“Il sentimento di vendetta non aiuta né guardie né ladri” di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 3 dicembre 2019 Recentemente, il leader dell’opposizione, Matteo Salvini, si è recato in visita al carcere “Don Bosco” di Pisa. Un carcere vetusto, con tanti problemi da risolvere. Nella mia lunga militanza nel Partito Radicale l’ho visitato più volte, arrivando alla conclusione che se c’è un istituto da chiudere in Toscana è proprio quello pisano. Colpisce, quindi, che all’uscita dal Don Bosco Salvini non abbia speso una sola parola sulle condizioni di vita interne, riconosciute dagli osservatori come degradanti per tutti: detenuti, amministrativi, e agenti del corpo di Polizia Penitenziaria. All’uscita, al contrario, ha voluto rimarcare con un tweet di esserci andato “non per trovare i detenuti” ma per “incontrare gli agenti di Polizia Penitenziaria, visto che molto spesso vengono trattati peggio di chi sconta una pena”. Ognuno è libero di pensare come gli pare e piace, ma questa distinzione, proprio perché differenzia tra volontà e necessità, si trasforma inevitabilmente in un’ammissione di fallimento, specie per chi ha ricoperto il ruolo di ministro dell’Interno. Culturalmente sono lontano anni luce da Salvini, ma questo non mi impedisce di tentare di aprire un dialogo, fosse anche con il diavolo in persona. Quando con le mie compagne e i miei compagni ci rechiamo in un istituto penitenziario per un sopralluogo, lo visitiamo a fondo e ascoltiamo tutti: agenti, volontari, la direzione del carcere e i detenuti. Perché, in quello che definiamo “Pianeta Carcere”, ogni parte condiziona la vita dell’altra. Soprattutto poi, è solo prestando attenzione a ogni parte che si può sperare di fare un passo in avanti per cambiare quel luogo infernale che è oggi il carcere in Italia. Un luogo di pena per tutti, fondato su una rieducazione che quasi non c’è, sul reinserimento a fine pena che è ancora utopia e sulla risocializzazione all’interno di un’istituzione totale. I processi di prigionizzazione (adattamento passivo al carcere e spersonalizzazione) e disculturazione (incapacità di riadattarsi alla vita in libertà) sono, all’opposto, i terminali concettuali della carcerazione in Italia, e sono, per di più, alla base degli alti tassi di recidiva. Inquadrata nella realtà carceraria, l’uscita di Salvini è quindi solo propaganda, e davvero di bassa lega. Perché se è vero che i diritti di chi in carcere lavora devono essere maggiormente tutelati, è altrettanto evidente che assicurare un carcere dignitoso capace di recuperare e reintegrare chi ha commesso un reato e sconta la pena sotto la tutela dello Stato, è nell’interesse di tutti. Delle guardie e dei ladri, dei cittadini che chiedono maggiore sicurezza, dello Stato che dovrebbe somministrare la pena senza intaccare i limiti della dignità della persona ristretta. Albert Camus riteneva che mai si dovrebbe superare la tragedia greca. Antigone aveva ragione, certo, ma Creonte cosa poteva fare? Nel bel mezzo di questa domanda, si apre dunque il difficile capitolo della punizione: un aspetto che ruota nelle differenze istituzionali tra pena retributiva e rieducativa. Il sociologo francese Émile Durkheim sosteneva che: “La pena è rimasta, almeno in parte, un atto di vendetta”. Siamo agli inizi del Novecento, ma in quell’affermazione è condensato tutto ciò che ancora oggi non siamo capaci di superare. La pena, proprio perché sofferenza interiore, non può altro che essere la scommessa di una vita ancora da recuperare. Non lo diciamo noi “buonisti” del carcere. Lo afferma la nostra Costituzione, con buona pace del Salvini di turno. *Associazione Progetto Firenze Figli di detenute, ecco dove firmare la petizione della Gabbianella Il Gazzettino, 3 dicembre 2019 Per farli uscire dal carcere prima dei 6 anni. Prosegue la petizione on line con cui l’associazione Gabbianella chiede che i bimbi in carcere possano uscire prima dei 6 anni. I volontari dell’associazione, che si occupa di gestire il rapporto tra madri in carcere e bambini con una serie di iniziative e progetti, si sono mossi dopo quanto accaduto un mese fa, quando un bambino, al compimento dei sei anni è stato strappato alla madre e dato in affidamento senza che l’associazione potesse fare neppure opera di mitigazione. La presidente Carla Forcolin si sta battendo perché i bambini figli di detenute possano uscire dal carcere, pur lasciando la mamma, molto prima dei sei anni. “A partire dai nove mesi di età - aveva detto alcuni giorni fa Carla Forcolin - i bambini del carcere dovrebbero frequentare già e obbligatoriamente gli asili nido e comunque stare fuori dall’istituto nelle ore del mattino per tornarvi nel pomeriggio. I bambini non possono stare in istituti a custodia attenuata o veri carceri fino a sei anni, senza che questo pregiudichi la loro vita futura”. “Se la custodia ci deve proprio essere - aveva spiegato la presidente - nei nidi annessi al carcere femminile e negli Icam (Istituto a custodia attenuata per madri) i bambini devono rimanere solo se il rapporto con la madre è l’elemento fondamentale della loro vita, cioè quando sono piccolissimi”. L’indirizzo a cui sottoscrivere la petizione è il seguente: www.change.org/p/parlamento-italiano-fuori-i-bambini-dal-carcere Colletta alimentare in carcere. “È un pezzo di strada da fare” di Giorgio Paolucci clonline.org, 3 dicembre 2019 L’iniziativa del Banco Alimentare, per la decima volta, è entrata nelle prigioni italiane. Per molti detenuti è un momento atteso. “È partita la Colletta! La Colletta dei poveracci! Fuori la roba dalle celle, oggi c’è la Colletta!”. Non è un tipo loquace, Monrad, però stamattina è più in forma del solito e mentre spinge il carrello nel corridoio su cui si affacciano le celle dei detenuti s’inventa qualche slogan per lanciare la raccolta dei viveri. Viene dal Marocco e qui al carcere di Opera, periferia di Milano, ci dovrà stare ancora per molti anni, eppure oggi la lunga detenzione che ancora lo attende non sembra pesare sulle sue spalle. Questo è il decimo anno che i volontari dell’associazione Incontro e Presenza propongono la Colletta del Banco Alimentare in carcere, una iniziativa che si svolge in altri dieci penitenziari italiani. Molti detenuti hanno ordinato la spesa nei giorni precedenti e hanno stivato i prodotti nei pacchi che sono già pronti da consegnare, ma c’è anche chi offre qualcosa mettendolo sul carrello che fa sosta davanti alle celle. “Questo gesto non è nelle nostre mani, noi siamo solo lo strumento per qualcosa di più grande di noi”, aveva detto Guido all’inizio della mattinata agli altri 25 volontari che con lui fanno la caritativa in carcere e con lui sarebbero andati nelle sezioni per ritirare il cibo donato dai detenuti: “Offriamo le nostre persone e stiamo attenti a non perdere nulla di ciò che accadrà”. E di cose ne sono accadute, anche impreviste. Come l’insolita allegria di Monrad, come le cinquanta confezioni di carne in scatola offerte da Giuseppe che, mentre mostra con orgoglio i suoi quadri appesi alle pareti di una stanza trasformata in un atelier sui generis, racconta che la sua donazione è il frutto di una raccolta che dura tutto l’anno, una scatoletta alla settimana. Renato regala sei confezioni di generi alimentari: “Nella mia vita tanto ho ricevuto e tanto ho dato, e adesso mi sento di dare a chi sta peggio di me. Lo faccio col cuore. E voi, tornate a trovarmi anche la prossima settimana”. Alessandro, che nella sua vita “fuori” ha anche insegnato all’università, insieme agli alimenti consegna una lettera dove ha scritto le sue riflessioni. “Può sembrare curioso che gente condannata venga sollecitata a donare cibo ai bisognosi: non siamo abbastanza bravi per uscire, ma lo siamo per regalare pasta e scatole di pelati? Però, pensandoci un poco di più, parlandone con qualcuno, lasciando che la cosa si sedimentasse nei pensieri, molti hanno cominciato a mutare atteggiamento: forse va bene così, forse è un pezzo di strada da fare, un’occasione, forse è un modo concreto per rendersi utili. Così la Colletta, costringendo a preoccuparsi di dove fossero i moduli necessari per ordinare la spesa, condividendo con altri le necessità, pensando a cosa fosse più opportuno comprare, lentamente è discesa nel cuore e il risultato è stato sorprendente. In chi ha risposto, a cominciare da me, si è accesa una luce: saremo anche tra i colpevoli, ma non tra i cattivi. Grazie a chi l’ha organizzata, grazie per avercela portata, grazie per averci chiesto questo piccolo aiuto: ci fa sentire uomini, e si sta bene”. Si sente bene anche Ernesto, e lo si vede dallo sguardo lieto quando consegna il suo sacchetto. “Ho vissuto momenti molto difficili nella mia esistenza e ho ricevuto la carità degli altri, chi come me è stato amato sta bene quando può amare”. Alla fine del giro nelle sezioni il raccolto è abbondante, più di nove quintali, meglio degli anni passati. Ma ciò che colpisce di più, e commuove, è vedere trasparire nei volti e nelle parole dei detenuti che la tensione al bene abita nel cuore di ogni uomo. Proprio ciò che scrive don Giussani nel libretto della caritativa, che durante l’anno viene letto prima di iniziare i colloqui con i carcerati: “Interessarci degli altri, comunicarci agli altri, ci fa compiere il supremo, anzi unico, dovere della vita, che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi. Noi andiamo in caritativa per imparare a compiere questo dovere”. L’Uisp su Radio Vaticana con l’attività nelle carceri uisp.it, 3 dicembre 2019 Stefano Pucci, responsabile politiche per la salute e l’inclusione Uisp, è stato intervistato per presentare le proposte sportive realizzate nelle carceri italiane. “I Cellanti” è l’appuntamento settimanale di Radio Vaticana dedicata alla vita dentro il carcere: lunedì 2 dicembre all’interno della trasmissione è intervenuto Stefano Pucci, responsabile politiche per la salute e l’inclusione Uisp, per presentare le molteplici attività e i progetti promossi dall’Uisp in molte carceri italiane. Non tutte le realtà degli istituti di pena nazionali prevedono la possibilità di praticare attività motoria all’interno delle mura ma, fortunatamente, si tratta di un approccio sempre più diffuso, grazie ad associazioni sportive che promuovono progetti finalizzati all’educazione e all’inclusione dei detenuti. Di norma sono favoriti gli sport di squadra come il calcio, la pallavolo o il basket, ma trovano spazio anche quelli individuali come l’atletica, fino ad arrivare a proposte più singolari come l’equitazione, che fa parte, ad esempio, di un progetto promosso all’interno del carcere milanese di Bollate dall’Uisp. “Da diversi anni abbiamo avviato un’esperienza a Bollate supportando un’associazione nostra affiliata - ha raccontato Pucci - nella gestione di un maneggio nel quale vengono ricoverati cavalli maltrattati o confiscati alle mafie. Questo maneggio viene gestito in collaborazione con un gruppo di detenuti che quindi svolgono un’attività lavorativa durante la giornata e lo fanno con un approccio innovativo: i detenuti si auto-organizzano in appuntamenti di confronto tra di loro sui fondi a loro disposizione per gestire le attività, non solo quelle rivolte ai cavalli ma anche tutti gli interventi di manutenzione. Il risvolto sociale di questa collaborazione è rilevante sia dal punto di vista dell’occupazione lavorativa sia da quello della responsabilità attribuita ai detenuti, che imparano a confrontarsi e a gestire dei budget in funzione delle esigenze della struttura. Soprattutto, questo impegno, ha un risvolto molto importante sull’umore delle persone coinvolte”. Quali sono gli sport più diffusi nelle carceri italiane? “Prima di tutto sicuramente il calcio, perché parla un linguaggio universale e va incontro all’esigenza di integrazione sociale all’interno degli istituti, necessaria vista la multietnicità delle presenze. Poi ci sono tennis, pallavolo, pallacanestro e tante altre specialità, come la corsa. Infatti, l’Uisp organizza all’interno degli istituti una grande manifestazione internazionale che abbiamo lanciato oltre trent’anni fa, Vivicittà. Si tiene contemporaneamente in oltre 20 istituti penitenziari e minorili sul territorio nazionale ed ogni anno apre le porte delle carceri per far entrare la società civile dall’esterno. La corsa si svolge in decine di città d’Italia e del mondo, mettendo virtualmente in comunicazione detenuti e cittadini comuni. Nel 2020 Vivicittà si terrà il 19 aprile”. Secondo i dati, però, meno di un detenuto su tre pratica sport in carcere, cosa si può fare per incrementare questi numeri? “Le dinamiche di funzionamento degli istituti di pena sono complesse e le situazioni delle carceri in Italia sono difficili, perché sono sovraffollate ed hanno strutture che necessitano di manutenzione. Quindi anche l’accesso dei detenuti alle attività sportive incontra difficoltà: quello che possiamo fare è continuare a lavorare d’intesa con il ministero della Giustizia perché crediamo che un lavoro in sinergia con le istituzioni possa facilitare lo sviluppo delle attività sportive all’interno degli istituti. Da parte del ministero c’è stata una grande disponibilità, l’impegno per il futuro sarà trovare le strategie migliori per ampliare la fruizione dell’attività sportiva e quindi andare incontro alle esigenze di accesso all’attività”. Lo sport è un grande veicolo della cultura del rispetto, è ancora più vero in carcere? “L’attività sportiva prevede come elemento insito in sé il rispetto dell’altro, quindi è certamente un elemento utile soprattutto negli istituti di pena minorili. La risposta dei detenuti alle proposte di attività motorie e sportive è straordinariamente positiva, lo sport è uno strumento trasversale e comune a tutti, un elemento fondamentale per migliorare la qualità della vita delle persone detenute. Prescrizione, pronto il blitz per far passare il ddl forzista di Emilio Pucci Il Messaggero, 3 dicembre 2019 I dem alla presenza del vice segretario Orlando si riuniranno giovedì per studiare come portare l’ennesimo assalto a Bonafede. Con l’ultima offerta sul tavolo: nessuna richiesta di rinvio dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione, ma sottoscriviamo un accordo politico per far sì che nella riforma del processo penale venga inserita una norma per assicurare tempi certi ai procedimenti dopo il primo grado d’appello. Il modello è quello utilizzato dal Pd sul taglio dei parlamentari, con l’intesa raggiunta con M5S che prevede i correttivi richiesti dal Nazareno. Il partito democratico tenta così, in vista di un vertice di maggioranza che dovrebbe tenersi la prossima settimana, di raggiungere un compromesso con il Guardasigilli. Però Bonafede non cede: “Gli effetti di questa riforma si avranno tra diversi anni”, ha ripetuto più volte. La chiusura rispetto alla proposta del Pd è netta: la prescrizione processuale, ovvero l’estinzione dell’azione penale nel momento in cui si dovessero sforare i tempi del processo, è inapplicabile, significherebbe sconfessare la norma inserita nello Spazza-corrotti. Ma il vero rischio per il ministro della Giustizia arriva da un altro alleato al governo. La minaccia maggiore è quella dei renziani. Oggi alla Camera l’Aula si pronuncerà sul percorso del ddl Costa che punta allo stop della riforma alla prescrizione. Iv e Pd si opporranno all’urgenza, ma Renzi ha già mandato un messaggio al premier: “Qui è in gioco la sopravvivenza del governo. Bonafede si fermi, altrimenti crolla tutto”. Del resto il senatore di Firenze il suo pensiero lo ha esternato anche in tv due giorni fa, dicendo di apprezzare la proposta dell’esponente azzurro. E facendo capire che il suo gruppo, in mancanza di ulteriori novità, si appresta a far convergere i suoi voti a quelli di Forza Italia. Con i sì di Iv basterebbe che una parte del Pd votasse insieme all’opposizione per far scoppiare l’incendio. E siccome dal Nazareno per ora non si intende soffiare sul fuoco è stato deciso di convocare per oggi una riunione del gruppo alla Camera. Per inviare un segnale a M5S ma anche per evitare che i deputati si muovano in autonomia. Il malessere è crescente, e a palazzo Madama poi c’è ancora maggiore fibrillazione. “Non abbiamo ancora deciso - spiega una fonte di Italia viva. Per ora stiamo mandando degli avvertimenti. Poi trarremo le conseguenze”. Nel frattempo gli azzurri sono in pressing nei confronti del presidente della Camera, Fico. Anche senza l’urgenza il ddl Costa dovrebbe andare in Aula tra Natale e Capodanno. Ma la terza carica dello Stato sta lavorando - dicono da Fi - per posticipare la discussione, ipotizzando la pausa dei lavori a Montecitorio il 23 dicembre. Insomma la posta in gioco è alta. Renzi ha chiesto un incontro urgente al presidente del Consiglio per porgli pure questo problema. Tuttavia il capo del governo non intende aprire al rinvio. “Si va avanti”, ha spiegato ai leader della maggioranza, confidando però che il responsabile di via Arenula trovi una strada per evitare ogni tipo di strappo con le forze politiche che sostengono l’esecutivo. Sull’argomento giustizia dunque le tensioni non accennano a diminuire. Il Pd si fa scudo della posizione prevalente nell’Anm che apprezza la bontà della ratio della riforma ma pone il problema degli “eterni giudicabili” chiedendo quindi contestualmente delle contromisure nella riforma del processo penale. Ma è in difficoltà. “È chiaro - dice uno degli sherpa dem che stanno lavorando al dossier - che se alziamo la voce rischiamo di non essere credibili. Dovremmo però essere conseguenti”. L’obiettivo è lavorare a degli emendamenti al ddl Costa e poi mettere M5S con le spalle al muro: “Mani libere se non ci saranno aperture. Questa riforma non è nostra, non abbiamo alcun vincolo”, osserva un altro esponente dem. I numeri alla Camera e al Senato restano ballerini. “Non hanno mezzi per opporsi - controbatte però un big dei pentastellati - a meno che non votino con Forza Italia decretando la fine del governo”. Prescrizione, il baratto osceno tra i pm e il ministro di Piero Sansonetti Il Riformista, 3 dicembre 2019 Al congresso dell’Anm, che si è concluso domenica sera, sono successe tante cose. Sul piano dell’identità dell’associazione dei magistrati ha prevalso la linea del presidente Poniz, che ha chiesto alla politica di accettare la supremazia del potere giudiziario e ha riaffermato l’idea di una magistratura autonoma, autosufficiente, insindacabile. Sul piano politico invece si è assistito a un negoziato e poi a un patto tra il ministro (e i 5 Stelle) e i Pm. Il ministro chiedeva ai magistrati di sgomberare il campo dalle loro ultime obiezioni sulla abolizione della prescrizione. In modo da avere mano libera anche nel negoziato con il Pd e con i renziani. In cambio ha offerto ai Pm la rinuncia a una delle bandiere grilline: il sorteggio nella scelta dei membri togati del Csm. La rinuncia al sorteggio - al di là del giudizio che si può dare su questo metodo un po’ balzano - vuol dire restituzione alle correnti di tutti i loro poteri. Il ministro ha fatto capire che sul terreno delle correnti e del potere dei magistrati non intende intromettersi. Era il malloppo che i Pm volevano. Hanno immediatamente accettato. Ora la prescrizione davvero è a rischio. Cioè è a rischio uno dei principi della Costituzione. Per difenderlo da ieri si sono mobilitati gli avvocati penalisti. In sciopero fino a sabato. Stanno conducendo una maratona oratoria, a Roma, davanti alla Cassazione. Hanno parlato 150 avvocati. Qualcuno li ascolterà? I penalisti contro il blocca-prescrizione. Caiazza: fermate questa sciagura di Simona Musco Il Dubbio, 3 dicembre 2019 La maratona oratoria delle Camere Penali. Un comizio ininterrotto, lungo una settimana, in concomitanza con l’astensione dalle udienze, per dire no alla riforma sulla prescrizione. La protesta dei penalisti è iniziata ieri, con il gazebo piazzato davanti al palazzo della Cassazione, palcoscenico delle storie raccontate da migliaia di legali per spiegare le ragioni del no alla riforma, raccontando vicende quotidiane di “processi infiniti”. Un’idea lanciata dal presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza, ispirato dalle proteste del leader Radicale Marco Pannella. “È qualcosa che non ha precedenti”, ha spiegato Caiazza, che ha deciso di portare gli avvocati in piazza contro “una riforma sciagurata, che porta la firma del ministro Bonafede e che annulla la prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado”, nel tentativo di impedire “una pagina tra le più nere della giustizia italiana”. L’idea della maratona parte dal tentativo di scardinare i falsi miti che impediscono all’opinione pubblica di comprendere gli esiti di tale riforma e anche la posizione dei penalisti. Che, ha assicurato Caiazza, “non sono i difensori della prescrizione in sé come un valore”, bensì difensori del “diritto di ogni persona di non rimanere in balia della giustizia penale a tempo indeterminato, che siano indagati, imputati o persone offese di un reato. Solo un’idea barbara dello Stato e della giustizia penale può immaginare che si possa pretendere questo da un cittadino”. Nonostante tutti siano d’accordo nel ritenere che i processi devono avere una durata ragionevole, come previsto dalla Costituzione, l’unica riforma finora pensata per ridurre i tempi è l’abolizione della prescrizione, cioè “l’istituto che costituisce l’unico equilibrio che noi conosciamo a questa patologia”, ha sottolineato Caiazza. Un’idea alla quale si sarebbe piegata anche l’Associazione nazionale magistrati, “in cambio alla rinuncia del sorteggio per il Csm da parte del ministro”. Ecco, dunque, il motivo di una battaglia “di civiltà”, che vede le Camere penali affiancate anche dal Consiglio nazionale forense. La riforma, ha evidenziato Nicola Mazzacuva, vice presidente dell’Ucpi, parte dal tentativo “inquietante” di eliminare dal “lessico” del penalista tutta una serie di istituti che “suonano male”, ha affermato Mazzacuva citando Bonafede. Ma i principi costituzionali in gioco sono tanti, come il diritto di difesa o alla ragionevole durata del processo. A sostenere la battaglia anche l’ordine degli avvocati di Roma, con il presidente Antonino Galletti che si è rivolto direttamente al ministro Bonafede. “Per raggiungere una durata più breve dei processi ha evidenziato - non occorre intervenire sulla prescrizione ma investire in risorse, uomini e mezzi della giustizia”. Lungi dal rappresentare un favore ai colpevoli, ha evidenziato Mauro Massa, della Camera penale di Cagliari, la prescrizione rappresenta, invece, “un pungolo per il sistema giudiziario” per un processo più rapido. Eliminarla significa “trasformare il processo in pena” e minare anche la funzione rieducativa della pena, come sottolineato da Marco Lepri, presidente Anf Roma. In ballo, ha denunciato Rodolfo Meloni, della Camera penale di Cagliari, c’è dunque l’intero sistema di civiltà giuridica su cui lo Stato di diritto è fondato, rischiando un ritorno a “un processo inquisitorio che pensavamo di aver superato”. Diverse le storie raccontate durante la prima giornata della maratona, come il caso di Vittorio Gallo, descritto da Cecilia Ascani, della Camera penale di Pesaro. Si tratta di un ex dipendente delle Poste italiane, arrestato nel 1997 con l’accusa di essere basista di due rapine e rimasto in custodia cautelare per un anno. “Condannato nel 2004 a 6 anni di reclusione - ha raccontato - nel 2011 è stato assolto in appello con la formula piena. Sono passati più di 13 anni in attesa di una sentenza che riconoscesse la sua innocenza. Con la riforma della prescrizione, Gallo potrebbe ancora essere in attesa”. Un tempo infinito, durante il quale ha perso lavoro, affetti, reputazione e onorabilità. Cesare Placanica, presidente Camera penale di Roma, ha invece raccontato la storia di un giovane autista dell’Atac, condannato in primo grado a 17 anni perché accusato di essere a capo di un’associazione dedita allo spaccio. “Tra il primo e il secondo grado passarono nove anni - ha sottolineato. Ma nel frattempo viveva il dramma di non poter assumere impegni, come quello di fare un figlio, temendo di dover sparire per 17 anni. Questo dobbiamo spiegare alle persone”. Un altro caso è quello raccontato da Francesca Santorelli, avvocato di Pesaro, quello di un uomo accusato per la morte di un 31enne, deceduto nel 2011 dopo aver assunto dello stupefacente. Mario, uno dei tre indagati, fu rinviato a giudizio dopo cinque anni, con l’accusa di omicidio colposo e cessione di sostanza stupefacente. Assolto con formula piena dall’accusa di omicidio, è stato condannato a 10 mesi per cessione. Sentenza confermata in appello nel 2017. “Il reato si sarebbe prescritto a febbraio 2019 - ha spiegato l’avvocato. La Cassazione ha fissato udienza quattro giorni prima della scadenza. Pensate che sarebbero stati così celeri se la prescrizione fosse già stata abolita?”. Sciopero avvocati. Una maratona oratoria di sei giorni di Marianna Rizzini Il Foglio, 3 dicembre 2019 Per dire le ragioni del no alla riforma della prescrizione. La distesa di ombrelli colorati c’è, la piazza anche, ma non di “sardine” si tratta. Si vedono molti impermeabili blu, cravatte e valigette, molti occhiali, qualche trolley. La piazza (Piazza Cavour, dietro al Palazzaccio) ospita la prima delle sei giornate di sciopero e maratona oratoria degli avvocati penalisti contro la riforma della prescrizione: sei giorni sotto a un gazebo, cinque minuti per uno, dalle 9 alle 20, con iscrizioni a parlare da tutta Italia. Obiettivo: informare l’opinione pubblica su un argomento che, dirà un oratore, suscita diffidenza nel cittadino, forse per “non conoscenza”, forse per riflesso condizionato dopo le campagne ossessive di stampo giustizialista degli ultimi anni (con l’assurdo che colui o colei che difende il mantenimento della prescrizione viene spesso considerato “amico dei corrotti e dei delinquenti”). Giusto processo, rispetto delle garanzie per l’imputato o rassegnazione alla cultura della gogna e della vendetta sociale? La scelta tra le due opzioni corre anche lungo il filo dello stop alla prescrizione dopo il primo grado, in vigore dal gennaio 2020 per effetto della legge Spazza-corrotti voluta dal precedente governo (gialloverde). Una legge che, ripetono gli scioperanti-maratoneti, anche in diretta su Radio radicale, porterà a “processi infiniti”. In attesa del proprio turno, assiepati accanto ai manifesti da cui sorridono bocche stilizzate che invitano all’intervento, gli iscritti al mattino sono già molti (in arrivo dalla Sardegna, da Torino, da Ferrara, da Sondrio, da Napoli, da Ancona, da Pesaro), tutti riconoscibili dal badge al collo. La scritta sul badge richiama l’intento: spiegare ai cittadini “la verità sulla prescrizione”, come spiega la nota dell’Unione delle Camere penali, promotrice dell’iniziativa. Qualcuno tra gli oratori scherza: “Non è che ci prendono per dei matti allo speaker’s corner?”. Qualcuno ricorda che “non si può non combattere questa battaglia, ne va di un principio di civiltà giuridica”. E la battaglia che comincia sotto la pioggia sottile - quella sì da Marble Arch - parla dell’urgenza di contrastare l’espansione del potere togato sotto l’effetto di norme che ampliano spazio e materie soggetti a scrutinio giurisdizionale, e dell’urgenza di impedire il rapido scivolamento verso un impianto di processo accusatorio che, dice un avvocato di Pesaro, produce migliaia di casi di carcerazione di innocenti. Ogni oratore parla di un caso concreto: cittadini sottoposti a ingiusto processo, dietro le sbarre senza aver commesso il fatto, ma anche colpevoli cui non è stato riconosciuto il diritto di scontare la pena a distanza ravvicinata. Il cittadino che segue le campagne anti prescrizione spesso non sa - è il concetto ripreso da molti avvocati-maratoneti - che le garanzie processuali tutelano prima di tutto l’innocente. “Che il processo non diventi la vera pena”, dice un oratore di Cagliari. “Prima si facciano le riforme che davvero porterebbero a uno snellimento dei tempi della giustizia”, dice un oratore di Termini Imerese. “Pena certa, pena immediata, pena rieducativa, no al populismo giudiziario”, è il mantra sotteso a tutti gli interventi in cui si cerca, dopo aver rievocato Cesare Beccaria, di demolire l’altro mantra, quello dell’avvocato “accusato di essere la causa delle lungaggini”. “Falso problema, la prescrizione”, dice un oratore di Pesaro; è come se ci si dovesse “difendere da nemici che vogliono tornare al processo inquisitorio, come fermare i carri con le mani in piazza Tienanmen - e però sono battaglie che vanno combattute”, anche contrastando l’impostazione “del ministro Alfonso Bonafede e della sua corte dei miracoli” e “i magistrati alla Piercamillo Davigo” e tutti coloro che “hanno l’obiettivo di smantellare lo stato di diritto”. La montagna da scalare “è far capire di che cosa parliamo, e con garbo cercare di smontare le mistificazioni e farci ascoltare da chi appena sente che siamo contro la riforma della prescrizione storce il naso”, dice un oratore della Camera penale di Roma. “Se anche soltanto un cittadino cambierà idea avremo vinto”, è la frase auto-motivazionale ripetuta sotto agli ombrelli, con la speranza che si arrivi presto a fermare la “legge anticostituzionale” la cui applicazione si prospetta a breve. Ci si inerpica lungo il confine che separa lo stato di diritto da uno stato in cui invece vince la “sottocultura” che veicola questo messaggio: “Prescrizione uguale arma per sfangarla”. Di cinque minuti in cinque minuti, i maratoneti evocano “la forza della parola” che, dice un oratore, “non si disperde nel vento”. “Qui manca la società civile”, ripete sconsolato un avvocato di Ancona. Poi, all’improvviso, una dei maratoneti tira fuori un blocco. Sui fogli frasi in rima, come strofe di filastrocca: “L’avvocato è contrariato / e per questo ha scioperato; questa è l’ultima chiamata / questa legge va cambiata”. Un applauso stempera l’amarezza. “Chiedetevi, se potete”, è l’appello alla società civile, “che cosa fareste se foste voi uno di quei mille innocenti svegliati alle quattro del mattino, e accusati per errore di un crimine non commesso”. Femminicidi. Da dove nasce la violenza sulle donne di Antonio Polito Corriere della Sera, 3 dicembre 2019 Dal 2012 ad oggi sono 871 le donne uccise in Italia. Da mariti, fidanzati, spasimanti o semplicemente da uomini violenti. Noi non sappiamo e non sapremo mai che cosa sia davvero successo quella sera di dieci anni fa tra Thomas Piketty e Aurélie Filippetti, allora coppia turbolenta della Parigi che conta. Però sappiamo che l’uomo, economista e saggista, ammise per iscritto di aver usato violenza contro la sua compagna, e chiese formalmente scusa. Dunque sappiamo anche - o, per meglio dire, ne abbiamo una nuova conferma - che la violenza contro le donne non è monopolio degli uomini rudi, incivili, ignoranti, maneschi e anti-sociali. Ma la violenza riguarda pure uomini colti, eleganti, di successo, progressisti e ugualitari (grazie al suo bestseller, Piketty è il non plus ultra dell’ugualitarismo). Anche i ceti medi riflessivi, insomma, picchiano le donne. La punizione - Ci deve dunque essere un pericoloso grumo di pensieri e sentimenti comune a tutti gli uomini, di qualsiasi provenienza sociale e culturale, che li spinge a rivolgere contro le mogli e le compagne quel carico di violenza che nel resto delle loro relazioni sociali non si sognerebbero mai di usare. Per punirle in quanto donne. Di che si tratta? La coincidenza temporale della giornata contro la violenza e dell’”affaire Piketty”, combinata magari con la lettura di alcuni tentativi della letteratura femminile di darsi una spiegazione di questo fenomeno, dovrebbe spingerci a riflettere di nuovo su quel “quid”, e a guardare anche dentro di noi, per vedere se lo possiamo scorgere, nascosto da qualche parte, nel fondo stesso del nostro essere maschi. Forse consiste in questo: noi uomini diamo immancabilmente alle nostre compagne la colpa del fallimento di una relazione. E la cosa ci dà rabbia perché recriminiamo su una mitica felicità perduta, che pensavamo basata sull’esclusività del rapporto di coppia, sulla sua impermeabilità all’esterno; cioè, in definitiva, sul possesso più o meno civilizzato della persona amata. Per questo vorremmo che le nostre donne non cambiassero mai, per continuare a possederle come il primo giorno; così come esse desiderano che i loro uomini cambino. La fine di una storia - La donna è sempre colpevole della fine di una storia perché ha voluto diventare più e altro rispetto alla sua funzione di mero completamento della coppia, ha cercato di essere una persona, non solo due. Tradendo così, almeno potenzialmente, anche il suo ruolo materno, di generatrice e nutrice dei figli. Va al lavoro, esce di casa, guadagna, ha relazioni, incontra persone, vede amiche? Espone il suo corpo in tutte queste attività, lo esibisce socialmente (per un italiano su quattro la violenza sessuale è originata dal modo in cui la donna si veste)? Dunque è colpa sua. Fosse stata al suo posto, accontentandosi dei costumi già abbastanza liberi ed emancipati oggi consentiti, la relazione avrebbe retto. Temo che questo, in fondo al cuore, lo pensino anche i migliori di noi. Ovviamente non tutti lo esprimono in modo violento. Ma molti, troppi, sì. Trecentomila anni di evoluzione della specie ci hanno abituato all’egemonia fisica e sociale, e agiscono nel nostro inconscio, dettandoci istinti aggressivi. Un paio di secoli di emancipazione femminile, fenomeno recentissimo nella storia dell’umanità, producono perciò ancora uno shock culturale formidabile su noi uomini. Ciò che è in corso è esattamente una reazione a questo cambiamento epocale degli equilibri di potere. La morte di Ana - Il padre di Antonio Borgia, l’uomo che ha ucciso a Partinico la sua giovane amante, l’ha detto nel suo stentato italiano l’altra mattina in tv: “Chiedo scusa alla famiglia di Ana, sono cose che non si devono fare..., ma oggi le donne incitano con la parità, si permettono di dire delle cose, volere, pretendere. E così fanno andare l’uomo fuori di testa. È quello che è successo a mio figlio”. Più chiari di così. Per questo Ana è morta, perché è una donna del nostro tempo. Nell’immaginario maschile la morte violenta rende invece eterno il possesso, ristabilendo l’equilibrio. Se non ti posso avere come dovresti essere, che tu non sia più niente, e così sarai mia per sempre. In un suo romanzo, Melania Mazzucco lo fa dire in questo modo a un marito violento: “Io non lo posso accettare il divorzio... abbiamo fallito, allora il mio dovere è cancellare ogni traccia di me e di mia moglie da questa terra perché siamo un grandissimo sbaglio e tutti e due ci abbiamo colpa. Ma soprattutto lei, che è una donna egoista e ingrata... io però la perdono di tutto, e la affido all’amore di Dio”. Alla fine c’è sempre l’alibi della famiglia - dice una delle donne di “Ferite a morte”, la Spoon River delle vittime scritta da Serena Dandini - “ma la famiglia è per noi il luogo più pericoloso”. Omicidi di donne - Ecco perché è giusto parlare di femminicidi, e non di omicidi di donne. Ecco perché siamo di fronte a una questione sociale, a un conflitto culturale; e non alla devianza di un gruppo, seppur cospicuo, di maschi. Ed ecco perché a noi uomini che non abbiamo mai alzato un dito contro una donna non può bastare davvero congratularci con noi stessi e fingere che i violenti siano degli alieni, estranei alla nostra cultura. Perché è invece proprio questa ad essere intrisa di sciovinismo maschile, e dunque del germe della violenza. Quel grumo è da qualche parte dentro di noi. Per estirparlo - ci vorrà tempo - bisogna prima di tutto riconoscerlo, ammetterlo. Poi correggerlo, accettando una diminuzione di status, perché questo richiede oggi la parità uomo-donna. Infine dobbiamo esercitare tutta la mediazione culturale di cui siamo capaci per contrastarlo nella società. Quando una donna muore a Partinico, la campana suona anche per te. Reati fiscali, per le imprese responsabilità para-penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2019 A suo modo una svolta epocale. Perché dell’applicazione del decreto 231, che nel 2001 introdusse in Italia una previsione a suo modo rivoluzionaria come la responsabilità “para-penale” delle imprese, ai reati fiscali, si dibatteva da anni. Dopo la tormentata nottata nella quale la maggioranza ha trovato la quadra sulla riforma del penale tributario l’allargamento è ora realtà. Una realtà che non piace alle imprese, con Confindustria che contesta la criminalizzazione delle aziende e Governo e maggioranza che invece hanno tirato diritto. Perché già con il decreto legge n. 124 di poche settimane fa si era aperta un breccia, ammettendo la responsabilità delle imprese per il solo reato di dichiarazione fraudolenta. Ma, come era apparso se non evidente molto probabile, quel timido inserimento ha poi permesso in sede di emendamento di agganciarvi tutta una serie di altri reati. Con la conseguenza di rendere applicabile un pacchetto di sanzioni per nulla banale. Che va dalle misure pecuniarie, che potranno toccare nei casi più gravi il milione di euro, alle sanzioni interdittive, che, anche prima della sentenza, potranno paralizzare l’impresa in tutti i rapporti con la pubblica amministrazione. Del resto, la relazione è chiara, là dove ricorda che “si tratta di proposta che risponde a esigenze di coerenza dell’ordinamento, frustrate dalla previsione di un solo delitto tributario e non anche di altre gravi ipotesi delittuose in materia, dalle quali la persona giuridica può trarre un beneficio anche maggiore rispetto a quello conseguibile con la consumazione del delitto di cui all’articolo 2, che non prevede soglie di punibilità”. L’inserimento, sottolinea la relazione, permette inoltre di considerare assolto il vincolo comunitario che chiedeva l’estensione almeno per quanto riguarda le frodi Iva. Nel dettaglio, la ormai lunghissima lista dei reati presupposto (quelli che giustificano l’applicazione della responsabilità amministrativa delle imprese) comprenderà i 2 casi di dichiarazione fraudolenta, quella attraverso fatturazione o documentazione oppure attraverso altri artifizi, l’emissione di false fatturazioni, l’occultamento e distruzione di documentazione contabile e la sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte. Le sanzioni pecuniarie, attraverso l’ormai “classico” meccanismo delle quote, con una quota che può oscillare nell’importo da un minimo di 258 euro a un massimo di 1.549, potranno andare dalle 500 quote con il quale colpire il caso più grave di dichiarazione fraudolenta e l’emissione di false fatture, alle 400 per gli altri delitti. Nei casi di maggiore gravità, quelli nei quali la società si è assicurata attraverso le condotte di evasione un profitto di rilevante entità, l’importo potrà essere aumentato fino a un terzo. Delicato poi il capitolo delle sanzioni interdittive che, inizialmente, per il reato “gancio” neppure erano state previste e che come detto si applicano anche in via cautelare. Ora invece lo sono e prevedono il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza da finanziamenti e agevolazioni pubbliche, il divieto di pubblicizzare prodotti. Manette agli evasori, doppio binario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione VI - Ordinanza 18 novembre 2019 n. 29925. Tra il bastone e la carota. Alla fine la maggioranza (con fatica e senza Italia Viva) trova la quadra sulla riforma del penale tributario. E, se per le imprese le modifiche approvate nel corso della notte sono sicuramente assai significative, per le persone fisiche il trattamento viene, in parte, ammorbidito. In dettaglio, l’obiettivo dei cambiamenti concordati tra ministero della Giustizia e Mef, è stato di non colpire con rigore eccessivo l’occasionale colpevole di delitti non caratterizzati da condotte fraudolente. In questa prospettiva, si introduce l’estensione della causa di non punibilità del pagamento del debito tributario ai 2 delitti tributari più gravi, le 2 diverse ipotesi di dichiarazione fraudolenta, per le quali però contestualmente si aumentano sia i minimi sia i massimi di pena. In sostanza anche gli autori di questi 2 reati potranno, versando quanto dovuto più sanzioni amministrative e interessi, evitare di essere colpiti sul piano penale. A patto che il ravvedimento sia antecedente a qualsiasi attività di accertamento. Il che, in realtà, rischia di depotenziare la misura. Si è poi attenuato l’aumento delle pene per i delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione, pure in un contesto di inasprimento rispetto al regime attuale: per il primo reato infatti si lima di 6 mesi il massimo di pena, portandolo da 5 anni a 4 anni e 6 mesi. Un cambiamento non banale perché rende impossibile la custodia cautelare. E sempre sulla dichiarazione infedele, risorge, il decreto legge l’aveva cancellata del tutto, un’area di irrilevanza penale per le valutazioni che complessivamente considerate (non più singolarmente) differiscono di meno del 10% da quelle corrette. Come pure l’abbassamento di 1 anno del massimo del carcere, da 6 a 5, sia nell’ipotesi del singolo contribuente sia del contribuente sostituto d’imposta, ha come conseguenza il fatto di impedire l’effettuazione di intercettazioni, alle quali invece il testo in discussione aveva aperto (come segnalato sul Sole 24 Ore del 26 ottobre). Tramonta anche l’abbassamento delle soglie di rilevanza penale, che il decreto ha abbassato con la conseguenza di allargare l’area delle condotte sanzionabili, per le due fattispecie di omessi versamenti, Iva e ritenute. Resteranno così, in vigore quelle attuali, di 150.000 euro per le omesse ritenute e di 250.000 per omesso versamento dell’Iva. Per quanto riguarda la confisca di sproporzione, per la quale l’ultimissima correzione della nottata esclude l’applicazione retroattiva, le modifiche approvate puntano a selezionare i reati più gravi in rapporto a due criteri alternativi, si spiega, a seconda della struttura del reato: - per i reati che necessariamente richiedono, per la punibilità, il superamento di una soglia di evasione d’imposta (è il caso della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, e dell’ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte), la confisca per sproporzione viene limitata ai casi in cui sia stata accertata una evasione di imposta superiore a 100.000 euro; - per gli altri reati, la confisca per sproporzione viene limitata ai casi di emissione di fatture per operazioni inesistenti o di indicazione di elementi attivi inferiori a quelli effettivi o di elementi passivi fittizi per importi superiori a 200.000 euro. L’obiettivo è di limitare la misura a condotte che, in ogni caso, sono idonee a produrre un’evasione fiscale di entità rilevante, variabile a seconda dell’aliquota applicabile e comunque vicina, nella maggior parte dei casi a 100.000 euro. Sempre sulla confisca di sproporzione, la misura è limitata alle persone fisiche condannate. La sproporzione riguarda i beni o le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per “schermi”, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in misura del tutto sproporzionata al proprio reddito. In applicazione della disciplina generale, chiarisce la relazione all’emendamento, il condannato potrà giustificare la provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli è provento o reimpiego dell’evasione fiscale a condizione che l’obbligazione tributaria venga estinta. Riciclaggio per chi accetta bonifici dalla società cartiera, provento di truffe di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2019 Scatta il reato di riciclaggio per chi riceve sul proprio conto corrente bonifici, relativi a somme di provenienza delittuosa. Una conclusione raggiunta dai giudici di merito e avallata dalla Cassazione, basata sulle caratteristiche della società, e della persona fisica, che aveva disposto gli “accediti”, e sugli stretti legami tra il ricorrente e l’organizzazione criminale che aveva programmato un numero indeterminato di truffe a danno di istituti di finanziamento. Nel mirino degli inquirenti erano finite, in particolare, pratiche fittizie, supportate da una falsa documentazione e i rapporti solo apparenti di lavoro tra gli indagati e le società emittenti che versavano somme, a titolo retributivo, ai soggetti che materialmente ricevevano i finanziamenti. Per la Suprema corte è logicamente plausibile il ragionamento seguito dall’ordinanza del tribunale impugnata secondo la quale, “ravvisata l’inesistenza di effettivi apparati aziendali, rivestendo le società coinvolte in quelle operazioni il ruolo di “società cartiere”, conduceva a ritenere che le somme a disposizione di dette società, su cui confluivano anche gli importi dei finanziamenti ottenuti grazie alle truffe perpetrate, dovevano essere di provenienza delittuosa”. Per la Cassazione in questo quadro diventa ininfluente individuare in modo specifico le singole poste di denaro utilizzate per fare i bonifici “a fronte della prova logica così rappresentata”. Concorrenza, c’è il reato se le minacce ostacolano le scelte dell’imprenditore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2019 L’illecita concorrenza con violenza e minaccia, scatta quando gli atti, commessi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, sono tali da contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente. Questa la decisione, presa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, anticipata da un’informazione provvisoria, in attesa delle motivazioni . A rimettere gli atti al Supremo consesso era stata la terza sezione penale per dirimere un contrasto segnalato più volte dal massimario. I dubbi riguardavano il perimetro applicativo dell’articolo 513-bis del Codice penale. Le Sezioni unite sono state chiamate a chiarire se la norma reprime solo le condotte tipicamente concorrenziali, come disegnate dall’articolo 2598 del Codice civile, “rafforzate” dalla violenza o dalla minaccia, oppure se il raggio d’azione si estende anche agli atti intimidatori comunque idonei ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nella propria attività imprenditoriale. Secondo un primo indirizzo, basato su un’interpretazione letterale, l’elemento oggettivo del reato starebbe nella sola repressione delle condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive, come il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare ecc. Azioni tutte commesse con violenze e minacce utili a inibire la normale dialettica imprenditoriale. Mentre non rientrerebbero nella fattispecie le intimidazioni finalizzate a ostacolare e contrastare la libera concorrenza di altri, ma al di fuori dell’attività concorrenziale. È il caso, ad esempio di un’aggressione diretta ai beni dell’imprenditore “rivale” o della sua persona, rispetto ai quali sono configurabili reati diversi da quello analizzato dai giudici. Una tesi che guarda alla ratio della norma di tutela della libera concorrenza. Per il secondo orientamento invece è sufficiente l’uso della violenza e della minaccia, tale da impedire al concorrente di autodeterminarsi nello svolgere la sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva. Il delitto c’è dunque, ed è questa la tesi abbracciata dalle Sezioni unite, con tutti i comportamenti attivi e impeditivi dell’altrui concorrenza, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia che falsano il mercato e consentono di raggiungere, in danno al minacciato, posizioni di vantaggio sul libero mercato, che non dipende dalla sue capacità operative. Una conclusione che fa leva sull’intento del legislatore di reprimere le forme di intimidazione legate ala criminalità organizzata specialmente di stampo mafioso, per un altro verso l’interpretazione fa leva sul Codice civile che, oltre ai casi tipici di concorrenza sleale parassitaria o attiva, contiene una norma di chiusura secondo la quale sono concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi di correttezza professionale che danneggiano le altre aziende. Da qui l’inserimento nella fattispecie esaminata non solo delle condotte tipicamente concorrenziali, ma anche tutte le intimidazioni che hanno lo scopo di ostacolare la libertà di concorrenza. Marijuana in casa, connivenza non punibile per il convivente di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2019 Corte d’appello di Roma - Sezione II penale - Sentenza 15 maggio 2019 n. 6346. In caso di detenzione o coltivazione di sostanze stupefacenti all’interno dell’abitazione del convivente, quest’ultimo non è imputabile per concorso nel reato se non viene dimostrato il suo apporto alla condotta criminosa del partner, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso, configurandosi in tal caso una mera connivenza non punibile. Questo è quanto si desume dalla sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6346/2019. Il caso - La vicenda oggetto della decisione riguarda una coppia di conviventi, trovati in possesso presso l’abitazione di proprietà della donna di un quantitativo di marijuana pari a 110 g. e a 19 piante di Cannabis Indica, da cui era complessivamente possibile ricavare oltre 380 dosi. Tratti a giudizio per rispondere del reato ex articolo 73 del testo unico in materia di stupefacenti (Dpr n. 309/1990) in concorso tra loro, i due venivano condannati dal Tribunale, che non prendeva in considerazione la tesi del consumo personale della sostanza, in relazione all’uomo, per la mancanza in casa sia di contanti che di buste di confezionamento; né la tesi dell’assenza di concorso nel reato, in relazione alla donna, per la mancanza della prova di un suo contributo alla coltivazione e custodia della sostanza medesima. La distinzione tra connivenza non punibile e concorso di reato - Giunti in appello, il verdetto rimane immutato circa la posizione dell’uomo, per via del quantitativo sproporzionato rispetto alla finalità di uso personale, ma cambia nei confronti della donna. Ebbene, secondo la Corte d’appello nella fattispecie non si è in presenza di un concorso nel reato, bensì di una cosiddetta connivenza non punibile, ovvero quella situazione nella quale un soggetto è a conoscenza della commissione di un reato ma non arreca alcun contributo alla sua realizzazione, né sotto il profilo causale né sotto il profilo psicologico. In altri termini, spiega il Collegio, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità proprio con riferimento ai reati in materia di stupefacenti, si configura una connivenza non punibile “a fronte di una condotta meramente passiva, consistente nell’assistenza inerte, inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione dell’illecito, di cui pur si conosca la sussistenza, mentre ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito”. Ciò posto, nel caso di specie, secondo i giudici, non è ben spiegato dall’accusa il tipo di apporto che la donna può aver dato alla consumazione del reato da parte del compagno, non potendo essere confusa la titolarità dell’immobile in cui è stata rinvenuta la sostanza stupefacente con una partecipazione effettiva all’azione criminosa. Piemonte. Lettera al Consiglio Regionale sulla scelta del Garante regionale dei detenuti asgi.it, 3 dicembre 2019 È una figura cruciale per la tutela delle persone private della libertà, vanno valutate le competenze e la capacità di fare rete con il territorio, chiedono associazioni e garanti locali in una lettera al Consiglio Regionale del Piemonte. Egr. Presidente, Preg. mi Consiglieri, il Consiglio regionale del Piemonte sta discutendo la nomina del nuovo Garante Regionale delle Persone detenute e private della libertà. Alla figura del Garante fanno esplicito riferimento alcune fonti di diritto internazionale come il Protocollo opzionale delle Nazioni Unite per la Prevenzione della tortura (Opcat). L’adesione a tale protocollo prevede che lo Stato debba predisporre un meccanismo nazionale indipendente (Npm) per monitorare, con visite e accesso a documenti, i luoghi di privazione della libertà al fine di prevenire qualsiasi situazione di possibile trattamento contrario alla dignità delle persone. Per tale compito il Garante nazionale, coordina i Garanti regionali, dando ad essi “forme” e procedure comuni. La quasi totalità delle Regioni italiane ha correttamente deciso di istituire la figura del Garante regionale, in Piemonte la legge istitutiva è la l. reg. 28/2009. Si tratta di un ruolo che necessita competenza e profonda conoscenza della materia, essendo la privazione della libertà il più delicato dei poteri che l’autorità pubblica può praticare sui consociati. Quella del Garante è dunque una figura cruciale per la tutela delle persone private della libertà, di cui deve essere garantita l’indipendenza, come dimostrano recenti inchieste della magistratura. Si tratta inoltre di una figura con compiti gravosi e in continua espansione, dovendosi occupare anche della detenzione amministrativa e di ogni situazione di privazione della libertà de facto, si pensi all’ambito sanitario (Trattamenti Sanitari Obbligatori, internamento psichiatrico, case di cura per persone incapaci di intendere e volere). Un ruolo che deve sapere “fare rete” con le istituzioni pubbliche e private che si occupano dell’esecuzione penale e della privazione della libertà e deve garantire che questa si svolga nei limiti della legge e nel rispetto dei principi costituzionali. Siamo un gruppo di associazioni, professionisti e cittadini che da anni operano a vario titolo nell’ambito dell’esecuzione penale, e siamo preoccupati che la nomina di un Garante senza una reale e comprovata conoscenza della materia, possa screditare il suo stesso ruolo istituzionale e non essere funzionale agli obiettivi previsti dalla legge regionale. È proprio l’art. 2 della l.r. n. 28/2009 a prevedere che la scelta del Garante avvenga “ Tra persone che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di responsabilità e rilievo nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e negli uffici di esecuzione penale esterna o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale”. In questo senso si erano già espressi i Garanti comunali piemontesi, in una lettera-appello inviata alcune settimane fa. Chiediamo dunque che il Consiglio regionale valuti con attenzione le effettive competenze dei candidati alla carica, riservandosi, se necessario, un’attività istruttoria suppletiva. Chiediamo inoltre di poter essere ricevuti per approfondire le problematiche del sistema penitenziario piemontese e avanzare proposte sul ruolo della Regione e del Garante. Sperando che questa Nostra richiesta possa essere ascoltata, porgiamo distinti saluti. Associazione Antigone Piemonte ASGI - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione Associazione Volontari Penitenziari ODV, Ivrea Associazione Itaca, Biella CNVG (Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia) - sede regionale del Piemonte Osservatorio nazionale sulle condizioni detentive dell’Associazione Antigone Strali - Avvocati per il contenzioso strategico I Garanti territoriali del Piemonte Paolo Allemano, Garante comunale di Saluzzo Don Dino Campiotti, Garante comunale di Novara Sonia Caronni, Garante comunale di Biella Anna Cellamaro, Garante comunale di Asti Bruna Chiotti, Garante comunale di Saluzzo Rosanna Degiovanni, già Garante comunale di Fossano Rosita Flaibani, Garante comunale di Vercelli Paola Ferlauto, Garante comunale di Asti Monica Cristina Gallo, Garante comunale di Torino Manuela Leporati, Garante comunale di Vercelli Silvia Magistrini, Garante comunale di Verbania Armando Michelizza, Garante comunale di Ivrea Paola Perinetto, Garante comunale di Ivrea Davide Petrini, Garante comunale di Alessandria Alessandro Prandi, Garante comunale di Alba Marco Revelli, Garante comunale di Alessandria Mario Tretola, Garante comunale di Cuneo Sicilia. Il governatore Musumeci: “Il carcere di Agrigento? Da vergognarsi” Nuovo Sud, 3 dicembre 2019 “Da presidente della Regione, mi vergogno, dopo aver visitato questo istituto, di dire che questo sia un luogo di rieducazione. Chi sbaglia ha il dovere di pagare, lo Stato ha però il dovere di recuperare chi ha sbagliato e questo è certamente l’esempio peggiore”. Lo ha detto il presidente della Regione, Nello Musumeci, all’uscita dal carcere “Di Lorenzo” di contrada Petrusa ad Agrigento. Nei giorni scorsi, il governatore - facendo riferimento alla notizia delle violenze che sarebbero state perpetrate nei confronti dei detenuti, ospitati nel reparto di isolamento, - aveva scritto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sulle presunte violenze, la Procura della Repubblica di Agrigento ha anche avviato un’inchiesta. “Al ministro vorrei dire tante cose e gliele dirò perché lo incontrerò e gli devo dire che quello di Agrigento non è il solo istituto che si trova in queste condizioni - ha aggiunto Musumeci. Quindi noi abbiamo la necessità, anche con il garante per i diritti dei detenuti nominato dalla Regione, di fare un quadro completo e presentarlo al governo centrale”. Parma. “Quei tre cellulari al 41bis sono una falla nelle condizioni di lavoro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2019 Il Garante di Parma, Roberto Cavalieri, critica la struttura penitenziaria cittadina. Per la prima volta un detenuto al 41bis è stato scoperto con tre cellulari a disposizione: un IPhone e due apparecchi Android. Parliamo del camorrista Giuseppe Gallo, recluso al carcere di Parma e, dopo il ritrovamento, trasferito nel giro di 24 ore al carcere di Tolmezzo. Come ha potuto ottenere i telefoni visto la meticolosità dei controlli, quasi maniacale, per chi è recluso al cosiddetto carcere duro? I controlli sui detenuti in regime speciale sono infatti maggiori rispetto a quelli effettuati sui reclusi normali: vi sono perquisizioni con il metal detector ogni volta che entrano o escono dalla cella, accompagnato dal controllo delle suole delle scarpe. In alcuni istituti - come ha osservato il Garante nazionale delle persone private della libertà nel suo rapporto tematico sul regime del 41bis, poi, è stata rilevata la prassi della perquisizione con denudamento (e talvolta anche con flessioni) non motivata da alcuna specifica situazione o provvedimento. Tale pratica era già stata criticata dalla Corte costituzionale che ne aveva censurato l’utilizzo consuetudinario di tale misura, considerandolo illegittimo, quando attuato in maniera sistematica e consuetudinaria. Anche i colloqui con i familiari hanno regole ferree. Lo svolgimento dei colloqui visivi avviene presso locali adibiti, muniti di vetro a tutta altezza, tale da non consentire il passaggio di oggetti di qualsiasi specie, tipo o dimensione. Il chiaro ascolto reciproco da parte dei colloquianti viene garantito con le attuali strumentazioni predisposte. Il detenuto può chiedere che i colloqui con i figli e con i nipoti minori di anni 12, avvengano senza vetro divisorio per tutta la durata, assicurando la presenza del minore nello spazio riservato al detenuto e la contestuale presenza degli altri familiari dall’altra parte del vetro. Ma il bambino viene comunque perquisito e detto colloquio è sottoposto a videoregistrazione ed ascolto. Anche i pacchi che i familiari possono spedire al detenuto, devono rispettare regole ferree e comunque vengono ovviamente ispezionati accuratamente. C’è chi, approfittando della notizia di cronaca, parla di presunto alleggerimento del 41bis e mette sotto accusa alcune pronunce della magistratura. Ma non si capisce cosa c’entri il fatto del boss scovato con i tre cellulari, con le pronunce che hanno ridotto alcune misure inutilmente afflittive. Si pensi all’abolizione del divieto di vedere la televisione di notte, la possibilità di cuocere cibi, oppure quella di garantire le due ore di permanenza all’aria aperta. Cosa c’entra tutto questo con i controlli mai messi in discussione? Si fa cenno anche alla famosa circolare del 2017 che ha previsto uniformità delle regole per tutti gli istituti penitenziari che ospitano il 41bis. In realtà lo stesso Garante nazionale ha osservato che la circolare ha destato alcune perplessità per la tendenza a una “omogeneità al ribasso che ha determinato, in generale, applicazioni più restrittive”. Proprio in tale circolare, infatti, si nota una definizione eccessivamente dettagliata di norme regolatrici della vita quotidiana. Anche in questo caso non si capisce cosa c’entri con l’eventuale detenzione illecita dei cellulari. Il caso specifico del recluso al carcere di Parma è ora oggetto di indagini e dovrà chiarire come sia stato possibile la detenzione dei tre cellulari. Il Dubbio ha contattato il garante locale del comune di Parma, Roberto Cavalieri, il quale stigmatizza che questo ritrovamento sia il frutto e la conseguenza di una operazione di “smantellamento” del significato del regime dei 41bis cosi come sostengono alcuni giornali. “Trovo le ragioni di questa falla nelle condizioni di lavoro - spiega il garante Cavalieri - e della effettiva operatività del personale della Polizia Penitenziaria e dei Gom”. Il garante locale punta l’indice alla struttura del carcere. “Il problema - osserva Cavalieri - è la struttura del 41bis di Parma che è stato adattato nel reparto ex femminile sgomberato alla metà degli anni 90. Forse nessuno si è ancora accorto che dalle finestre dell’ultimo piano del reparto 41bis i detenuti possono vedere le finestre delle celle del nuovo padiglione. Cosa succederà quando questo nuovo padiglione sarò abitato?”. Il garante dei detenuti Cavalieri conclude con un auspicio: “È arrivato il momento di mandare altrove i detenuti 41bis e nel reparto che ora occupano aprire un centro clinico ospedaliero detentivo con servizi sanitari all’altezza dei bisogni dei detenuti di Parma e del Paese visto che arrivano da tutte le regioni detenuti con gravi patologie”. Trento. Al carcere di Spini assistenza sanitaria h24 dal prossimo primo gennaio Ansa.it, 3 dicembre 2019 Si sta inoltre ratificando il Piano prevenzione dei suicidi. Dal primo gennaio 2020, nel carcere di Trento, ci sarà una copertura 24 ore su 24 dell’assistenza sanitaria da parte di un medico sempre presente. Si sta anche ratificando il Piano locale della prevenzione dei suicidi e delle autolesioni, che verrà firmato alla fine di quest’anno, per consentire alle varie componenti di essere coinvolte negli interventi riabilitativi e di prevenzione e tutela nei confronti dei detenuti. Lo ha comunicato il direttore sanitario dell’Apss, Claudio Dario, al termine dell’incontro in Commissariato del governo in cui si è discusso della situazione del carcere di Spini, anche per fare il punto a poco meno di un anno dalla rivolta scoppiata dopo la morte di un detenuto che si era suicidato. “C’è stato già un adeguamento dell’assistenza infermieristica e c’è anche un importante presidio psicologico e psichiatrico, soprattutto ai fini di una riabilitazione dei detenuti più critici che con la chiusura degli ospedali psichiatrici, qualche anno fa, sono presenti nei nostri carceri”. Rovigo. Carcere, in arrivo cento detenuti per mafia di Giuliano Ramazzina Il Resto del Carlino, 3 dicembre 2019 Preoccupata la senatrice Stefani (Lega): “Il ministero ci garantisca sicurezza”. Le rassicurazioni di Gaffeo. “Abbiamo già avuto in paio di incontri in Prefettura e la situazione è sotto controllo”. È lo stesso sindaco di Rovigo, Edoardo Gaffeo, a confermare che nel carcere di Rovigo arriveranno cento detenuti per mafia, nell’ambito di un pacchetto veneto che ne porterà anche duecento nel carcere di Vicenza. Allo stato dei fatti, un centinaio sono già arrivati a Vicenza e una sessantina a Rovigo, ma nel giro di poche settimane tutti i posti di alta sicurezza delle due carceri saranno occupati da condannati per 416 bis, cioè associazione a delinquere di stampo mafioso. Le rassicurazioni del sindaco però non possono ridimensionare l’esistenza di un caso che presenta implicazioni politiche, sociali e di organizzazione carceraria. Il problema è che sono arrivate in Veneto notizie circa l’arrivo di alcuni famigliari dei detenuti e quindi c’è preoccupazione in un regione dove si sono verificati casi di infiltrazioni mafiose col dubbio che adesso manchino uomini e mezzi per contrastare questo tipo di criminalità. E la domanda che circola anche a Rovigo è perché si sia deciso di dirottare in Veneto un così elevato numero di condannati per mafia, e quali iniziative si intendano attuare per controllare che non s’infiltrino nel tessuto economico. Di questo stato d’animo si è fatta portavoce la senatrice della Lega, Erika Stefani, che ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, pensando a un’azione comune tra tutti i soggetti interessati per non sottovalutare le conseguenze che potrebbe avere l’arrivo in Veneto di un così elevato numero di condannati per mafia, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita. “Con l’interrogazione - sottolinea la senatrice Stefani - chiedo quali iniziative il ministero intenda mettere in atto per garantire la sicurezza del territorio ed evitare contatti tra l’interno e l’esterno del carcere. Quello mafioso è un reato frutto di relazioni, da qui nasce l’associazione a delinquere”. Che l’arrivo dei cento detenuti ‘scomodi’ crei preoccupazione è comprensibile, ma bisogna non sconfinare nell’allarmismo. Ne è convinto Giuseppe D’Alba dell’associazione Libera ed ex coordinatore. “Questi - sostiene - sono condannati che stanno scontando la pena e che la scontino a Roma, Palermo o Rovigo poco cambia. Personalmente vedo il carcere come una possibilità di recupero, qualcuno pensa a ripercussioni sul territorio per la presenza dei parenti, ma abbiano gli anticorpi per gestire la situazione e quindi non serve creare allarmismo”. Il sindaco Gaffeo, su questa falsariga, non vede problemi di convivenza per la comunità locale. “Non credo che ci saranno - commenta - é chiaro però che occorre tenere alta l’attenzione e faremo tutto quello che serve per monitorare la situazione, ma non mi aspetto che ci siano sconvolgimenti”. Ma a livello di organizzazione carceraria siamo pronti a ricevere a Rovigo questo tipo di criminalità? Bastano più agenti o serve anche un’attività di intelligence sul territorio? L’Ussp, sindacato degli agenti di polizia penitenziaria ha messo subito le mani avanti. “Gli arrivi - afferma Leonardo Angiulli, segretario regionale del sindacato - necessitano di un potenziamento di personale. Numeri e carenze - osserva - che si assommano. Ora al caso Vicenza si aggiunge anche quello di Rovigo”. Insomma, mentre si sta completando il trasferimento dei detenuti, il piatto piange anche nel carcere rodigino. Si poteva evitare questo ‘carico’ non desiderato per la città? “La Polizia sa fare il proprio lavoro - conclude il sindaco Gaffeo - se hanno fatto una valutazione di questo genere vuol dire che con risorse aggiuntive ci sarà la possibilità di gestire in sicurezza la nuova situazione carceraria”. Livorno. Biciclette donate per i detenuti ai lavori socialmente utili gonews.it, 3 dicembre 2019 Donate da cinque ditte del territorio consentiranno ai detenuti di spostarsi nei luoghi dove svolgono lavori socialmente utili. Sono state presentate questa mattina (2 dicembre) a palazzo comunale le 12 biciclette city bike a disposizione della Casa Circondariale “Le Sughere” di Livorno. Le biciclette sono infatti destinate ai detenuti che, nell’ambito del progetto “Mi riscatto per Livorno”, svolgono lavori socialmente utili in città. La bicicletta permetterà ai detenuti di spostarsi più facilmente e raggiungere in minor tempo i luoghi di lavoro. Al momento sono nove i detenuti - definiti di “media sicurezza” in quanto colpevoli di aver commesso reati minori - che lavorano a fianco di Aamps e dell’associazione Reset in lavori di pubblica utilità. Nei giorni festivi lavorano a fianco di Reset per la pulizia del parco delle Terme del Corallo, mentre nei giorni feriali svolgono attività presso le stazioni ecologiche ed in particolare presso i cassonetti con tessera collocati nel centro città per fornire informazioni utili ai cittadini. Prossimamente presteranno servizio anche presso il cimitero di Antignano. A donare le biciclette sono state cinque ditte locali: Bikestore, Quattro Ruote, Lumar Impianti, Magraf e Piccolo Birrificio Clandestino che erano presenti alla cerimonia di consegna dei mezzi. Le biciclette, di colore giallo, portano tutte la scritta “Mi riscatto per Livorno”, il progetto teso al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, finalizzato ad accorciare la distanza sociale tra chi si trova dentro il carcere e il resto della società. I nove detenuti, selezionati da una equipe dell’area trattamentale del carcere, sono già attivi da alcuni mesi, ma la distanza tra la Casa Circondariale e la Stazione da dove partono gli autobus diretti ai luoghi di lavoro, rende difficoltosi i loro spostamenti. Da qui la dotazione di biciclette che faciliteranno il loro lavoro oltre a rivestire un ruolo di responsabilizzazione. “Questo dell’utilizzo di un mezzo di spostamento come la bicicletta - ha sottolineato Patrizia Critti, funzionario giuridico pedagogico - rientra in un percorso di reinserimento del detenuto nel tessuto sociale. Il detenuto si sente utile ed impara un lavoro; al tempo stesso dandogli fiducia si assume delle responsabilità”. Presenti alla cerimonia di consegna delle biciclette, oltre al Garante dei Detenuti Giovanni De Peppo e l’Ispettore Superiore Emilio Giusti anche gli assessori Andrea Raspanti (Sociale) e Giovanna Cepparello (Ambiente) che hanno sottolineato l’importanza del progetto e la forte collaborazione tra Amministrazione e Carcere per far sì che la popolazione reclusa rappresenti una risorsa per il territorio. Pescara. Convegno “Dalla pena al perdono: riflessioni su giustizia e sistema carcere” radiolaquila1.it, 3 dicembre 2019 È questo il titolo del convegno organizzato dall’associazione “Voci di dentro” Onlus e dal Rotary Club Pescara Nord con il patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti dell’Abruzzo e della Camera Penale di Pescara, in programma giovedì 5 dicembre alle ore 15 nell’Aula Alessandrini all’interno del Palazzo di Giustizia di Pescara. Interverranno l’ex magistrato Gherardo Colombo saggista, fondatore dell’associazione “Sulle regole”, Umberto Curi professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova e docente all’Università San Raffaele di Milano, Caterina Iagnemma dottore di ricerca in Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano, Francesco Lo Piccolo giornalista, presidente di “Voci di dentro”, Giuseppe Mosconi già Ordinario di Sociologia del Diritto all’Università di Padova, la giornalista Rai Angela Trentini autrice del libro “La speranza oltre le sbarre”. Con la partecipazione di Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino”. L’incontro, moderato da Fabio Ferrante di “Voci di dentro”, sarà preceduto dai saluti di Massimo Di Cintio, presidente del Rotary Club Pescara Nord, del presidente del Tribunale di Pescara Angelo Mariano Bozza, del presidente della Camera Penale di Pescara Vincenzo Di Girolamo, e del presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Abruzzo Stefano Pallotta. Il convegno, pensato da Voci di dentro, associazione che da oltre dieci anni si occupa di carcere, vuole essere un momento di riflessione sul diritto penale sempre più lontano dai suoi paradigmi fondativi (tipicità del reato, proporzionalità eccetera) e sempre più vicino a una criminalizzazione di segmenti sociali (poveri, stranieri, immigrati). I relatori da più punti di vista esamineranno le fragilità del principio della retribuzione, l’irriformabilità del sistema carcere sempre più discarica sociale, le distorsioni operate dai media nella rappresentazione della pena. Concluderanno i lavori una serie di approfondite analisi sulla concezione della giustizia riparativa, sulle possibili ricadute nel sistema penale, sul perdono responsabile. Ai partecipanti saranno riconosciuti 4 crediti formativi professionali dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo e 3 crediti formativi dall’Ordine degli Avvocati di Pescara. Velletri (Rm). Ieri al penitenziario l’iniziativa di “Bambini senza sbarre” di Claudio Pelagallo inliberauscita.it, 3 dicembre 2019 Anche quest’anno la Casa Circondariale di Velletri ha aderito all’iniziativa dell’associazione “Bambini senza sbarre”, in collaborazione con il Ministero della Giustizia, che vede impegnati papà e bambini in una tenera partita di pallone. Una bella giornata di sole e sorrisi ha dato il benvenuto al mese di dicembre e dato il via a questa iniziativa che permette ai figli dei detenuti di condividere un momento di gioco con i propri papà a differenza dei formali colloqui che quotidianamente tantissimi bambini vivono, varcando le porte degli istituti penitenziari. Questa mattina i bambini sono stati accolti dalla Direttrice, dal personale della casa circondariale e dai volontari dell’associazione Vol.a.re. iniziando, come tutti i campioni, con una bella colazione! Indossate le “maglie” sono stati accompagnati al campo sportivo dove ad attenderli c’erano i loro impazienti papà. Un istruttore professionista ha dato il via ai giochi e così tra staffette, palloncini e goal si è condivisa una mattinata di sport e genitorialità, tutto supportato dal tifo delle mamme dei bambini, del personale di polizia penitenziaria e da altri detenuti. La mattinata si è conclusa con una bella merenda condivisa da tutte le famiglie all’interno dell’area verde, papà, mamme e i piccoli campioni che per qualche ora hanno vissuto un incontro diverso. I genitori detenuti vivono una doppia privazione della libertà, la loro e quella dei loro figli, il mantenimento degli affetti e la genitorialità sono parte integrante del percorso del detenuto. I bambini allo stesso tempo hanno il diritto di vivere i propri genitori anche se detenuti e queste iniziative hanno l’obiettivo di garantire questi diritti, tutelando soprattutto i più piccoli. In galera mi ha salvato Dostoevskij di Silvia Morosi Buone Notizie - Corriere della Sera, 3 dicembre 2019 Salvatore Torre ha 48 anni ed è in carcere da quando ne aveva 20. Ergastolano a Bollate (Mi), legge molto e scrive storie che sono state premiate. Intervista via mail: “La letteratura per interrogarmi sul mondo là fuori”. “Ricordo il fucile di precisione che uno dei tre emissari di mio padre mi lasciò per mirare [...], un primo assaggio del mondo reale della malavita. Avevo dodici anni, forse tredici”. Così Salvatore Torre racconta in una pagina di Atonement - Storia di un prigioniero e degli altri (Espiazione) il suo avvicinamento alla vita criminale. “Mio padre spesso ospite delle patrie galere e mia madre sempre al lavoro. Mi dava forza solo l’idea di essere parte di una comunità in cui sussistevano delle regole e dei principi ai quali ero tenuto a obbedire. Ereditai la mentalità malavitosa. L’avvicinamento al crimine organizzato fu una conseguenza. Meno scontata era la possibilità che io potessi concorrere a degli omicidi. Le cose invece andarono così”. Quasi cinquant’anni, ergastolano fine pena mai, in carcere da quando ne aveva venti, ha trovato anche nella letteratura - conosciuta e amata da quando è detenuto - un motivo per non arrendersi. In questo libro ha raccolto la sua storia e quelle di altri uomini e donne incontrati nelle carceri di tutta Italia, “vite come la mia, rovinate e rovinose”. Da qualche mese, dopo aver trascorso la maggior parte della sua esperienza detentiva in regime di Alta Sicurezza, si trova nel carcere di Bollate (Milano), in Media Sicurezza e possiamo dialogare con lui via mail: “Qui posso usare il computer dentro la cella, singola, colorata a mio piacimento, arredandola con scrittoio, cassettiera, mobiletto con scomparto per libri, ventilatore e tre vasi di piante”. A Saluzzo “era possibile ricevere i libri solo attraverso il lavorante bibliotecario, finché non lo divenni io stesso”. Nella lettura ha trovato il suo rifugio, anche smettendo di fumare nel 1996, per la paura che alla pena si potesse accompagnare la malattia, una qualsiasi. L’istinto di conservazione “Da bambino - scrive - andavo a scuola di malavoglia, mentre l’insegnante spiegava io sognavo di imitare Tarzan. La lettura, che non fosse quella dei fumetti per ragazzi, la scoprii durante quel mese trascorso in isolamento nel minorile di Messina. I ragazzi di Jo di Alcot, Kim di Kipling, Cuore di De Amicis, Il richiamo della Foresta di London e molti altri romanzi riempirono quelle ore di solitudine”. Sulla parete della cella di isolamento del minorile, dove fu rinchiuso 32 giorni di fila, “scrissi qualcosa che avevo appena letto nel libro di Twain, una incitazione a non mollare che feci mia e sotto vi incisi il mio nome”. Alla letteratura - come strumento di salvezza - si avvicinò realmente durante la detenzione da ergastolano. “Fu dovuto, credo, all’istinto di conservazione: un ramo al quale aggrapparmi per non scivolare nell’apatia e nello squilibrio psichico”. Prima Verga, Stendhal, Maupassant, Dumas, poi il suo preferito, Dostoevskij, “capace di far emergere la nascosta umanità, i sentimenti più profondi e le speranze che agitano l’essere umano nei momenti di sofferenza. È attraverso la letteratura che ancora oggi continuo a interrogarmi sulla vita interiore e sul mondo fuori. La scrittura, invece, mi mette di fronte ai miei limiti, anche emotivi”, spiega. Il primo salto al pubblico è stato il Premio Goliarda Sapienza, nel 2011:”Da allora ho partecipato ogni anno e questo percorso mi ha portato a scrivere Atonement, un’occasione per guardare in faccia i miei fantasmi e non averne più paura”. Certo, finché non prevarrà la cultura della rieducazione rispetto alla repressione, questo rimarrà il problema principale. Perché la pena realizzi il suo scopo dovrebbe “instaurare con il condannato un rapporto di fiducia che lo consapevolizzi del fatto che cambiare il suo comportamento deviante sia utile innanzitutto a sé”, conclude. “Ventotto anni dopo il mio ultimo arresto, colgo ogni occasione per raccontare a quel ragazzetto l’esistenza di un altro mondo possibile. Non mi sono arreso perché, nonostante tutto, sono innamorato della vita e ho un debito di amore verso mia madre”. Il carcere, conclude monsignor Dario Viganò, che ha conosciuto Torre e ha scritto la prefazione, “deve rappresentare per i reclusi un tratto dell’esistenza che ha come obiettivo non solo quello di pagare un debito con la giustizia, ma anche di individuare le strade possibili per una rinnovata esistenza, offrendo cammini di riappropriazione di sé. Papa Francesco su questo è chiaro: se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Il Salvatore di oggi - insomma - non coincide con quello “cresciuto nella borgata di una cittadina siciliana ad alta concentrazione malavitosa, che passò dai giochi alle pistole, come un fatto scontato”, conclude Antonella Bolelli Ferrera, curatrice del libro. Un uomo che “ha curato la mente e anche il corpo, smettendo di fumare, allenandosi e seguendo una dieta equilibrata”. E sorride: “Quando lo vai a trovare, non mancano mai un termos di caffè, biscotti e caramelle (in fondo, ti sta ospitando a casa sua), ma lui non tocca nulla, non si lascia tentare”. Migranti. Un codice europeo per Stati Ue e navi delle Ong di Carlo Lania Il Manifesto, 3 dicembre 2019 Lo ha chiesto Lamorgese al vertice Gai di Bruxelles. Critiche le organizzazioni umanitarie. “Non è in discussione il ruolo in prima linea dell’Italia nelle operazioni di salvataggio delle vite umane in mare”, ma “servono regole più sicure e norme di condotta valide per tutti gli Stati, compresi quelli di bandiera” delle navi impegnate nei soccorsi. A Bruxelles per il vertice dei ministri dell’Interno Ue, la ministra Luciana Lamorgese arriva con una proposta che punta alla creazione di un codice di comportamento per le operazioni Sar (ricerca e salvataggio) nel Mediterraneo. In sostanza qualcosa di simile al Codice Minniti che l’allora ministro Pd chiese - non senza suscitare polemiche - alle ong di sottoscrivere, esteso però agli Stati nella speranza di riuscire a vincolarli sia ai meccanismi di redistribuzione dei migranti, che nella certificazione delle navi private che svolgono attività di soccorso “in modo esclusivo e preminente”. Definizione che, pur senza nominarle mai direttamente, lascia intravvedere nuove possibili restrizioni per le navi delle organizzazioni umanitarie. “Ci sarà un confronto tra tutti gli Stati che hanno dimostrato sensibilità su questi temi” ha spiegato la titolare del Viminale al termine del vertice. Ogni decisione è rimandata al prossimo summit dei ministri dell’Interno previsto per gennaio. Nel frattempo si lavora per “responsabilizzare” soprattutto gli Stati di bandiera delle navi nelle operazioni di sbarco e successiva redistribuzione dei migranti. Stati di bandiera che devono impegnarsi anche nell’inquadrare sul piano giuridico l’attività delle imbarcazioni private, disciplinando con norme comuni a tutti i Paesi membri i “riferimenti tecnici” che devono possedere per poter svolgere attività di ricerca e salvataggio. Non si tratta, quest’ultima, di una novità. Nei mesi passati Spagna e Olanda, ad esempio, hanno fermato ong come Open Arms e Sea Watch chiedendo loro di adeguare le rispettive navi alle nuove esigenze dettate soprattutto dalla politica italiana dei porti chiusi, che costringeva migranti ed equipaggi a lunghe attese in mare prima di potersi recare verso un porto sicuro. Adeguamenti tecnici che le ong hanno più volte contestato, spiegando di non essere traghetti o navi da crociera che devono provvedere a lunghi periodi di permanenza a bordo ma, per l’appunto, mezzi di soccorso che una volta effettuati i salvataggi devono far sbarcare al più presto i naufraghi. E anche ieri le prime reazioni alle notizie in arrivo da Bruxelles sono andate in questa direzione. “Un codice già esiste, è il diritto internazionale e le ong sono le sole che lo rispettano”, spiega ad esempio Marco Bertotto, responsabile Affari umanitari di Medici senza frontiere. “Se l’Italia intende vincolare gli Stati al rispetto del codice internazionale siamo d’accordo, se invece il tentativo è quello di ostacolare le navi delle organizzazioni umanitarie allora stiamo andando nella direzione sbagliata”. Sulla stessa linea anche l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, per il quale “non si può chiedere alle ong di investire in tecnologie soldi che non hanno, soprattutto a quelle italiane. Farlo significa rendere impraticabile il soccorso in mare”. Al vertice non si è parlato della riforma di Dublino ma la necessità di modificare il sistema di asilo europeo, sponsorizzata in modo particolare dalla Germania che nei giorni scorsi ha presentato una sua bozza di nuovo regolamento, è stata comunque presente. Come confermato dalle parole di Margaritis Schinas, nuovo commissario all’Immigrazione, che ha incontrato il ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer insieme alla commissaria per gli Affari Interni Yilva Johanson: “Siamo totalmente in sintonia con la Germania”, ha assicurato Schinas. “Abbiamo bisogno di questo accordo e lavoreremo sodo per ottenerlo”. Infine l’accordo di Malta sulla distribuzione dei migranti. Lamorgese si è detta soddisfatta dei progressi ottenuti. “Attualmente - ha spiegato - sono 10-11 i Paesi che hanno dato adesione a questo tipo di protocollo e negli ultimi sbarchi è accaduta una cosa che non era accaduta prima, vale a dire che la Commissione europea ha fatto la richiesta di redistribuzione in Europa dei migranti pervenuti sulle coste italiane”. Migranti. Ci occupiamo di chi arriva, non dei migranti già in Italia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 dicembre 2019 I due opposti schieramenti mostrano solo uno spicchio della nostra realtà, il dato di flusso. Ma ci sono almeno 650 mila irregolari che sopravvivono senza diritti né certezze. Il tanto dileggiato accordo maltese sui migranti, siglato a settembre con Germania e Francia, sta producendo qualche risultato nel ricollocamento degli ultimi arrivati: un esito positivo anche dovuto, si suppone, al sollievo, per talune cancellerie, di non trovarsi alle prese con Matteo Salvini; e tuttavia ancora assai scarso rispetto alle dimensioni reali del problema per noi italiani. Dimensioni che l’Europa continua a ignorare. L’illusione ottica sui migranti, creata per opposti interessi dalla destra e dalla sinistra negli ultimi anni, ha infatti prodotto danni gravi all’immagine internazionale dell’Italia e all’efficacia delle sue posizioni. In un recente convegno sull’ascesa dei populismi europei, una intellettuale liberal autorevole come Anne Applebaum, americana naturalizzata polacca e dunque molto addentro alle vicende dell’Europa, ha avuto parole dure, su questo punto, persino verso il sistema italiano dell’informazione. Spiegando di averci posto “sotto osservazione” nel 2018, ha comparato la copertura mediatica del tema, in crescita, con il crollo degli sbarchi (nel 2018, 23 mila contro i 119 mila del 2017: un calo poi rafforzatosi nel 2019). Da ciò ha dedotto che siano i media ad avere contributo col loro atteggiamento emergenzialista al successo del sovranismo nostrano: “In Italia l’immigrazione non è centrale, è qualcosa che i partiti sovranisti e populisti usano per guadagnare voti: la stampa la sovrastima”. Di certo in perfetta buonafede, la saggista premio Pulitzer ha quindi mostrato a giornalisti e professori del think tank Faith Angle Europe(riuniti a dibattere di Salvini e Le Pen, Brexit e Orbán, oltre che di tolleranza religiosa e Islam) solo uno spicchio della nostra realtà, esattamente quello che viene esibito ormai da tempo dai due opposti schieramenti politici: il dato parziale, di flusso. Manca nell’analisi, a spiegare l’attenzione dei media italiani sul fenomeno, il dato di stock: ovvero i 600 mila migranti irregolari fuorusciti nel corso degli anni dal nostro pessimo sistema di accoglienza e rimasti incastrati da noi. Il numero (da rivedere al rialzo, per effetto perverso del problematico primo decreto Sicurezza voluto da Salvini quand’era al Viminale, e oggi arrivato ad almeno 650 mila irregolari secondo il ricercatore Matteo Villa dell’Ispi) racconta di una umanità dolente e clandestina che, rannicchiata in una sorta di limbo nelle pieghe delle nostre periferie, sopravvive senza diritti né certezze accanto ad autoctoni già ampiamente provati dalla crisi economica, generando tensioni, disagi, talvolta scontri tra ultimi e penultimi non certo inventati dai media. E descrive con efficacia anche la solitudine dell’Italia negli anni della grande crisi migratoria, quando le frontiere europee si chiusero attorno a noi per effetto del panico da jihadismo, lasciandoci a fronteggiare sbarchi e accoglienza come se non fossimo la vera frontiera Sud dell’Unione. L’elemento singolare è che a questa illusione ottica hanno contribuito i principali attori della nostra scena politica per motivi contrari e simmetrici. Salvini, una volta arrivato al governo nel 2018, ha rimosso il dato di stock che aveva promesso di affrontare con decisione in campagna elettorale. La ragione è assai semplice: per diminuire quel numero così elevato bisogna fare molti rimpatri, che sono assai costosi e richiedono molti accordi bilaterali neppure abbozzati. In generale, occorrerebbe una strategia di piccoli passi concreti, poco remunerativa in termini di consenso. L’allora titolare del Viminale ha preferito a suo tempo convogliare l’attenzione su poche decine di profughi di volta in volta bloccati per settimane sulle navi Ong al largo delle nostre coste, enfatizzando su quei numeri minuscoli il tema della “difesa dei confini”. Ora, di nuovo in campagna elettorale, il leader della Lega continua a concentrarsi sui piccoli numeri (accusando il nuovo esecutivo di avere “riaperto” porti che non sono mai stati realmente chiusi) e si tiene ben distante dai 650 mila irregolari. Per paradosso, pure la sinistra adesso al governo preferisce glissare, ben contenta che quei 650 mila restino invisibili (anche perché buona parte di essi è tracimata nel caos da un sistema retto da governi trainati dal Pd tra il 2013 e il 2017). Evocare il problema in tutta la sua dimensione implicherebbe scelte dolorose e, ancora, foriere di scarso consenso nella base cui sembra rivolgersi il nuovo corso del partito di Nicola Zingaretti. E metterebbe i vertici del Nazareno di fronte alla necessità di coniugare la solidarietà con la sicurezza. Magari aprendo nuovi Cie come proponeva Marco Minniti prima di essere ostracizzato dai suoi stessi compagni di partito. Di sicuro rendendo assai difficile innalzare di nuovo la bandiera dello ius soli. È verissimo, come sostiene Applebaum, che l’immigrazione in Italia (e non solo) è un contenitore in cui si convogliano svariate ragioni di ansia: la paura della miseria, il timore che venga rovesciato il nostro stile di vita, persino l’assenza di certezze in campo religioso. Ed è vero che, se gestita, può invece divenire la linfa necessaria a rivitalizzare la nostra esangue società. Ma occorrerà fare patti chiari con i cittadini. Spiegare loro opportunità e rischi con franchezza. Qualcosa di diverso dalla cabala dentro cui abbiamo nascosto i veri termini del problema: sino a renderlo incomprensibile anche a chi in Europa, per buona volontà o calcolo, volesse perfino darci una mano. Cinque storie di coraggio dei giovani e una campagna per difenderli di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 dicembre 2019 Yasaman Aryani ha sfidato le leggi discriminatorie sul velo forzato in Iran e ora deve scontare 10 anni dietro le sbarre. Marinel Ubaldo, un’attivista delle Filippine, sta sollecitando il suo governo a dichiarare un’emergenza climatica e proteggere le generazioni future dagli impatti devastanti dei cambiamenti climatici dopo che la sua casa è stata distrutta da un tifone. Sarah Mardini e Seán Binder hanno collaborato come volontari a un’organizzazione di ricerca e soccorso in mare in Grecia e hanno portato in salvo alcune persone che si trovavano in una situazione di pericolo. Ma sono finiti in carcere con l’accusa di spionaggio, traffico di esseri umani e appartenenza a un’organizzazione criminale, fino al rilascio su cauzione nel dicembre 2018, in attesa del processo. Loujain al-Hathloul, insieme a Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef, ha sostenuto pacificamente il diritto delle donne alla guida in Arabia Saudita. Per aver rivendicato pubblicamente questa vittoria, nella primavera del 2018 è finita in carcere. Nasu Abdulaziz aveva 23 anni quando degli uomini armati e con dei bulldozer sono piombati senza preavviso sulla sua comunità di Otodo Gbame, a Lagos in Nigeria, uccidendo nove persone e rendendo senzatetto almeno 30.000. In favore di Yasaman, Marinel, Sarah, Seán, Loujain e Nasu Amnesty International ha avviato la sua più grande campagna mondiale di raccolta firme: Write for Rights. Fino al 21 dicembre sarà possibile sostenere questi giovani attivisti e le loro richieste. Le loro storie sono un esempio del ruolo di primo piano nei principali movimenti di protesta e per i diritti umani che i giovani hanno assunto negli ultimi anni. La campagna di raccolta firme “Write for Rights 2019” è su: www.amnesty.it Messico. Linee guida per lavori di pubblica utilità dei detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 3 dicembre 2019 Un patto a cinque fra autorità politiche, giudiziarie e penitenziarie di Città del Messico, Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine e Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per completare il processo di implementazione del “Programma di lavori di pubblica utilità nel sistema penitenziario di Città del Messico”. Il testo degli Acuerdos è stato sottoscritto oggi nella sede del Gobierno de la Ciudad de México dalla Segretaria di Governo Rosa Icela Rodríguez Velázquez, dal rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine Antonino De Leo, dal presidente del Tribunale Rafael Guerra Álvarez, dal responsabile del Sistema penitenziario dello Stato di Città del Messico Antonio Hazael Ruíz Ortega e dal capo della delegazione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Massimo Parisi. Con il documento le parti si impegnano sostanzialmente su tre fronti: realizzare, congiuntamente con il potere giudiziario di Città del Messico, le linee guida operative del Programma; creare un gruppo di lavoro, integrato con i responsabili per l’ambiente, il lavoro, i servizi e la sicurezza della pubblica amministrazione locale, che si occupi di curare l’organizzazione dei lavori di pubblica utilità; pubblicare il Manuale delle buone pratiche del modello di reinserimento lavorativo a Città del Messico. Il “Programma di lavori di pubblica utilità nel sistema penitenziario di Città del Messico”, promosso dall’Unodc, punta a contribuire al processo di reinserimento sociale dei detenuti della capitale messicana, alla prevenzione della criminalità nonché alla riduzione della recidiva. L’implementazione si basa sul successo riscosso dal modello italiano “Mi riscatto per…”, che punta ad apportare benefici all’intera comunità, consentendo di cambiare la percezione dei cittadini verso le persone private della libertà e che, infine, permette al detenuto di sentirsi utile, di aumentare la propria autostima e di ripagare il proprio debito con la società. Venti i detenuti che sono stati selezionati e che in questi giorni stanno concludendo la loro formazione come curatori e manutentori di giardini e aree verdi: la primera brigada uscirà per la prima volta dal Centro penitenziario Ceresova fra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio 2020. Con l’Iran non si può dialogare: il governo mobiliti l’Onu per fermare la repressione di Elisabetta Zamparutti, Giulio Terzi Di Sant’Agata, Maurizio Turco* Il Dubbio, 3 dicembre 2019 Inaccettabile l’invito a Roma (forse declinato) del Ministro degli Esteri di Teheran: il regime ha già ucciso 450 oppositori e ne ha arrestati 10mila. È con grande indignazione che abbiamo appreso dell’invito rivolto dal governo italiano a Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri del regime iraniano, affinché intervenisse alla quinta edizione della conferenza “Roma Med - Dialoghi mediterranei”, che si terrà a Roma da giovedì a sabato prossimi. Al momento di mandare in stampa questo numero del giornale, non ci sono conferme sulla partecipazione di Zarif che, anzi, secondo le ultime indiscrezioni, avrebbe rinunciato al viaggio in Italia. A dissuaderlo potrebbero essere state sia le manifestazioni in corso in Iran che quelle che avrebbero potuto a tenersi Roma per protestare contro la dura repressione di Teheran. In Iran è in corso una rivolta che si è estesa a 182 città in 31 province. Le autorità hanno interrotto Internet e messo in atto una repressione che ha causato la morte di 450 persone, 4000 feriti e l’arresto di oltre 10mila manifestanti. La Resistenza iraniana ha pubblicato i nomi di 179 vittime, tra cui giovani e adolescenti, la maggior parte uccise da cecchini o dalle Guardie Rivoluzionarie che sparavano a distanza ravvicinata. La Guida Suprema ha dato l’ordine di sparare per uccidere. I social media sono pieni di video sulle atrocità commesse dalle forze di sicurezza in Iran. Il destino dei 10mila arrestati ci preoccupa, soprattutto perché le autorità ne hanno chiesto l’esecuzione e perché sono torturati a che facciano false confessioni in televisione. In queste condizioni, come poteva la conferenza “Roma Med - Dialoghi mediterranei” parlare di “dialogo” con Mohammad - Javad Zarif, che rappresenta un regime in guerra contro il suo popolo e responsabile di crimini contro l’umanità? Che dialogo ci può essere con un regime che è il campione mondiale delle esecuzioni e che si è reso responsabile del massacro di 30mila prigionieri politici nel 1988? L’invito a Zarif ha comunque significato voler ignorare tutto questo e perseverare nell’errore di considerare l’Iran la soluzione delle crisi del Medio Oriente quando invece ne è la causa anche con le sue politiche nucleari, missilistiche e di sostegno a movimenti terroristici, come tali foriere solo di destabilizzazione. Il Governo italiano dovrebbe considerare tutto questo come anche il fatto che Mohammad- Javad Zarif è in cima alla black list americana: invece di essere invitato dovrebbe essere portato davanti una Corte di giustizia per crimini contro l’umanità. Chiediamo al Governo e alla conferenza “Roma Med - Dialoghi mediterranei” di condannare fermamente la sanguinosa repressione in atto in Iran, di denunciare il ruolo destabilizzatore dell’Iran in Medio Oriente e di sollecitare le Nazioni unite ad inviare urgentemente una missione che accerti l’entità dei crimini compiuti e visiti i detenuti al fine di impedirne l’esecuzione. *Nessuno tocchi Caino