Sovraffollamento, siamo vicini al pericolo di una Torreggiani-bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2019 Al 30 novembre i detenuti sono 61.174 rispetto a una capienza regolamentare di 50.476 posti. L’Italia fu condannata dalla Cedu per i “trattamenti inumani e degradanti”, quando nelle nostre carceri c’erano sessantaseimila reclusi. Anche i recenti dati confermano ancora una volta che ci stiamo avvicinando ai numeri che fecero scattare la sentenza pilota Torreggiani della Corte Europea. Al 30 novembre 2019, secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane sono 61.174 (il mese precedente erano 60.985) rispetto ad una capienza regolamentare di 50.476 posti disponibili. Cioè vuol dire che risultano 10.698 detenuti in più, mentre il mese precedente ne risultavano invece 10.511. Il trend del sovraffollamento è quindi in continua crescita, soprattutto in assenza di misure deflattive come le pene alternative e l’utilizzazione del ricorso al carcere come extrema ratio. Per comprendere l’allarmante tasso di crescita, basti pensare che il picco più alto di quest’anno, prima di quello attuale, si era registrato al 31 marzo, con 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Si registra quindi un balzo enorme essendo arrivati a 10.511. Un altro paragone da fare è quello con i numeri al 30 novembre dell’anno scorso 9.419. La tendenza è quindi ulteriormente confermata. Ma dove ci porterebbe? Intanto abbiamo superato abbondantemente la soglia dei 60mila, non più superata dal 2013, anno della sentenza “Torreggiani” con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” causati dal sovraffollamento carcerario, che nel 2012 erano addirittura sessantaseimila. Oggi siamo arrivati a 61.511 a fronte delle 62.536 unità che si registravano al 31 dicembre 2013, anno della sentenza Cedu. Ad allargarsi è anche la forbice fra numero di detenuti e capienza regolamentare: il divario ha raggiunto infatti i 10 mila e 511 posti, praticamente il quintuplo del minimo (2.572) registrato nel 2015. Bisogna ricordare che la Corte di Strasburgo ha condannato all’unanimità l’Italia, limitandosi ad applicare i principi da tempo consolidati nella sua giurisprudenza, e già espressi, tra le altre, nella precedente condanna contro l’Italia nella sentenza Sulejmanovic del 2009. La sentenza Torreggiani è stata di particolare importanza sotto due aspetti: da un lato, per aver evidenziato la sistematicità del problema del sovraffollamento in Italia, ed in secondo luogo, per l’aver accertato l’assenza in Italia di un valido strumento per la tutela dei diritti dei detenuti. In primo luogo, a differenza di quanto affermato dalla Corte di Strasburgo nel 2009, nella sentenza Torreggiani i giudici hanno rilevato come il sovraffollamento carcerario in Italia sia giunto a rappresentare un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano”, e non invece un fenomeno episodico. Ciò è stato confermato non solo dalle centinaia di ricorsi pendenti davanti la Corte sul medesimo argomento, ma anche dal fatto che lo stesso Governo italiano abbia proclamato lo stato di emergenza nazionale nel gennaio 2010. In virtù di questi elementi, i giudici di Strasburgo hanno deciso di utilizzare lo strumento della sentenza pilota, assegnando allo Stato italiano un anno di tempo dal momento in cui la sentenza sarebbe divenuta definitiva per individuare gli strumenti idonei a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e della tutela dei diritti dei detenuti. La Corte europea ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Così accadde attraverso misure come i decreti chiamati, a torto, svuota-carceri e altre misure deflattive. Poi è cambiata la sensibilità politica e si è fermato tutto. Non solo togliendo di mezzo lo spirito degli stati generali sull’esecuzione penale promosso dall’allora ministro della giustizia Andrea Orlando, non solo approvando - a metà - la riforma dell’ordinamento penitenziario, ma c’è stato un continuo e inesorabile innalzamento delle pene ed estensione del famoso 4 bis (articolo nato come misura emergenziale e solamente per reati gravi come mafia e terrorismo) verso altri reati non emergenziali come la corruzione. Una miscela, di fatto, esplosiva per il sistema penitenziario. Tra le varie misure adottate nel periodo post Torreggiani si può ricordare l’estensione delle ipotesi di utilizzo del cosiddetto “braccialetto elettronico” al fine di incrementare il ricorso alle misure alternative alla detenzione. Sappiamo che attualmente sono però insufficienti, per questo era stato avviato un bando, poi aggiudicato ben tre anni fa. Fastweb, la compagnia telefonica fornitrice, è pronta da più di un anno, ma ci vuole il via libera del ministero dell’interno, previo collaudo. Tutto però ancora tace, eppure abbiamo migliaia di detenuti che hanno una pena da pochi giorni fino a un massimo di 3 anni ancora da scontare. Tutti soggetti che potenzialmente hanno il diritto alle misure alternative. I braccialetti elettronici danno ai magistrati di sorveglianza uno strumento in più per concederle. E per scongiurare un Torreggiani bis che si avvicina sempre di più. “Con le pene alternative aumenta la sicurezza” di Franco Cattaneo L’Eco di Bergamo, 4 dicembre 2019 Parla Monica Lazzaroni, da sei anni Presidente del Tribunale di Sorveglianza a Brescia: “Il dato di conoscenza reale è fondamentale per vincere certi sentimenti di paura e perché i cittadini possano formarsi un pensiero critico”. Il Tribunale di Sorveglianza è un pianeta sconosciuto ai più: parliamo di un ufficio autonomo e specializzato, competente in via esclusiva a concedere, negare, revocare e gestire le misure alternative al carcere, che sono pene a tutti gli effetti. Un Tribunale spesso confuso, sbagliando, per dispensatore di un improponibile buonismo. E invece, Costituzione alla mano, è quel “ponte” indispensabile fra carcere e società che cerca di restituire il detenuto alla cittadinanza civile nel quadro della sicurezza collettiva. L’obiettivo quasi sempre riesce e i conti di varia natura, anche per la società, tornano. “In questi anni le misure alternative al carcere sono aumentate moltissimo e ora c’è anche un’importante collaborazione con le Forze dell’ordine proprio perché venga sempre più qualificato il materiale istruttorio alla base delle nostre decisioni”, spiega, nel suo ufficio a Brescia, Monica Lazzaroni, presidente del Tribunale di Sorveglianza, incarico che ricopre da sei anni. La competenza territoriale di questo organo collegiale a composizione mista si estende a tutto il distretto della Corte d’Appello e comprende le carceri di Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona, oltre alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (ex ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere). In totale, a oggi, le misure alternative in esecuzione (soprattutto affidamento in prova al Servizio Sociale e detenzione domiciliare) sono 2.313, delle quali 1.918 riguardano Bergamo e Brescia insieme. Solo a Bergamo sono attualmente 800. La presidente Lazzaroni, allieva di Giancarlo Zappa, un nome autorevole che conta parecchio in questo mondo, dal 1995 al 2013 è stata giudice di sorveglianza con giurisdizione sul carcere della nostra città. Il suo è uno sguardo sull’oggi e sul domani, che abbraccia gli istituti e il territorio. Per restare ai fatti, come giudica la situazione a Bergamo? “Al di là delle recenti vicende giudiziarie, l’istituto di Bergamo ha sempre rappresentato caratteristiche d’eccellenza nella gestione di tutte le attività trattamentali. Il carcere s’è avvalso della collaborazione dell’Università, molto presto rispetto ad altre realtà, la scuola interna è fondamentale e già da lungo tempo sono stati avviati percorsi di giustizia riparativa con il professor Ivo Lizzola e i suoi collaboratori nel rispetto delle vittime. Approcci proficui, con la presenza di numerosi studenti. Il tessuto sociale, poi, risponde e i progetti di legalità hanno coinvolto tanti studenti delle superiori”. Recentemente, nel quadro dell’iniziativa nazionale, la Corte costituzionale ha visitato il carcere di Bergamo… “Quella della Consulta s’è rivelata un’operazione illuminata, unica e non solo in Italia. Due mondi, il carcere e i giudici delle leggi, così apparentemente lontani si sono incontrati. La vice presidente, Marta Cartabia, ha colloquiato con i detenuti, un dialogo davvero interessante. I reclusi, che avevano seguito il corso sulla giustizia riparativa attraverso i laboratori organizzati dai mediatori accademici e dalla Caritas, hanno denotato conoscenza e competenza”. L’opinione pubblica ha però difficoltà a recepire il concetto delle misure alternative, specie dopo alcuni recenti episodi che hanno fatto discutere… “Il dato di conoscenza reale è fondamentale per vincere certi sentimenti di paura e perché i cittadini possano formarsi un pensiero critico. Concetti che ripeto sempre, specie agli studenti quando vado a parlare nelle scuole. Purtroppo, su questi temi, c’è disinformazione. C’è chi ritiene che il magistrato di sorveglianza sia un “perdonista professionale” e temo che questa definizione sia drammaticamente vera nell’immaginario collettivo. Il dibattito pubblico - come già sottolineava Zappa - è sclerotizzato sui temi della certezza della pena, naturalmente carceraria, perché socialmente rassicurante. Invece la magistratura di sorveglianza non è una giurisdizione votata all’indulgenza: il recupero della persona condannata e la sicurezza sociale sono due facce della stessa medaglia, due capisaldi ai quali attenersi scrupolosamente in ogni decisione. La magistratura di sorveglianza è un punto di riferimento nel cuore del complesso di istituzioni operanti per la realizzazione della legalità, un valore che qualifica la nostra appartenenza alla società”. Un deficit di conoscenza che ricade su tutta la filiera: voi giudici, la vita in carcere, gli itinerari ricostruttivi… “La legislazione nazionale e quella sovranazionale hanno profondamente voluto un potenziamento dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, che hanno più funzioni in un contesto di prevenzione. La pena, prima di tutto, deve essere efficace e utile per la società e non solo per il singolo. La sicurezza è un bene supremo, occorre però una cultura nuova che veda nei cittadini i principali, diretti artefici della propria sicurezza, responsabilizzandoli. È un discorso tanto difficile quanto ingrato. Lo Stato è tutt’altro che onnipotente e il diritto alla sicurezza non è un regalo, bensì l’esito di un’azione collettiva, condotta giorno per giorno, il risultato di un complesso di azioni che dipendono anche dai singoli cittadini. La giurisdizione del Tribunale di Sorveglianza è centrata non sui fatti, ma sulla persona. Non c’è una presunzione di affidabilità di qualunque condannato alla misura alternativa. Ma, là dove l’interessato abbia concretamente manifestato volontà di cambiamento, tocca all’intero sistema costruire percorsi che siano credibili, densi di contenuto e soprattutto personalizzati: questo è quel che chiede la Costituzione. Il reato ha sempre due vittime: quella del reato in sé e la società. Fortunatamente il territorio è fertile quanto a volontariato e a Terzo settore. Fra l’altro adesso c’è anche il profit, perché con l’Associazione industriale bresciana abbiamo sottoscritto un protocollo: abbiamo avuto un primo assunto, mentre è in corso un’attività di formazione in tutte le aziende per far conoscere le realtà dell’esecuzione penale esterna”. Servirebbe più società? “Di fronte ad una manifestata volontà di riscattarsi della persona, la collettività non può rimanere estranea al percorso di esecuzione della pena. E questo perché la pena deve certo punire e rieducare, ma deve anche essere “un castigo utile a chi lo infligge e da chi lo subisce”. Utile pure alla società che ottiene un duplice risultato”. E cioè? “Riduzione del ritorno a delinquere e pertanto maggiore sicurezza sociale. I dati ci dicono che le misure alternative funzionano, perché abbattono la recidiva. Investire nel carcere, quindi, significa investire nel nostro futuro, nella qualità del vita del nostro territorio. Secondo punto: minori spese a carico dello Stato e, in definitiva, di noi cittadini. Un detenuto costa 3.500 euro al mese e la recidiva ha un impatto economico e sociale elevatissimo. Abbattere la recidiva vuol dire contribuire alla crescita del Paese in termini di legalità, risparmio e competitività”. Eccoci di nuovo alla conoscenza, lo snodo per ricondurre la questione ai suoi corretti termini: i dati cosa dicono? “Su 10 detenuti che espiano la pena interamente in carcere, 8 tornano a commettere reati. Viceversa, 8 su 10 affidati alle misure alternative non tornano a delinquere. Non tutte queste storie finiscono bene e bisogna lavorarci attorno: sono fallimenti e meritano la massima attenzione. Le misure alternative devono essere adeguatamente strutturate ed individualizzate per poter essere efficaci, anche e soprattutto per l’intera collettività che invoca sicurezza: non possono ridursi in un passivo affidamento in libertà e per questo servono investimenti umani e finanziari e comunità coinvolte. Da un lato c’è un incremento delle misure eseguite, un maggior ricorso alla detenzione domiciliare e all’affidamento territoriale. Dall’altro osserviamo una flessione delle revoche per commissione di reati che sono sempre e comunque residuali: i fallimenti riguardano prevalentemente il reato di evasione dalle detenzioni domiciliari, che generalmente si consuma con l’allontanamento anche solo di pochissimo tempo dall’abitazione, e nel caso dei tossicodipendenti si tratta di reati connessi all’uso di sostanze. L’esperienza, in ogni caso, dimostra che l’utilizzo della diffida o della sospensione, nei casi problematici, può favorire una ripresa della misura evitando così il ritorno in carcere. In definitiva, la percentuale di revoche- fallimenti nel nostro distretto è in linea con il dato nazionale. Questa circostanza significa che i giudizi alla base delle misure alternative sono puntuali e attenti, fondati su un materiale probatorio più affidabile in quanto più attuale e circostanziato. Le situazioni maggiormente vulnerabili si riferiscono ai tossicodipendenti provenienti dalla detenzione e, in prevalenza, l’andamento negativo è determinato dall’abbandono del programma terapeutico”. C’è infine il capitolo detenuti-famiglia… “Bisogna tutelare il più possibile i legami affettivi, quando ci sono, perché non sempre è così. Le relazioni familiari risultano decisive e spesso la molla che fa scattare il cambiamento della persona. In parallelo vanno potenziate le attività lavorative e quelle socialmente utili, una sorta di ristoro alla collettività per il riconoscimento dell’errore compiuto. Pur in un quadro sostanzialmente incoraggiante, è necessario investire maggiormente sulla giurisdizione che s’incentra sulla personalità: soprattutto più formazione negli istituti e potenziamento delle aree trattamentali e degli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna. La conoscenza della persona e la revisione del vissuto deviante richiedono interventi mirati, tecnici, specializzati e competenti. Anche per questo soffriamo un’enorme carenza di risorse che si riflette sul nostro materiale istruttorio”. “Per migliorare le condizioni dei detenuti investiamo sugli agenti” bergamonews.it, 4 dicembre 2019 Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’amministrazione penitenziaria, parla della situazione delle carceri italiane e, tra le altre cose, spiega che per migliorare le condizioni dei detenuti bisognerebbe investire di più sugli agenti. Dottor Nastasio, ci descriva il corpo di custodia delle carceri, ossia la polizia penitenziaria… “Oggi è un corpo di 41.000 unita previste, alle 33.000 effettive, con un indice di rapporto agenti-detenuti 1,67 in Italia (3,70 in Spagna). È un personale con gradi e cultura diversa, con compiti e vissuto differenti, non sempre omologati in un pensiero univoco, dall’agire composito, possono portare ad avere un prodotto operativo scadente se non conflittuale. Il dare un giudizio ad un gruppo importante come quello della Polizia Penitenziaria, che assicura la custodialità a persone che hanno causato dolore e mutilazione al contesto civile, merita attenzione anche di fronte a fatti drammatici, come i diversi suicidi di stessi agenti. Vorrei commentare questi fatti che disorientano, ma impongono ad aprirsi all’analisi”. Come percepisce questa situazione ? “Occorre parlare della situazione degli agenti di polizia penitenziaria, così come occorre ascoltare i detenuti, a vantaggio anche della custodia, in quanto ascoltando i reclusi, le loro difficoltà esistenziali, si migliora lo stato d’animo dei detenuti e diminuiscono gli scontri con gli agenti di custodia”. Come spiega tanto sfacelo odierno dopo 40 anni dell’Ordinamento Penitenziario da cui si pensava un netto miglioramento con il passaggio a Corpo di polizia? Come interpreta questo follow up negativo? “Grazie della domanda che interpreto come inversamente proporzionale ad un aumento degli agenti promossi a livelli di carriera importanti, alla costituzione di settori di alta specialità e/o spostati in lavori esterni al carcere, per aumentare la visibilità. A fronte di tanti atti positivi ha corrisposto una sottovalutazione del lavoratore di Polizia Penitenziaria all’interno del carcere, specie quelli che sono direttamente a contatto coi detenuti. Detenuti spesso raggruppati in celle comuni e con reati, etnie, religione diverse senza proporre una divisione maggiormente settoriale. Per non parlare della chiusura degli Opg, diventati ormai dei lager, riversando tutto sul carcere, anche su reparti a parte o con strutture dentro area carcere, occupando spazi verdi del carcere a danno sia dei reclusi non affetti da malattie psichiatriche che agli stessi malati criminali. Il danno peggiore è andato agli agenti che si trovano a gestire, ripeto gestire, non custodire, i reclusi senza una preparazione specifica in merito. Di fatto a contatto coi detenuti rimangono gli operatori meno preparati e meno gratificati. Cambiano le tipologie dei detenuti ma non la preparazione dell’agente di reparto, e quando si attuano corsi “specialistici” servono spesso per i partecipanti ad avere maggior punteggio per attività meno gravose, mentre dovrebbe rimanere nel settore per cui il corso era stato attuato, e diventare uno strumento specialistico per quel tipo di detenuti rappresentati dal corso di specializzazione e non merito per spostamenti”. Forse quanto accade ora al corpo di Polizia Penitenziaria, dai suicidi agli atti di torture, ha una sua valenza funzionale-organizzativa comune? “I mali di questa situazione poggiano su un difetto organizzativo strutturale, perché la detenzione non organizza una vita detentiva organica e di comunicazione, anzi favorisce un uso dispersivo di tempi e spazi. I conseguenti ordini operativi non entrano nel merito del lavoro dell’agente di reparto ma spesso restano atti a favore di mera visibilità e di contenzione tout court. È una realtà che col tempo usura cose e persone, da spazio e forma all’aggressività, al diniego, alla contrapposizione, all’apatia, al dolore, alla disistima. Il tutto porta a un cattivo male di vivere. L’agente di reparto è attualmente considerato all’ultimo gradino della scala del potere, l’ultimo della classe, la forza lavoro anonima ammassata nei reparti non diversamente da come avviene per i detenuti. Di contro è quello che assume in se tutti gli strali dell’opinione pubblica e di tutte le responsabilità di un degrado del pianeta carcere; la classe dirigente invece, sia amministrativa che politica, sembra viva in un altro pianeta avulsa ed estranea al lavoratore di Polizia Penitenziaria di reparto”. E allora: che fare? “Il primo atto sta che l’Amministrazione, e non solo a questa, ma anche il contesto esterno nella sua eccezione sociale e politica, ponga al primo posto l’agente di reparto e chi lavora a stretto contatto quotidiano col detenuto, riformulando la gerarchia dei servizio in base ai bisogni di questi lavoratori. Portare al primo posto l’agente di reparto significa renderlo vivibile al contesto sociale, alle denunce ma anche alle gratificazioni e riconoscimenti. Le sezioni del carcere, nucleo pulsante della vita carceraria, diventino oggetto di attenzioni, di valori, di considerazioni, affinché si attui un’osmosi del sentire e del vivere insieme e le problematiche agente/detenuto vengano condivise e i loro comportamenti e i loro atti siano tali per favorire la comunicazione, il supporto, la condivisione della vita custodialistica. Che si attuino corsi di qualificazione specifici come il pronto soccorso, in quanto sono gli agenti di polizia penitenziaria di reparto ad intervenire in primis in casi si suicidio di detenuti o di un collega, che con gesti non appropriati possono aumentare il danno, la sedazione di risse, alterchi prima che si tramutino in atti impropri o il come l’osservare, il riferire, il rappresentare, in modo diretto fatti e cose, persone e non tramite le vie gerarchiche. L’aiuto vicendevole diventi una modalità normale e costante di operare tra persone, riconoscendo i rispettivi problemi della vita quotidiana di cui ognuno è portatore, detenuti e operatori. Non voglio un carcere di psichiatri o di tuttologi, ma di persone solidali non divise in rigide caste e in gerarchie inossidabili di potere; ognuno veda nell’altro una essere umano di cui potersi fidare: dare considerazione, attenzione, vicinanza, consenso, ridurrà i casi di suicidio sia intra che extra carcerari, così come i comportamenti criminali all’interno del carcere”. Come? “Innanzitutto portando una gestione del pianeta carcere da burocratico/amministrativa a manageriale, con manager di comprovata valenza, che parlino di azienda e non di istituto, capaci di emettere atti capaci di forte impatto innovativo, dando vita a processi produttivi e azioni positive. Nel carcere deve emergere che “l’utile “ sia il vivere civile e rispettoso e l’inserimento del soggetto, temporaneamente recluso, nel contesto sociale la grande rivincita, non dimenticando che il cittadino, anche se recluso, mantiene lo status di lavoratore come indica la Costituzione nel preambolo “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Quindi per superare quanto sta accadendo in carcere, propone azioni radicali o meglio un “altro” carcere? “Ha detto bene. La mia vision del carcere è un “altro” carcere, cioè quello che non è stato attuato con la 354/75. In pratica è attuare quanto proposto dall’Ordinamento che divideva l’esecuzione pena in due parti: il carcere e l’esecuzione non detentiva. Ma quest’ultima non è stata organizzata come altra parte di una medesima entità, per eseguire un provvedimento restrittivo o una condanna. È rimasta come una possibilità per liberare posti in carcere: così facendo ha distrutto entrambi! Il carcere è rimasto quello di sempre; il contenitore delle misure alternative un entità evanescente. Il carcere potrà risolve i suoi problemi, solo se si da avvio a contenitori custodialistici diversi che vadano ad inserirsi tra carcere e Uepe (Uffici dell’esecuzione penale esterna), con apporto del privato, non un apporto assistenziale ma manageriale. Il carcere solo a queste condizioni può “reingegnerizzarsi” partendo da capo e non più a pezzi o con rattoppi momentanei. “Altro” carcere vuol dire riconoscere lo sfacelo di quello attuale e rimodularlo su altre basi come ho appena accennato: Carcere come Azienda”. Che cosa pensa della classe dirigente del settore? “Parliamo di una classe dirigente, ora elevata a livelli di manager, che sarebbe opportuno avesse questo titolo non per decreto legge ma per scrutinio personale. Vengono rafforzati gli Uffici ispettivi centrali per valutare costantemente e con forza le direttive del Ministro, ma non fanno ciò che è maggiormente loro competenza, cioè essere organi di verifica e consulenza”. Quindi cambiare sul serio o cambiare per lasciare tutto come era? “Temo, in osservanza alla massima gattopardiana, la seconda ipotesi. Penso ad un carcere “reingegnerizzato” nel suo complesso, che da struttura totale diventi contenitore da analizzare nella sua globalità e complessità, chiamando come consulenti chi lavora ora con incarichi non valutati e altro tipo di professionalità es. chi gestisce aziende. Chi attualmente lavora in carcere od al Ministero, spesso non sa esprimere una capacità/visione globale di contesto ed è non capace di formulare strategie di cambiamento. Sono per una “reingegnerizzazione funzionalista/prudoniana” e non marxiano/demolitiva, in quanto nel bene e nel male la considero vincente. In particolare la propongo agli organi politico e sindacali, sempre propensi a considerare “chi viene da fuori” come colui che abbia la risposta giusta. Diceva invece Cavour: “solo colui che fa una cosa sa come cambiarla”. Chi esplica ogni giorno gli stessi compiti, più di ogni altro può percepire e considerare il processo riformista nella sua globalità e comprende che porre l’agente di reparto in testa alle priorità è una necessità inderogabile. Occorre non lasciarlo solo a gestire, ripeto gestire, il carcere mentre dovrebbe solo custodire. Il lavoro custodiale è un servizio da attuare con azioni proprie, positive e risolutive e non come scarica barili di situazioni fastidiose e/o pericolose. L’operatore in divisa di reparto, seppur inserito in un’ottica trattamentale, è spesso usato solo nella eccezione custodialistica /oppressiva per evitare evasioni o risse tra detenuti. Il carcere patisce del come è costruito e reclama costruzioni/ristrutturazioni che portino ad un nuovo modo di pensare il custodire, non più ricorrendo a teorie e proposte a sfondo romantico/ afflittivo/redentive ma che facilitano azioni funzionali, come il risultato, l’ordine, l’efficienza, l’efficacia e la buona vita, non solo per i detenuti ma anche per gli operatori; finora rimaste dichiarato proposito e tali sono rimaste. Il solo portarlo all’attenzione è già cosa positiva e propositiva, di una volontà al fare e non mera desiderata”. Se potesse parlare al Ministro che cosa direbbe? “Si prenda altri referenti, si attorni di chi opera alla base o da chi ama il lavoro in carcere, non da chi ne trae riconoscimenti. Sia giusto, certo, ma sia anche generoso con atti di sanatoria e di vicinanza alla polizia penitenziaria alleggerendo il corpo da lacci e laccioli e da piccole e pendenti richiesta di punizione fondate più sulla ripicca e considerazioni personali che da fatti penalmente rilevanti”. A conclusione di questa lunga conversazione che cosa propone? “In parte ho già risposto. Credo che questa sia la domanda più difficile e più rischiosa per non cadere dalle grida manzoniane al compassionevole tutti assolti. Il mio contributo vuole essere una dichiarazione e un auspicio, che il pianeta carcere, nel suo insieme di detenzione e Misure Alternative, imbocchi la strada per essere una Azienda che operi come tale. Un carcere-azienda dove l’utile è il reintegro del reo nel contesto sociale, specie per coloro che sono privi di risorse. Allo stesso modo dare significato e valore a chi opera in sezione a partire dall’agente di reparto affinché il suo lavoro sia motivo di orgoglio personale, e nel raggiungere il posto di servizio si porti con animo propositivo e non lo viva o sia obbligato a viverlo come una salita al “golgota” e, al ritorno a casa, possa portare la soddisfazione e la considerazione di aver adempiuto a un dovere necessario ma anche utile”. Ergastolo ostativo: storia di Mario Trudu, morto da detenuto a 69 anni di Laura Pasotti osservatoriodiritti.it, 4 dicembre 2019 Dopo 41 anni di prigione, Trudu è morto all’ospedale di Oristano a poche ore dalla sentenza della Corte costituzionale sull’articolo 4 bis. L’avvocato: “La sua storia dice che in Italia l’ergastolo c’è e che il diritto alla salute di chi è dentro non è lo stesso di chi è libero”. “La vicenda di Mario Trudu dimostra che in Italia l’ergastolo esiste, a dispetto di chi sostiene che non c’è. Dimostra che il diritto alla salute in carcere non è uguale a quello di chi è fuori. Dimostra un atteggiamento incompatibile con l’obiettivo di risocializzazione che la Costituzione attribuisce alla pena. Spero che la sua storia serva a sensibilizzare chi è preposto alla tutela di chi si trova nella sua stessa situazione”. A parlare è l’avvocato Monica Murru, che negli ultimi anni ha assistito Mario Trudu, morto il 25 ottobre all’ospedale di Oristano, in Sardegna. Pastore originario di Arzana (Nuoro), Trudu era in carcere dal 1979, condannato per due sequestri di persona. Quarant’anni passati dietro le sbarre in diverse carceri del Paese, dal 1992 all’ergastolo ostativo. In carcere aveva finito le scuole medie, scritto due libri (“Tutta la verità. Storia di un sequestro” e “Cent’anni di memoria. Elogio dei miei vecchi”, per Stampa Alternativa) e frequentava l’istituto d’arte. “Faceva disegni bellissimi. Nonostante vivesse in una casa di cemento da 40 anni, aveva una memoria molto precisa della natura e della sua terra”, dice Murru. Da due anni era nel carcere di Massama, Oristano. A ottobre, pochi giorni prima della sentenza della Corte Costituzionale sul 4 bis, aveva ottenuto il permesso di curarsi fuori. Trudu era malato di sclerodermia e gli era stato diagnosticato un tumore alla prostata. “Da tempo avevo chiesto i domiciliari perché le sue condizioni erano molto gravi, ma c’è voluto più di un anno, nonostante la prescrizione della terapia da parte del medico e l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza, perché glieli concedessero. I tempi del carcere sono lunghi e ci saranno state centomila ragioni per queste lungaggini, ma per me non c’è stata l’attenzione che avrebbe dovuto esserci”, sostiene Murru. Ricoverato il 4 ottobre, Trudu è morto senza poter ritornare a casa. Aveva 69 anni. Il significato: che cos’è l’ergastolo ostativo e per quali reati è previsto - Introdotto nel 1992 in seguito alle stragi di mafia e all’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’ergastolo ostativo (articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) stabilisce che l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative possono essere concessi ai condannati per alcuni reati - associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione e associazione finalizzata al traffico di droga - solo se collaborano con la giustizia. Fin dall’inizio sono stati sollevati dubbi sulla costituzionalità di questa norma, non da ultimo quello sull’esplicita previsione di retroattività. Tra i detenuti già in carcere che si sono visti applicare il 4 bis c’era anche Trudu, condannato a 30 anni per il sequestro di Giancarlo Bussi, rapito a Villasimius (Cagliari) nel 1978 e mai tornato a casa, reato per il quale Trudu si è sempre dichiarato innocente, e all’ergastolo per il sequestro di Emilio Gazzotti, rapito nel 1987 e morto in seguito a una sparatoria nel tentativo di liberarsi, e per il quale Trudu si è assunto la responsabilità. “La questione della retroattività del 4 bis l’ho sollevata tante volte. Anche Trudu ne ha scritto. Ripeteva spesso “ma che c’entro io con Falcone e Borsellino, se quando sono stati uccisi ero in carcere, già definitivo, dal 1979, e neppure sono siciliano”, dice Murru. L’ergastolo ostativo per la Cedu - La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) aveva ridato speranza a Mario Trudu. Lo scorso 13 giugno, la Cedu si era pronunciata sul ricorso di Marcello Viola (quattro ergastoli per reati di mafia), stabilendo che l’ergastolo ostativo viola i diritti umani. “In quei giorni abbiamo festeggiato. Di fronte alle mie proposte di chiedere permessi per necessità, per partecipare a progetti o eventi in cui avrebbe potuto portare la sua testimonianza, era fiducioso. A volte mi chiedeva di pensarci e poi mi scriveva. Non era un uomo che parlava a vanvera, rifletteva”, dice ancora Murru. Le richieste però sono state tutte rigettate, anche quella per la proiezione a Nuoro di “Spes contra spem. Liberi dentro”, il film di Ambrogio Crespi sull’ergastolo ostativo. “A suo favore si era espresso il sindaco e i carabinieri avevano dato la disponibilità ad andarlo a prendere. Nei confronti di quest’uomo si era sviluppato un atteggiamento di profonda compassione, nel senso di condivisione della sofferenza: alcuni agenti del carcere di Massama, a volte, mi dicevano “non capisco perché è qui”. Domande retoriche, che hanno portato all’epilogo che conosciamo”. Per l’avvocato Murru, la verità è che l’esecuzione della pena non è uguale ovunque. “Non è la stessa cosa stare a Milano Opera, a Palmi o a Oristano. Molto dipende dal magistrato di sorveglianza ed è inaccettabile. Non può essere solo una questione di fortuna trovare un orientamento illuminato o restrittivo, perché significa che la legge non è uguale per tutti”. I progetti di giustizia riparativa - L’avvocato Murru aveva proposto a Mario Trudu di partecipare a un progetto di giustizia riparativa con le vittime di sequestri di persona. “All’inizio era titubante. Diceva di non aver mai chiesto perdono non perché non lo volesse o perché non fosse convinto di avere sbagliato, ma perché sapeva di avere inflitto così tanto male a quelle persone da non voler dare loro ulteriore tormento costringendole a incontrarlo o a sentire il suo nome”, racconta l’avvocato. Ma poi aveva accettato. “Lo aveva fatto perché diceva di non avere nulla da nascondere. Gli ho spiegato che non sarebbe stato indolore, ma mi rispose che aveva già raccontato tutto nel suo libro e che non si faceva sconti”. Dopo 26 anni di carcere gli ergastolani possono usufruire di benefici premiali extramurari, gli ergastolani ostativi no: per loro la pena non finisce mai, a meno che non diventino pentiti. “Mario Trudu era un uomo tutto d’un pezzo, schietto, con una grande dignità. Veniva da una terra bellissima ma aspra e se doveva dire qualcosa lo faceva anche a detrimento del suo interesse. Non ha mai voluto o potuto fare i nomi dei suoi complici. Si è assunto tutta la responsabilità a livello emotivo e se ha pagato in questo modo è perché, pur rinnegando la propria condotta delittuosa, non si è mai piegato. Aveva fatto un percorso e non ha mai smesso di gridare che se lo Stato non lo avesse condannato ingiustamente per il primo reato, non sarebbe diventato quello che era”. Ergastolo ostativo: la sentenza della Corte costituzionale - Nelle settimane precedenti la morte di Mario Trudu sono state due le sentenze che hanno aperto una breccia nella normativa sull’ergastolo ostativo: l’11 ottobre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno sul caso Viola e il 23 ottobre la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario “là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia”. E si è aperto il dibattito tra chi dice che in questo modo si contrasta la lotta alla mafia e chi plaude al fatto che sarà il giudice a valutare se, in base al percorso di rieducazione, il detenuto ha diritto ai permessi premio. Ma perché fa così paura pensare di modificare questa norma? “Perché c’è tanta ignoranza sull’ergastolo ostativo. Quindi la prima cosa da fare è informare. E poi perché c’è il tempo che stiamo vivendo con una campagna di odio feroce che soffia sul fuoco della paura e alimenta la pancia del Paese. E quindi ben vengano le pronunce della Corte europea e della Consulta che ci ricordano che siamo uno Stato di diritto”, risponde Murru. Ardita (Csm): ascoltare l’allarme dei funzionari del trattamento penitenziario Agi.it, 4 dicembre 2019 Va ascoltato l’allarme dei funzionari del trattamento penitenziario secondo cui “il nostro impegno è diventato pericoloso e insostenibile”. Lo afferma il togato del Csm Sebastiano Ardita dopo l’audizione svolta a Palazzo dei Marescialli in cui sono stati sentiti dirigenti e funzionari del trattamento. “Ogni funzionario del trattamento - è emerso dell’audizione svolta nell’ambito dei lavori della commissione del Csm sulla esecuzione penale presieduta da Sebastiano Ardita (presente anche il laico Stefano Cavanna) - ha in carico fino a 150 detenuti rispetto ai quali è chiamato a svolgere l’attività di osservazione, e di trattamento e a redigere l’indagine socio-familiare indispensabile per la relazione di sintesi”: un carico ingestibile “che comporta la redazione di relazioni che finiscono per essere burocratiche”, ma quelle relazioni sono alla base delle decisioni della magistratura, che deve giudicare sulla richiesta dei detenuti che vogliono anticipare l’uscita dal carcere. I funzionari hanno poi parlato dei gravi rischi che vengono affrontati ogni giorno senza avere il riconoscimento giuridico ed economico, ed hanno denunciato che i loro colleghi vengono aggrediti e minacciati sempre più di frequente, nel silenzio generale; rischi che cresceranno con la necessità di “prevedere programmi di trattamento per detenuti mafiosi in ergastolo ostativo”. “Se non succede nulla di più grave è solo perché la nostra utenza - e cioè i detenuti - non ha interesse a che ciò accada, perché le condizioni di sicurezza in cui operiamo sono davvero basse”. Per questo, sottolinea il presidente della Commissione Sebastiano Ardita “è fondamentale dare ascolto alle loro istanze, come abbiamo fatto oggi, ed anche alla loro richiesta di maggior tutela dei loro compiti e di passaggio ai ruoli tecnici della Polizia penitenziaria”. I dirigenti penitenziari a loro volta hanno manifestato preoccupazione per la volontà “di espungere la dipendenza gerarchica dalla Dirigenza penitenziaria”, con riferimento alla proposta di dipendenza solo funzionale della polizia penitenziaria dai direttori d’istituto e hanno osservato come “il direttore rappresenti il momento di equilibrio tra sicurezza e trattamento, e superare questa figura significherebbe fare implodere un sistema che si fonda su un preciso equilibrio”. Nel rilevare come la mancanza di concorsi per dirigente abbia creato un vuoto di organico hanno annunciato che dopo 26 anni forse sarà bandito un nuovo concorso ma esso non prevede un congruo numero di posti. “Il modello normativo della dirigenza va ripensato con nuove figure ne fungano da catalizzatore e senza trasferimento di competenza da un centro all’altro come si è fatto finora” hanno concluso i dirigenti. Detenuti in campo insieme ai figli per “La partita con papà” bambinisenzasbarre.org, 4 dicembre 2019 Campagna di Bambinisenzasbarre Onlus per sostenere gli Spazi Gialli, luoghi di accoglienza e ascolto che preparano i bambini all’incontro con il genitore in carcere. Nel mese di dicembre detenuti e figli in campo insieme in 68 istituti penitenziari per “La partita con papà”. Tutti i bambini sono uguali, anche i 100mila bambini che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo vengono emarginati e stigmatizzati. Ciò significa anche che ci sono 100mila figli che, a causa del distacco dovuto alla detenzione, corrono un alto rischio di interrompere il legame affettivo con il proprio genitore, fondamentale strumento di protezione e prevenzione per contrastare fenomeni di abbandono scolastico, disoccupazione, disagio sociale, illegalità e detenzione. Si stima infatti che, senza un’adeguata tutela della relazione con il genitore, il 30% dei figli di detenuti sia a rischio di diventare detenuto a sua volta (Federazione dei Relais Enfants Parents, Parigi). Bambinisenzasbarre Onlus si impegna dal 2002 per tutelare il diritto di questi bambini, sancito nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, al mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, affermando allo stesso tempo il diritto-dovere di quest’ultimo a esercitare il suo ruolo. Per questo ha creato gli Spazi Gialli, luoghi di accoglienza, ascolto, interazione ed attenzione dove ogni giorno accoglie 10mila bambini che entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà. Gli istituti penitenziari in cui è presente sono, per ora, in Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Campania, Puglia e Sicilia. Per costruire nuovi Spazi Gialli e raggiungere così i 90mila bambini che ancora li stanno aspettando, Bambinisenzasbarre lancia la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “Loro non hanno colpe”, attiva fino al 28 dicembre 2019 con numero solidale 45594. Lo Spazio Giallo è un sistema di accoglienza pensato per i bambini che entrano in carcere per trascorrere del tempo con il genitore detenuto, un luogo fisico destinato all’attesa dell’incontro insieme a operatori formati che accompagnano i bambini e le famiglie nell’esperienza della detenzione. L’ingresso in un penitenziario, luogo estraneo e perturbante, può essere un’esperienza traumatica per i bambini se non viene resa comprensibile con l’aiuto degli adulti di riferimento (familiari, insegnanti, ecc.), che invece tendono spesso a costruire dei tabù a causa del pregiudizio sociale e del rischio di emarginazione sociale (a scuola, nel quartiere, nello sport). I bambini, attraverso strumenti di comunicazione non verbale come il gioco e il disegno, e i genitori, attraverso i “gruppi di parola”, vengono aiutati a esprimere le emozioni e le preoccupazioni legate al complesso periodo di vita che stanno attraversando; a condividere il momento con altre famiglie nella stessa situazione; ad affrontare con maggiori strumenti di consapevolezza il tempo complesso della detenzione. A supporto della campagna, inoltre, nel mese di dicembre Bambinisenzasbarre organizza la quinta edizione di La partita con papà, in collaborazione con il Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. In 68 carceri italiane, da Belluno a Palermo, i detenuti potranno giocare una partita a calcio con i loro figli: grazie all’iniziativa padri, madri e figli potranno quindi condividere un momento di normalità e vicinanza nonostante la detenzione. L’evento coinvolgerà 2.800 bambini e 1.700 genitori, insieme agli agenti della polizia penitenziaria e agli educatori, e rappresenterà una preziosa occasione per sensibilizzare le istituzioni, i media e tutta la cittadinanza sul tema dei diritti dei figli dei carcerati e sulla lotta all’emarginazione e allo stigma a cui sono soggetti. Gli Spazi Gialli e “La partita con papà” si inseriscono nel “Sistema Giallo”, l’intervento olistico che declina il “carcere alla prova dei bambini” e che ha trovato la sua formalizzazione nella Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti. La Carta, unica in Europa, applicata nelle carceri italiane, firmata il 21 marzo 2014 - rinnovata nel 2016 e 2018 - dai Ministri della Giustizia, dall’Autorità garante dell’Infanzia e dell’adolescenza e da Bambinisenzasbarre, è stata accolta come riferimento guida per la Raccomandazione dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa nell’aprile del 2018. L’ergastolo del processo di Luigi Manconi La Repubblica, 4 dicembre 2019 Secondo il buon senso, che - non dimentichiamolo - è altra cosa rispetto al senso comune, e secondo l’originaria saggezza dei giureconsulti “meglio un colpevole in libertà che un innocente ai ceppi”. In realtà, non si tratta di un’affermazione così ovvia, perché allude al fatto che la giustizia rappresenta sempre anche un rischio, dal momento che - come tutti gli affari umani - essa non è né può essere perfetta. Di conseguenza, si può trovare di fronte al dilemma tragico di dover scegliere tra l’ingiustizia di lasciare impunito un colpevole e l’ingiustizia, forse il massimo oltraggio al diritto, di penalizzare e privare della libertà un innocente. L’equilibrio tra queste due opzioni è opera faticosa, ma non impossibile. La riforma della prescrizione, che entrerà in vigore tra meno di un mese, è una pessima e squilibratissima soluzione. Con la legge Bonafede, infatti, viene mutata in profondità la natura stessa dell’istituto della prescrizione, pretendendo di curare la disfunzione della durata eccessiva dei processi con un’altra, peggiore, patologia: sospendere il corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, così rischiando di configurare un vero e proprio ergastolo processuale. Non si esagera, se si pensa che, con questa normativa, una sentenza di condanna o di assoluzione può intervenire anche dopo decenni. E si tratterebbe, probabilmente, di una riforma inutile se è vero - come affermavano il Csm (dicembre 2018) e l’allora procuratore generale presso la Cassazione - che circa il 60% delle prescrizioni matura nella fase delle indagini. Rispetto alla maggior parte dei procedimenti, dunque, la nuova legge non avrà alcun impatto positivo né alcuna vera efficacia, in assenza di una complessiva rimodulazione di tutti i “tempi” e le fasi dell’attività giudiziaria e del dibattimento. E, anzi, incidendo su uno dei maggiori fattori di accelerazione dei gradi di giudizio successivi al primo (essendo il rischio prescrizione uno dei criteri di priorità in tal senso), la riforma avrà effetti negativi (ancora il Csm) sulla durata complessiva dei procedimenti. Non a caso, sia nel sistema tedesco che (persino!) nella proposta formulata dalla “Commissione Gratteri”, la sospensione della prescrizione dopo il primo grado non è mai disgiunta da una serie di correttivi, volti a impedire che l’imputato resti tale a vita, e da rimedi compensativi. Tra questi, anche uno sconto di pena per chi riporti condanna a seguito di un procedimento di durata eccessiva: il che permetterebbe di riequilibrare, almeno in parte, il sacrificio delle garanzie individuali realizzato in nome della “condanna a tutti i costi”. Di ciò non c’è alcuna traccia nella “riforma Bonafede”. Va detto, tuttavia, che la prescrizione risulta a gran parte dell’opinione pubblica come qualcosa di estremamente sgradevole, se non propriamente iniquo. Il suo abuso e in particolare, l’uso strumentale, al fine di procacciarsi una ingiusta impunità, attraverso meccanismi pretestuosi di differimento del processo o di sottrazione a esso, appare un’offesa al senso di giustizia. E talvolta può essere effettivamente così, ma ciò non deve portare in alcun modo a dimenticare quale è il fondamento pratico e teorico di quell’istituto e della sua saggia ragionevolezza. La prescrizione, infatti, trova origine nella volontà di “correggere” la memoria collettiva quando essa rischia di cristallizzare, in un passato ormai superato, una vita e un’identità nel frattempo evolutesi. Basti pensare che, anche rispetto a condannati per terrorismo, la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto a non essere qualificati mediaticamente come tali, dopo che, anche espiando la pena subita, si siano prese le distanze da quel passato. Il rapporto tra tempo e diritto vive con particolare intensità nell’istituto della prescrizione. E ciò lo rende affine a quell’oblio che una sentenza della Corte di Cassazione del 1958 ha definito “diritto al segreto del disonore”, in grado di riequilibrare la memoria collettiva e la biografia individuale. E, di conseguenza, capace di realizzare il diritto di ciascuno a essere (e a essere rappresentato come) altro e diverso da chi si è stati al momento del compimento del crimine. Ciò al fine di evitare che la proiezione eterna del passato pregiudichi il futuro e la stessa possibilità di mutamento dell’esistenza. Cruciale è la definizione del momento in cui l’esigenza di “giustizia” deve essere superata dal diritto del singolo a non vedersi sottoposto indefinitivamente al peso di un’imputazione: e dunque, a non essere “eternamente giudicabile”, a causa dell’incapacità dello Stato di esercitare concretamente il potere di punire. La definizione di questo momento è dettata dall’incidenza del tempo trascorso sul permanere dell’interesse dello Stato a sanzionare il reato. Affievolito, quell’interesse, dall’attenuarsi della percezione collettiva del danno prodotto dal crimine. E, perciò, dalla mutata valutazione del disvalore sociale del delitto. Non a caso sono considerati, imprescrivibili, quei reati, quali la strage e il genocidio che, secondo Jacques Derrida sono come “ferite della stessa identità collettiva”, poste in un certo senso “fuori dal tempo”. E davanti a queste “ferite”, “la pretesa punitiva dello Stato è irrinunciabile”. Al di fuori di questi casi, la prescrizione del reato definisce il momento in cui il punire (anche solo l’accertare la “verità processuale”) sarebbe inutile, perché una pena tardivamente inflitta non sarebbe comunque in grado di assolvere quella sua propria funzione, che consiste nel ristabilire il rapporto di fiducia della cittadinanza nei confronti dell’ordinamento e dell’amministrazione della giustizia. Creano una giustizia spietata di Michele Passione Il Dubbio, 4 dicembre 2019 Non del nostro amore, verranno a chiederci conto; di cosa è stato, e non è più. Il giudice di cognizione è uomo del passato, quello di sorveglianza del futuro. Il primo guarda al fatto, per come si è verificato, se è accaduto davvero, chi lo ha commesso, quale sanzione meriti; il secondo dovrebbe interessarsi all’Uomo che cambia. Un’accezione ancipite del tempo, che invece si vorrebbe eterno, immobile, marmoreo. Incuranti dei cambiamenti, quando niente e nessuno resta uguale a se stesso. Il tempo è una variabile indipendente dal volere e potere dell’uomo; il tempo è democratico, scorre per tutti (anche se il fluire del tempo è più pesante per gli anziani, i malati, i detenuti), ma c’è qualcuno che pensa, in malafede, che basti togliere la sabbia dalla clessidra, le lancette all’orologio, per risolvere il problema. Come con la povertà, anche per la prescrizione, scriviamo una bella legge, e il problema è cancellato; nulla sarà più come prima. Restano, invece, tempi di indagini fuori controllo ed extra large, ma basta cambiare il numero dei registri (45, 44, 21), e ci teniamo mani libere. Ci teniamo, anche, difetti di notifiche, testi assenti, giudici che cambiano (ma anche su questo il Governo “sta lavorando”, che se a giudicare è un altro da quello che ha raccolto la prova poco importa, mica crediamo ancora a ‘ ste storie). Le persone aspettano, tutto fa acqua; fuori piove un mondo freddo, ma dal primo gennaio splenderà il sole, ci è stato detto così. A un certo punto verranno a chiederti cosa ricordi, e non ricorderai. Verranno a chiederti conto di quello che hai fatto, perché tu ne risponda, e la pena sarà effettiva, ma non efficace, perché troppo distante da quanto accaduto. Sarà una pena incostituzionale. Forse sarai assolto, ma dovrai stare sospeso, per anni e anni. Impossibile fare progetti, perché magari qualcuno cambierà idea su di te. Se sei stato assolto forse un pm farà appello, e vorrà risentire un testimone, ma lui non si ricorderà come sono andate le cose, dopo tanto tempo. Forse sei stato una vittima, e vorresti una closure che ti aiuti a ricucire lo strappo, oltre al risarcimento del danno patito, “Ci dispiace, abbiamo a cuore i suoi diritti, ed infatti innalziamo le pene, cambiamo le regole, magari l’ascoltiamo in remoto, in tre giorni, ma per questo torni tra qualche anno, non abbiamo fretta”. Il sonno della ragione erige pali incatenati in strade a senso unico, biascica bias spendibili in salotti televisivi, chiude gli occhi sui fatti di questo mondo per raccontarne altri; il pifferaio suona la sua musica, mentre i topi incantati lo seguono fino al fondo del burrone, dal quale non riusciranno a risalire. Un tempo infinito; mentre anche l’ergastolo si apre alla valutazione dell’Uomo, costruiamo maschere senza volto da indossare, per farci trovare pronti, quando verranno a cercarci, senza che importi se questo è l’Uomo del tempo che fu. L’Ucpi contro la prescrizione, per informare i cittadini di Barbara Alessandrini L’Opinione, 4 dicembre 2019 Gli avvocati penalisti sono, da ieri, nuovamente in piazza contro la legge che abolisce la prescrizione in appello, fortemente voluta dal ministro Alfonso Bonafede. Solo il mese scorso alla protesta promossa dall’Unione camere penali italiane (Ucpi) hanno aderito, con l’astensione dalle udienze, anche parte di settori dell’avvocatura civile ed amministrativa e altri soggetti della vita associativa forense. Nel mirino della nuova astensione, proclamata dal 2 al 6 dicembre e accompagnata da una lunga maratona oratoria nazionale non stop che si svolge a Roma, in piazza Cavour, non soltanto la norma che dal 1 gennaio modificherà l’istituto della prescrizione aprendo la strada al “processo infinito” ma anche il tema, già sollevato durante la protesta dello scorso mese, della disinformazione nei confronti dei cittadini che puntualmente accompagna, da quando si è aperta la stagione del populismo giudiziario, il varo di norme in materia penale. Non c’è dubbio che alla società sia sempre servita una versione parziale delle decisioni adottate dal legislatore in materia di politica giudiziaria. È accaduto e sta accadendo anche ora quando si affrontano in modo sommario i contenuti di una riforma che colpirà in discesa i diritti fondamentali di ciascun cittadino che dovesse incorrere in un procedimento giudiziario, prolungando ben più di quanto avviene già oggi, ed i tempi sono estenuanti, la definizione dei processi penali. Con il risultato di arrecare un ciclopico danno sia per i diritti degli imputati ma anche delle persone offese. L’avvocatura penale, dunque, è tornata da ieri a farsi sentire spiegando alla società civile la necessità che venga cancellata o almeno rinviata la nuova disciplina sulla prescrizione. A meno che non ci si vuole arrendere alla trasformazione dei processi penali in una macchina senza tempo che, tra l’altro, intasa ulteriormente il sistema giustizia. Già, perché, anche volendo tralasciare considerazioni molto “indigeste” al Guardasigilli attinenti al diritto di un qualsiasi imputato di non subire il “fine processo mai” o allo strettissimo legame che nel nostro ordinamento esiste tra l’istituto della prescrizione e il principio di presunzione di innocenza e l’inviolabilità del diritto di difesa, è presto intuibile che cancellare la data di prescrizione dai fascicoli equivarrà, tra l’altro, ad eliminare per il giudice l’unico motivo, l’unico pungolo per pronunciarsi velocemente con sentenza. La prescrizione è e resta un sacrosanto contrappeso alle inefficienze della macchina giudiziaria di cui stabilisce il limite entro il quale deve arrivare la definitiva risposta di giustizia nel caso in cui il procedimento non sia giunto a evidenziare elementi di colpevolezza o di innocenza. Il che, ricordiamolo, non è colpa né degli avvocati né degli imputati. Ma torniamo su quella che gli stessi penalisti hanno definito un’operazione verità, per strattonare la cortina di silenzio stesa finora dai media sul cortocircuito logico, prima che giuridico, per cui abolire l’estinzione del reato per decorrenza dei termini una volta emessa la sentenza di primo grado, sia che si tratti di condanna che di assoluzione, in alcun modo velocizzerà la macchina processuale. L’omissione è antica, una delle tante sbianchettature che il sodalizio tra media e politica mette in atto davanti all’opinione pubblica, cavalcandone invece ed insieme alimentandone il populismo giudiziario, la concezione della legittimità del processo eterno, come strumento di vendetta e che vuole l’imputato colpevole, invece che un percorso di accertamento della verità. Tutta robaccia che fa il paio con la diffusa concezione della legalità a senso unico a cui si ispirano e intendono dare risposta quelle riforme securitarie ed efficientiste lesive di garanzie e diritti costituzionalmente previsti nel giusto processo. Di questa politica giudiziaria ci siamo nutriti finora. Questa politica, breccia dopo breccia, intende contrastare l’Ucpi nella battaglia per il diritto penale liberale e il giusto processo. Perché l’esito di quel modo di intendere l’autorità giudiziaria resta e sempre resterà un forcaiolismo becero e fondamentalmente nemico primo del buon funzionamento del sistema giustizia. Per contrarre tempi infiniti ed inefficienze del sistema giudiziario, è la sfida lanciata dei penalisti e di quei pur residuali settori da sempre garantisti della politica, anche la società civile deve essere alfabetizzata ed informata della priorità di metter mano prima di tutto ad una riforma del processo penale capace di ridurne i tempi morti e di individuare meccanismi per limitare il numero dei dibattimenti. La sfida è ciclopica, bisogna ammetterlo, ma ce la si può fare. Perché quella che il presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza, definisce “una giungla di menzogne” ai danni dei cittadini, “a cominciare dalla vulgata che l’istituto della prescrizione sia perseguita dagli avvocati con mille artifizi”, ha sempre taciuto su quel 60 per cento delle prescrizioni che si estinguono durante le indagini preliminari, mentre il 75 per cento fino a sentenza di primo grado. A fare il punto sulle mille altre cause dell’eccessiva durata dei processi, ci ha poi pensato uno studio che Eurispes ha recentemente condotto proprio in collaborazione con l’avvocatura penale e presentato il mese scorso: 64 per cento cause fisiologiche nei procedimenti, dai tentativi di conciliazione all’assenza dei testi, alle richieste di messa alla prova; il 16,2 per cento disfunzioni interne agli uffici del Giudice del Pm e dell’imputato. Numeri che i cittadini hanno non il diritto ma l’obbligo di conoscere anche se il campo di scontro è ancora aperto e la battaglia al momento segna un netto vantaggio per il ministro Alfonso Bonafede che ha dimostrato tutta la sua avversione alle ragioni effettive dell’intasamento della macchina giudiziaria ed un pavido rifiuto delle proposte presentate dal mondo dell’avvocatura al tavolo ministeriale. La gamma di interventi proposti al ministro va dal rafforzamento della regola di giudizio dell’udienza preliminare per renderne effettiva la funzione di filtro, l’incremento del ricorso ai riti alternativi e l’individuazione di ulteriori ipotesi di depenalizzazione, volti ad una riduzione del numero dei processi al dibattimento, ma anche interventi che rendano certo il tempo delle indagini e dell’esercizio dell’azione penale e l’effettività delle garanzie nell’attività dell’acquisizione della prova in contraddittorio. Inutile dire che il tetragono ministro in buona fede non si lascerà corrompere nemmeno da cifre tanto esplicite. La sua guercia impostazione resisterà anche agli altri numeri che parlano dell’unica vera urgenza, quella di ridurre i tempi dei processi piuttosto che di intervenire sull’estinzione dei reati. Perché è del buon ministro perseguire e servirsi alla bisogna della narrazione delle emergenze giudiziarie falsata che ha finora diligentemente omesso di raccontarci, ad esempio, che l’istituto della prescrizione riguarda una minima parte dei processi, le prescrizioni hanno già tempi lunghissimi, fino a 60 anni: 40 anni per il sequestro di persona a scopo di estorsione e per l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, 37 anni per il reato di disastro ambientale e 25 per la rapina, 30 anni per prescrivere una corruzione in atti giudiziari, 37 e 6 mesi per i casi più gravi di maltrattamenti in famiglia, un quarto di secolo per fattispecie ad elevato allarme sociale come rapina, traffico di droga, estorsione. Senza contare che per alcune tipologie di reati i tempi per le prescrizioni sono aumentati, come per la corruzione in atti giudiziari portata da 25 a 30 anni o la corruzione per l’esercizio della funzione da 10 a 12 anni. Non solo, da città a città, “emergono ciclopiche differenze nei tempi di definizione dei giudizi: 663 giorni per i fascicoli aperti alla Procura di Brescia, 161 di Trento e per le prescrizioni dichiarate in Corte d’Appello il 43% dei reati sono estinti per decorrenza termini a Venezia, il 35 a Catania, il 26 a Bologna”. Il dato più eclatante, poi, è che sono soltanto il 25 per cento dei reati totali, i prescritti dopo il primo grado, quelli appunto interessati dalla norma, ma soprattutto vanno in prescrizione soltanto il 10 per cento dei fascicoli. Resta da comprendere perché, escludendo la malafede populista, con tempi medi attuali di 40 anni, necessari a prescrivere molti reati, si sia voluta una riforma destinata ad un bacino così esiguo. L’emergenza, insomma, emergenza non è. Ma la riforma che sospende la prescrizione ha il potere leviatano di rendere legittimo che un individuo di cui lo Stato non riesca a provare la colpevolezza o la cui assoluzione in primo grado il Pm voglia sovvertire, con tutta la calma accordatagli, rimanga in scacco dello Stato. Per sempre. Tutto in ragione di un 2,5 per cento del totale dei casi per i quali si dà una bella sforbiciata ai principi della civiltà giuridica e dello stato di diritto tutelati dalla Costituzione. E questo può capitare davvero a qualsiasi comune cittadino. Che era ora venisse informato su cosa accade e avverrà nei tribunali e sui rischi che si abbattono su chiunque resti imbrigliato nelle maglie di questa mostruosità giuridica firmata Bonafede. Attenzione, senza Ddl penale la riforma della prescrizione è incostituzionale di Riccardo De Vito* Il Dubbio, 4 dicembre 2019 Gli osservatori esterni e la stampa hanno notato, nella mozione dell’Anm, un’inversione di rotta sul tema dell’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. C’è da credere, tuttavia, (o da auspicare) che la mancata precisazione, nella mozione finale, delle necessaria contestualità di interventi tra interruzione della prescrizione e riforma del processo penale sia il frutto di una sintesi un po’ troppo frettolosa. La relazione del Presidente Poniz aveva espresso in maniera alta il punto di mediazione raggiunto nel dibattito all’interno della magistratura, un dibattito acceso e ricco di punti di vista eterogenei. È bene ritornare sulle parole di quella relazione: “la riforma della prescrizione - svincolate dall’insieme di riforme strutturali necessarie, come infatti da noi contestualmente richieste, ed inserita incidentalmente nel testo di una legge (cd. Spazza-corrotti) che disciplina materia affatto diversa - rischia di produrre squilibri complessivi”. Credo che questo punto debba rimanere fermo, perché inclusivo e rappresentativo di tutte le posizioni emerse. L’idea che l’Associazione abbia modificato il proprio approdo in un tema così delicato dopo che il ministro Bonafede ha espresso al Congresso la sua contrarietà alla separazione delle carriere e al sorteggio come metodo di selezione dei componenti del Csm, pur scaturendo da una certa confusione cui ha contribuito quella sintesi infelice di cui si è detto, non può essere avvalorata. Sarebbe una flagrante smentita di quella indipendenza della magistratura dalla politica rivendicata con forza dal Congresso nazionale. Sarebbe, poi, in contrasto con la scelta - anche questa testimoniata dall’assise nazionale - di offrire il proprio contributo al dibattito politico sulle riforme partendo sempre dalla cultura delle garanzie e dallo specifico di giuristi arricchiti dall’esperienza quotidiana. E l’esperienza quotidiana, in materia di prescrizione e processo penale, dice cose molte chiare, molto bene evidenziate dall’approfondito parere reso dal Csm con delibera del 19 dicembre 2019: “A sistema giudiziario invariato non può inoltre escludersi che i gradi di giudizio successivi al primo, all’esito del quale interverrà la causa di sospensione della prescrizione, si svolgano più lentamente che in passato, venendo meno uno dei principali fattori che determinano, di norma, un’accelerazione dei tempi di definizione dei processi, legato al pericolo di prescrizione del reato sub iudice”. Di qui, prosegue il parere, “il rischio di un effettivo allungamento dei processi all’esito della introduzione di detta modifica”, che “avrà importanti ricadute anche sulla posizione delle vittime di reato e degli imputati”. Sono questi i problemi che sono dietro le avvertite parole del Presidente Poniz, nel momento in cui invoca contestualità di interventi tra interruzione della prescrizione e riforma acceleratoria del processo penale. Si scoprano, dunque, le carte in materia di processo penale, per capire come renderlo efficiente e conforme a quella giustizia europea che si invoca a sostegno di ogni intervento riformatore. Appare fin troppo evidente che intervenendo sul processo penale in maniera seria e concreta, all’esito di un dibattito pubblico e celere, il problema della prescrizione può risultare di fatto sdrammatizzato. Personalmente credo che il rischio, altrimenti, sia di non avvicinarsi all’Europa, ma di allontanarsi soltanto dalla Costituzione. *Presidente di Magistratura democratica Prescrizione, vicini al punto di rottura di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 dicembre 2019 Il Pd e Iv evitano di votare con la destra per cancellare la riforma che rischia di allungare i tempi dei processi. Ma di fronte al muro del ministro Bonafede e del presidente del Consiglio Conte, Zingaretti minaccia una iniziativa di legge autonoma dei dem, in ogni caso tardiva. E Di Maio provoca: volete tornare con Berlusconi? Il tempo non è ancora scaduto ma ne resta poco; la prescrizione rischia di diventare la pietra di inciampo di un governo già parecchio zoppicante. Malgrado i 5 Stelle stiano facendo muro alle richieste del Pd, il Pd ha deciso di rinviare la resa dei conti, votando ieri alla camera contro la concessione dell’urgenza a un disegno di legge che pure condivide. Lo ha presentato il deputato di Forza Italia Conte, è composto da un solo articolo e avrebbe cancellato la riforma approvata sotto il Conte uno, quella che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Quella che per il Pd (e per gli altri partiti della maggioranza, grillini esclusi, come per gli avvocati penalisti e la maggioranza dei giuristi) renderà indefiniti ed eterni i tempi dei processi. Anche i renziani hanno evitato di affondare il colpo che avrebbe ammazzato la maggioranza, uscendo dall’aula hanno mandato un messaggio più esplicito di quello del Pd. Iv ha anche incontrato il presidente del Consiglio e gli ha detto che, urgenza o non urgenza, è pronta a votare il disegno di legge del forzista Costa quando arriverà in commissione. Potrebbe essere troppo tardi: nell’affollato calendario di fine anno sarà facile per i 5 Stelle rinviarne l’esame al 2020, quando la riforma della prescrizione sarà già entrata in vigore. Così infatti pronostica Di Maio, che non ha scrupoli nel provocare l’alleato dem: “La prescrizione dal primo gennaio sarà legge, sono in piena sintonia con Conte. Se il Pd presenta una sua proposta sulla prescrizione vuole dire che intende votarla con Salvini e Berlusconi, saremmo al Nazareno 2.0, non mi pare possibile”. Un po’ di veleno in cambio del gesto di disponibilità del Pd e non votare l’urgenza al disegno di legge Costa. E una porta in faccia al nuovo ultimatum di Zingaretti, che poco prima aveva spiegato che “senza un accordo nei prossimi giorni il Pd presenterà una sua proposta di legge sulla prescrizione”. È un po’ la mossa della disperazione di fronte all’asse tra Bonafede e Conte. Ministro e presidente del Consiglio sono in minoranza nella maggioranza e in tutto il parlamento, ma hanno l’appoggio di buona parte della magistratura associata, in testa la corrente di Davigo. L’avvocatura penale sta invece di nuovo scioperando contro la riforma della prescrizione e ha in corso una maratona oratoria di protesta. Mossa della disperazione, quella del Pd, perché il disegno di legge con il quale proporrà la “prescrizione processuale”, vale a dire una durata massima dei gradi di appello e cassazione dopo la quale il reato si estingue in ogni caso, presuppone il via libera al resto della legge delega di riforma del processo penale. Quella che il ministro Bonafede ha annunciato per fine anno e che dovrebbe, nelle intenzioni, abbreviare la durata dei processi, e che i dem stanno tenendo ferma proprio per il braccio di ferro sulla prescrizione. La nuova strategia del partito di Zingaretti, messa a punto ieri mattina in un’assemblea dei deputati, passa per la richiesta di discutere la loro proposta di legge in abbinata con la riforma di Bonafede. Due i punti deboli: intanto la riforma della prescrizione partirebbe ugualmente il primo gennaio (vero è che non produrrà effetti se non dopo qualche anno, ma introdurre un regime di prescrizione destinato a essere corretto significa moltiplicare il caos). E poi la discussione in abbinata non è automatica e viene decisa dal presidente della commissione ed eventualmente dal presidente dell’assemblea. Dunque non è affatto scontata se, com’è probabile, Bonafede vorrà far partire la riforma del processo penale dalla camera dove le due postazioni chiave sono entrambe in mano ai 5 Stelle. Il Ministro della Giustizia non ha mancato di far conoscere subito la sua contrarietà anche a quest’ultima soluzione del Pd, “un passo indietro” rispetto all’abolizione della prescrizione che i 5 Stelle considerano addirittura “una norma di civiltà”. Mentre per il Pd è semplicemente “incostituzionale”. Dal Nazareno si assicura che il partito è “fermo” nella decisione di non sentirsi legato alla riforma approvata dalla precedente maggioranza gialloverde. E si moltiplicano gli appelli a Conte perché trovi una mediazione. Ma Conte fin qui ha coperto totalmente Bonafede. Anche presidente del Consiglio e ministro della giustizia, in effetti, sono quelli della maggioranza precedente. Zingaretti: “Prescrizione, norma inaccettabile: ora una legge Pd” di Errico Novi Il Dubbio, 4 dicembre 2019 No dei dem all’urgenza sul testo di Costa, ma il segretario avverte i 5S. I toni sono amichevoli. Ma nei fatti, le distanze sulla prescrizione, da ieri, sono ancora più ampie. I dem non votano la “procedura d’urgenza” alla Camera sulla legge Costa, che abrogherebbe di colpo la norma Bonafede, ma annunciano per voce di Nicola Zingaretti: “Senza un accordo nei prossimi giorni, il Pd presenterà una sua proposta di legge”, giacché “l’entrata in vigore delle norme sulla prescrizione, senza garanzie sulla durata dei processi” è “inaccettabile”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non apre neppure uno spiraglio alle richieste del Nazareno: “Sarebbe un enorme passo indietro, mentre con la norma sulla prescrizione siamo a pochi passi da una svolta”, fa sapere da via Arenula. E fa sapere pure di essere “scettico” sulla proposta di legge in arrivo dal Pd perché la “prescrizione processuale”, a suo giudizio “farebbe ritornare le cose al punto di partenza”. Distanze incolmabili, tempi ormai strettissimi, diplomazie sempre più impotenti: alle viste non ci sono nuovi vertici di maggioranza sulla giustizia. Il vicecapogruppo pd alla Camera Michele Bordo chiarisce la natura del testo in arrivo: “Si tratterà di un articolato breve, rivolto solo a fissare dei tempi massimi di durata dei giudizi”. In aula la maggioranza regge, nel senso che respinge con comodo la corsia preferenziale sulla legge Costa: il Pd vota contro, e Bonafede vi coglie con “soddisfazione un segnale di “compattezza” del fronte governativo. Ma intanto arriva il primo distinguo formale dei renziani, che disertano la votazione (senza essere decisivi, perché i loro 24 deputati non avrebbero cambiato l’esito di 269 contrari contro 219 favorevoli). Italia viva affida a Maria Elena Boschi e Lucia Annibali la propria richiesta, rivolta “al governo”, affinché si trovi “subito una soluzione”, perché “in assenza di una revisione seria sulla durata dei processi, la norma sulla prescrizione potrebbe rivelarsi una ferita democratica”. Forza Italia definisce “pavidi” i dem e invece apprezza “quella parte di maggioranza che”, parole di Enrico Costa, “non ha voluto lasciare le proprie impronte su questo scempio”, cioè proprio Italia viva. Certo la stessa Forza Italia non fa l’impossibile perché possa consumarsi un blitz in aula: fa contare 19 assenti, che si sommano ai 12 della Lega e ai 5 di Fratelli d’Italia. Bordo e l’intera war room democratica sulla giustizia, da Alfredo Bazoli a Walter Verini, confermano la linea ultimativa del segretario: nessun appoggio a proposte dell’opposizione ma, senza nuovi segnali da Bonafede, un’autonoma iniziativa del Nazareno “per impedire il rischio che con la nuova prescrizione i processi possano durare all’infinito”, come spiega il vicepresidente dei deputati dem. Da ieri sembra definitivamente tramontata l’ipotesi di un blitz di fine anno. Il Pd non intende offrire comodi assist al Movimento 5 Stelle, pronto a scagliarsi sull’alleato qualora appoggiasse la legge Costa, che arriverà comunque in Aula prima di Capodanno. Già per la settimana prossima però i democratici potrebbero depositare a Montecitorio il loro testo di legge sulla “prescrizione processuale”, che fisserebbe un tempo limite per la durata della fase d’appello e del giudizio in Cassazione. “È chiaro che la norma di Bonafede sulla prescrizione entrerà in vigore il 1° gennaio”, nota Bordo, “ed è chiaro che sarà così anche grazie alla Lega: è stato il partito di Salvini, un anno fa, a dare via libera, non lo si dimentichi. D’altra parte”, chiarisce ancora il vicecapogruppo dem, “non è ancora alle viste il ddl di riforma del processo”. L’idea iniziale del Pd era di emendarlo. Ma a questo punto i tempi della legge delega di Bonafede sono incerti, anche se il ministro vede “il momento buono per chiudere”. I capigruppo 5s di Camera e Senato, Devis Dori e Arnaldo Lomuti accolgono “con piacere” il voto del Pd contrario alla corsia preferenziale per la legge Costa. Ma sul blog del Movimento viene ripreso con enfasi un sondaggio diffuso ieri dal Fatto quotidiano secondo cui il 57 per cento degli italiani sarebbe favorevole al blocca- prescrizione. “La maggioranza degli elettori è con noi”, rivendica il partito di Grillo. Segno che di trattative, in realtà, non è proprio aria. Prescrizione. La riforma del ministro Bonafede è una tortura per gli innocenti di Pieremilio Sammarco* Libero, 4 dicembre 2019 Carnelutti, uno dei più illustri giuristi dell’era contemporanea, già nel 1957, nella sua opera dal titolo “Le miserie del processo penale” da grande avvocato che era, aveva colto il grave tormento che subisce una persona attraversata dalle vicende giudiziarie; affermava che “il processo medesimo è una tortura (...) e la civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del processo. L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati dati in pasto alle fiere (...). Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti, perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo”. Queste considerazioni prescindono dalla valutazione sulla colpevolezza dell’imputato che sono ultronee e non incidono sulla pratica che osserviamo quotidianamente a proposito dei processi portati all’attenzione dei media. Naturalmente, per colui che sarà poi riconosciuto innocente la sofferenza patita dovuta alla sua esposizione pubblica è una condanna inappellabile e definitiva che nessuna dichiarazione di non colpevolezza potrà mai risarcire. Emblematiche sono le parole di Lariviére nel suo celebre Du cirque médiatico-judiciaire et des moyens d’en sortir, secondo cui il contatto con una imputazione giudiziaria crea una sorta di malattia che, quando finalmente se ne viene a capo, lascia l’ammalato molto debole. Si tratta di una metafora che evoca mirabilmente gli effetti del processo giudiziario sul soggetto che lo subisce. Anche se costui, al termine del lungo iter processuale, ne esce per la giustizia dei tribunali non colpevole, avrà subito un pregiudizio personale da parte della giustizia sociale, che si riflette negativamente nel suo rapporto con la collettività. Il solo fatto di essere stato implicato in un processo giudiziario rappresenta nella coscienza sociale dei più un episodio disdicevole, degno di biasimo, un forte sospetto sulla colpevolezza dell’individuo, che si attacca irrimediabilmente alla persona come una lettera scarlatta, che neanche l’ottenimento del proscioglimento può togliere, giacché, esso può essere percepito come il frutto di una soluzione tecnica difficilmente comprensibile per la generalità delle persone, raggiunta forse più per la bravura dell’avvocato difensore nel trovare una scappatoia nell’intricato labirinto delle norme e delle complicate procedure, o grazie all’esistenza di un sistema processuale giudicato dai più addirittura perfino troppo garantistico. Ora, valutando la proposta di riforma abrogativa della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, pervicacemente portata avanti dal ministro Bonafede nonostante le forti critiche mosse dalla comunità dei giuristi, l’effetto che si produce è la soggezione della persona che, ancorché prosciolta in primo grado, è sottoposta ad un processo giudiziario senza fine; essa rimane afflitta da un carico pendente che può durare per la fase più importante della sua esistenza sia dal punto di vista professionale che personale. E se il processo penale è utilizzato - come talvolta è avvenuto in passato - quale strumento di realizzazione di un obiettivo sociale o è mosso da fattori ideologici (quali, ad esempio, colpire soggetti noti sospettati di evasione fiscale, o di appartenenza ad associazioni di stampo mafioso, o nella peggiore delle ipotesi, appartenenti ad una forza politica ostile, o per contrastare un’impresa malvista), agevola, per i fini anzidetti, concepire un carico pendente perenne dell’innocente. Il malcapitato di turno, infatti, in questa situazione di disvalore sociale, si vedrà privato dell’esercizio di alcuni suoi rilevanti diritti, quali ad esempio quello di contrarre con la pubblica amministrazione o di rivestire cariche pubbliche, oltre naturalmente ad essere gravato dalla sanzione sociale rappresentata dal giudizio collettivo di disvalore che si crea nei suoi confronti per essere finito nella palude giudiziaria. E allora, per ritornare alle parole di Camelutti, con questa riforma si acconsente che l’imputato innocente venga sottoposto alla damnatio ad bestias, cioè torturato, morso dopo morso, dalle fauci della macchina giudiziaria che si tramuta in belva feroce. *Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo La prescrizione crea disuguaglianze di Piergiogio Morosini Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2019 “Processo eterno”; “imputato a vita”; “bomba nucleare”. Salgono i decibel del dibattito sulla riforma della prescrizione. Intanto certi refrain spianano il terreno a chi vuole abrogarla. La novità in vigore dal gennaio prossimo, che impedirà l’estinzione del reato per decorso del tempo dopo la sentenza di primo grado, viene additata come il “male assoluto” da molti politici e dalla avvocatura. Ma i suoi detrattori hanno scordato i “casi” che l’hanno ispirata e non paiono comunque interessati a rimedi concreti per la lentezza della giustizia che già adesso grava su imputati e vittime di reati. Ricordate il processo per il disastro ferroviario di Viareggio? O quelli per i disastri ambientali di Eternit e Porto Marghera? O ancora, peri crac bancari dello scorso decennio? Ricordate la delusione diffusa quando in appello o in Cassazione i reati venivano dichiarati prescritti? Di fronte alla indignazione delle vittime (singoli cittadini o intere comunità), la politica si affrettò a promettere misure efficaci per evitare una “denegata giustizia” e lo spreco di anni di duro lavoro di investigatori e magistrati. Purtroppo, negli ultimi tempi, ci siamo assuefatti ai “nulla di fatto” in tanti processi per falso in bilancio, frode fiscale, colpa medica. Reati di notevole impatto civico e sociale. Destinati a venire alla luce solo dopo molto tempo. Che, di solito, vedono come imputati soggetti facoltosi i quali, a differenza di altri, possono disporre di difese molto agguerrite. Oggi, senza una riforma, la prescrizione è fonte di disparità di trattamento tra imputati. Una condanna in primo grado, frutto di laboriosa istruttoria, può cadere nel nulla solo per il dilatarsi dei tempi nel processo di appello. Le sorti di un imputato finiscono per sganciarsi dalle sue responsabilità e per dipendere dalle evenienze più disparate. Ad esempio: l’espletamento di una nuova perizia; il numero dei coimputati; la presenza di avvocati più abili a formulare impugnazioni pretestuose o richieste ostruzionistiche; la designazione di un giudice con un maggiore carico di lavoro o che non ha organizzato a dovere la sua attività. Insomma, chi vuole lasciare le cose come stanno, accetta una casualità foriera di odiose diseguaglianze. E limitarsi a dire che la prescrizione è il “farmaco” per la malattia cronica del processo (la sua lentezza), rischia di suonare come un alibi. In passato la magistratura associata ha più volte sollecitato il blocco della prescrizione con la condanna di primo grado. Lo riteneva, anche da solo, un rimedio idoneo a contenere nella fisiologia l’ostruzionismo di certe difese, a favorire riti alternativi più snelli e, quindi, a rendere i processi più rapidi e giusti. Ma, oggi, anche tra i magistrati ci sono ripensamenti. Senza la “mannaia” della prescrizione su tanti processi e con la carenza di risorse nelle corti di appello, si teme un aumento delle pendenze e, quindi, giudizi d’impugnazione dilatati a danno degli imputati. Per superare quei pericoli occorrono interventi congiunti, frutto di una “alleanza per la giustizia” tra diverse istituzioni. Così se dalla magistratura si deve pretendere un rinnovato impegno organizzativo e interventi drastici su chi non è disponibile a coltivarlo o si mostra negligente, al governo ostruzionisti spettano investimenti mirati e tempestivi sulle corti di appello dove ora si registra la maggiore incidenza percentuale delle prescrizioni (secondo i dati del Ministero: Roma, Napoli, Venezia, Torino, Catania). D’altronde, in parlamento andrebbero presto approvati quei disegni di legge, piuttosto datati e ampiamente condivisi, sulla semplificazione del sistema della notificazioni, lo snellimento delle tecniche motivazionali dei provvedimenti, la previsione di filtri di ammissibilità delle impugnazioni, l’estensione dei giudizi monocratici anche in appello. Per non parlare della esigenza indilazionabile di modificare norme processuali che trattano allo stesso modo violazioni da codice della strada e delitti di mafia. Dal canto suo, l’avvocatura dovrebbe accettare nuove regole sui compensi del gratuito patrocinio, volte a evitare le istanze pretestuose di professionisti spregiudicati (non sono tanti ma ci sono) interessati a gonfiare le parcelle elargite dallo Stato. Gli effetti della “vituperata” riforma della prescrizione si vedranno fra cinque anni. Il tempo per misure integrative c’è. La disponibilità e la volontà di vararle sono tutte da verificare. Certo, slogan e prove muscolari non promettono nulla di buono. Ma forse esprimono solo fibrillazioni politiche passeggere. In ogni caso, la semplice abrogazione della riforma è una rinuncia al contrasto di quelle diseguaglianze giudiziarie che erodono ogni giorno la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Caselli choc: bisogna abolire l’Appello di Luca Fazzo Il Giornale, 4 dicembre 2019 L’ex procuratore: “Vantaggi strepitosi, si cancellerebbero gli arretrati”. A gettare il sasso era stato domenica scorsa Edmondo Bruti Liberati, leader storico di Magistratura democratica, con una intervista a Repubblica in cui teorizzava la necessità assoluta di una nuova legge sulla prescrizione, accusando gli avvocati di utilizzare le norme attuali per “impugnazioni puramente dilatorie” causando l’“ingorgo dei giudizi in appello” e “ricadute di lungaggini su tutta la durata del processo”. Tempo quarantott’ore, e a raccogliere l’assist è un vecchio compagno di battaglia e di corrente di Bruti, l’ex procuratore di Palermo e di Torino Giancarlo Caselli. Che se ne esce sul suo blog sull’Huffington Post rincarando la dose fino al punto che pareva irraggiungibile: l’abolizione del processo d’appello. Prima condanna e carcere, senza passare dal via. Inevitabile notare che tra le due uscite è avvenuto un fatto nuovo: la saldatura tra il Movimento 5 Stelle e l’Associazione nazionale magistrati, che nel suo congresso genovese ha sposato in pieno la linea grillina sulla prescrizione. Come la pensino i pentastellati sul processo d’appello è noto, visto che nel loro programma sulla giustizia avevano proposto - per disincentivare i ricorsi - di consentire che il processo d’appello aggravi, anziché ridurre, la condanna. Ma nemmeno questo a Caselli pare sufficiente. “Basta con i palliativi”, scrive. “Si valuti anche l’ipotesi dell’abolizione del grado d’appello, in modo da uniformare il nostro agli altri paesi di rito accusatorio. I vantaggi sarebbero strepitosi”. Addirittura strepitosi? Sì: “Si potrebbe cancellare l’arretrato, circa un milione e mezzo di processi”. Per accelerare la giustizia basta abolire i processi, insomma. E giù con un po’ di insulti agli avvocati: il processo è “pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che in realtà sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi”. Nel motivare la sua rivoluzionaria proposta, Caselli fa - a dire il vero - un po’ di confusione, arrivando a sostenere che in Italia esiste “una pletora” di gradi di giudizio, in cui inserisce anche i provvedimenti del tribunale del Riesame (che in realtà non si occupa di colpevolezze e innocenze ma solo di esigenze cautelari) e non meglio precisati “interventi del gip” e “giudizi incidentali”. “Siamo di fronte ad una grave anomalia rispetto agli altri paesi di democrazia occidentale che va corretta riducendo drasticamente i gradi di giudizio”, scrive l’ex magistrato. Curiosa la spiegazione che Caselli dà di questo eccesso di garanzie: “La moltiplicazione dei gradi di giudizio si spiega con la radicata convinzione che la magistratura e il diritto fossero ostili alle classi sociali subalterne. Per arginare i misfatti che conseguentemente la cultura popolare riteneva perpetrati nei secoli ecco l’idea dei più gradi di giudizio”. È appena il caso di ricordare che il codice di procedura penale attualmente in vigore è del 1988, quando di misfatti ai danni delle classe subalterne i giudici avevano smesso di compierne da un bel pezzo. “Caro Caselli, teniamo l’appello e facciamo un’amnistia” di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 dicembre 2019 Alla provocazione del magistrato Gian Carlo Caselli, che propone di abolire l’appello, risponde il giurista Tullio Padovani: “Aboliamolo pure, ma sapendo che ci scontreremo con i trattati internazionali”. A dare lo spunto all’intervista con il penalista e professore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani, è la considerazione del magistrato Gian Carlo Caselli, che firma un articolo dal titolo “Una proposta per riformare la giustizia: aboliamo l’appello”, in cui sostiene che “per correggere l’anomalia italiana servono la nuova prescrizione e la riduzione dei gradi di giudizio”. “Una proposta che mi sembra quasi apocrifa, non all’altezza di un magistrato dello spessore e del valore di Gian Carlo Caselli. Lo dico per la profonda stima che nutro nei suoi confronti”, è la prima reazione di Padovani. È una provocazione, allora? Aboliamo pure l’appello, come propone il dottor Caselli, ma prima di farlo dobbiamo sapere che ci scontreremo con una serie di trattati internazionali che vincolano al doppio grado di giudizio, a partire dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo Caselli, l’eliminazione dell’appello allineerebbe il nostro “ai paesi di rito accusatorio”... Ma allora il sistema accusatorio dovremmo realizzarlo per intero e dunque dovremmo introdurre la separazione tra giudice e pubblico ministero e la discrezionalità dell’azione penale: due modifiche che non credo troverebbero particolare apprezzamento da parte della magistratura. Per carità, non elargiamo patenti gratuite... Insomma, il nostro processo ha solo qualche vago accenno del sistema accusatorio? Sa cosa mi disse un giorno un grande penalista americano? Che in Italia abbiamo costruito un codice di procedura penale informandoci sul sistema accusatorio mediante una cartolina postale. Del sistema accusatorio abbiamo preso qualche spunto, come il principio del contraddittorio, ma non molto di più. L’appello sarebbe uno strumento utile “ad avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai”... Ancora la nota avversione nei confronti di noi avvocati. Personalmente, le dico che non sono mai riuscito a ritardare di un giorno il processo. Io mi porrei invece il problema opposto: ovvero che le garanzie processuali come l’appello non siano alla portata di tutti, perché qualcosa nella difesa non ha funzionato. In che senso? A dover preoccupare non sono gli avvocati agguerriti, che anzi sono indispensabili alla giustizia, ma quelli distratti che non difendono bene i loro assistiti. Soprattutto in sede di appello, infatti, ho visto errori nella difesa di primo grado. Questo, se vogliamo, è un vulnus da arginare, ma che si corregge proprio grazie all’esistenza di un secondo grado di giudizio. Il riferimento è anche ad un processo che è “un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che in realtà sono insidie o cavilli”... Quella delle finte garanzie è una vecchissima polemica, che risale addirittura ad un capolavoro del Settecento come “La scienza della legislazione”, del giurista Gaetano Filangieri e che prosegue nell’Ottocento, con Francesco Carrara. Nulla di nuovo, dunque. La risposta è sempre la stessa: si indichino in modo chiaro queste garanzie inutili e anzi dannose per il cittadino, altrimenti diventa un discorso sterile e ideologico. L’altra anomalia italiana sarebbe la prescrizione, secondo Caselli... Si tratta di un problema delicato e io mi sento di condividere la linea delle Camere penali, che si oppongono all’entrata in vigore dell’abolizione della prescrizione. Capisco tuttavia che è una questione complessa, che però nasce da quella che è la vera anomalia italiana: il fatto che, per rimediare al sovraccarico giudiziario, non si fanno più amnistie come un tempo si usava. L’amnistia, oggi, è stata resa impossibile dal fatto che per la sua approvazione si è stabilita una maggioranza superiore a quella prevista per le riforme costituzionali. Per questa ragione si è andato ad accumulare un carico giudiziario eccessivo rispetto al sistema e questo carico si è a sua volta riversato sull’istituto della prescrizione. Manca una valvola di sfogo del sistema? Lo dimostra il fatto che i ritardi maturano nella fase delle indagini preliminari. La ragione è chiara: le procure non possono occuparsi di tutte le notizie di reato e dunque i processi di minore importanza vengono ritardati. Conosco molti pm che consapevolmente e direi anche giustamente lasciano indietro l’indagine meno importante o ricorrono alla richiesta di archiviazione che si basa sul fatto che le indagini non sono state svolte. Ma la prescrizione serve, quindi? Il vero problema del sistema non è la prescrizione, ma l’obbligatorietà dell’azione penale. La prescrizione è come una malattia con una latenza molto lunga: si vede in fase avanzata del processo, ma matura molto prima. Questa anomalia, dunque, si elimina solo se si riduce alla radice il carico di lavoro. Servirebbe un approccio pragmatico: in nessun paese del mondo esiste l’obbligo di trattare tutte le notizie di reato, perché è un precetto che, semplicemente, non è possibile adempiere. Così si risolverebbe il problema dell’eccessiva durata dei processi? Nel resto del mondo i processi sono più veloci perché se ne fanno meno, e se ne fanno meno perché non si celebrano quelli che non vale la pena di celebrare. Noi, invece, discutiamo della prescrizione e ci illudiamo di risolvere il problema guardando il dito e non la luna. Non servono riforme di sistema, quindi, come quelle ipotizzate dal ministro Bonafede? Guardi, io sono contrario a questa mitologia del semplificare. Credo che, più semplicemente, dovremmo ispirarci allo spirito pragmatico degli inglesi. Sa come cominciano i loro manuali di diritto penale? “The police has to choose”, “la polizia deve scegliere”. Una cosa del genere in Italia ci scandalizzerebbe, ma il punto è che qualcuno deve scegliere. Glielo dico in sintesi: a dover essere abolita non è la prescrizione ma il panpenalismo, l’idea salvifica della pena come strumento per risolvere tutti i problemi. Intercettazioni, utilizzo più ampio ma solo per reati connessi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2019 Più spazio all’utilizzo delle intercettazioni, ma con giudizio. Anche quando riguardano reati per i quali non sono state espressamente autorizzate. È questa la conseguenza della decisione delle sezioni unite penali, anticipata per ora solo con informazione provvisoria, la 25/2019. Il principio fissato, a fronte di un contrasto tra le sezioni semplici della Corte, stabilisce che il divieto di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, “non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ai sensi dell’articolo 12 del Codice di procedura penale a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempre che rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”. Al centro del caso approdato alle Sezioni unite c’è l’impugnazione della difesa di un imputato, condannato per peculato e falso ideologico, rispetto al quale era stato considerato utilizzabile il materiale acquisito tramite intercettazioni che però erano state autorizzate per reati diversi. Utilizzazione contestata dalla difesa perché il collegamento sarebbe stato solo occasionale e non sarebbe stata individuabile nessuna connessione tra i diversi reati. Le Sezioni unite si sono così confrontate con due orientamenti, entrambi cristallizzati in pronunce delle sezioni semplici. Il primo afferma che, in presenza di un’autorizzazione emessa per uno dei reati per i quali è ammesso l’uso di intercettazioni, le operazioni possono essere considerate utilizzabili per tutti i reati relativi al medesimo procedimento. Una linea di ampia utilizzabilità in base alla quale l’emergere di reati ulteriori non può essere considerato escluso dall’ambito di operatività dell’articolo 266 del Codice di procedura penale (che individua il catalogo dei delitti per i quali sono ammesse le intercettazioni), permettendo l’utilizzabilità del contenuto delle comunicazioni acquisite. A questo orientamento se ne contrappone un altro, che ha in varie sentenze fatto propria una nozione sostanziale, centrata sulla relazione strutturale e investigativa tra i reati. Una soluzione che le pronunce in questione considerano equilibrata in rapporto anche alla necessità di un equilibrio costituzionale, tanto da scongiurare una delega in bianco e permettere che la diretta utilizzabilità dipenda dall’accertamento della notizia di reato “dinamicamente intesa” alla base dell’autorizzazione. Da chiarire la nozione di “diverso procedimento”: se applicabile solo a procedimenti distinti sin dall’origine o anche nel caso di notizia di reato che emerge dalle stesse intercettazioni, ma priva di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli oggetto di autorizzazione. La soluzione messa a punto dalle Sezioni unite si ancora ai casi di connessione previsti dal Codice di procedura penale all’articolo 12. Quindi via libera, a valle, all’utilizzo nel procedimento dei contenuti di intercettazioni che riguardano altri reati rispetto a quelli per i quali, a monte, l’autorizzazione ra stata concessa per esempio quando i reati sono stati commessi nell’ambito di un medesimo disegno criminale oppure quando la medesima persona è imputata di più reati commessi con una sola azione. Il domicilio dal difensore non basta per l’assenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2019 Per dichiarare l’imputato assente al processo non basta l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio. Il giudice, anche in presenza di altri elementi, deve in ogni caso verificare che tra avvocato domiciliatario e indagato si sia instaurato un rapporto professionale, tale da fargli ritenere con certezza che quest’ultimo sia al corrente del procedimento o si sia volontariamente sottratto alla conoscenza. Le Sezioni unite della Cassazione, hanno anticipato con un’informazione provvisoria, la soluzione relativa alla legittimità della celebrazione del processo in assenza, nel caso in cui la dichiarazione sia fondata sul presupposto che l’indagato abbia eletto il domicilio presso il difensore d’ufficio. La sezione remittente ricorda che, con la legge 67/2014, è stata soppressa la contumacia lasciando in piedi solo la “presenza - assenza”. E il processo in assenza è consentito solo a precise condizioni, senza le quali la mancata comparizione dell’imputato impone la sospensione del procedimento e della prescrizione del reato. Ai fini della valutazione della conoscenza (articolo 420-bis del Codice di rito penale) i giudici valorizzano l’interpretazione secondo la quale la garanzia dell’elezione di domicilio, fatta al momento dell’identificazione da parte della polizia giudiziaria, e riferita al difensore d’ufficio, non legittima la dichiarazione in assenza. Nell’ordinanza i giudici precisano che la lettura, anche se si è formata prima della legge 67/2014, va applicata anche alle nuove disposizioni, emanate proprio per fronteggiare le criticità segnalate nel processo per contumacia e per prevenire processi a carico di inconsapevoli. All’orientamento adottato si era contrapposta la tesi della validità della notificazione all’imputato presso il difensore d’ufficio domiciliatario, indicato nel corso delle indagini preliminari. Una scelta giustificata dalla presunzione legale di conoscenza del procedimento prevista dall’articolo 420-bis comma 1, superabile solo se risulta (articolo 420-ter, comma 1) che l’assenza è dovuta ad un’assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. I giudici del rinvio si chiedevano poi se, nel caso si ritenesse insufficiente l’elezione del domicilio, questa possa diventare adeguata grazie alla convergenza di altri elementi che portino a concludere per la conoscenza. E la risposta delle Sezioni unite é no. Anche in presenza di altri “indizi” il giudice non può presumere ma deve verificare che tra difensore e assistito si sia stabilito un contatto. La buona fede tutela i crediti della banca dalla confisca dei beni del mafioso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 3 dicembre 2019 n. 49154. Alla banca “in buona fede” - di regola - non può essere negata la prededucibilità dei propri crediti, derivanti dalle “scoperture” nei rapporti di conto corrente con il soggetto sottoposto alla confisca dell’intero complesso aziendale nell’ambito del procedimento di prevenzione antimafia. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 49154 di ieri, ha accolto il ricorso della banca che sosteneva come la tutelabilità dei propri crediti derivasse direttamente dall’autorizzazione del giudice delegato al subentro degli amministratori giudiziari nei contratti di conto corrente e di apertura di linee di credito stipulati col soggetto “proposto”. Il giudizio di rinvio - In sede di rinvio, secondo la sentenza di annullamento della Cassazione, si dovrà accertare se il giudice delegato avesse specificatamente valutato ed effettivamente provato la sussistenza della buona fede da parte della banca al momento di autorizzare l’operazione di “ristrutturazione e riscadenzamento” dei debiti pregressi. Non è quindi scontato che l’atto autorizzatorio in sé garantisca la buona fede del creditore con la conseguente inopponibilità della confisca. Inoltre, la procedura ablativa si è evoluta nel senso dinamico e non statico. Cioè, la gestione dei beni in sequestro garantisce dove possibile l’operatività dei complessi aziendali sotto procedura. Dal complesso dei diritti privatistici e delle finalità pubblicistiche coinvolti e da coordinare in questo tipo di vicende deriva il riconoscimento dei crediti sorti durante l’amministrazione giudiziaria, ossia la loro prededucibilità, prima dell’acquisto a titolo originario da parte dello Stato dei beni confiscati. Piemonte. Garante regionale dei detenuti, confermato il radicale Mellano di Mariachiara Giacosa La Repubblica, 4 dicembre 2019 La Lega fa marcia indietro, sfuma la nomina dell’investigatore privato di Verbania. La Lega fa marcia indietro e sceglie di confermare Bruno Mellano come garante dei detenuti del Piemonte. La decisione è stata ufficializzata dal voto unanime del Consiglio regionale, arrivato dopo una settimana di braccio di ferro all’interno del gruppo del Carroccio. La scelta iniziale del centrodestra infatti era caduta su un uomo della Lega Massimo Colombo 52 anni investigatore privato di Cannobio. La prima votazione, la scorsa settimana, non ha però ottenuto il quorum dei due terzi dei consiglieri regionali, e nel centrodestra ha cominciato a organizzarsi una fronda favorevole alla riconferma dell’esponente dei radicali che è stato garante negli ultimi 10 anni. Alla fine il capogruppo Alberto Preioni, che aveva sponsorizzato la nomina di Colombo - “perché ha il curriculum: è un criminologo ed è adatto a questo incarico” - ha ripetuto più volte - ha optato per una scelta meno divisiva venendo incontro alle richieste della minoranza nel suo partito, degli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia che si sono schierati per la riconferma di Mellano e soprattutto del centrosinistra che non vedeva con favore la nomina di una figura senza esperienza in ambito carcerario. Anche le associazioni Antigone e Asgi, e i garanti comunali piemontesi, si erano schierati contro la scelta di Colombo chiedendo al consiglio regionale una valutazione accurata dei profili e delle competenze dei candidati. Alla fine così è stato. Ieri la riunione del gruppo della Lega prima e dei capigruppo del centrodestra poi, non avevano sciolto il nodo, la soluzione è arrivata questa mattina e oggi il consiglio regionale con voto unanime ha confermato Bruno Mellano come garante dei detenuti del Piemonte. Udine. Tra delitto e castigo una tragedia senza fine di Franco Corleone* Messaggero Veneto, 4 dicembre 2019 Francesco Mazzega si è ucciso dopo la conferma della condanna a trenta anni di reclusione per avere strangolato la fidanzata Nadia Orlando, uno dei troppi casi di violenza estrema contro le donne. Il suicidio dopo due anni dall’assassinio segna una sconfitta per tutti. Per la giustizia e per la società. Non darà neppure soddisfazione ai parenti della vittima e raddoppierà il dolore per i genitori del colpevole. Di fronte a un atto di distacco dalla vita, molte volte insondabile nelle motivazioni, il silenzio è d’obbligo e vale come un segno di rispetto. Eppure una riflessione si impone. Non c’è mai giustificazione per la soppressione della vita umana, per un processo di civilizzazione in Italia gli omicidi sono notevolmente diminuiti anno dopo anno, ma contemporaneamente sono aumentate le uccisioni di donne da parte di mariti, fidanzati, amanti. Uomini incapaci di sopportare la libertà e l’autonomia delle donne che scelgono la violenza e addirittura di dare la mone. Non è il primo caso di omicidi che si suicidano. E il peso della colpa o l’incapacità di sopportare una vita senza speranza o addirittura di non reggere l’espiazione? Il senso della pena secondo la migliore interpretazione della Costituzione non è vendetta e neppure pura retribuzione, ma intende offrire 1 occasione di ripensare alla ferita infetta a un altro essere umano e a ricucire la lacerazione del tessuto sociale. Proprio sabato nel carcere di Udine abbiamo ricordato il sogno di Maurizio Battistutta di un carcere diverso e ho sottolineato che nell’istituto d i via Spalato sono accadute tante tragedie e morti. In particolare due morti per suicidio nel 2012 e ancora nel 2018 due suicidi di una transessuale e di un giovane pachistano. In questi casi erano persone che non avrebbero neppure dovuto stare in carcere e hanno pagato la loro fragilità. Per Mazzega il carcere sarebbe stato il luogo adatto? Qualcuno sicuramente pensa che di fronte a un delitto orribile sarebbe dovuto marcire in carcere. La sua uscita di scena lascia lo spazio solo alla pietà. La sua dichiarazione spontanea riportata dalla cronaca del processo sul non meritare il perdono e di non avere il coraggio neppure di chiederlo è sconvolgente. È il frutto di una retorica privatistica della giustizia e la manifestazione di una incapacità di assunzione di responsabilità. Eppure qualche parola va detta anche rispetto alia sentenza. Una condanna a trenta anni con il rito abbreviato è davvero impressionante. La richiesta di inasprimento della custodia cautelare per il pericolo di fuga è rimasta insoddisfatta, ma lascia perplessi. Infine, la richiesta di una misura di sicurezza di tre anni dopo la fine della pena carceraria mi trova assolutamente contrario: significa fare ricorso a uno strumento di archeologia criminale che dovrebbe essere cancellato. Sarebbe bene che anche i giudici ricordassero le parole che Aldo Moro rivolgeva ai suoi studenti dell’Università nel 1976 sul carattere della pena giusta: “L’idea della proporzionalità dice che la pena deve essere commisurata al reato, adeguata al reato. Quindi la pena non dev’essere, se il reato è grave, troppo leggera, cioè sproporzionata, inadeguata a far vivere quel rimprovero sociale dal quale ci attendiamo la restaurazione dell’ordine giuridico. Non deve essere, però, neppure quantitativamente troppo pesante si da rappresentare un carico che per la sua eccessività diventa per ciò stesso, esso pure, crudele e disumano e, quindi non dà alla pena quella risposta pacata, giusta, appassionata che è propria della pena. Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta”. Un richiamo alle ragioni dell’umanità della giustizia. *Ex sottosegretario atta Giustizia e Garante per i diritti dei detenuti Palermo. Apprendi (Antigone): “All’Ucciardone molte attività in declino” di Andrea Casabona ilsicilia.it, 4 dicembre 2019 “Ieri mattina, 3 dicembre, ho visitato il carcere dell’Ucciardone, accompagnato dal Comandante della Polizia Penitenziaria Aiello. La struttura, per ovvie ragioni, risente delle sue lontane origini, malgrado diverse sezioni sono state interessate da ristrutturazione e ammodernamento. Non vi è dubbio che il carcere, in questi anni, ha visto una gestione illuminata, tradotta in numerose attività, dove il personale tutto è stato partecipe al fine di migliorare le condizioni di vita del detenuto per quanto possibile”. È quanto afferma Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. “L’attività teatrale del maestro Lollo Franco - prosegue Apprendi - la creazione di un orto da parte della cooperativa In e Out, la sartoria, il pastificio Giglio, il centro diurno per detenuti con disturbi psichiatrici “Il vaso di Pandora”, tutte attività che oltre a dare lavoro ad alcuni detenuti ne hanno migliorato anche le condizioni psicologiche”. “Durante la mia visita di stamani, purtroppo, ho constatato che diverse attività sopra descritte sono in declino in quanto trascurate, ed in particolare l’orto completamente in stato di abbandono, in quanto è stato definitivamente chiuso il rapporto con la cooperativa che se ne occupava. Le attività del “Vaso di Pandora” risentono in maniera sensibile dell’assenza di alcune delle figure di riferimento che in passato si sono rivelate essenziali”. “La sartoria è totalmente inutilizzata, ed infine la spaccio alimentare, utile per alcuni generi alimentari e per l’igiene personale, è inspiegabilmente chiuso. C’è, evidentemente, un cambio di rotta al carcere Ucciardone. Mi auguro si tratti di una fase transitoria che presto possa ripristinare le attività suddette, utili alla qualità della vita dei detenuti”. Milano. Agente penitenziario salva neonata di una detenuta dell’Icam di Lorenzo Gottardo Libero, 4 dicembre 2019 La piccola, 40 giorni di vita, aveva la febbre e non respirava più: l’agente penitenziario l’ha portata di corsa all’ospedale. Una bambina di appena un mese, figlia di una detenuta dell’Icam, sarebbe morta se non fosse stato per Rinaldo Ruggiano, l’assistente capo della polizia penitenziaria. Quando la situazione si è aggravata, ha preso la bimba morente fra le braccia e l’ha portata di corsa all’ospedale, salvandole la vita. Se non fosse stato per la sua prontezza di riflessi quella bambina di appena un mese non sarebbe sopravvissuta. Sarebbe probabilmente morta tra le braccia della sua mamma in attesa di un supporto medico che a quell’ora è assente presso l’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) di via Macedonio Melloni. E invece la piccola è ancora viva perché l’assistente capo della polizia penitenziaria Rinaldo Ruggiano l’ha presa con sé e si è messo a correre verso il pronto soccorso del vicino ospedale Melloni permettendo al personale sanitario di salvarle la vita. Oggi Rinaldo, 46enne originario di Sant’Agata Dei Goti, provincia di Benevento, viene considerato come un eroe dai propri superiori e rappresentanti sindacali. La sua storia, poco a poco, si è fatta strada fino a raggiungere il ministro Alfonso Bonafede che, a fine novembre, Io ha chiamato al telefono per fargli i complimenti di persona. Poche parole, ma cariche di significato e apprezzamento: “Complimenti è stato bravissimo a comportarsi così”. Eppure, quando lo scorso 11 ottobre Rinaldo Ruggiano si è trovato davanti una situazione disperata, ha dovuto mettere da parte il regolamento e agire d’istinto per trovare una soluzione. Quel venerdì sera l’assistente capo 46enne era di turno presso la portineria dell’Icam, quando, verso le 21 circa, è arrivata una chiamata d’emergenza per segnalare come la temperatura corporea di una bambina di soli 40 giorni, figlia di una detenuta straniera di 35 anni, si fosse pericolosamente alzata a causa della febbre. La situazione avrebbe richiesto un supporto sanitario che però, all’interno della struttura, non è più disponibile nelle ore pomeridiane. La situazione però si è aggravata in fretta: Rinaldo Ruggiano ha visto la detenuta correre verso di lui urlando disperata con la bambina in braccio che non respirava più e, anzi, iniziava ad avere le labbra di un colore violaceo. L’assistente capo, capita la gravità di ciò che sta accadendo, ha agito con decisione. Ha preso tra le braccia la piccola, ha dato disposizioni a un collega di turno, affinché i cancelli dell’Icam restassero chiusi per impedire la possibile fuga di altre detenute, e poi si è immediatamente diretto verso il pronto soccorso del Melloni, arrivando appena in tempo per permettere ai medici di salvare con l’iperventilazione ossigenata la bambina. I primi a complimentarsi con Rinaldo sono stati i medici stessi quando lo hanno informato che, grazie al suo intervento, la piccola era ormai fuori pericolo. Poi è giunto il tempo dei colleghi e delle note ufficiali sugli organi d’informazione della polizia penitenziaria. Infine, la chiamata del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. L’assistente capo Ruggiano è stato definito da molti come “un eroe, uno di quelli sempre pronti ad affrontare problemi e situazioni difficili”. Lui però è rimasto umile, consapevole di ciò che ha fatto e di un’altra importante verità spesso dimenticata. “Gli eroi sono quei colleghi che lavorano ogni giorno con il massimo della professionalità in realtà anche difficili e pericolose, ma sempre conservando quell’umanità di cui la polizia penitenziaria non può fare a meno”. Roma. M.A.MA, a Rebibbia femminile la casa dell’affettività di Renzo Piano garantedetenutilazio.it, 4 dicembre 2019 La struttura verrà destinata ai colloqui fra le detenute e i propri congiunti. Un prefabbricato in legno nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia realizzato con l’aiuto di alcuni detenuti addetti alla falegnameria del carcere Mammagialla di Viterbo. Si tratta del M.A.MA, Modulo per l’Affettività e la Maternità, a disposizione delle donne detenute a Rebibbia: una struttura in cui svolgere colloqui con i propri congiunti per il sostegno della genitorialità e della familiarità. È uno dei quattro progetti presentati da Renzo Piano al Senato, assieme a quelli di Padova, Milano e Siracusa, inseriti nell’iniziativa “G124 anno 2019”, con l’obiettivo di approfondire i problemi delle periferie e migliorarne la vivibilità. La Casa dell’Affettività di Rebibbia è stata disegnata da un gruppo di studenti dell’Università della Sapienza diretti dalla professoressa Pisana Posocco, sotto la supervisione dello stesso Renzo Piano. Grazie alla collaborazione interistituzionale con l’ufficio tecnico centrale del Dap e con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise e con il contributo economico di privati, le parti del modulo sono state realizzate nella falegnameria della casa circondariale di Viterbo da un gruppo di detenuti addetti alla lavorazione, coordinati dal direttore tecnico convenzionato con l’istituto. Alcuni detenuti, trasferiti temporaneamente a Rebibbia, hanno realizzato la messa in opera del modulo. Gli ultimi interventi di montaggio sono stati effettuati lo scorso 27 novembre alla presenza di Renzo Piano. La Casa dell’Affettività vuole essere un luogo di incontro tra detenute e famiglie che non sia quello anonimo e sorvegliato dei colloqui tradizionali, uno spazio che ricrei la dimensione domestica e che ricostituisca momentaneamente il nucleo familiare. Civitavecchia (Rm). “Lo sport entra nelle carceri”, il recupero passa dalle attività fisiche etrurianews.it, 4 dicembre 2019 Venerdì 29 novembre, in concomitanza con gli altri istituti penitenziari del Lazio, si è concluso anche a Civitavecchia con una grande festa finale, il progetto “Lo sport entra nelle carceri” che rientra in una più ampia progettazione “Coni e Regione, compagni di sport” presente in tutte le sue variabili grazie all’intervento del presidente del comitato regionale Coni Lazio Riccardo Viola e alla collaborazione del fiduciario Stefania Di Iorio. Il progetto è stato subito accolto con entusiasmo dalla direttrice degli istituti di Civitavecchia Patrizia Bravetti. L’obiettivo principale del progetto ha come fulcro centrale il recupero dei detenuti tramite il coordinamento di varie attività sportive promosse presso le strutture penitenziarie cittadine per promuovere salute e benessere grazie ai benefici che l’attività fisica detiene collaborando ad un processo di rieducazione attraverso le discipline sportive proposte Tanti sono stati i detenuti dei tre istituti civitavecchiesi (reclusione, circondariale maschile e femminile) che durante l’anno sono stati coinvolti dai tecnici delle Federazioni sportive di riferimento nella pratica continuativa di alcune discipline sportive, e tanti sono stati i tecnici che si sono alternati nelle varie fasi del progetto: i Mister Paolo, Roberto, Marino, Carmine per il Calcio, Elia per gli scacchi, Marco per il tennis, Marzia e Marianna per la sezione femminile, hanno proposto le attività sportive nel corso del 2019 a tutti i detenuti che hanno voluto aderire al progetto. Le attività sono state proposte, pensate ed organizzate in modo da essere “strumento educativo” quale mezzo attraverso il quale lavorare sulle relazioni, sulle regole, sui valori come la legalità e la cooperazione, sul significato della sconfitta e della vittoria e sulla “gestione delle frustrazioni”. La festa finale ha avuto come fulcro una partita di calcio dove i detenuti che hanno partecipato alle varie attività sportive si sono fusi con una rappresentativa di tecnici e atleti coinvolti nel progetto ed hanno dato vita ad un triangolare molto interessante. I detenuti sono stati poi premiati con coppe e medaglie che verranno conservati dagli educatori. Affiancati alle figure istituzionali interne all’istituto penitenziario rappresentato dalla vice direttrice e dal comandante della Polizia Penitenziaria, erano presenti anche alcune istituzioni del territorio: L’onorevole Alessandro Battilocchio che è rimasto favorevolmente colpito dal progetto ed ha affermato come per lui è un onore partecipare a iniziative così rilevanti sul territorio. “Questo dello sport nelle carceri è un ottimo esempio di come l’attività sportiva può rappresentare un elemento positivo per contribuire non solo al mantenimento di uno stato soddisfacente della salute psico-fisica, ma anche per migliorare la convivenza all’interno dell’Istituto, contribuendo ad abbassare il livello di tensioni e di conflitti. Un plauso alla direttrice sempre propensa all’introduzione di progetti educativi nell’istituto”. L’Assessore alle politiche sociali di Civitavecchia, Alessandra Riccetti che ha sottolineato come “lo sport e il sociale possono raggiungere insieme grandi obiettivi. Civitavecchia deve ringraziare il presidente del Coni Comitato Regionale Lazio, la Regione e l’istituto di pena per credere in progettualità così strutturate che servono ai territorio per crescere e trasmettere i corretti valori educativi propri dello sport”. Il consigliere e vicepresidente commissione sport Matteo Iacomelli sempre presente alle varie iniziative sportive proposte al territorio. “Porto i saluti del sindaco Ernesto Tedesco e di tutta la commissione sport. Siamo molto contenti che il Coni comitato regionale Lazio sia presente sul territorio con questi progetti realizzati con professionalità e speriamo che già da gennaio 2020 si possano programmare anche per la prossima annualità altri progetti aventi finalità sportive così importanti”. Salerno. Il teatro abbatte le mura del carcere di Carmen Autuori La Città di Salerno, 4 dicembre 2019 Il teatro rompe le barriere del carcere. È questo il senso della rappresentazione messa in scena ieri presso la Casa Circondariale di Fuorni dalla Compagnia Teatrale della Sezione Femminile “Sto Nervosa”. Il primo incontro con il pubblico è frutto del laboratorio teatrale curato dall’attrice e regista Federica Palo che è anche ideatrice, insieme a Raffaele Bruno, del progetto “Gli ultimi saranno”. Progetto, quest’ultimo, che ha come scopo quello di portare nelle carceri italiane la musica, il canto, il teatro. Ieri cinque detenute si sono confrontate col pubblico formato dai familiari, dagli ospiti delle sezioni maschili, da numerosi agenti della Polizia Penitenziaria, dal comandante Gianluigi Lancellotta e dal direttore Rita Romano. “Per me il teatro è gioia, divertimento ma, soprattutto, libertà - dice Enza, una delle attrici - Oggi mi sono spogliata dei panni di detenuta e anche del mio cognome, perché qui siamo un cognome, e sono diventata di nuovo Enza, quella che conoscono fuori”. Antonella ha invece avuto, da sempre, una grande passione per il canto: “Quando ero fuori il canto mi teneva compagnia, mi faceva dimenticare il disordine di cui era avvolta la mia esistenza. Avrei voluto studiare canto - racconta - ma la vita non me lo ha permesso. Oggi voglio cantare “Passione eterna”, e la voglio cantare con passione, ma anche con un po’ di… rabbia”. Il teatro è anche la trasposizione sulla scena dei propri sogni. E Cinzia ha sempre avuto un sogno: quello di indossare l’abito da sposa, emblema di femminilità. Sulla scena interpreta, dunque, una sposa alle prese con i preparativi per il suo matrimonio, ma rimane sola con una manciata di petali di rosa che getta tra il pubblico: il futuro marito l’ha abbandonata sull’altare. E poi c’è Anna che immagina di stare a casa alle prese con la cucina e con i problemi di due figli adolescenti; e Enzina che, con uno struggente monologo, rimpiange di non aver potuto prendersi cura del suo compagno di vita, così come gli aveva promesso sull’altare: era arrivato “l’uragano” carcere a sconvolgere le loro esistenze. Ad accompagnare lo spettacolo il gruppo musicale tutto al femminile le Sesèmamà che, con la loro musica di contaminazione, sono una realtà tra le più interessanti del panorama musicale partenopeo. Il conflitto tra Creonte e Antigone che interroga la scelta di disobbedire di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 4 dicembre 2019 “Il potere e la ribelle”, di Nello Rossi e Livio Pepino per le Edizioni Gruppo Abele. Un dialogo intorno al rapporto insoluto tra legge e giustizia, tra il potere e la libertà individuale. La forma del dialogo consente di andare al cuore del problema, di procedere per argomenti e contro-argomenti, aiuta a svelare la debolezza o le contraddizioni profonde nelle altrui posizioni. Dunque molto bene hanno fatto Nello Rossi e Livio Pepino, entrambi per lungo tempo con funzioni interne alla giurisdizione ai più alti livelli, a utilizzare la struttura dialogica nel loro bellissimo libro “Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo” (Edizioni Gruppo Abele). Il loro è un dialogo intorno al rapporto insoluto e insolubile tra legge e giustizia, tra il dovere di rispettare le leggi e la disobbedienza civile, tra il potere e la libertà individuale, tra la sovranità intangibile dello Stato e il rispetto universale della dignità umana, tra la legge illegittima e il dovere di resistenza. Nello Rossi e Livio Pepino, immedesimandosi rispettivamente in Creonte (che nel nome della legge vieta la sepoltura del traditore Polinice) e Antigone (che rispondendo a una diversa sollecitazione di giustizia disobbedisce agli ordini di Creonte e offre sepoltura al fratello traditore fino a pagarne conseguenze estreme) dialogano serratamente su questioni di principio rinviando paradigmaticamente alla triste attualità. Cosa accadrebbe in una società qualora ciascuno di noi si ritenesse legittimato a non rispettare la legge nel nome di una propria etica individuale? Può o deve la legge essere messa in discussione pubblicamente da chi si assume la responsabilità di violarla? Nella tragedia di Antigone il tema che ritorna più spesso è quello del conflitto. Sia nella versione di Sofocle che in quella di Jean Anouilh tutto si dipana intorno ai conflitti. Il conflitto tra Antigone e Creonte è sia reale che simbolico. È il conflitto tra il corpo della donna e la legge, tra la condizione femminile e quella di uomo, tra due antropologie. È anche un conflitto tra due opposte visioni etiche ma allo stesso tempo tra due opposte visioni politiche. È il conflitto tra il governo degli uomini e il governo delle leggi, tra la nonviolenza e la violenza, tra la responsabilità sociale e l’egoismo individuale, tra l’immedesimazione e l’identità. Il conflitto tra Antigone e Creonte è una somma eterogenea di conflitti. Se dovessimo trovare un contenitore più ampio di conflitti che li riassume tutti, con la propria scelta di disobbedire Antigone solleva il grande conflitto tra la dignità umana e il diritto. È questo un conflitto che sta tutto dentro la legge positiva e non deve essere collocato fuori da essa. La dignità umana non è qualcosa che sfugge al diritto essendo ben all’interno del sistema giuridico. Nonostante la sua origine sia non giuridica, la sua finalizzazione è nel diritto svelandone le lacune e le fallacie. La sua forza è nell’assenza di una definizione. La dignità umana aiuta il diritto a rigenerarsi e a non chiudersi nella sua roccaforte formale. Su questo sia Rossi che Pepino sono d’accordo. Nessuno dei due si colloca fuori da questa prospettiva. Il libro, nonostante la sua forma di dialogo, è un vero e proprio manuale del buon senso. Un manuale di diritto ma anche un testo di deontologia professionale per chi si appresta a fare il giudice o l’avvocato. Alla fine della sua lettura chi ha sempre elogiato Antigone la ribelle comprenderà le ragioni di Creonte, il suo senso delle istituzioni, anche quando le istituzioni sono quelle giudiziarie. Dall’altra parte, chi ha sempre affermato che non si potesse dar torto a Creonte e alla supremazia della legge si troverà di fronte ad argomenti e storie che invece legittimano scelte di disobbedienza, purché si tratti di una disobbedienza rivendicata al punto da sopportarne le conseguenze legali. È questa la forza del libro, ossia la sua capacità di capovolgere le proprie originarie granitiche posizioni. Sono questi tempi difficili, come si evince dalla lettura del libro di Rossi e Pepino. Tempi nei quali chi salva una vita è considerato un criminale. Il dialogo tra Antigone e Creonte non può prescindere dal dato storico. È vero che il conflitto tra legge e giustizia ha un valore astratto e universale, ma è anche vero che un conto è disobbedire a in una democrazia consolidata, altro in un regime illiberale. Il carcere? Pieno di emarginati, non di corrotti, evasori e bancarottieri di Antonio Salvati globalist.it, 4 dicembre 2019 Tre libri inquadrano la forte ingiustizia del sistema carcerario, chi finisce dietro le sbarre e le possibilità di cambiare. Contro chi predica odio e vendetta. Non sono pochi i libri che trattano diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, sostiene Vincenzo Paglia nel volume scritto insieme a Raffaele Cantone, “La coscienza e la legge” (Laterza 2019, pp. 169, € 16.00). Malgrado il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti, siamo ben lontani da una soluzione soddisfacente. Eppure i padri costituenti tracciarono con estrema chiarezza che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.)”, definendo, inoltre, la proporzionalità della pena con il crimine compiuto. E, infine, che la pena del carcere deve esaurirsi nella privazione della libertà personale del detenuto, senza l’imposizione, come spesso accade, di misure aggiuntive, come l’assenza di qualsiasi privacy, le gravi condizioni sanitarie, la mancanza di lavoro, la privazione dell’affettività, etc. Paglia: detenuti dimenticati e abbandonati Occorre rispettare tali indicazioni per restituire al carcere quel “senso di umanità” di cui, appunto, parla esplicitamente la Costituzione e che permette - osserva giustamente Paglia - “di salvare sia la dignità per i detenuti sia la speranza di una loro futura redenzione”. Tanti detenuti - ricorda Paglia - sono per lo più dimenticati durante la loro detenzione e soprattutto sono abbandonati a loro stessi una volta usciti dal carcere. È illusorio pensare che l’inasprimento delle pene, oppure la costruzione di nuove carceri, favoriscano l’affermarsi della giustizia. È opportuno il richiamo di Paglia alla nota affermazione evangelica: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Matteo 25,36). Sono poche parole che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Sono le parole con cui Gesù in certo modo chiuse la sua stessa vicenda terrena. Gesù - seguendo la narrazione dei Vangeli - visse in prima persona le esperienze dei perseguitati dalla “giustizia” umana, fino alla condanna a morte pur essendo innocente, come lo stesso Pilato riconobbe pubblicamente. Ricorda Paglia: “Gesù fece esperienza della rappresaglia e dell’arresto, provò l’angoscia sino a sudare sangue, subì l’arresto, la detenzione, il processo, le false testimonianze, le false accuse, le derisioni dei carcerieri, e infine il supplizio della morte in croce. Al culmine del suo dramma seppe trovare anche le parole giuste per confortare uno dei suoi due compagni di croce”. Pazé: patrie galere per gli emarginati, meno per bancarottieri, evasori e corrotti Da anni, le carceri sono piene di ladruncoli, piccoli spacciatori, immigrati irregolari, oltre che - s’intende - di qualche omicida, stupratore, mafioso o camorrista. In realtà, bancarottieri, evasori fiscali, corrotti e corruttori con le patrie galere hanno poco a che fare. Ciò che per gli emarginati è la regola, per i benestanti è l’eccezione: per essi l’unica sanzione è la parcella dell’avvocato. Basta scorrere le statistiche giudiziarie per vedere la realtà impietosa del meccanismo repressivo. La legislazione recente ha giocato un ruolo importante. Infatti, a godere di tutela rafforzata sono i patrimoni individuali e ad essere conseguentemente perseguiti con particolare rigore sono i reati “di strada”, abitualmente commessi da chi vive ai margini e non ha nulla da perdere: furti, scippi, rapine. Mentre - denuncia Elisa Pazé nel suo volume “Giustizia. Roba da ricchi” (Laterza, 2017, pp. 144, € 14.), in cui elenca le modalità con cui sono state e sono perseguite le condotte ‘antisociali’ dei poveri - “debole e non adeguato è invece il presidio di quei beni - aria, acqua, suolo - che sono patrimonio comune, come se ciò che è di tutti non fosse in realtà di nessuno”. Quando vanno in galera i poveri “nessuno si chiede se le intercettazioni abbiano leso la riservatezza, se sia stato violato il segreto investigativo o se la carcerazione preventiva sia giustificata, quando si sfiora qualche personaggio eccellente fioccano le polemiche contro lo straripare della magistratura, la “giustizia ad orologeria”, la politicizzazione e il protagonismo di certe procure. Il colpevole diventa un perseguitato e a suscitare sdegno non è il reato commesso, ma il fatto che la televisione e i giornali ne diano notizia”. Savasta: cambiare è possibile anche in carcere Sull’umanità dolente del carcere, si sofferma il bel libro di Ezio Savasta “Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere” (Infinito Edizioni, 2019, pp. 180, € 14,00). Savasta descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, smontando gli innumerevoli luoghi comuni che gravitano sul mondo dei detenuti. Attraverso il racconto di numerose vicende che spesso hanno dell’incredibile, l’autore conduce il lettore ad appassionarsi con le tante storie con le quali si imbattuto dopo una frequentazione ultradecennale nelle carceri, soprattutto quelle romane “Regina Coeli” e “Rebibbia”, realtà tutte inserite nel tessuto urbano della Capitale, seppur, come sempre accade con gli istituti penitenziari, mondi isolati, di cui tutti cercano di dimenticarsi. Non potevo non leggere il libro di Ezio con il quale, insieme ad altri amici della Comunità di Sant’Egidio, abbiamo condiviso tante storie e vicissitudini penitenziarie, a partire dagli inizi degli anni novanta. Ma Liberi dentro non è solo il volume di un amico. Potremmo dire che è un libro sull’amicizia, sulle amicizie di alcune delle persone detenute, quasi tutte straniere, vissute con l’autore che viene “dalla libertà”. Amicizie che attestano che, dentro le mura del carcere, c’è un enorme potenzialità umana, con una sua dignità, che aspetta di essere compresa, voluta bene, per rimettersi in gioco, per tirare fuori il meglio di sé (emblematici gli esempi di detenuti che desiderano contribuire ai progetti di solidarietà di Sant’Egidio all’esterno del carcere). In tal senso, il libro di Savasta non è un libro “tecnico”, per addetti ai lavori, anzi. È veramente un libro per tutti, anche per coloro che non hanno mai avuto nessun contatto con il carcere. Se ne sentiva il bisogno di questo libro. Servono narrazioni dense di humana pietas. Soprattutto in un tempo in cui prevale una mentalità vendicatrice verso i colpevoli. La conseguenza logica di questo atteggiamento porta a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i numeri di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). Un tempo in cui si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Eppure gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso. Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: “Che corteo!”. “Cucinare al fresco”. Lo chef Moreno Cedroni e progetto realizzato nelle carceri crisalidepress.it, 4 dicembre 2019 Idee da mettere sotto l’albero? Consigli per i pranzi e le cene di Natale? Proposte per un aperitivo fra amici per lo scambio degli auguri? No panic! Ci pensano i detenuti che, dietro alle sbarre, hanno realizzato una nuova pubblicazione con i piatti delle festività. In libreria, da venerdì 7 dicembre, torna una versione molto glamour di “Cucinare al fresco” - Christmas Edition, il progetto avviato due anni in alcune carceri lombarde che vede proprio i detenuti alle prese coi fornelli, coordinati dalla giornalista e PR comasca Arianna Augustoni. Alla libreria Ubik di Como - Piazza San Fedele sarà messo in vendita il ricettario, stampato in 150 copie e finanziato dalla BCC di Cantù. Un contenitore di sapori e di colori firmato dallo chef di fama internazionale Moreno Cedroni, patron del ristorante La Madonnina del pescatore di Senigallia, due Stelle Michelin, di Anikò, sempre a Senigallia e del Clandestino sushi bar di Portonovo. La pubblicazione, 44 pagine di sensazioni, di pozioni magiche, di idee e soprattutto di fantasie culinarie proposte dai quattro gruppi di detenuti che, con carta e penna, per qualche mese, si sono impegnati, ogni settimana, a chiacchierare di cucina e a tradurre le loro idee in scritti. La pubblicazione, in vendita a un prezzo simbolico, sarà un valido regalo da mettere sotto l’albero o da sfogliare in cucina quando si è alla ricerca di un’idea e di una proposta per deliziare il palato di amici e parenti. Acquistare una copia di “Cucinare al fresco - Christmas Edition” rappresenta di sicuro un comportamento propositivo per credere che, nella vita, c’è sempre una seconda chance. L’intero ricavato dalla vendita del libro sarà reinvestito per nuovi ricettari e per la realizzazione di un periodico dedicato alla cucina. In libreria Ubik da venerdì 7 dicembre il ricettario scritto dai detenuti delle carceri di Como, Varese e Milano (Bollate e Opera). Razzismo. Non tutto può essere libertà di pensiero di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 dicembre 2019 “Si crede che i negazionisti esprimano un’opinione: essi perpetuano il crimine. E pretendendo d’essere liberi pensatori, apostoli del dubbio e del sospetto, completano l’opera di morte. Occorre una legge contro il negazionismo, perché esso è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio”. Tredici anni fa, proprio sul Corriere, Bernard-Henri Lévy spiegò come meglio non si poteva perché certe parole, come quelle scritte sulla sua pagina facebook da Emanuele Castrucci siano così immonde da essere indifendibili e men che meno “assolte” appellandosi, come ha fatto il professore di filosofia dell’università di Siena alla libertà di pensiero o addirittura alla Costituzione. Nata proprio dalla democrazia riconquistata dopo la guerra a Benito Mussolini e al suo sodale Adolf Hitler che oggi il docente nero difende. Quelle schifezze scritte da Castrucci schierandosi dalla parte del Führer (“Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”, cioè gli ebrei) possono però fare ribrezzo, ma non stupire. Sono anni, infatti, che pezzi della destra rivendicano il “diritto” di dire tutto ciò che passa loro per la testa. E hanno sempre trovato qualcuno che la buttava in cagnara. O addirittura difendeva il revisionismo. Basti rileggere quello che diceva Roberto Castelli ai tempi in cui era addirittura ministro della Giustizia, contro l’idea di una legge europea contro razzismo e xenofobia: “La definizione che si sta dando a livello europeo del reato di razzismo e xenofobia ha tratti secondo me illiberali e incostituzionali. È un mostro giuridico definire questo reato il convincimento di essere superiore ad un’altra persona perché questa appartiene ad un’altra razza”. Ansa 10 aprile 2002. Di più: “Siamo molto preoccupati, perché qui si entra nel terreno minato della libertà di pensiero”. L’antisemitismo? “Va contrastato innanzitutto sul piano culturale e non con direttive quadro, come quella sul razzismo e la xenofobia, che presenta il pericolo di coartare la libertà di opinione”. Di più ancora: “In democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchezze più grandi che crede”. E ci stupiamo che poi un professore rivendichi pubblicamente il “diritto” di dire cose spaventose completando, come scrisse Bernard-Henri Lévy, “l’opera di morte”? Migranti. “Illegittimo respingere il migrante che chiede asilo” di Leo Lancari Il Manifesto, 4 dicembre 2019 Il Tribunale civile di Roma accoglie il ricorso presentato da 14 profughi eritrei. Il migrante respinto illegalmente ha diritto a rientrare in Italia e presentare richiesta di asilo. A stabilirlo è stato il Tribunale civile di Roma accogliendo il ricorso presentato da 14 cittadini eritrei che nel 2009 vennero bloccati in mare insieme ad altri profughi dalle autorità italiane e consegnati alle motovedette libiche. Una sentenza “storica” per la sezione italiana di Amnesty International e Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, che hanno assistito il gruppo di profughi nel ricorso, destinata probabilmente ad avere ripercussioni anche su quanto accade oggi: “Ci sono molte forme di respingimento illegale”, spiega infatti l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, autore del ricorso con la collega Cristina Laura Cecchini. “Se arrivo a Lampedusa e non mi viene consentito di presentare domanda di protezione internazionale mi trovo di fronte a un respingimento illegittimo. Così come accade in alcuni casi negli aeroporti”. La vicenda ha inizio dieci anni fa quando ministro dell’Interno era il leghista Roberto Maroni e l’Italia aveva firmato il Trattato di amicizia con la Libia che prevedeva anche la possibilità di rimandare nel Paese nordafricano i migranti intercettati in mare. Cosa che accade nel giugno 2009 quando due barche con a bordo in tutto una novantina di persone - la maggior parte dei quali di origine eritrea - vengono intercettate, spiega Amnesty, “dalla Marina militare”. “I profughi vengono fatti salire a bordo e rassicurati che sarebbero stati portati in Italia”, ricostruisce Fachile. Invece la nave inverte la rotta e punta verso la Libia fino a incontrare le motovedette del Paese nordafricano. Quando i migranti capiscono quanto sta per accadere loro, mettono in atto un inutile quanto vano tentano di ribellione. “Con la forza vengono costretti a trasferirsi sulle motovedette libiche”, prosegue Fachile secondo il quale violenze subite dai migranti sono documentate da una serie di fotografie scattate dalle forze dell’ordine e che l’Asgi è riuscita ad avere. Una volta in Libia i migranti vengono rinchiusi in una prigione dalla quale alcuni riescono ad uscire dopo aver pagato un riscatto alle milizie. Una volta liberi alcuni riescono a imbarcarsi nuovamente e a raggiungere l’Europa. Altri, invece, falliti i tentativi di attraversare il Mediterraneo, si dirigono verso Israele dove ottengono un permesso di soggiorno rinnovabile ogni tre mesi. Ed è qui che Amnesty International li incontra e li mette in contatto con i legali dell’Asgi. “Siamo andati a Tel Aviv e abbiamo raccolto le procure per avviare una causa che all’inizio ci sembrava difficile da vincere”, ammette Fachile. L’Italia è già stata condannata per i respingimenti dalla Corte europea per i diritti dell’uomo con la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa, ma nell’accogliere il ricorso i giudici del Tribunale civile di Roma, spiega una nota di Amnesty, “si sono riferiti a quanto previsto dall’articolo 10 comma 3 della nostra Costituzione che riconosce allo straniero il diritto di asilo e che deve ritenersi applicabile anche quando questi di trovi fuori dal territorio dello Stato per cause a esso non imputabili”. La sentenza, prosegue Amnesty, “è estremamente rilevante e innovativa perché laddove riconosce la necessità di ‘espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente sul territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della carta dei diritti dell’Unione europea”. I giudici hanno quindi condannato l’Italia a consentire l’ingresso nel Paese dei 14 profughi che hanno presentato il ricorso in modo da permettere loro di fare richiesta di asilo, stabilendo inoltre un risarcimento di 15 mila euro per ciascuno di loro. Che conseguenze può avere adesso la decisione dei giudici? Al di là degli allarmi leghisti (il senatore Roberto Calderoli ha già definito la sentenza “un precedente pericoloso e inquietante” che “rischia di essere l’apri pista per l’arrivo di decine di migliaia di immigrati”) effetti si potrebbero avere sul Memorandum firmato con Tripoli dall’ex premier Paolo Gentiloni e confermato di recente dal governo giallo rosso. “In quel documento - conclude infatti Fachile - non sono previsti i respingimenti, ma l’Italia fornisce ai libici mezzi navali e apparecchiature radar, nonché li informa su dove si trovano le barche con i migranti. A noi non sembra molto diverso dal riconsegnarli alle autorità di Tripoli”. Isis. Quante donne e bambini italiani ci sono nelle prigioni curde in Siria di Marta Serafini Corriere della Sera, 4 dicembre 2019 L’8 ottobre, quando il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato la sua decisione di ritirare le truppe dal Nord Est della Siria, uno dei problemi emersi è stato il destino dei foreign fighters dell’Isis e dei loro parenti - donne e bambini in particolare - detenuti dai curdi proprio in quella regione. Stiamo parlando 11.000 prigionieri di cui 800 sono partiti dall’Europa: i Paesi più interessati sono Francia (oltre 400), Gran Bretagna, Germania e Belgio. Insieme agli Stati Uniti i curdi hanno chiesto ai Paesi europei più volte di assumersi le loro responsabilità e di rimpatriare i loro cittadini per processarli. Tuttavia i governi dell’Ue hanno fatto resistenze di ogni tipo preferendo ignorare il problema. L’operazione “Fonte di Pace” (che di pacifico aveva poco visto che hanno sganciato bombe) lanciata da Erdogan sul Nord Est della Siria ha complicato il quadro. A causa dei raid turchi contro l’enclave curda del Rojava si sono già verificate delle fughe dai campi di detenzione. La prima, quella di 800 donne e minori da un campo di sfollati (Idp) appena fuori Ain Issa e di altri 100 prigionieri dello Stato Islamico. Come abbiamo raccontato sul Corriere, alcune donne hanno tentato di organizzare la loro fuga utilizzando chat segrete in cui si scambiavano i contatti dei contrabbandieri per passare il confine tra la Siria e la Turchia. A fine ottobre, dopo l’uccisione del leader di Isis Al Baghdadi in un raid statunitense, la situazione non è certo migliorata. Nel campo di Al Hol, a circa 60 km dal confine turco, dove sono rinchiusi 68.000 detenuti, il 94% sono donne e minori. Di questi 11.000 sono stranieri, 7.000 minori e 4.000 donne. Qui le condizioni di detenzione sono estremamente dure, la rabbia è palpabile, con rischi di altre rivolte ed evasioni. Sempre ad Al-Hol, si stima che il 55% dei residenti nel campo siano bambini di età inferiore ai 12 anni, compresi molti minori non accompagnati, rimasti orfani a causa del conflitto. Lo status dei minori affiliati allo Stato islamico è complesso e pressante. Indipendentemente da ciò hanno fatto sotto il dominio dell’Isis, i bambini non dovrebbero essere puniti per le azioni e le decisioni dei loro genitori. “Inoltre un gran numero - probabilmente la maggioranza - di questi bambini soffre di PTSD (disturbo da stress post traumatico) con conseguenze mentali, fisiche e sociali. Hanno vissuto in zona di guerra e hanno perso membri della famiglia, visto terribili violenze e vissuto traumi inimmaginabili”, spiega Devorah Margolin, Senior Research Fellow del Program on Extremism della George Washington University. Tra loro c’era Alvin Berisha, undicenne di origine albanese, portato nel 2014 dall’Italia in Siria dalla madre che si era unita allo Stato islamico. Il 7 novembre è stato fatto rientrare nel nostro Paese grazie a un’operazione congiunta di Scip (Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia), Mezzaluna Rossa, consolato albanese e Croce Rossa. Ma restano nei campi siriani almeno altri 7 minori italiani. Su tre di loro, in particolare, è concentrata l’attenzione del Ros e della procura di Milano: sono i figli di Alice Brignoli e Mohammed Koraichi, lei italiana lui marocchino con cittadinanza italiana che hanno lasciato Bulciago in provincia di Lecco per unirsi all’Isis nel 2015. I foreign fighters italiani o naturalizzati italiani partiti per i teatri di guerra - stando ai dati di Antiterrorismo e Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo - sono circa 140. Dei 140, 50 sarebbero morti mentre altri 8 sono rientrati in Europa e sono monitorati costantemente. Nei campi in Siria invece ce ne sarebbero cinque: e oltre ad Alice e suo marito altre due sono donne. Si tratta di Sonia Khediri, italo-tunisina che viveva nel trevigiano, partita per la Siria nel 2014 a 17 anni e moglie di Abu Hamza al Abidi - un pezzo grosso di Daesh ucciso in combattimento - e di Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine marocchina su cui pende una condanna per arruolamento con finalità di terrorismo. Olanda, Belgio, Francia e Germania invece si stanno rifiutando di rimpatriare i loro cittadini. Minori compresi. “Per quanto riguarda l’Europa e gli altri partner occidentali, possiamo dire che i governi si sono sottratti alle loro responsabilità adducendo come scusa la reazione dell’opinione pubblica. Alcuni, incluso il Regno Unito, sono addirittura arrivati al punto di revocare selettivamente la cittadinanza”, spiega Thomas Renard, senior Fellow dell’Egmont Institute di Bruxelles. Di recente la Francia ha avviato una trattativa con il governo di Bagdad affinché gli iracheni si accollino la gestione dei processi. Tuttavia le negoziazioni sono ad un punto morto, ufficialmente perché l’Iraq non vuole abolire la pena di morte. Ma il vero nodo della questione sono i soldi richiesti da Bagdad a Parigi per farsi carico dei processi. Difficile dare risposte e trovare soluzioni. Secondo Margolin e Renard “le nazioni occidentali hanno solide istituzioni giudiziarie, sociali e penali in grado di gestire questi casi. Devono farlo per evitare nuove ondate di radicalizzazione”. Dunque devono agire per la nostra sicurezza. Ma anche per la solidità del nostro ordinamento giuridico e democratico. Soprattutto quando si parla di donne e bambini.