una sola settimana del giugno 2017, in una zona dello Xinjiang, circa 24 mila persone sono state indicate dalla piattaforma come “sospette” e oltre 15 mila sono finite nei campi di rieducazione. La Tanzania “cancella” la Corte africana per i diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 dicembre 2019 Le maggiori associazioni per i diritti umani e l’Onu contro la Tanzania che, all’inizio del mese, ha deciso di vietare la possibilità di presentare denunce alla Corte africana per i diritti umani e dei popoli che è operativa dal 2010 ed è composta da giudici di tutta l’Unione africana. L’ultima mossa del regime del presidente John Magufuli per reprimere l’opposizione, la stampa e la libertà d’espressione ha causato un’immediata levata di scudi. “Abbiamo ricevuto informazioni negative sulla situazione dei diritti umani in Tanzania e questa decisione può essere letta come il tentativo di evitare di rimediare alla situazione” ha dichiarato Onesmo Ole-Ngurumwa, coordinatore della Coalizione per i diritti umani nel Paese. La decisione del governo “impedisce ai cittadini di avere giustizia” è il commento di Anna Henga, del Centro giuridico tanzianiano. L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite oggi ha invitato il Paese a riconsiderare la sua decisione. E Amnesty International ha sottolineato che questo provvedimento è destinato a peggiorare la repressione in atto nei confronti di persone singole e organizzazioni non governative. La Tanzania ha il maggior numero di sentenze di condanna, circa il 40 per cento fino allo scorso settembre, emesse dalla Corte africana, la cui sede è nella città tanzaniana di Arusha. Nel 2016 il Ruanda aveva preso per primo la decisione di uscire dall’organismo. La scorsa settimana, la Corte aveva stabilito che una parte del codice penale della Tanzania, quella in cui si prevede la condanna a morte obbligatoria in caso di reato capitale, viola il diritto a un processo equo e mina l’indipendenza giudiziaria, ma anche il diritto alla vita. “Questa è una prova ulteriore della crescente ostilità del governo della Tanzania nei confronti dei difensori dei diritti umani. Mina l’autorità e la legittimità della Corte africana ed è un vero e proprio tradimento nei confronti degli sforzi per istituire organismi regionali forti e credibili in Africa”, ha spiegato il coordinatore dell’avvocatura dell’Africa di Amnesty International, Japhet Biegon.