In Italia c’è una emergenza civiltà: si chiama carcere di Stefano Anastasia* Il Riformista, 31 dicembre 2019 Il Governo non solo non ha fatto niente, ma è artefice della situazione. Conte 1 si è preso la responsabilità di non portare a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta da Orlando e ha chiuso la porta alle misure alternative. Ancora una volta l’anno solare si chiude con un incremento della popolazione detenuta: 1.500 detenuti in più rispetto allo scorso anno. È il quarto anno di fila che la popolazione detenuta cresce, quattro anni da quando si sono esauriti gli effetti delle misure straordinarie messe in atto dopo la condanna della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento penitenziario. Condannati nel 2013, quando nelle carceri italiane erano ospitati 62mila detenuti, eravamo scesi fino a 52mila detenuti nel 2015, ma da allora l’aumento e costante e siamo di nuovo oltre i 61mila detenuti (al 30 novembre scorso). Punto e daccapo. Nel frattempo la capienza detentiva è sempre ottimisticamente valutata in circa 50mila posti letto, e dunque il tasso di affollamento ha ormai superato il 120% sul territorio nazionale, ma in molti istituti è ben oltre il 150%, il che significa che ogni tre detenuti. uno è di troppo. Naturalmente il sovraffollamento penitenziario si riflette sull’intero sistema penitenziario, non sono solo gli spazi che vengono a mancare, i letti a castello che si moltiplicano, le stanze che si affollano, ma tutte le risorse diminuiscono in maniera corrispondente. da quelle umane a quelle per l’assistenza sanitaria e per il reinserimento sociale dei condannati. Il personale penitenziario è sovraccarico, ma anche quello sanitario, e finanche i volontari faticano a star dietro alle richieste di aiuto. 52 sono stati i suicidi in carcere nel corso del 2019, secondo l’Osservatorio promosso da Ristretti Orizzonti, cui si accompagnano alcune decine di tentativi non riusciti (grazie al pronto intervento di compagni di stanza. poliziotti e sanitari) e sono migliaia di atti di autolesionismo. Decine certamente, più probabilmente centinaia sono stati, infine, gli episodi di violenza e di conflittualità in carcere, tra detenuti e tra agenti e detenuti, in un clima di tensione sempre più palpabile di cui le inchieste e le denunce pubbliche sono solo la punta dell’iceberg di una realtà che rimane sotto il livello d’emersione. L’andamento dei tassi di criminalità, come è noto, non riesce a spiegare questo incremento della popolazione detenuta. Da anni. diversi ministri dell’interno. di diversi governi e di diverso orientamento politico, ci rassicurano sul calo dei delitti e. in particolare. di quelli più gravi. Eppure la popolazione detenuta cresce, effetto di una passione per la punizione e il castigo che non è mai stata così forte come in questi anni. In fondo, il miracolo della riduzione della popolazione detenuta dopo la condanna di Strasburgo fu innanzitutto il successo di una contro-narrazione, guidata dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, che chiese e ottenne una diversa considerazione dello scandalo del sovraffollamento da parte di tutte le istituzioni competenti. Da gran parte dell’opinione pubblica e del ceto politico. Da tre anni a questa parte, invece, il vocabolario politico della paura ha ripreso a mietere successi e vittime: i successi per i suoi cinici imprenditori, sempre lì a promettere di buttar via la chiave, le vittime sacrificate in carcere per reati minori o per tutta la vita. Ci piacerebbe dire che la risposta del Governo non è stata adeguata alle necessità dei problemi emergenti, ma - a dire il vero - parte dei problemi sono stati causati proprio dall’azione di governo. Non possiamo dimenticare, infatti, che il primo Governo Conte, assumendo la responsabilità di non portare a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Orlando, abbia cancellato ogni previsione relativa alle alternative al carcere. finanche per i malati di mente, con il risultato di rendere sempre più difficile la gestione dei detenuti con gravi infermità mentali, costretti a restare in carcere per una disparità di trattamento sanata solo nel febbraio scorso dalla Corte costituzionale. L’indirizzo del governo giallo-verde in materia penitenziaria era chiaro: la certezza della pena avrebbe dovuto identificarsi con la certezza del carcere, diffuso a piene mani, anche con nuove preclusioni di accesso alle alternative. come nel caso della cosiddetta “legge spazza-corrotti”, ormai prossima al giudizio della Consulta. Dunque, nulla di sorprendente, se a queste condizioni la popolazione detenuta aumenta. Lo avevamo previsto e siamo stati facili profeti. E non a caso aumentano i detenuti condannati definitivamente, che non riescono a trovare accesso alle alternative al carcere. Ormai il sistema dell’esecuzione penale sembra diviso in due: da una parte quelli che, sin dal processo, riescono ad avere accesso alle misure di comunità: dall’altra i dannati, destinati al carcere, dal primo all’ultimo giorno di pena, fosse anche per pochi mesi. E come si gestisce una simile impresa claustrofila? Ma naturalmente con il bastone della disciplina e la carota della rieducazione intramuraria. Così da una parte abbiamo visto succedersi disposizioni amministrative disciplinari. come quella sui trasferimenti dei detenuti per ordine e sicurezza, che ha generato una specie di flipper penitenziario, rendendo ingovernabile il sistema, o quella per la prevenzione delle evasioni, mentre dall’altra si moltiplicano le offerte alle altre amministrazioni pubbliche di acquisire manodopera detenuta a titolo gratuito, senza alcuna prospettiva di reale reinserimento sociale dei condannati. Servirebbe un altro indirizzo di governo, che torni al principio fondamentale del carcere come extrema ratio dell’intervento punitivo dello Stato e favorisca le alternative alla detenzione, ma di quello del governo giallo rosso, purtroppo, non abbiamo ancora contezza. saho la continuità nella responsabilità politica e amministrativa. Gli unici segnali in controtendenza, in questo 2019, li abbiamo avuti dalle giurisdizioni superiori e in modo particolare dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti umani. Ancora una volta, come nel 2013, alle Corti spetta la responsabilità di mettere un freno alle scelleratezze della politica. Così è stato per le alternative al carcere per le persone affette da gravi infermità mentali (su cui, però, si attendono azioni e interventi delle Regioni e del Ministero della salute per potenziare i servizi psichiatrici territoriali, residenziali e non), cosi è stato per le preclusioni assolute alle alternative, giudicate illegittime dalla Corte europea così come dalla Corte costituzionale, seppure sotto profili e con effetti diversi tra loro. Bene, ma non benissimo. In momenti particolarmente delicati, come quello che stiamo attraversando, le Corti superiori possono fissare un limite, richiamando giudici e legislatore al rispetto dei vincoli costituzionali e internazionali, ma non possono invertire una tendenza. Alla politica, a un’altra politica, spetta la responsabilità di rinunciare all’uso populista del diritto e della giustizia penale. È questa l’alternativa che vorremmo vedere nell’anno a venire. *Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Bernardini: “Nelle carceri la situazione peggiora di anno in anno. Ci sono colpevoli omissioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 dicembre 2019 Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino ed esponente del Partito Radicale, stamattina sarà in visita al carcere romano di Regina Coeli insieme all’onorevole Roberto Giachetti ed altri compagni radicali mentre domani andrà in quello di Rebibbia. Un rituale che si ripete ormai da anni. Che bilancio fa della situazione carceraria e quali sono gli obiettivi urgenti da raggiungere nel 2020? “Come per gli anni precedenti, anche quello che sta per finire è stato un anno dolorosissimo sia per chi è detenuto, sia per chi in carcere ci lavora. 52 suicidi fra i detenuti e 11 fra il corpo degli agenti di polizia penitenziaria costituiscono un dato allarmante, indice del profondo disagio, al limite della disperazione, che si vive nei nostri 190 istituti penitenziari. Il clima che riscontriamo nelle nostre visite è sempre più cupo e, a volte, straziante come quando siamo andati in visita nel carcere di Agrigento. Il sovraffollamento ha il suo peso, anche se occorre rilevare che l’aumento della popolazione detenuta si è ridotto rispetto agli ultimi anni. Se negli ultimi tre anni le persone recluse erano circa 2.500 in più dell’anno precedente, tra il 2018 e il 2019 l’aumento è stato di 1.172 unità. Il problema è che i posti disponibili regolamentari sono inchiodati da anni a 50.500 dai quali occorre sottrarre i posti inagibili che continuano ad essere intorno ai 4.000, il che vuole dire che il sovraffollamento reale è intorno al 130%. L’obiettivo urgente è quello di ridurre sensibilmente la criminogena permanenza in carcere il che è certamente a portata di mano se pensiamo che quasi novemila detenuti hanno un residuo pena inferiore a un anno e almeno ottomila tra un anno e due anni”. Avete avuto risposta dal ministero della Giustizia alle decine di interrogazioni parlamentari presentate a seguito del “Ferragosto in carcere”? “L’assenza, l’indifferenza delle istituzioni è disarmante: a mio avviso non rispondono perché dovrebbero ammettere colpevoli omissioni che metterebbero seriamente in mora il governo di turno. Comunque, se i parlamentari interroganti non intendono limitarsi al semplice deposito di un atto di sindacato ispettivo, la risposta possono pretenderla: c’è scritto nei regolamenti di Camera e Senato e noi deputati radicali della XVI legislatura siamo riusciti a far rivivere norme cadute in disuso”. Si è da poco concluso il congresso di Nessuno Tocchi Caino. Il nostro Paese è pronto culturalmente per l’abolizione dell’ergastolo ostativo? “Facciamo attenzione, ci sono diritti umani fondamentali che non possono essere mai violati, nemmeno di fronte a maggioranze schiaccianti di popolo: nessuno Stato può, per esempio, torturare o uccidere un essere umano. Si tratta di principi inderogabili che, nonostante le violazioni che ancora oggi ci sono nel mondo, hanno fatto migliorare l’umanità nel corso dei secoli. Questi “principi” vanno promossi, e qui entra in gioco la politica che o è cultura o non è (e viceversa). E credo che Nessuno Tocchi Caino, che ha realizzato dentro il carcere di Opera con gli ergastolani ostativi, il film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem-liberi dentro”, compia proprio l’impresa (attraverso il confronto) di accrescere la consapevolezza generalizzata che al male non si possa corrispondere con altrettanto male, soprattutto se questo male è inferto dalle mani dello Stato”. Quanto ha messo in pericolo l’immagine della lotta radicale per la legalità nelle carceri il caso Nicosia? “Non c’è stata, né poteva esserci alcuna ripercussione. Il rigore che connota le nostre visite dedicate esclusivamente a verificare le condizioni di detenzione così come previsto dalla legge, è da tutti riconosciuto”. La Cassazione ha stabilito che la coltivazione domestica non è reato. I giudici arrivano dove i politici latitano? “Accade su molti fronti. Fu Marco Pannella ad incitare il movimento radicale ad adire le giurisdizioni superiori quando sono in gioco diritti umani fondamentali, in primo luogo quello ad essere informati, costantemente violato dai mezzi di informazione di massa. Le sezioni unite della Cassazione hanno infranto il pregiudizio per il quale il cittadino è sottoposto al penale solo se la cannabis che intende consumare se la coltiva, mentre il penale scompare se, per uso personale, ci si rifornisce al mercato criminale delle mafie: un’irragionevolezza che dovrebbe suscitare l’intervento della Consulta. Ma per la regolamentazione/ legalizzazione dell’intero settore delle cosiddette droghe illegali, oggi sotto il monopolio esclusivo delle organizzazioni mafiose, devono intervenire governi e parlamenti e, per questo, cercheremo di aiutarli anche con le nostre disobbedienze civili”. La stessa indifferenza politica la conosciamo in materia di fine vita. Ci è voluta la Consulta per dare un segnale forte a partire dal caso Cappato-Dj Fabo... “È stata ed è, a mio avviso, quella di Marco Cappato, una battaglia radicale esemplare dal punto di vista del rigore della nonviolenza. Un’iniziativa che nel corso degli anni ha ottenuto importanti successi incarnati da due personalità che rimarranno nella storia della conquista dei diritti civili: Luca Coscioni e Piergiorgio Welby; senza la loro determinazione, intelligenza e leadership politica, non ce l’avremmo mai fatta, come nel passato accadde con quelli che Pannella chiamava “i cornuti del matrimonio” o, sul fronte dell’aborto, con le donne che si autodenunciavano o, ancora, su quello dell’obiezione di coscienza, con i “disertori” del servizio militare. L’affermazione di coscienza, liberata dalla violenza dello Stato etico, è il comune denominatore di queste conquiste che richiedono, è il caso di ribadirlo, un cittadino sempre più responsabile”. Dove andrà il Partito Radicale nel 2020? “Dobbiamo continuare la traversata nel deserto, in direzione ostinata e contraria a quello che sembra essere il corso delle cose. Non potremmo farcela però senza quel minimo di risorse umane ed economiche che fino ad oggi, nonostante tutto, ci siamo conquistati giorno dopo giorno. Se la vulgata comune dice che è un bene ridurre drasticamente il numero dei parlamentari perché così lo Stato risparmia, il Partito Radicale deve poter trovare lo spazio di informazione adeguato per poter dimostrare la verità delle cose, e cioè che il “risparmio” è quello di una tazzina di caffè all’anno (non al giorno) per ogni cittadino e che, di contro, ci saranno milioni di cittadini che non avranno più la possibilità di essere rappresentati”. Nel 2019 la situazione non migliora: sale il numero di detenuti, il sovraffollamento al 131% di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2019 La fine dell’anno è tempo di bilanci. Ne tentiamo uno per la materia che ci compete, quella che riguarda il sistema penitenziario italiano. Va detto innanzitutto che chi ha a cuore la sicurezza del Paese dovrebbe avere a cuore anche un modello di vita carceraria rispettoso dei diritti fondamentali. La pena del carcere contribuisce alla sicurezza collettiva nei limiti in cui è utilizzata per avviare, nel momento della detenzione, percorsi personalizzati di reintegrazione sociale. Il tasso di recidiva dei detenuti è inversamente proporzionale alla disumanità della punizione subita. Maggiori occasioni di studio, di lavoro, di intrattenimento di qualità sono state offerte ai detenuti, di maggiori relazioni con l’esterno essi hanno potuto disporre, meno violenza hanno visto e subito e più basso è il tasso di recidiva e di ritorno alla vita criminale. Vi è dunque un rapporto diretto tra garanzia dei diritti dei detenuti e sicurezza. Chi lo nega mistifica la realtà al fine di assecondare quel sentimento di vendetta che serpeggia nella società. Nell’ultimo anno Antigone ha visitato più di cento carceri, con l’obiettivo di dare un contributo alla sicurezza di tutti (cittadini e detenuti) attraverso il rispetto (da parte di tutti) dell’articolo 27 della Costituzione, che impone l’esecuzione di pene umane e finalizzate alla risocializzazione. Le visite sono avvenute con uno spirito di ricerca, analisi, studio e mai viziate da pregiudizio. Esse sono rese possibili da un accordo con l’amministrazione penitenziaria, la quale va ringraziata per l’apertura mostrata nel concedere le autorizzazioni. Nella quasi totalità dei casi, gli osservatori di Antigone hanno incontrato direttori, poliziotti, educatori e operatori di grande sensibilità. Purtroppo il sovraffollamento, nel momento in cui riduce lo spazio vitale a disposizione di ogni detenuto e contribuisce a renderlo anonimo rispetto alla presa in carico degli operatori penitenziari, è la prima causa di disagio e di ostacolo al rispetto dei vincoli costituzionali. È un panorama preoccupante quello che si percepisce dalla lettura delle statistiche: al 30 novembre 2019, i detenuti presenti nelle quasi 200 carceri italiane erano 61.174, circa 1.500 in più rispetto al dicembre del 2018 e 3.500 in più rispetto al 2017. Un aumento su cui non pesano gli stranieri che, sia in termini assoluti che percentuali, sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Se al 31 dicembre 2018 erano infatti 20.255, pari al 33,9% del totale dei detenuti, al 30 novembre 2019 erano 20.091, pari al 32,8% del totale. Il tasso di affollamento ufficiale è del 121%. Tuttavia, circa 4mila dei 50.476 posti ufficiali non sono al momento disponibili, portando il tasso effettivo al 131%. Trattandosi di un tasso medio, ci sono casi virtuosi e istituti dove al contrario si sta davvero stretti: a Como e Taranto, ad esempio, il tasso di affollamento è addirittura del 202%. In generale, al momento la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 159,2% (il 165,8% se consideriamo i posti conteggiati ma non disponibili), seguita dal Molise (150% quello teorico, 161,4% quello reale) e dal Friuli Venezia Giulia (144,1% teorico e 154,7% reale). Nel 27,3% degli istituti visitati sembrerebbero esserci celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3 metri quadri di superficie calpestabile ciascuno, una condizione violativa dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibisce la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. Inoltre, in più della metà degli istituti nei quali siamo entrati abbiamo trovato celle senza acqua calda disponibile. In altri cinque, vi erano celle in cui il water non si trovava neanche in un ambiente separato dal resto della stanza. Anche sulla situazione sanitaria emerge preoccupazione. In un terzo degli istituti visitati non era presente un medico con continuità lungo tutte le 24 ore e per ogni 100 detenuti erano in media a disposizione solo 6,9 ore settimanali di servizio psichiatrico e 11,6 di sostegno psicologico. Numeri bassissimi, alla luce del disagio psichico e delle patologie psichiatriche di cui soffre un’ampia parte della popolazione detenuta. Dalle rilevazioni di Antigone è infatti emerso che il 27,5% dei reclusi assume una terapia psichiatrica. Inoltre, il 10,4% è costituito da tossicodipendenti con un trattamento farmacologico sostitutivo in corso. Anche per quanto riguarda il lavoro la situazione non è migliorata rispetto agli anni passati. I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono, in media, circa il 25% del totale e, nella maggior parte dei casi, questo impegno è solo di poche ore al giorno e non tutti i giorni della settimana. Solo il 2,2% lavora per una cooperativa privata o per un datore di lavoro esterno. Infine, nel 30% degli istituti visitati non c’è alcun corso di formazione professionale. Se questo è il quadro delle carceri italiane del 2019, per il 2020 ci auguriamo un’inversione di rotta e di trattamento, a partire da nuove risorse da investire nell’assunzione di giovani direttori, educatori, medici, mediatori culturali, nonché nel riconoscimento di un adeguato sostegno lavorativo (che tenga conto del burnout professionale) per tutti quei poliziotti che altrimenti rischiano di affidarsi alle facili e demagogiche ricette salviniane, in base alle quali la soddisfazione del personale arriverebbe dal trasformare il detenuto in un nemico. Un segnale positivo è arrivato dall’annuncio di un concorso per 100 nuovi dirigenti per l’esecuzione penale esterna. Si continui così. E non si inseguano le sirene populiste anti-costituzionali. *Coordinatrice associazione Antigone Nel 2019 sale ancora il numero dei detenuti. Investire sulla funzione rieducativa della pena di Andrea Oleandri* antigone.it, 31 dicembre 2019 È un panorama non confortante quello che riguarda le carceri italiane alla fine del 2019, dove il numero dei detenuti è in costante crescita. Al 30 novembre 2019 erano infatti 61.174, circa 1.500 in più della fine del 2018 e 3.500 in più del 2017. Un aumento su cui non pesano gli stranieri che, sia in termini assoluti che percentuali, sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Se al 31 dicembre 2018 erano infatti 20.255, pari al 33,9% del totale dei detenuti, al 30 novembre 2019 erano 20.091, pari al 32,8% del totale dei ristretti. Il tasso di affollamento ufficiale è del 121,2%, tuttavia circa 4.000 dei 50.000 posti ufficiali non sono al momento disponibili è ciò porta il tasso al 131,4%. Un esempio è quello che riguarda il carcere milanese di San Vittore, dove 246 posti non sono disponibili e dove il tasso di affollamento effettivo è del 212,5%, cioè ci sono più di due detenuti dove dovrebbe essercene uno solo. Anche senza posti non disponibili, tuttavia, ci sono istituti dove le cose non vanno meglio, ad esempio Como e Taranto, dove il tasso di affollamento è del 202%. In generale, al momento, la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 159,2% (il 165,8% se consideriamo i posti conteggiati ma non disponibili), seguita dal Molise (150% quello teorico, 161,4% quello reale) e dal Friuli Venezia Giulia (144,1% teorico e 154,7% reale). “Ancora una volta dobbiamo constatare come, a fronte di un calo dei reati, aumenti il numero dei detenuti” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che dal 1991 si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario. “Questo dato si spiega con un aumento delle pene, frutto di politiche che, guardando ad un uso populistico della giustizia penale, hanno risposto in questo modo ad una percezione di insicurezza che non trova riscontro nel numero dei delitti commessi. Quello della crescita dei reclusi è un trend che nell’arco di poco tempo potrebbe portarci nuovamente ai livelli che costarono all’Italia la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti”, specifica il presidente di Antigone. Nel corso del 2019 Antigone, grazie alle autorizzazioni che dal 1998 riceve dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha visitato con i propri osservatori 106 istituti penitenziari (oltre la metà di quelli presenti in Italia). L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso ma i dati che emergono dalle 66 schede già lavorate restituiscono un panorama preoccupante per la vita negli istituti. Innanzitutto, nel 27,3% degli istituti visitati, più di un quarto, sembrerebbero esserci celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq a testa di superficie calpestabile, una condizione che secondo la Cassazione italiana è da considerare inumana e degradante, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre in più della metà degli istituti sono state trovate celle senza acqua calda disponibile e, in altri cinque, celle in cui il wc non era nemmeno in un ambiente separato dal resto della stanza. Anche sulla situazione sanitaria delle carceri emerge preoccupazione. In un terzo degli istituti visitati non era presente un medico h24 ed in media per ogni 100 detenuti c’erano a disposizione 6,9 ore settimanali di servizio psichiatrico e 11,6 di sostegno psicologico. Una presenza bassissima se si considerano le patologie psichiatriche di cui soffre parte della popolazione detenuta. Dalle rilevazioni dell’osservatorio di Antigone è infatti emerso che il 27,5% degli oltre 60.000 reclusi assumeva una terapia psichiatrica. Inoltre 10,4% erano tossicodipendenti con un trattamento farmacologico sostitutivo in corso. Anche per quanto riguarda il lavoro la situazione non è migliorata rispetto agli anni passati. I detenuti che lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono, in media, circa il 25% e, nella maggior parte dei casi, questo impegno è solo di poche ore al giorno e non in tutti i giorni della settimana. Solo il 2,2% lavora per una cooperativa privata o per un datore di lavoro esterno. Infine, nel 30% degli istituti visitati, non c’è alcun corso di formazione professionale. “Se il lavoro è uno degli strumenti di maggior importanza per una effettiva risocializzazione del condannato, questi numeri testimoniano un sistema spesso schiacciato sulla funzione custodiale” sottolinea ancora il presidente di Antigone. “Un fattore quest’ultimo che emerge anche dando uno sguardo alla distribuzione del personale penitenziario, in maggioranza composto da agenti di polizia. In media, nelle nostre visite, abbiamo trovato un agente ogni 1,9 detenuti (uno dei dati più bassi in Europa), ed un educatore ogni 94,2 detenuti. Inoltre solo in poco più della metà degli istituti c’era un direttore a tempo pieno, con tutte le difficoltà di gestione della vita interna che questa mancanza comporta. A proposito di nuove assunzioni nelle carceri - conclude Patrizio Gonnella - speriamo che si sblocchi presto quella di giovani direttori. Il bando è fermo da troppo tempo. Ne va della finalità rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Carcere: diminuiscono i reati, aumentano i detenuti e i suicidi in carcere di Manuela Battista gruppoabele.org, 31 dicembre 2019 Cresce ancora il numero delle persone detenute nelle carceri italiane. I dati di fine anno del Ministero della Giustizia fanno registrare dietro le sbarre quasi 11 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare (50.476 posti) nei 190 istituti penitenziari presenti sul territorio italiano. Vivono recluse (dati al 30 novembre 2019) 61.174 persone, per un terzo stranieri, 2.713 donne, 56 bambini detenuti con le proprie madri. Il sovraffollamento pesa sulle spalle dei carcerati (un detenuto su quattro assume psicofarmaci) e su quello dei 37.411 agenti penitenziari, fino a portare a situazioni estreme: nell’anno che sta per terminare 96 detenuti e 30 guardie carcerarie si sono tolte la vita, con un tasso di suicidi 10 volte più alto, per i detenuti, rispetto alla popolazione libera. Quali soluzioni? Secondo le associazioni che si occupano della tutela dei diritti della popolazione carceraria, un primo obiettivo per diminuire la densità carceraria è l’applicazione delle misure alternative per tutti i detenuti che ne abbiano diritto (oltre il 10 percento dei detenuti, circa 5 mila persone, si trova in carcere per reati minori, ha una pena inferiore ai 2 anni, potrebbe usufruire delle misure alternative al carcere e resta comunque in cella). Ma la diminuzione delle disparità sociali, culturali ed economiche resta la vera chimera per evitare di “imprigionare la povertà”. Nel suo report di giugno 2019, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone denunciava: “Se sommiamo gli stranieri reclusi e i detenuti provenienti dalle quattro regioni meridionali più popolose siamo al 77% del totale della popolazione carceraria. Aggregando il dato con i detenuti provenienti da Sardegna, Basilicata, Abruzzo e Molise siamo oltre l’80%”. Tutto il resto del Paese, tendenzialmente più ricco, produce un quinto della popolazione detenuta, pur costituendo circa i due terzi dell’Italia libera”. Una posizione ribadita oggi sulle pagine di Avvenire dal Garante nazionale privati della libertà Mauro Palma: “Tra le persone trattenute in carcere ce ne sono 1.700 che devono scontare una pena inferiore a un anno, e circa 2.000 condannate definitivamente a una reclusione che va da uno a due anni. Si tratta per la maggior parte di gente senza dimora, di poveri che non hanno una casa e un lavoro e non possono permettersi una difesa adeguata, sono soggetti, cioè, che non hanno legami con la società: non si può relegare la povertà esistenziale alla struttura restrittiva, bisogna creare una rete di fiducia fuori dal carcere, perché il sistema sociale oggi non è capace di sanare queste ferite: servono quindi più servizi sul territorio”. Educare, non punire - Inoltre, già nel giugno scorso, con l’uscita del suo annuale report sulle condizioni delle carceri italiani, l’associazione Antigone sottolineava un paradosso, tutto Italiano, spiegabile solo con l’inasprimento delle pene inflitte: sebbene diminuiscano tutti i reati, omicidi compresi, gli ingressi in carcere seguono il trend opposto, continuando a salire. A scapito del significato rieducativo della pena detentiva. Lettera ai detenuti di Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani di Gigliola Alfaro agensir.it, 31 dicembre 2019 “La vera rivoluzione non è diffondere violenza, ma l’amore che ci apre il futuro”. L’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane scrive ai detenuti per Natale incoraggiandoli a superare “la sofferenza e la solitudine del cuore” che “rendono più difficile lo scorrere dei giorni” in carcere nei giorni di festa, puntando lo sguardo sull’unico amico che non tradisce mai: Gesù. Dio chiede solo di abbandonare le vie del male e lasciarlo entrare nel cuore di ciascuno. Nei giorni di festa, “la sofferenza e la solitudine del cuore rendono più difficile lo scorrere dei giorni” in carcere, ma anche per chi è recluso il Natale porta una luce di speranza se lascia entrare Gesù nel cuore e rivoluzionare la vita nel bene. È il senso della lettera che l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, ha scritto ai detenuti in occasione del Natale 2019. “Quale parola di speranza può riempire la solitudine del vostro cuore?”, si chiede il sacerdote, che offre un primo suggerimento: “Prima di tutto, lasciatevi giudicare dalla misericordia e dalla giustizia di Dio. Lui non è venuto per condannare nessuno, ma a salvare e cercare ciò che era perduto, per sanare le nostre ferite, per rialzarci dalle nostre cadute, per farci prendere coscienza del nostro male, ma soprattutto a dire a ognuno di noi: ‘Alzati e cammina’”. “La Parola di Dio, che voi ascoltate e accogliete attraverso i vostri catechisti, è la risposta di Dio alle vostre richieste, ma e anche luce sul nostro cammino”, aggiunge don Grimaldi, ricordiamo quanto scritto nel Salmo 61: “Non confidare nella violenza, non illudetevi della rapina; alla ricchezza anche se abbonda, non attaccate il cuore”. Ricordando la lettera apostolica “Admirabile signum” di Papa Francesco, che “ha un debole per i poveri, gli ultimi, gli scartati, gli immigrati, i carcerati”, l’ispettore generale osserva: “Cari amici e amiche ristretti, lasciatevi cercare dal Signore, anche se la vostra vita in questi anni si è smarrita a causa di scelte sbagliate, fatte di violenza, causando del male agli altri rubando anche la loro vita, e vi siete lasciati sedurre dal denaro e dal potere, Gesù che nasce nella povertà vuole essere il vostro amico fedele. È Lui che vi sta vicino. Quanti amici avevate fuori dal carcere che vi hanno trascinato nei burroni della morte e adesso abbandonati da tutti, siete soli a scontare una pena? Ma il Signore e il vostro amico fedele che non vi abbandona”. In questi giorni, ricorda il sacerdote, “in tante carceri, voi stessi, avete, con pazienza e amore, costruito presepi che avete adagiato nella cappella, nei corridoi, nei luoghi di colloquio in modo da rendere più sereno l’incontro con i vostri familiari. Non dimenticate che nel presepe, come ha detto Papa Francesco, ‘Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione… la rivoluzione dell’amore e della tenerezza”. Di qui l’invito ai detenuti: “Impariamo anche noi da Gesù Bambino, che la vera rivoluzione non è diffondere violenza, calpestare uomini indifesi, seminando terrore e paura, maneggiando le armi della morte e distruggendo la serenità di molte famiglie. La vera rivoluzione invece è l’amore, che ci dona la gioia di vivere e apre davanti a noi un futuro vero”. Secondo don Grimaldi, “il Natale provoca in noi la nostalgia dell’infanzia”: “Guardate negli occhi con la nostalgia e la vostra tenerezza, la gioia che esprimono i vostri bambini e v’invitano a ritornare, con un cuore nuovo, ad abbracciare la vostra famiglia. Ricordate come eravate felici? Quando la vostra innocenza vi faceva gustare la bellezza della vita? Quando nel vostro cuore c’erano progetti per la realizzazione della vostra vita futura? E, invece, il maligno vi ha sedotto e vi ha rubato la gioia della vita e ha distrutto i progetti del vostro futuro e ora, anche se siete nell’angoscia e nella tristezza causata dai vostri errori e scelte sbagliate, non abbiate paura. Il presepe che avete costruito nelle vostre carceri con le vostre deboli mani: ‘racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino a ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi”. Ancora uno spunto dalla lettera apostolica di Papa Francesco sul significato e valore del presepe: “Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità, nasconde la sua potenza…”. “Quanti uomini adesso che sono in carcere - commenta l’ispettore generale - fuori erano potenti, ordinavano ad altri, intimidivano e minacciavano persone, seminando morte, spadroneggiavano nei loro territori. Invece, Dio che è potente e onnipotente si è rivestito di debolezza e di impotenza per essere accolto da tutti”. Perciò, il sacerdote esorta i “cari fratelli e sorelle privati della libertà personale” a festeggiare: “Anche se siete rinchiusi dietro le sbarre, il vostro vero Natale è accogliendo e facendo nascere Gesù nel vostro cuore. Lasciate che il Verbo di Dio rivoluzioni nel bene la vostra vita. Riconquistate la gioia della vera libertà, perché solo così sarà per tutti noi un vero Natale”. Al via domani la nuova prescrizione, stop dopo la sentenza di primo grado di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2019 Con la riforma meno prescrizioni di quasi un quarto rispetto a oggi. Impatto da valutare, mentre è ancora polemica. Martedì il vertice di governo. Alla fine arriva anche il giorno del debutto di una delle misure più dibattute (e contestate) dell’anno. Da domani per la prescrizione si apre l’era Bonafede. Quanto durerà è però tutto da vedere. Di certo il ministro della Giustizia molto si è speso prima e ha resistito dopo per tenere il punto. Sarà operativo tra poche ore quel blocco dei termini dopo la sentenza di primo grado, di assoluzione o condanna che sia, introdotto nel corso dei lavori sulla legge “spazza-corrotti”, la cui entrata in vigore era stata rinviata di un anno dopo l’accordo tra Cinque Stelle e Lega per dare tempo a un’intesa sulle misure per accelerare i processi penali. A mancare sono però tuttora le disposizioni per dare effettività alla durata dei procedimenti. E già in Parlamento si veleggia tra ipotesi alternative non solo di fonte opposizione, visto che il Pd ha presentato venerdì una sua proposta alternativa (con Forza Italia che si è detta disposta a votarla “in un minuto”). Intanto, anche sulle conseguenze dell’intervento le opinioni divergono. Bonafede ha più volte sdrammatizzato, sottolineando che la “sua” riforma non condurrà certo all’apocalisse, coni primi effetti che si vedranno solo tra qualche anno, visto che la novità si applicherà solo ai procedimenti per reati commessi dal 1° gennaio e al momento della pronuncia del verdetto di primo grado. Di parere opposto il Pd che ha ricordato come da domani tutte le indagini e i processi su nuove ipotesi di reato sfrutteranno l’intera durata della prescrizione, sinora prevista per i tre gradi di giudizio, per arrivare alla sola sentenza di primo grado. I procedimenti saranno allora destinati fatalmente ad allungarsi in modo corrispondente. Non solo, ma i processi di appello su fatti post 1° gennaio contro patteggiamenti o giudizi immediati, che arriveranno a breve, non potendo più prescriversi, finiranno fatalmente in coda a tutti gli altri provocando un ulteriore allungamento patologico che si produrrà in tempi brevissimi. Per l’Anm ogni allarmismo è fuori luogo, anche sul versante degli arresti in flagranza e sui relativi riti direttissimi: l’eventuale stato cautelare conseguente costituisce infatti una causa tipica di accelerazione del processo. Provando a spostarsi sui numeri, la riforma eviterà che si prescriva poco meno di un quarto di quanto oggi viene azzerato dal decorso dei tempi. Secondo gli ultimi dati disponibili il numero complessivo di prescrizioni è in diminuzione, per la prima volta da 4 anni: nel 2017 infatti i procedimenti azzerati da prescrizione si è fermato a quota 125.564, vicino alle 123.078 del 2013, mentre nel 2016 erano state 136.888. Circa 10.000 in meno anno su anno, dunque, e con una finestra sul 2018, dove, nei primi 6 mesi, si sono azzerati 63.177 procedimenti. Ad aumentare sono però le prescrizioni che maturano in appello, quelle sulle quali maggiormente inciderà la riforma che sono passate dalle 25.748 del 2016 alle 28.125 del 2017 (15.845 nei primi 6 mesi del 2018). La fase delle indagini si conferma come quella più soggetta al rischio di estinzione del reato, ma il calo di quasi 10.000 prescrizioni riguarda proprio questa fase del procedimento penale. Per quanto riguarda i reati che sono maggiormente soggetti alla prescrizione i più aggiornati dati disponibili, relativi al 2015, fotografano un impatto significativo soprattutto sulla criminalità comune (a volte determinato, come nel caso dell’edilizia, dal sovrapporsi di una pluralità di norme non sempre coerenti): ai primi 3 posti infatti si collocano le irregolarità sull’attività urbanistico edilizia (2.433), la ricettazione (2.177) e la guida sotto l’influenza di alcol (1.825). A seguire la truffa, le lesioni personali e i furti. In vigore da domani la nuova prescrizione: il processo dura una vita di Errico Novi Il Dubbio, 31 dicembre 2019 E così il giorno fatidico è arrivato: con i brindisi augurali, la mezzanotte porterà la “nuova” prescrizione, la novità del processo penale potenzialmente infinito. Una riforma voluta dal M5S a cui il Pd ha risposto con un’ipotesi correttiva, che ieri il responsabile Giustizia dei dem Walter Verini ha indicato come punto di partenza per arrivare a una “sintesi”. Ma secondo quanto trapela, il solo spiraglio lasciato intravedere da Bonafede riguarda la possibilità di escludere dal “blocca-prescrizione” chi in primo grado è assolto. Un restyling che sarebbe comunque incostituzionale. A Napoli la fantasia dei bombaroli pirotecnici preferisce fermarsi al calcio. Alle prese col nome da attribuire al solito ordigno per la notte di San Silvestro, hanno preferito tornare al passato: dal “pallone di Maradona” si passa quest’anno a “Ringhio”, in “onore” di Rino Gattuso, grintoso allenatore del Napoli. Se avessero voluto osare, i delinquenti dei botti proibiti avrebbero potuto scegliere un altro nome suggestivo: “Prescrizione”. Perché se c’è una bomba, politica e giuridica, che certamente il 1° gennaio innescherà, si tratta proprio della norma che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. E così il giorno fatidico ormai incombe. Con i brindisi augurali, la mezzanotte porterà la novità del processo penale potenzialmente infinito. “L’ergastolo processuale”, come lo definisce il portavoce di Forza Italia Giorgio Mulè. “Con un atto di viltà politica, gli aiutanti della sinistra che si dicevano custodi del garantismo consegnano la loro storia alla subcultura manettara e giustizialista dei 5 Stelle”, è il fendente assestato al Pd dal deputato azzurro. Eppure dietro le quinte gli artificieri ancora sperano di disinnescare la bomba. Tra i più attivi è Walter Verini, che in un’intervista ad Affaritaliani.it si rivolge al premier Giuseppe Conte affinché “si adoperi per trovare una sintesi” sulla norma che tormenta la maggioranza (e la Costituzione). E anzi, il responsabile Giustizia del Pd chiarisce che il suo partito fa della “ricerca di un accordo” la propria “via maestra”. Peccato che il tavolo con il guardasigilli Alfonso Bonafede, riconvocato per il 7 gennaio, al momento non lasci scorgere schiarite. A meno di non voler interpretare in modo estensivo alcuni segnali filtrati dall’ultima riunione a Palazzo Chigi del 19 dicembre. In particolare un dettaglio che trapela solo ora: Bonafede aveva detto, quella sera, che “si può ragionare”, almeno, su una ipotesi rimbalzata tra le frenetiche discussioni con gli altri partiti della coalizione giallorossa, limitare lo stop della prescrizione dopo le sentenze di primo grado ai soli casi di condanna. Il timer dell’estinzione del reato continuerebbe cioè a correre quando in primo grado l’imputato è assolto. Non un’ipotesi nuova. Ma a forte rischio di incostituzionalità. Perché introdurrebbe una discriminazione lesiva del principio di non colpevolezza, che per l’articolo 27 deve restare integro finché la sentenza non è definitiva. Considerazioni che d’altra parte non autorizzano a escludere una discussione sul punto, all’incontro del 7 gennaio fra Conte, il ministro, il Pd, Italia viva e Leu. Così come è chiaro che non si potrà prescindere da altri due elementi. Il primo è la mossa con cui i dem, lo scorso 27 dicembre, hanno presentato la loro modifica sulla prescrizione, con il segretario Nicola Zingaretti in prima fila, che di fatto prevede il ritorno alla riforma Orlando, solo un po’ ritoccata. Il secondo elemento è la linea sempre più netta dei renziani: ieri hanno sbattuto di nuovo i pugni sul tavolo per voce di Ettore Rosato, che in un’intervista al Messaggero ha detto a chiare lettere: “Ciò che ha fatto il governo Lega- 5S sulla prescrizione va semplicemente abrogato: se non accadrà, come abbiamo sempre detto, noi voteremo con FI”. Potrebbe non essere solo una minaccia. Come minimo, ora Italia viva si aspetta che il Pd le rivolga un esplicito appello a optare per il sostegno al testo annunciato 4 giorni fa. Lo si intuisce da un passaggio dell’intervista a Repubblica con cui sabato scorso uno degli esponenti più autorevoli nella formazione di Renzi in tema di giustizia, l’ex sottosegretario Gennaro Migliore, ha commentato il restyling del Nazareno sulla prescrizione: “Non vorrei che rimanesse solo una proposta, come lo ius soli tanto declamato da Zingaretti che poi è finito nel nulla”. Come a dire: se invece fate sul serio, ci troverete dalla stessa parte. Verini dice che se Bonafede non saprà affrancarsi dalla “totale rigidità” esibita finora sul tema, “vedremo come andrà il dibattito parlamentare sulla nostra proposta”. Che contiene intanto una distinzione tra assolti e condannati, nel senso che solo per questi ultimi vale il meccanismo disegnato dai dem: allungamento di 6 mesi della sospensione dei termini dopo il primo grado (sospensione che la riforma Orlando aveva fissato in 18 mesi) e ulteriori 6 mesi di stop in caso di cambio di rinnovazione del dibattimento; in più, sospensione di un altro anno (anziché dell’anno e mezzo previsto da Orlando) dopo l’eventuale impugnazione davanti alla Suprema corte. Evidente che i 5S non convergeranno mai su una soluzione simile, troppo vicina a quella approvata nel luglio del 2017 e da loro seppellita con la norma Bonafede. Ed è probabile che il Pd stesso consideri il proprio testo come l’offerta iniziale su cui intervenire con successivi rilanci. Ordinaria amministrazione politica. Così com’è ovvio che un altro ex sottosegretario alla Giustizia, il leghista Jacopo Morrone, accusi il Movimento e gli alleati di “mercanteggiare”. Mentre la capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Giustizia, Carolina Varchi, liquida l’idea di Zingaretti come il velleitarismo di chi “continua ad abbaiare alla luna”. Inascoltata, l’avvocatura insiste nel ricordare che “la durata dei processi non dipende dagli imputati ma da disfunzioni del sistema”, per citare le considerazioni proposte a Studiocataldi.it da Caterina Flick, dell’Associazione donne giuriste d’Italia. È un ultimo dell’anno teso com’è giusto che sia per chi teme l’esplodere di una bomba. Certo è che quella bomba, una volta innescata, rischia di lasciare segni incancellabili. Forse non per i partiti, ma di sicuro per il processo. La nuova prescrizione e i principi costituzionali di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 31 dicembre 2019 Il nucleo centrale della questione è stabilire se sia giusto (termine dal quale deriva quello di giustizia), sotto un profilo culturale, etico, sociale oltre che giuridico ovviamente, perseguire e punire i ritenuti responsabili di un reato, dopo che sia trascorso un considerevole lasso di tempo dalla sua commissione. Ci siamo; dal prossimo primo gennaio entrerà in vigore la nuova prescrizione penale. In realtà, più che di una vera riforma del processo penale, si tratta di modifiche relative alla individuazione del momento iniziale e finale del termine di decorrenza della prescrizione anche se la vera novità è rappresentata dal blocco del decorso della stessa dopo che è divenuta esecutiva la sentenza di primo grado. Le numerose e autorevoli analisi piuttosto critiche verso il cambiamento, hanno riguardato tanto questioni propriamente tecnico-giuridiche relative, per esempio, allo stravolgimento della sospensione e della interruzione del processo, che le modalità attuative della revisione apparse da subito troppo frettolose essendo state introdotte per effetto di un emendamento in fase di approvazione della legge spazza-corrotti, anziché a seguito di un dibattito di riorganizzazione del complessivo sistema processuale. Ragioni che hanno alimentato la percezione che si sia trattato per lo più di un compromesso politico della maggioranza dell’epoca, interessata a documentare e semmai a magnificare nella campagna elettorale per le allora prossime elezioni europee, i risultati conseguiti. Depone a favore di questa ipotesi il differimento di circa un anno della legge (del 09.01.2019) che infatti è stato motivato dalla necessità di approvare, nel frattempo, degli interventi legislativi per riordinare il processo penale nel suo insieme. Cosa che non è avvenuta. Ora, premesso che non è più tollerabile la lentezza della giustizia penale italiana i cui processi, solo per parlare del primo grado, hanno una durata dai 500 ai 700 giorni circa, di gran lunga maggiore ai 138 della media europea, il punto è stabilire se la riforma costituisca effettivamente un rimedio oppure il rischio di un aggravamento della già precaria condizione attuale. Una indagine che non può prescindere dal fatto che la prescrizione del reato è un istituto ben definito in tutti gli Ordinamenti dei Paesi omologhi al nostro. Nel codice di procedura penale francese (art. 6), la prescrizione estingue l’azione pubblica; in quello penale spagnolo (art. 130) l’estinzione riguarda la responsabilità penale mentre in quello tedesco (art. §§ 78 StGB) si estingue la perseguibilità. In Italia, tuttavia, nonostante vi siano già state delle riforme, quella del 2005 (art. 6 L. 251/2005) e, in ultimo, quella del 2017 (L. 103/2017), ancora non si è riusciti a delinearne una chiara identità. Una condizione che, va detto senza indugio, ha favorito la risoluzione di problemi giudiziari anche di importanti politici e che, soprattutto, ha fomentato un senso di impunità per i potenti e sbilanciato il dibattito a favore della politica giudiziaria anziché verso quella di politica criminale. Ciò nonostante perseveriamo nell’errore, come dimostra la discussione di questi giorni incentrata sulla contrapposizione tra coloro che invocano l’attuazione della riforma, per evitare possa esservi impunità per i responsabili dei reati, e quelli che la osteggiano paventando un allungamento ulteriore dei tempi della giustizia. Ma il nucleo centrale della questione è un altro, ovvero stabilire se sia giusto (termine dal quale deriva quello di giustizia), sotto un profilo culturale, etico, sociale oltre che giuridico ovviamente, perseguire e punire i ritenuti responsabili di un reato, dopo che sia trascorso un considerevole lasso di tempo dalla sua commissione. Ad una valutazione scevra da pregiudizialità politica e di interessi personali, la risposta non è difficile essendo insita nel patrimonio di civiltà e di conoscenze che non senza grandi sacrifici abbiamo conseguito. Pur volendo trascurare le pur non secondarie questioni che i termini di prescrizione normalmente sono alquanto lunghi e che sono già previsti numerosi casi di sospensione del processo e di imprescrittibilità di alcuni reati particolarmente gravi, è chiaro che il blocco della decorrenza dei termini prescrizionali viola non soltanto importanti principi costituzionali di libertà, per tutti quello della ragionevole durata del processo, cristallizzato nella Costituzione (art. 111) e nella Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 6), ma anche quello della prevenzione e della riabilitazione. Funzioni cardini del nostro sistema giudiziario che possono essere espletate soltanto se tempestive e non certamente tenendo sotto scacco per sempre coloro che hanno commesso un reato. La disfunzione del sistema della giustizia penale, della cui gravità non è dato di dubitare, si risolve in primo luogo attraverso una migliore organizzazione gestionale degli uffici giudiziari. Con un maggiore investimento in organico e soprattutto alleggerendo il contenzioso penale con seri interventi di depenalizzazione, posto che l’esperienza di questi anni insegna che l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuove fattispecie di reati non hanno contribuito a ridurre l’attività criminale. Gherardo Colombo: “Altro che prescrizione, è già lunghissima”. di Salvatore Merlo Il Foglio, 31 dicembre 2019 “Il legislatore dovrebbe smetterla di trasformare ogni bagatella in reato penale”. Entra in vigore domani, mercoledì 1 gennaio, la legge Bonafede che annulla la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. “Una norma che è l’effetto dello strabismo legislativo del nostro paese”, dice Gherardo Colombo, settantatré anni, il giudice istruttore del processo alla P2, delle indagini su Michele Sindona e sull’omicidio Ambrosoli, il pubblico ministero di Mani pulite e del lodo Mondadori. Cerca una definizione, un aggettivo, il dottor Colombo, per individuare un clima forse persino morale: fondamentalismo, intransigenza, fideismo, massimalismo… “quel non volere, o non sapere, modellare le risposte in relazione alle situazioni di fatto”, dice. “Il legislatore dovrebbe individuare il risultato che vuole ottenere, per poi trovare lo strumento adatto a raggiungerlo, tenendo conto della situazione dalla quale si parte”. E invece che succede? “E invece tante volte sembra che si voglia piantare un chiodo con un bulldozer o con un martelletto di gommapiuma”, insomma sempre con lo strumento sbagliato. “Stiamo parlando dell’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Vorrei che una cosa fosse chiara: se la misura rispondesse esclusivamente a un desiderio di retribuire sempre e comunque una trasgressione con la pena, il discorso sarebbe logico. Io non lo condivido, ma sarebbe logico: ‘Hai peccato - la retribuzione sta in quegli ambiti - per te non c’è oblio, non c’è possibilità di recupero, non c’è futuro se non dopo (meglio, nemmeno dopo) che paghi il tuo peccato’. Ecco. Questo avrebbe un senso, anche se io non lo condivido perché ritengo sia ingiusto non considerare l’influenza del passaggio del tempo sulle esigenze di punizione. Di sicuro però non si può motivare l’abolizione della prescrizione con la volontà di rendere più rapido (rectius, meno lento) il processo penale. Teniamo separati gli argomenti, da una parte la prescrizione, dall’altra la ragionevole durata del processo. Iniziamo da quest’ultimo tema. Vogliamo, giustamente e secondo Costituzione, un processo rapido? Lo vogliamo efficiente? Pensiamo a strumenti che lo rendano effettivamente rapido ed efficiente. Depenalizziamo. E insomma, dice Gherardo Colombo, la legge Bonafede è il prodotto di una politica strabica, quasi a riprova del fatto che l’eccesso è segno del contrario di ciò in cui si eccede. La prescrizione non c’entra niente con la ragionevole durata dei processi, anzi. E il legislatore (leggi il ministro Bonafede), se davvero volesse rendere più efficiente la giustizia dovrebbe fare altro: depenalizzare. “Liberiamo i tribunali penali, diventati il luogo dove precipitano tutti i conflitti e le tensioni anche insignificanti di questo paese”, spiega infatti l’ex magistrato. “Se vogliamo che il processo penale sia rapido, occorre che ci siano poche cose da processare. Quelle importanti. Il diritto penale va riportato a quello che dovrebbe essere: l’extrema ratio”. E non lo è più l’extrema ratio? “Quando feci il concorso per entrare in magistratura, inizio anni ‘70, il diritto penale era condensato quasi tutto nel Codice penale: poco più di 700 articoli. E interveniva soltanto di fronte a trasgressioni rilevanti (secondo la cultura dell’epoca), che mettevano seriamente in dubbio il rapporto di fiducia che tiene insieme la comunità. Il resto si regolava in altra via. Il punto è questo: non tutto può essere reato. Mentre oggi in Italia la tendenza è quella di far diventare reato qualsiasi violazione. E così a quelle vecchie, tra le quali pure ne esistono di insignificanti (se uno cancella la vidimazione di un biglietto dell’autobus, perché non è multato per via amministrativa ma finisce con una denuncia penale per falso che intasa la macchina della giustizia? Si mette in piedi un apparato complicatissimo, per una questione che a Milano oggi vale due euro…) se ne aggiungono sempre più di nuove, con l’ovvio risultato di intasare la macchina della giustizia. Oltre a depenalizzare - e quindi a trovare soluzioni in ambito civile o amministrativo - si ricorra a strumenti che evitino il protrarsi delle indagini o la celebrazione del dibattimento. Si incentivi la messa alla prova, il patteggiamento, il giudizio abbreviato. Si pensi a introdurre pratiche di giustizia riparativa, che esistono da anni in molti altri paesi. Misure che non vengono prese, a mio parere, sempre per quella idea di fondo che vede la pena come retribuzione. E poi si dia all’amministrazione della giustizia ciò che serve per funzionare. Se manca il personale amministrativo si può pensare di rendere rapido il processo attraverso l’abolizione della prescrizione? Altrettanto se a mancare sono i giudici e i pubblici ministeri?”. Per esempio ci sono 251 magistrati, vincitori di concorso, che dal 24 luglio 2019 attendono di poter iniziare, come da legge, il tirocinio di un anno e mezzo. Il ministero della Giustizia non firma il decreto di nomina. Inceppato chissà come e perché. “Si pensi a come riempire gli organici o a renderli adeguati al flusso di denunce, piuttosto”, dice Gherardo Colombo. “Si diano agli uffici giudiziari strumenti adeguati (come in effetti si fa per quanto riguarda il personale). Soprattutto, ci si impegni a fare una vera e seria prevenzione, sia a livello normativo che a livello educativo. La durata delle indagini e dei processi, a mio parere, si risolve così. E veniamo alla prescrizione”. Ecco, appunto: la prescrizione. Qualcuno inventandosi un Cesare Beccaria immaginario, gli ha fatto dire questo: “La prescrizione piace alle anime belle e ai grandi criminali”. È così? Piace ad anime belle e a grandi criminali? “Credo ci sia un motivo se prima il legislatore del 1889 e poi quello del 1930 nello scrivere il Codice penale abbiano pensato di limitare la potestà dello stato di verificare se una persona abbia commesso un reato, agganciando il termine entro il quale poter esercitare questa potestà alla gravità del reato. Il motivo risiede nell’idea che il passare del tempo abbia una notevole interferenza sulle esigenze punitive. La nostra cultura tradizionale è piena di motti su come il tempo lenisca le ferite. Più il tempo passa, più l’offesa recata all’ordinamento e alla vittima sfuma, da attualità si trasforma in storia. Se si individuasse oggi chi le ha rubato la bicicletta tredici anni fa avrebbe senso sottoporlo a processo e infliggergli una pena?”. Direi proprio di no. “E a una persona che aveva diciotto anni e nel frattempo, poniamo, ha studiato, ha trovato un lavoro, ha - come si dice - messo la testa a posto?”. Col tempo anche le persone cambiano. “E infatti non ritengo sia giusto che una persona possa essere sottoposta al processo a vita, ancor di più quando proprio dall’essere sotto processo dipende una serie corposa di conseguenze negative. In questo modo si penalizza il percorso di recupero complessivo dei rapporti di fiducia all’interno della comunità, e si corre il rischio di evocare conflitti che si erano in qualche modo superati. Sono queste, secondo me, le ragioni che giustificano la prescrizione”. “Ci sarebbe poi da domandarsi un’altra cosa: che rilievo ha oggi la prescrizione in Italia? E la risposta è che riguarda, salvo casi eccezionali che pure si verificano, soltanto reati di lieve entità. Spesso quelli per i quali non si dovrebbe nemmeno tenere un processo. Peraltro, per certi aspetti paradossalmente la prescrizione può giovare alla rapidità: il suo verificarsi può essere base per l’instaurarsi di un procedimento disciplinare nei confronti del magistrato che l’ha causata; togliamo la prescrizione, togliamo lo stimolo a evitare il disciplinare, la giustizia diventa ancora più lenta”. E insomma, verrebbe da dire, non solo la norma Bonafede è dannosa perché allunga i processi. Ma è persino inutile. “Proviamo a vedere quali sono i reati che facilmente si prescrivono nel nostro paese”, riprende Gherardo Colombo. “Come si sa, i reati punibili con l’ergastolo non si prescrivono mai (per loro la questione non si pone). Per gli altri, il termine di prescrizione è commisurato al massimo della pena previsto per quel reato. Per esempio un omicidio senza aggravanti, per il quale il massimo della pena è di 24 anni, la prescrizione è di 24 anni dalla data della sua commissione, più un quarto in caso di interruzione: nel complesso trenta anni. Se il sistema giudiziario non riesce a individuare il possibile responsabile di un omicidio e ad applicare la pena entro trent’anni dal fatto, bisognerà renderlo più efficiente. Termini pure molto consistenti valgono, per fare qualche esempio, per il sequestro di persona a scopo di estorsione (qui addirittura 37 anni e mezzo), per la rapina aggravata (25 anni), la violenza sessuale (15 anni), il furto pluriaggravato (12 anni e sei mesi). Insomma, per i reati che destano clamore sociale le pene sono elevate e il termine di prescrizione è lungo al punto che è raro che gli stessi si prescrivano”. E insomma allora chi può sperare davvero nella prescrizione? “Direi nemmeno più gli autori di reati di corruzione, perché le pene massime, a seconda dei tipi di corruzione, variano dagli 8 ai 20 anni. La prescrizione interveniva spesso per gli omicidi colposi, ma anche lì, per le situazioni più allarmanti, le pene sono state aumentate. Quindi, guardi, alla fine la prescrizione riguarda soprattutto i reati non particolarmente gravi i quali, essendo prevista una pena massima non superiore a sei anni, si prescrivono appunto in sei anni, sette anni e mezzo in caso di interruzione, riguarda tante di quelle cose per cui in carcere ci sono persone che dovrebbero stare fuori, affidate ai servizi sociali o a scontare altre pene alternative. Però vorrei ripetere: teniamo distinti i temi della prescrizione e della ragionevole durata dei processi, perché sono solo in parte sovrapponibili. Il legislatore moderi l’impulso di inserire nuovi reati ogni volta in cui ritiene di dover fare una nuova legge. Piuttosto, si guardi alle spalle e sfoltisca, non di poco, le fattispecie penali esistenti. Altro che prescrizione”. Altro che Bonafede. Musacchio: “La nuova prescrizione mette sullo stesso piano imputato e condannato” di Eugenio Poli Il Dubbio, 31 dicembre 2019 “Non si può concepire l’idea di un giusto processo, dove il tempo non abbia una funzione nella vita di una persona. Non si possono mettere sullo stesso piano il condannato e l’imputato”. “Questa riforma fermerà la lungaggine dei processi e non dimentichiamoci che il nostro sistema processuale penale si regge sul principio della ragionevole durata del processo”. Parola di Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale in varie Università italiane ed estere e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise e direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise. Fermare il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado secondo lei rispetta la nostra Carta Costituzionale? “Preciso che non sono un costituzionalista, tuttavia, mi sento di poter affermare che non la rispetti per nulla. In primis, viola il principio di eguaglianza tra i cittadini poiché mette sullo stesso piano chi commette un delitto e chi una contravvenzione. Da penalista dico che siamo di fronte è un’abnormità. Agli esami di diritto penale in oltre venticinque anni non mi è mai capitato uno studente che non conoscesse la differenza tra delitto e contravvenzione. Non è tuttavia il solo principio a essere violato, poiché è oltraggiato anche il principio di ragionevolezza, giacché si concepisce l’idea di un passato che non passa mai, di un tempo che non è più tale perché a un certo punto si ferma inesorabilmente. Non si può concepire l’idea di un giusto processo, dove il tempo non abbia una funzione nella vita di una persona. Non si possono mettere sullo stesso piano il condannato e l’imputato. Con questa riforma a me pare che questo rischio ci sia”. Ci spiega brevemente perché con la prescrizione lo Stato rinuncia alla sua potestà punitiva? “Premettendo che per alcuni reati gravissimi anche il nostro ordinamento prevede l’imprescrittibilità, il legislatore ha previsto la prescrizione, sia perché nel corso degli anni una persona cambia, ad esempio, un assassino dopo trent’anni, potrebbe essere una persona totalmente diversa, sia perché il processo penale non può essere uno strumento per una giustizia compiuta nel quale siamo tutti colpevoli, ma è il contrario e cioè siamo tutti innocenti salvo la dimostrazione della nostra colpevolezza”. Questa riforma fermerà la lungaggine dei processi? “Ancora una volta devo rispondere negativamente. Non dimentichiamoci che il nostro sistema processuale penale si regge sul principio della ragionevole durata del processo. Personalmente ho sempre sostenuto che il processo penale dovesse avere addirittura un tempo specifico nel quale dovesse terminare per legge”. Ci spiega in parole semplici perché i processi penali durano tanto in Italia? “Non solo quelli penali, purtroppo. Le cause sono molteplici. Le indicherò le tre più importanti, ovviamente a mio giudizio. La prima, è l’inefficiente organizzazione del “Sistema Giustizia”. Come dico sempre ai miei studenti, noi abbiamo i migliori magistrati d’Europa che al tempo stesso sono i peggiori in fatto di organizzazione. La seconda, è l’eccessiva “criminalizzazione” di molte condotte che potrebbero essere risolte con sanzioni non di natura penale. La terza è la convenienza ad affrontare sempre i giudizi di appello che portano costantemente solo benefici al condannato. Iniziando a porre rimedio a questi tre fattori sono certo si porrebbe rimedio anche all’eccessiva durata dei processi in Italia”. Su questi aspetti non è che incida anche il ruolo del processo penale negli ultimi trent’anni? “Non so se sia un caso, ma l’arco temporale che ha indicato lei risale proprio all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale voluto da due insigni giuristi, Giuliano Vassalli e Giandomenico Pisapia. Il prof. Vassalli, è stato uno dei miei maestri, sono certo che oggi non si riconoscerebbe più nel suo codice, così come credo lo stesso Pisapia. Il nuovo processo penale è fallito e ritengo sia giunta l’ora di depenalizzare molti reati che vanno spesso inutilmente a processo. La realtà inoltre ci conferma dati sconcertanti. Su dieci presunti colpevoli, sette sono innocenti e tre sono condannati. Vuol dire che siamo di fronte ad un sistema che non funziona e la prescrizione così com’è stata prevista non porterà alcun beneficio”. Secondo lei c’è qualche rimedio a quello che ci ha appena detto? “Certo che c’è. Abbiamo anche la nostra stella polare e cioè la nostra Costituzione. Partendo da essa occorrerà, in primis, una seria riforma dell’organizzazione giudiziaria che nel processo penale parta dalla reale parità tra accusa e difesa e da un giudice assolutamente terzo e indipendente. Poi ritengo che un ruolo di primo piano lo svolgano anche i mezzi di formazione dell’opinione pubblica e cioè politica e mondo dei media. Per dirla in parole povere a me non piace la spettacolarizzazione della giustizia. In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo e oggettivo, non può essere compito di pochi, ma di tanti. Occorrerà recuperare il senso del diritto come riferimento unitario della convivenza civile e in una democrazia moderna non può essere compito di una minoranza. Chiudo con il pensiero di Rosario Livatino che sposo in toto: “Il giudice di ogni tempo deve essere e apparire libero e indipendente, e tanto può essere e apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. Già provare a realizzare questo meraviglioso pensiero risolverebbe una buona parte dei problemi della giustizia italiana”. Da domani saremo tutti presunti colpevoli di Paolo Becchi e Giuseppe Palma Milano Finanza, 31 dicembre 2019 A pochi giorni dall’entrata in vigore della riforma sulla prescrizione fortemente voluta dal M5S, mentre Forza Italia propone l’abrogazione della legge, il Pd corre ai ripari e presenta una sua controproposta. In effetti sta per entrare in vigore una legge palesemente incostituzionale. La legge, approvata circa un anno fa dall’allora maggioranza giallo-verde, prevede la sospensione dei termini di prescrizione dopo il primo grado di giudizio penale. Una vittoria del giustizialismo dei 5Stelle che la Lega cercò di attenuare con l’introduzione dei termini perentori di durata dei tre gradi di giudizio. Ma se della durata certa dei processi non se ne fece più nulla, la riforma della prescrizione entra invece in vigore domani. Una misura che terrà gli imputati sotto processo in saecula saeculorum, tanto senza la prescrizione si potrà essere giudicati stando ai comodi dei magistrati. In questi giorni il Pd ha cercato di trovare un compromesso: sospendere i termini di prescrizione per due anni nel caso la sentenza di primo grado fosse impugnata in appello (più ulteriori sei mesi in caso di rinnovazione della fase istruttoria in secondo grado), più un ulteriore anno in caso di ricorso per Cassazione. Una soluzione di mediazione che semplicemente addolcisce il veleno. Ci spieghiamo meglio. Il nostro ordinamento costituzionale prevede il principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato (alt 27) e il principio della ragionevole durata del processo (art. 111). Sospendere il decorrere dei termini di prescrizione per due anni e mezzo in appello più un ulteriore anno in Cassazione significa, sostanzialmente, fare un favore alle cancellerie e ai giudici, che potranno smistare le udienze con maggiore calma, diluendole nel tempo. Ma tale esigenza amministrativa contrasta con i diritti dell’imputato come la legge che entra ora in vigore. Se l’imputato è presunto innocente fino a sentenza passata in giudicato e ha diritto a una durata ragionevole del processo, per quale motivo deve vedersi allungare il suo processo di tre anni e mezzo per mere esigenze di organizzazione amministrativa? Se è presunto innocente e il processo non si tiene in tempi brevi, lo si mandi assolto. Tenerlo sotto processo per tre anni e mezzo in più rispetto a oggi significa, nei fatti, considerarlo presunto colpevole, essendo l’irragionevole lungaggine di un processo una vera e propria anticipazione di pena. Inaccettabile. E una questione di civiltà giuridica e di umanità. Uno Stato che si rispetti non scarica sui cittadini la propria incapacità amministrativa. Una proposta ragionevole sarebbe stata quella di sospendere i termini di prescrizione di un solo anno, assegnando questa facoltà al solo Tribunale in modo da consentire, per esempio, una più approfondita fase istruttoria in favore dell’imputato in primo grado. In tal modo si sarebbero garantiti ugualmente sia i diritti dell’imputato, che avrebbe avuto più tempo per difendersi, che quelli delle parti civili, che avrebbero un anno in più per non incorrere nella prescrizione. Ora il governo, a nostro avviso, potrebbe emanare un decreto legge che sospenda l’entrata in vigore della riforma pentastellata per un paio di mesi, in modo da consentire a Pd e 5Stelle di trovare un compromesso ragionevole e approvare le modifiche necessarie. Ma non succederà. E allora non resta che affidarsi agli avvocati, che potranno chiedere ai giudici di Tribunale di sollevare questione di legittimità costituzionale. In tal caso bisognerebbe trovare “giudici a quo” che abbiano una buona cultura giuridica e sollevino in modo corretto la questione davanti alla Corte costituzionale. Permessi ai mafiosi, non si può dire no in modo automatico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2019 La Cassazione si allinea alla sentenza della Corte costituzionale. Stop a qualunque automatismo nel negare il permesso premio al condannato per reati di mafia e per gli altri reati ostativi. La Corte di cassazione applica, per la prima volta, i principi dettati dalla Corte costituzionale con la sentenza 253 del 2019. La Suprema corte, con la sentenza 52139 depositata ieri, accoglie così il ricorso di un killer di “cosa nostra”, condannato all’ergastolo e sottoposto al 41bis, con le restrizioni previste dal comma 2 della norma, al quale era stato negato un permesso premio. Il no del magistrato di sorveglianza era giustificato dalla possibilità per il ricorrente di mantenere contatti con l’associazione di appartenenza, ancora attiva sul territorio, rischio desunto dall’assenza di una volontà di collaborazione con la giustizia. La difesa del detenuto chiede ed ottiene l’annullamento dell’ordinanza, alla luce della sentenza con la quale la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4bis nella parte in cui preclude, in virtù di una presunzione assoluta di pericolosità sociale, l’accesso al beneficio del permesso premio al condannato per un reato ostativo, che non collabori con l’autorità giudiziaria. Per i giudici il ricorso merita di essere accolto. Dopo il colpo di spugna del giudice delle leggi ai detenuti per i reati di associazione mafiosa, previsti dall’articolo 416bis del Codice penale, non può più essere negato il permesso premio in automatico. Anche in assenza di collaborazione con la giustizia, infatti, il via libera al beneficio è possibile, una volta che siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, sia la possibilità di riprendere i contatti con l’associazione mafiosa. Alla base della censura di incostituzionalità c’era, infatti, proprio la presunzione assoluta secondo la quale dall’assenza di pentimento si poteva dedurre, di default, che i rapporti con l’associazione criminale non fossero stati interrotti. La Cassazione ricorda che per essere in linea con gli articoli 3 e 27 della Carta, “l’assenza di collaborazione non si può risolvere in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena come conseguenza della mancata partecipazione a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato”. In quest’ottica l’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario si traduce in una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare”. In particolare è contrario all’articolo 27 della Costituzione, che vieta i trattamenti inumani e degradanti, il fatto che la richiesta del permesso premio debba essere dichiarata inammissibile sin dall’inizio, senza che il magistrato di sorveglianza, possa valutare in concreto la condizione del detenuto. Un tale meccanismo può, infatti, frenare sul nascere il percorso risocializzante. Effetto in contrasto con il principio sulla funzione rieducativa della pena. Accusa di mafia? Solo se c’è dolo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 dicembre 2019 Sarà più difficile d’ora in avanti per i magistrati torinesi contestare a Roberto Rosso, l’ex assessore della Regione Piemonte arrestato lo scorso 20 dicembre per voto di scambio (si è dimesso ieri anche dai consigli regionale e comunale di Torino), l’aggravante mafiosa. Lo stesso per l’imprenditore Daniele D’Alfonso, arrestato a Milano il 7 maggio all’interno dell’inchiesta chiamata “Mensa dei poveri”. E per molti altri indagati cui sia contestata l’aggravante di aver favorito con il loro comportamento un’associazione mafiosa. La decisione numero 28 delle Sezioni unite penali della Cassazione parla chiaro: quell’aggravante ha rilevanza soggettiva. Quindi, perché possa essere contestata, occorre dimostrare che l’indagato aveva piena consapevolezza del fatto che con la propria condotta stava agevolando un’associazione mafiosa. D’ora in avanti, se si osserverà la decisione delle sezioni unite, al pubblico ministero non basterà più rilevare che il comportamento di Rosso piuttosto che di D’Alfonso abbiano “oggettivamente” favorito le cosche. Occorre il dolo, da parte loro, occorre che sappiano con certezza di aver a che fare con mafiosi. Una bella botta, anche d’immagine, per inchieste come quella del maggio scorso a Milano, dove nelle intenzioni della procura si prepara una sorta di maxiprocesso con le 71 richieste di rinvio a giudizio già avanzate dall’ufficio del pubblico ministero. Un colpo all’accusa, prima di tutto perché l’inchiesta era stata avviata proprio dalla Direzione distrettuale antimafia e presentata in gran pompa dal procuratore capo in persona, Francesco Greco, come una prova dell’esistenza in Lombardia di un forte legame tra la politica, l’imprenditoria e la ‘ndrangheta. Finita la conferenza stampa e spente le telecamere si era scoperto che in realtà l’aggravante mafiosa riguardava una sola persona, l’imprenditore Daniele D’Alfonso, accusato anche di aver messo in scena una finta consulenza in favore di un consigliere comunale di Forza Italia, Pietro Tatarella, in cambio di agevolazioni in gare d’appalto. Proprio all’interno di queste attività l’imprenditore avrebbe dato del lavoro a operai che, secondo l’accusa, sarebbero stati legati a una ‘ndrina di Buccinasco. Ora il problema è: Daniele D’Alfonso sapeva che quegli uomini erano mafiosi e che, offrendo loro un lavoro, lui stava aiutando la `ndrangheta? Secondo la decisione delle sezioni unite sarà la procura a doverlo dimostrare con una piena attività probatoria che rilevi il dolo nel comportamento dell’indagato. E non basteranno certo le ricostruzioni storico-sociologiche sulle famiglie che furono insediate con i provvedimenti di confino negli anni Cinquanta-Sessanta nel sudovest di Milano per dimostrare che lì (a Corsico, cittadina di D’Alfonso, come alla contigua Buccinasco) tutto è mafia. Lo stesso vale per la vicenda torinese che ha visto coinvolto Roberto Rosso. In questo caso l’accusa è di voto di scambio, che sarebbe avvenuto nel corso dell’ultima campagna elettorale per le regionali, in cui l’ex esponente di Forza Italia era candidato con Fratelli d’Italia e poi eletto e portato in trionfo per il significativo numero di voti elargito in dote al partito di Giorgia Meloni. La quale non ha ricambiato il favore, in occasione dell’arresto di Rosso (che pure era stato premiato con l’assessorato), dicendo che addirittura le era venuto “il voltastomaco”, sapendolo “mafioso”. L’accusa all’ex assessore è fondata su intercettazioni della Guardia di Finanza tra due presunti “emissari” di Onofrio Garcea, considerato vicino al clan Bonavota della Liguria. Gli emissari avrebbero promesso all’esponente di Fratelli d’Italia un pacchetto di voti in cambio di 15.000 euro. I soldi versati si sarebbero poi ridotti a 7.900, forse perché i voti non erano arrivati. Ma perché contestare l’aggravante mafiosa anche al politico? È chiaro che sia stato usato il criterio dell’oggettività, rispetto al quale era sufficiente una sorta di ignoranza colposa da parte della persona indagata sui complici e sulla loro appartenenza alle cosche. Ma è stato anche sottolineato un particolare episodio, da parte della Guardia di Finanza. E dei giornali, subito da qualcuno informati. Nel 2012, quando era in Parlamento, Rosso avrebbe firmato un’interpellanza del deputato del Pd Vinicio Peluffo contro il prefetto di Lodi, il quale avrebbe fatto parte di un’associazione di calabresi emigrati in Liguria e sospettati di avere rapporti con ambienti malavitosi. Tra questi figurava anche il nome di Onofrio Garcea. Può bastare per dimostrare che Roberto Rosso, sette anni dopo aver dato la propria firma (come spesso capita) all’interpellanza di un altro, sapeva bene con chi aveva a che fare quanto trattava con i famosi “emissari”, tra cui un’imprenditrice? La decisione delle Sezioni unite, vista anche la rilevanza che sempre di più si attribuisce alla giurisprudenza (come dimostrato dal serrato dibattitto in seguito alla presa di posizione, negli stessi giorni, sulla marijuana), è per ora passata inosservata alla grande stampa, ma non, si suppone, al mondo del diritto. E il mal di stomaco d’ora in avanti forse verrà a qualche ufficio del pubblico ministero, che prima di organizzare conferenze stampa sulla mafia, dovrà rimboccarsi le maniche e cercare il dolo nei comportamenti, cioè le prove. Quando e se ci sono. Appropriazione indebita, le attenuanti non sono un diritto di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2019 L’amministratrice infedele aveva sottratto per due anni somme rilevanti. Il giudice, quando dichiara la responsabilità penale di un individuo, per adeguare la pena al caso concreto ed alla persona del reo, valuta gli effetti della pena e può concedere, in base all’articolo 62 bis del Codice penale, le “attenuanti generiche”, dichiarandole equivalenti o prevalenti sulle aggravanti contestate. Tuttavia, il reo non ha assoluto diritto a tali attenuanti. È quanto ha affermato la Corte di Cassazione (sentenza 49202/2019) dichiarando inammissibile il ricorso di un’amministratrice condominiale contro una sentenza che l’aveva condannata per il reato di appropriazione indebita aggravata. La sentenza della Corte di Appello affermava che l’amministratrice si era impossessata, in più occasioni, di somme condominiali e non le aveva restituite all’amministratore subentrante. L’amministratrice veniva condannata con la concessione delle attenuanti generiche, ritenute equivalenti all’aggravante dell’abuso delle relazioni di ufficio. L’amministratrice, nel ricorso in Cassazione, invocava la concessione delle attenuanti generiche in misura prevalente sulle aggravanti, poiché affermava che gli importi sottratti erano di importo inferiore a quanto contestato nella sentenza e che parte delle somme erano state impiegate in compensazione dei suoi crediti con il condominio. La Cassazione ha però dichiarato inammissibile il ricorso poiché la Corte di Appello aveva affermato che l’amministratrice si era impossessata in più occasioni delle somme (rilevanti, come accertato dalla Guardia di Finanza), che non aveva più restituito e non aveva mai collaborato con l’amministratore a lei succeduto a ricostruire la contabilità. In particolare il giudice sosteneva che la condotta distrattiva non si è limitata a uno o a due episodi in un breve lasso di tempo, ma ha attraversato due anni di gestione condominiale. Pertanto la decisione del giudice d’appello di non concedere le attenuanti generiche, in modo da ritenerle prevalenti sull’aggravante contestata, non è apparsa arbitraria ma frutto di un giudizio prognostico negativo sulla condotta dell’imputata, non meritevole di un premio per la sua condotta. Piemonte. Nelle carceri è sempre emergenza sovraffollamento, mancano più di 800 posti di Marco Panzarella lavocediasti.it, 31 dicembre 2019 Mellano: “Servono un progetto complessivo e investimenti cospicui”. Annunciata ad Asti la realizzazione di un nuovo padiglione detentivo. Continua l’emergenza sovraffollamento nelle carceri piemontesi, dove 4508 detenuti vivono in spazi che al massimo potrebbero accoglierne 3671. Il dato è emerso stamattina durante la presentazione del “Dossier criticità”, documento di sintesi delle principali carenze strutturali e logistiche nelle 14 carceri piemontesi. “Per risolvere il problema - ha spiegato il garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano - è necessario un progetto complessivo e investimenti cospicui, basti pensare che a livello nazionale arrivano meno di 4 milioni di euro a fronte di una richiesta di oltre 50 milioni”. Il dossier analizza le situazioni dei penitenziari regionali, con le proposte di intervento in vista del 2020. A Torino, dove vivono 400 detenuti in più rispetto alla capienza massima, nel nuovo anno è prevista l’installazione di un sistema di videosorveglianza delle aree comuni, la riorganizzazione e il potenziamento dell’Articolazione psichiatrica, l’eliminazione dei bagni a vista nelle celle di osservazione psichiatrica, il rifacimento dei tetti e la realizzazione di una Casa famiglia protetta per le mamme detenute con bambini. Migliorie anche per il carcere minorile “Ferrante Aporti”, con l’ampliamento del numero delle camere di pernottamento, così da separare i minori (14-18 anni) dai giovani adulti (18-25) ed evitare fenomeni di bullismo. Fra i progetti da attuare, anche il recupero degli spazi del vecchio padiglione detentivo minorile per arricchire l’offerta formativa e scolastica e la realizzazione di una sala per riunioni ed eventi in uno spazio già esistente ma che al momento è poco utilizzato. Molteplici gli interventi nel Cuneese. Alla casa di reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, fra le altre cose, è in programma la ristrutturazione del padiglione principale, chiuso dal gennaio 2016 per un’epidemia di legionella. Al carcere di Cuneo sarà avviata la ristrutturazione del padiglione “ex giudiziario” chiuso da circa dieci anni e del padiglione “Cerialdo”, dove sono collocati i detenuti in regime di 41 bis. Interventi anche alla casa di reclusione di Saluzzo, necessari dopo la trasformazione del plesso in carcere esclusivamente dedicato a detenuti in regime di alta sicurezza. Ad Asti è già stata annunciata la realizzazione di un nuovo padiglione detentivo utilizzando una parte dello spazio ad oggi occupato dalle aree verdi, mentre a Biella sarà completamente attivato il laboratorio tessile che al momento impiega 20 operai. Durante l’incontro, infine, sono stati resi noti i numeri dei suicidi avvenuti nelle carceri italiane nel 2019: a togliersi la vita sono stati 52 detenuti a cui si aggiungo 11 agenti penitenziari. Campania. L’appello del Garante dei detenuti: “Più diritti per i minorenni in comunità” Il Mattino, 31 dicembre 2019 Sono 70 i minori detenuti negli istituti di pena di Nisida e Airola, 1.130 compresi i giovani adulti, quelli presi in carico dagli uffici del servizio sociale di Napoli di cui 387 per la prima volta. Sono i dati, aggiornati a novembre 2019, della relazione sui minorenni e i giovani detenuti in Campania, diffusi oggi dal Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, che rivendica “più diritti per i minori in comunità” e dice: “Il diritto alla salute viene negato”. Una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, e al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, per denunciare il rischio che i minori detenuti negli istituti di pena campani che il diritto alla salute non sia assicurati e sia “totalmente” negati a chi è affidato alle comunità per minori o comunità per adulti con problemi di tossicodipendenza. Ciambriello e le comunità residenziali della Campania hanno ribadito l’importanza di alcuni diritti fondamentali, e per quanto riguarda il diritto alla salute, il ripristino dell’esenzione del ticket. “Noi comunità alloggio, insieme con il Garante dei detenuti - è scritto nella lettera - chiediamo aiuto perché stiamo portando avanti una battaglia di civiltà e giustizia che, al momento, ci vede soccombere. Stiamo provando a riaffermare il diritto alla salute pubblica gratuita per i minori dell’area penale che accogliamo nelle nostre comunità e che viene negato”. “Una discriminazione ancora più forte - sottolineano - se si pensa che per i loro coetanei ristretti presso gli Istituti penali minorili questo diritto è invece garantito”. Ciambriello che ha sottolineato anche un dato: “Sono 7.600 le persone detenute nell’area esterne e, nell’ultimo anno si sono verificati tre suicidi per persone sottoposte ad arresti domiciliari. Gli assistenti sociali per quest’area sono solamente ventiquattro”. All’incontro hanno partecipato, oltre al garante campano, Vincenzo Morgera, responsabile comunità Jonathan, Luigi Isaia, responsabile comunità il Germoglio e padre Jhonny Morelli della comunità di Padre Arturo in Marigliano. Lazio. Dal teatro ai campi da calcio: dalla Regione 500mila euro per i detenuti romatoday.it, 31 dicembre 2019 Il Garante Anastasìa: “Così la Regione adempie alle proprie responsabilità per il reinserimento sociale”. La Regione ha assegnato 500mila euro per “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta” nel Lazio. La ripartizione delle risorse, relative all’esercizio finanziario 2019 in base alla legge regionale 7 del 2007, è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale Regionale del 21 novembre e del 24 dicembre scorso. La metà sarà erogata in conto corrente e l’altra metà in conto capitale. In particolare 250mila euro sono destinati a interventi strutturali, 120mila euro per laboratori teatrali e attività trattamentali, 90mila euro per Casa di Leda, 40mila euro per il sostegno agli studi universitari. “È molto importante il fatto che la Regione Lazio, di concerto con l’Amministrazione penitenziaria, torni a programmare i propri interventi”, commenta il Garante regionale Stefano Anastasìa. “Si tratta di un investimento che si affianca a quelli già posti in essere a valere sulle risorse del Fondo sociale europeo e destinati alla formazione professionale, all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale delle persone detenute o comunque provenienti da percorsi penali, e a cui si spera potranno a breve aggiungersi quelli destinati dalla Cassa delle Ammende a progetti condivisi con le Amministrazioni della giustizia”. In questo modo, conclude il Garante “la Regione adempie alle proprie responsabilità per il reinserimento sociale delle persone detenute, che si affianca al delicato compito della loro assistenza sanitaria, rendendo evidente quanto l’effettiva attuazione dell’articolo 27 della Costituzione richieda il concorso e il pieno coinvolgimento degli enti territoriali, responsabili di parte significativa delle azioni e degli interventi necessari per il rispetto della dignità dei detenuti e il loro migliore reinserimento sociale a fine pena”. Come si legge in una nota stampa diramata dall’ufficio del Garante dei detenuti, per la parte corrente, 90mila euro sono stati destinati al prosieguo delle attività della Casa di Leda, la prima casa-famiglia aperta in Italia per donne condannate con figli di età inferiore a dieci anni. 40mila euro, invece, sono stati destinati alle università di Roma Tre e Tor Vergata che, in virtù di appositi protocolli d’intesa sottoscritti con il Garante e con il Provveditorato, sono impegnate nel tutoraggio didattico dei detenuti iscritti presso i propri corsi di studio. I restanti 120mila euro sono stati assegnati tramite bandi pubblici per la realizzazione di laboratori teatrali e progetti finalizzati al reinserimento sociale e alla promozione della pratica sportiva negli istituti di pena. Per la realizzazione di laboratori teatrali, sono stati ammessi e finanziati i progetti presentati dalle associazioni Arte Studio, La Ribalta, Sangue Giusto, Forte Apache e Per Ananke che si svolgeranno nel corso del 2020 nei penitenziari di Regina Coeli, Viterbo, Rieti, Velletri, Latina, Rebibbia Nuovo Complesso, Rebibbia femminile e Civitavecchia. Per quanto riguarda invece le cosiddette attività trattamentali, continua la nota, le domande finanziate sono quelle delle associazioni Edi, Arci Solidarietà Viterbo, Ancei, Vic Volontariato e A buon diritto e interesseranno l’Istituto penale minorile di Casal del Marmo e le carceri di Viterbo, Cassino, Rebibbia e Frosinone. I 250mila euro stanziati per la parte capitale riguardano invece gli “Interventi strutturali volti al miglioramento della condizione carceraria esistente negli Istituti penitenziari del Lazio”. Diverse le finalità degli interventi finanziati: dal sostegno alla genitorialità ed alla conservazione e miglioramento della vita affettiva e relazionale dei detenuti al reinserimento sociale e lavorativo, al benessere psicofisico e alle forme di espressività, creatività e riflessione. Trovano così spazio la realizzazione di otto gazebo per l’area verde destinata ai colloqui all’aperto dei detenuti con i familiari nella Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso e la realizzazione dell’area di attesa dei familiari per i colloqui con i detenuti nel carcere di Cassino. Per il “sostegno al reinserimento sociale e lavorativo” sono stati approvati e finanziati interventi per la ristrutturazione del laboratorio da destinare ad attività artigianali della Casa di Reclusione Paliano, la ristrutturazione dell’ex laboratorio di tipografia per la realizzazione di una lavanderia nel carcere di Civitavecchia, nonché la ristrutturazione dell’area esterna per consentire l’accesso delle detenute di alta sicurezza a spazi dedicati ad attività lavorative nella Casa Circondariale di Latina. Ci sono poi gli interventi per il “sostegno al benessere psicofisico”: dalla ristrutturazione dei campi di calcio e sportivi di Rebibbia, Rieti e Frosinone, all’attrezzatura dell’area verde finalizzata ad attività motorie e ricreative nella Casa Circondariale di Viterbo. Infine, conclude il comunicato, quelli a “sostegno delle forme di espressività, creatività e riflessione” con l’approvazione della ristrutturazione delle sale teatro dei penitenziari di Rebibbia e Velletri. Roma. Chiusa relazione annuale del Garante dei diritti dei detenuti lavorolazio.com, 31 dicembre 2019 Frongia: “Continuiamo il virtuoso percorso intrapreso”. A conclusione dell’anno 2019 Roma Capitale presenta la relazione annuale delle attività svolte dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. La relazione, che si riferisce al periodo compreso fra il 1 luglio 2018 e il 30 giugno 2019, contiene la serie di iniziative e progetti che sono stati messi in atto al fine di migliorare la condizione dei soggetti in regime di reclusione. L’impegno di Roma Capitale in favore delle persone private della libertà si traduce, tra gli altri, in progetti di pubblica utilità che a Roma sono diventate delle realtà ormai consolidate e sono state considerate “buone prassi” da esportare a livello nazionale e internazionale. “Mi Riscatto per Roma”, è un programma attivato tra Roma Capitale ed il Ministero della Giustizia - frutto di una iniziale sperimentazione, partita nel 2017, tra Roma Capitale, il Ministero della Giustizia, in particolare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Dap, il Tribunale di Sorveglianza di Roma e la Casa Circondariale Rebibbia N.C. - per ospitare i detenuti in espiazione di pena ed ottenere dei vantaggi in termini di miglioramento del decoro urbano e servizi ai propri cittadini. L’idea è quella di anticipare un percorso di reinserimento già all’interno delle strutture penitenziarie nella fase di conclusione della pena attraverso il lavoro inteso come strumento di riscatto sociale perché svolto con progetti utili alla città. A conclusione delle vicende giudiziarie il detenuto potrà così trovarsi formato e idoneo al lavoro. Non si tratta di attività fini a sé stesse ma che, al contrario, contribuiscono ad aumentare l’autostima dei detenuti, dando anche un senso alla pena, considerando che i dati confermano che il lavoro è causa fondamentale di non recidiva nel reato e concreta attuazione dell’art. 27 della Costituzione. I settori interessati sono: la pulizia del verde con attività di sfalcio dell’erba e manutenzione del verde pubblico, piccola manutenzione stradale, con annesse opere di rifacimento della segnaletica orizzontale, pulizia di caditoie e sistemazione di sedi stradali a basso scorrimento. È in fase di definizione il nuovo protocollo operativo, volto al recupero e alla valorizzazione del patrimonio ambientale di aree verdi, per il coinvolgimento delle donne detenute nella casa circondariale di Rebibbia presso le aziende agricole di Roma Capitale. Già operativo da metà dicembre il protocollo per i piccoli interventi di manutenzione stradale che hanno previsto la formazione di un ulteriore gruppo per asfaltisti dedicati alla segnaletica e ad attività di pulizia delle caditoie, destinato a detenuti del Polo penitenziario di Rebibbia - La Casa di reclusione (sezione Penale). Nel 2019 sono state 120 le persone detenute coinvolte nei progetti di pubblica utilità, un numero importante che fa di Roma la città maggiormente impegnata in questo ambito. A giugno del 2019, alla presenza di una delegazione formata da alcuni rappresentanti del sistema penitenziario degli Stati Uniti del Messico e funzionari dell’Ufficio messicano delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine, si è tenuto un Seminario internazionale “Il rinnovamento penitenziario negli Stati Uniti del Messico e il progetto ‘Mi riscatto per Roma’”, organizzato dal 3 al 7 giugno dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in collaborazione con Roma Capitale. Roma Capitale eroga, oltre al progetto Mi Riscatto per Roma, numerosi servizi in favore della popolazione detenuta e delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione e a misure riparative, tra cui se ne annoverano alcuni più significativi: servizio di orientamento, valutazione e accompagnamento all’inserimento presso i centri di accoglienza per detenuti in convenzione con Roma Capitale, servizio di orientamento al lavoro (Col), case di accoglienza per un totale di 24 posti a cui si aggiungono 6 posti per le donne ed 8 per i minori all’interno della Casa di Leda, biblioteche interne agli istituti penitenziari, differenti laboratori di falegnameria, tappezzeria, pizzeria e sartoria. Un’altra importante attività che svolge la Garante sono gli incontri negli istituti: nel secondo anno di mandato sono stati effettuati colloqui con almeno 600 persone private della libertà, di cui 257 hanno avuto necessità di un intervento. “Continuiamo il virtuoso percorso che abbiamo iniziato in fase sperimentale nel 2017 teso a favorire la popolazione detenuta, in particolare con formazione professionale ed inserimenti lavorativi. Mi Riscatto per Roma è diventato un progetto noto e molto apprezzato da tutti i cittadini, che, oltre a costituire un’opportunità di riabilitazione per il detenuto, rappresenta anche un valido supporto per la città, come si è verificato in tante occasioni compresi i lavori straordinari per i grandi eventi. Ringrazio la Garante Gabriella Stramaccioni per il prezioso lavoro svolto con grande impegno e passione che aiuta a dare nuova speranza e opportunità lavorative ai detenuti e contribuisce a diminuire il rischio di recidiva”, dichiara l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante, Daniele Frongia. Firenze. Il Comune promette: “Porteremo i bambini fuori da Sollicciano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 31 dicembre 2019 L’assessore Funaro e l’appello del direttore per i figli delle madri detenute: pronto un progetto. Basta bambini in carcere. Palazzo Vecchio raccoglie l’appello al Corriere Fiorentino del direttore di Sollicciano che chiede aiuto per aiutare i figli delle madri detenute, a frequentare l’asilo o strutture fuori dal carcere. “È una priorità assoluta - sottolinea l’assessora Funaro - Ho già contattato il direttore del carcere e l’associazione Telefono Azzurro”. Basta bambini in carcere. Palazzo Vecchio raccoglie l’appello al Corriere Fiorentino del direttore di Sollicciano che chiede aiuto per aiutare i figli delle madri detenute, a frequentare l’asilo o strutture ludiche fuori dal carcere. E così entro gennaio, spiega l’assessore all’istruzione Sara Funaro, “lavoreremo su un progetto per permettere di accompagnare all’esterno i bambini costretti a vivere nel penitenziario fiorentino”. “È una priorità assoluta - ha detto Funaro - che tutti i bambini, senza alcuna differenza, possano avere accesso a spazi educativi e ricreativi esterni a quelli del carcere. I bambini di Sollicciano devono avere gli stessi diritti di quelli fuori”. In quest’ottica, ha aggiunto l’assessore, “ho già contattato il direttore del carcere e l’associazione Telefono Azzurro (che da anni gestisce i progetti educativi nel carcere), ci incontreremo a gennaio per capire come concretizzare le uscite da Sollicciano”. Sulla possibilità di frequentare l’asilo nido, dipende innanzitutto dalla permanenza delle madri in carcere, che solitamente stanno a Sollicciano soltanto pochi mesi (è il caso delle attuali quattro detenute). Se però la loro permanenza supererà i sei/sette mesi, è stato spiegato da Palazzo Vecchio, è ipotizzabile un inserimento dei bimbi all’asilo. Certo non sarà semplice, perché i bambini iscritti all’asilo hanno bisogno di tempo per ambientarsi. Quello che invece è fattibile con più facilità, anche per gli attuali bambini presenti a Sollicciano, sono le uscite in ludoteca: “Nella zona intorno a Sollicciano - ha detto l’assessore Funaro - ci sono diverse ludoteche, spazi ricreativi ed educativi dove i bambini, grazie alla presenza di educatori professionisti, possono divertirsi imparando. Laddove le madri acconsentiranno all’uscita dal carcere del proprio figlio, dovremo riuscire a portare i bambini in questi spazi attraverso un progetto organizzato insieme a direzione di Sollicciano e Telefono Azzurro”. Andranno trovati gli accompagnatori adeguati e potrebbe rivelarsi utile l’aiuto del volontariato. Un problema, quello dei bambini in carcere, che esiste in molti penitenziari italiani, motivo per cui sono nati i cosiddetti Icam, istituti a custodia attenuata dove le detenute madri scontano la pena. A Firenze l’Icam non c’è. Esiste un accordo per realizzarlo nella palazzina di Rifredi messa a disposizione gratuitamente dalla Madonnina del Grappa. L’accordo risale a dieci anni fa ed è stato firmato da Società della Salute (che gestisce l’immobile), Ministero della Giustizia, Tribunale di Sorveglianza, Istituto degli Innocenti e Regione Toscana, che stanziò oltre 500mila euro per i lavori edilizi. I lavori però, a causa di intoppi burocratici, non sono ancora partiti. Voghera (Pv). “In cella con un tumore al fegato ricoverato prima di Natale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 dicembre 2019 Il caso di Salvatore Giordano segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus. A i familiari era stato detto che il detenuto - recluso nel carcere di Voghera aveva un lieve ingrassamento del fegato da curare con l’alimentazione, ma quando sono andati a trovarlo in ospedale la vigilia di Natale lo hanno trovato in condizioni devastanti. Non riconosceva nessuno, biascicava parole senza senso, magrissimo, pieno di macchie cutanee rosse e munito di un pannolino: ha il tumore al fegato di grosse dimensioni con tanto di metastasi. Parlando con un medico dell’ospedale, i familiari hanno appreso che la situazione era già compromessa da diverso tempo e l’aggravamento non era di certo avvenuto nelle poche ore di degenza in ospedale. A quel punto hanno sporto una denuncia a carico dell’amministrazione penitenziaria del carcere di Voghera, per eventuali negligenze nella cura. Il detenuto, Salvatore Giordano, è stato tratto in arresto per reati associativi nel 2017 e da metà ottobre di quest’anno recluso nel carcere di Voghera. I familiari hanno contattato Sandra Berardi dell’Associazione Yairaiha Onlus che a sua volta a portato a conoscenza del caso il ministro della Giustizia, il Dap e anche il Garante nazionale delle persone private della libertà. “I familiari fanno presente che il signor Giordano - scrive l’associazione Yairaiha - è stato portato in ospedale solo nel momento in cui il figlio e la moglie si presentavano alle porte del carcere in data 23 dicembre per avere informazioni circa lo stato di salute del proprio congiunto, condizioni che durante l’ultima telefonata si avvertivano gravi”, si sottolinea che “la diagnosi iniziale riferiva un generico ingrossamento del fegato da curare attraverso l’alimentazione”, ma “oggi ci troviamo di fronte ad un tumore al fegato e diversi altri organi in metastasi”. Sempre l’associazione Yairaiha spiega che “nei venti giorni precedenti il ricovero le uniche persone che hanno prestato assistenza al signor Giordano sono stati gli altri detenuti, in un surreale clima di disinteresse verso la vita di un uomo visibilmente sofferente le cui condizioni andavano peggiorando di ora in ora”. Poi arriva il 24 dicembre quando, come chiaramente esposto nella denuncia, i familiari hanno potuto far visita al proprio caro presso l’ospedale di Voghera dove il medico in servizio li informava delle condizioni pressoché irreversibili del proprio congiunto, sottolineando che l’aggravamento non era collocabile nel breve spazio temporale di permanenza in ospedale. “È concepibile che il signor Giordano - si rivolge l’associazione Yairaiha alle istituzioni sia stato portato in ospedale solo nel momento in cui si sono presentati i familiari alle porte del carcere? E ancora, è ammissibile nei confronti dei familiari, preoccupati ed angosciati, sia stato tenuto un siffatto atteggiamento da parte di uomini che rappresentano lo Stato?”. L’associazione, nella missiva, denuncia che non è la prima volta che raccolgono e trasmettono simili denunce, ma “è, semmai, una ulteriore testimonianza che diritti umani, art. 27 e la Costituzione tutta, vengono violati sistematicamente da chi dovrebbe predicarne e praticarne il rispetto”. Sempre la Onlus Yairaiha si rivolge alle istituzioni sottolineando che questa volta non ha nulla da chiedere, visto che non sono in grado di “compiere un miracolo per il signor Giordano”, ma “dovreste, invece, far sì che gli oltre 60.000 detenuti e detenute delle galere italiane venissero trattate da persone con diritti inalienabili, anche se detenute, nel rispetto di quella Costituzione sulla quale ogni uomo e donna di Stato giura”. Latina. Il carcere sarà ristrutturato, finanziati diversi interventi grazie a fondi regionali latinaquotidiano.it, 31 dicembre 2019 Un piccolo sospiro di sollievo per il carcere di via Aspromonte a Latina. La struttura segnata da evidenti e cronici problemi di sovraffollamento vedrà, infatti, alcuni lavori mirati a migliorare le condizioni della popolazione detenuta. Tra questi quelli inerenti il sostegno al reinserimento sociale e lavorativo che prevedono interventi di ristrutturazione dell’area esterna per consentire l’accesso delle detenute di alta sicurezza a spazi dedicati ad attività lavorative. In tutto i fondi assegnati per l’esercizio finanziario 2019 ammontano a 250mila euro per interventi strutturali, 120mila euro per laboratori teatrali e attività trattamentali, 90mila euro per Casa di Leda, 40mila euro per il sostegno agli studi universitari. “In questo modo, in un momento particolarmente dedicato per le nostre carceri, la Regione - spiega il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia - adempie alle proprie responsabilità per il reinserimento sociale delle persone detenute, rendendo evidente quanto l’effettiva attuazione dell’articolo 27 della Costituzione richieda il concorso e il pieno coinvolgimento degli enti territoriali”. 40mila euro, invece, sono stati destinati alle università di Roma Tre e Tor Vergata che, in virtù di appositi protocolli d’intesa sottoscritti con il Garante e con il Provveditorato, sono impegnate nel tutoraggio didattico dei detenuti iscritti presso i propri corsi di studio. I restanti 120mila euro sono stati assegnati tramite bandi pubblici per la realizzazione di laboratori teatrali e progetti finalizzati al reinserimento sociale e alla promozione della pratica sportiva negli istituti di pena. “Si tratta di un investimento che si affianca a quelli già posti in essere a valere sulle risorse del fondo sociale europeo e destinati alla formazione professionale, all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale delle persone detenute o comunque provenienti da percorsi penali, e a cui si spera potranno a breve aggiungersi - conclude Anastasia - quelli destinati dalla Cassa delle ammende a progetti condivisi con le amministrazioni della giustizia”. Per la realizzazione di laboratori teatrali, sono stati ammessi e finanziati i progetti presentati dalle associazioni Arte Studio, La Ribalta, Sangue Giusto, Forte Apache e Per Ananke che si svolgeranno nel corso del 2020 nei penitenziari di Regina Coeli, Viterbo, Rieti, Velletri, Latina, Rebibbia Nuovo Complesso, Rebibbia femminile e Civitavecchia. Per quanto riguarda invece le attività trattamentali le domande finanziate sono quelle delle associazioni Edi, Arci Solidarietà Viterbo, Ancei, Vic Volontariato e A buon diritto e interesseranno l’Istituto penale minorile di Casal del Marmo e le carceri di Viterbo, Cassino, Rebibbia e Frosinone. Diverse le finalità degli interventi finanziati: dal sostegno alla genitorialità ed alla conservazione e miglioramento della vita affettiva e relazionale dei detenuti al reinserimento sociale e lavorativo, al benessere psicofisico e alle forme di espressività, creatività e riflessione. Rovigo. Il carcere che dovrebbe ospitare i mafiosi presenta delle criticità rovigooggi.it, 31 dicembre 2019 Carenza di personale, pochi ispettori, una parte del Carcere di Rovigo accoglie anche detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali di stampo mafioso e con regime di Alta sicurezza. Ispezione della Federazione nazionale Sicurezza della Cisl al Carcere di Rovigo, coadiuvati dalla Segreteria Regionale Fns del Veneto, per verificare le situazioni di questo nuovo Istituto penitenziario, una complessa struttura in evidente sviluppo rispetto al modello dalla sua iniziale apertura circa 3 anni prima. “Siamo stati accompagnati ed informati ai nostri quesiti dal direttore Taiani e dal comandante Milani, che ringraziamo per la disponibilità offerta alla nostra delegazione nella visita in questione. Con una specifica lettera - evidenzia Pompeo Mannone - indirizzata al Capo del Dap Basentini, al direttore generale del personale Parisi ed al Provveditore del Triveneto, Sbriglia, questa Segreteria Nazionale ha inteso segnalare molte situazioni che per la loro complessità e gravità non riteniamo dover rendere note pubblicamente ed è per tale motivo che la nostra iniziativa l’abbiamo riservata ai Vertici Dap”. “Molte delle situazioni che abbiamo personalmente verificato risultano segnalate da tempo dalla Direzione della Casa Circondariale e dal Comandante del Reparto di Polizia penitenziaria, un aspetto questo che c’impegna a ricercare adeguate risposte dai Superiori Uffici. Sul nuovo Istituto di Rovigo insistono a nostro avviso molti errori di valutazione, sia in sede di progettazione che di realizzazione, oltre al fatto che il cambio di destinazione dei circuiti penitenziari in Veneto portano questo nuovo carcere a dover gestire non più comuni detenuti di media sicurezza ma anche una importante quota di detenuti in regime di Alta Sicurezza, appartenenti ad organizzazioni criminali di stampo mafioso. Abbiamo pertanto segnalato le carenze, gli strumenti necessari, le modifiche strutturali da apportare, affinché non si debbano fronteggiare criticità insite nel sistema organizzativo. Anche vari aspetti tecnici interni sono stati oggetto di segnalazione, non solo per la sicurezza del servizio ma anche per le tutele in termini di salubrità e sicurezza del personale. Ai vertici del Dap questa Segreteria Nazionale ha chiesto di voler disporre con urgenza le necessarie verifiche ed interventi perché questa nuova realtà penitenziaria non arrivi al collasso organizzativo e strutturale prima ancora di aver trovato/provato un proprio assetto che garantisca i corretti livelli di sicurezza e la garanzia di assicurare i diritti soggettivi al personale. La carenza di organico appare grave, soprattutto verso i ruoli degli ispettori e dei sovrintendenti, costringendo il personale del ruolo agenti/assistenti (fortunatamente molti giovani) di proseguire a vedere affidati - in certe fasce orarie - certi servizi di elevata responsabilità operativa ad Agenti. Vigileremo e pretenderemo un impegno da parte del Prap del Triveneto e del Dipartimento Centrale perché la Casa circondariale di Rovigo non sia lasciata alle proprie difficoltà senza che nessuno li ascolti e ponga rimedio per ciò che è necessario fare”. Il vero problema è che i mafiosi in Carcere a Rovigo ci sono già, sono almeno 100 i detenuti pericolosi detenuti nella Casa circondariale, tutti con gravi reati sulle spalle. Napoli. Poggioreale e Secondigliano, come trascorreranno il Capodanno i detenuti di Antonio Sabbatino internapoli.it, 31 dicembre 2019 Tradizionale messa di fine anno domattina del cardinale Crescenzio Sepe alla cappella del carcere di Poggioreale. Il vescovo della chiesa di Napoli darà un conforto spirituale agli ospiti della struttura carceraria Giuseppe Salvia, costretti a passare il Capodanno lontane dalle famiglie per scontare la pena detentiva per i vari reati commessi. Un appuntamento oramai consueto quello del 31 dicembre per Sepe al carcere di Poggioreale, che replica quello del pranzo natalizio, anch’esso rituale, del 23 dicembre organizzato come sempre dalla Comunità di Sant’Egidio alla presenza quest’anno, tra gli altri, di Giuseppina Salvia e Claudio Salvia rispettivamente vedova e figlio del vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe Salvia ammazzato per volontà di Raffaele Cutolo perché il boss della Nuova Camorra Organizzata non sopportava la parità di trattamento ad ogni detenuto di Poggioreale che Salvia propugnava nella propria opera di integerrimo funzionario statale. Nessuna particolare iniziativa è invece prevista al carcere di Secondigliano per il fine anno, con i vari appuntamenti attesi dopo l’inizio del 2020. Intanto il nuovo garante dei detenuti del Comune di Napoli Pietro Ioia, nominato su indicazione del primo cittadino Luigi de Magistris, attende ancora l’ok del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per entrare nelle varie carceri del territorio e supportare i detenuti come prevede la sua mansione (svolta a titolo gratuito). Un ritardo burocratico che al dire il vero un po’ rammarica Ioia e ad InterNapoli.it lo stesso garante spiega il perché: “Nei giorni scorsi c’è stato al padiglione Milano del carcere di Poggioreale un tentativo di suicidio (riportato dalla nostra testata ndr.), con un detenuto che ha cercato di impiccarsi nella propria cella. La persona è stata poi salvata dagli altri che erano lì con lui e poi soccorso dalle guardie penitenziarie. Se avessi avuto già la possibilità di ispezionare le carceri, avrei potuto magari parlare con questo detenuto in difficoltà e cercare di dar lui supporto”. Ma il placet del Dap è ancora lontano? “Spero di no - risponde Ioia - il sindaco mi ha assicurato che invierà la richiesta tra oggi e domani”. Se tutto andrà secondo i piani, il nuovo garante dei detenuti potrebbe visitare il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano nell’arco della giornata del 7 o del 9 gennaio. Potenza. Visita in carcere del ministro Speranza e del capo Dap Basentini di Marco Belli gnewsonline.it, 31 dicembre 2019 Il Ministro della Salute Roberto Speranza, il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini e il Vice Capo di Gabinetto vicario del Ministero della Giustizia Leonardo Pucci hanno visitato oggi la Casa Circondariale di Potenza. Ad accoglierli Maria Rosaria Petraccone, Direttrice dell’istituto, Giovanni Lamarca, Comandante di Reparto, e da Giuseppe Palo e Sonia Crovatto, responsabili rispettivamente della area di segreteria e di quella trattamentale, che li hanno accompagnati nella visita alle sezioni detentive e all’intera struttura carceraria. Le autorità in visita hanno incontrato personale e detenuti, ascoltando istanze e proposte. Il Capo DAP ha illustrato al Ministro le linee guida dipartimentali che orientano il tema del lavoro penitenziario, sottolineando l’importanza dei i laboratori gestiti da cooperative sociali. Nel corso della visita il Ministro della Salute ha anche raccolto indicazioni e suggerimenti sui temi di sua competenza incontrando il personale sanitario, assicurando costante impegno per la cura e l’assistenza della popolazione detenuta, incluso l’aggiornamento e la formazione sul campo degli operatori. A conclusione della visita la squadra di calcio a 5 della Casa Circondariale #noinonsiamonumeri, composta da 14 detenuti tesserati dall’Asd Family Volley affiliata al Centro Sportivo Italiano, ha donato al Ministro e al Capo Dap la divisa con cui per la prima volta la formazione dell’Istituto penitenziario potentino ha partecipato a un campionato regionale. Il progetto è previsto da un Protocollo d’intesa sottoscritto da Basentini e da Sergio Contrini, direttore Area Sport e Cittadinanza del Csi. L’Italia in marcia per chiedere un mondo senza guerra Avvenire, 31 dicembre 2019 Il 31 sera a Cagliari la 52esima edizione della tradizionale manifestazione organizzata da Cei, l’Azione Cattolica, Caritas e Pax Christi. Il 1 gennaio Sant’Egidio manifesta in tutti i continenti. Un mondo senza guerra e terrorismo. La speranza per questo nuovo anno che inizia è proprio questa. E così domani sera, per la prima volta nell’isola, si svolgerà a Cagliari la 52esima Marcia per la pace, il tradizionale appuntamento organizzato da Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, l’Azione Cattolica Italiana, la Caritas Italiana e Pax Christi Italia. La Marcia prenderà il via alle ore 17:00 da piazza San Michele, sul cammino ci saranno interventi e testimonianze per giungere presso la Basilica di Nostra Signora di Bonaria dove alle ore 22:00 si terminerà con la Santa Messa trasmessa su TV2000. L’appuntamento è preceduto da due giorni di convegno organizzato da Pax Christi Bella Italia, armate sponde..., presso il teatro della parrocchia di Sant’Eulalia, per discutere delle fabbriche che producono armi in Sardegna e le esportano a Paesi in guerra. Tra i partecipanti monsignor Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi Italia e vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti, don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera e Franco Uda, presidenza nazionale Arci e portavoce Tavola sarda della pace. Il 1° gennaio, sempre in occasione della 53a Giornata Mondiale della Pace, esprimendo il proprio sostegno al messaggio di Papa Francesco “La Pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica”, la Comunità di Sant’Egidio invita invece a cominciare il nuovo anno per la strada, insieme a chi lavora per un mondo più giusto e umano. Ad esempio a Roma, la comunità trasteverina si ritroverà alle 10.30 a Largo Giovanni XXIII fino ad arrivare poi insieme a Piazza San Pietro, per ascoltare le parole di Papa Francesco all’Angelus. Il mondo è una “casa comune” e tutti siamo chiamati a prendercene cura. In questo momento, dice la Comunità San’Egidio in una nota, “siamo fortemente preoccupati per le troppe guerre ancora in corso e il terrorismo che ha colpito la Somalia, il nord del Mozambico e vari Paesi del Sahel, come la Nigeria, il Burkina Faso, il Mali e il Niger, di cui si parla troppo poco. A soffrirne più di tutti sono i poveri che hanno diritto alla pace attraverso il dialogo e la riconciliazione”. Ma, continua, dobbiamo farci carico anche di tutte le terre ferite dallo sfruttamento della natura che attendono una “conversione ecologica”. Per questo nel primo giorno dell’anno, Sant’Egidio organizza marce, manifestazioni e iniziative pubbliche in centinaia di città di tutti i continenti. Durante il loro svolgimento, a partire da quella di Roma, verranno ricordati i nomi di tutti i Paesi ancora coinvolti dai conflitti e dalla violenza nei diversi continenti. La vittoria contro l’odio di Liliana Segre di Andrea Colombo Il Manifesto, 31 dicembre 2019 Senatrice a vita, perseguitata nella Shoah a 14 anni, Liliana Segre è una testimone doppiamente preziosa: per le superficialità di oggi e per le atrocità viste allora. Niente vendette né perdono verso i suoi carnefici. Ma neanche sconti a chi con leggerezza ne “celebra” le gesta. Le vittime della Shoah, gli ebrei, i Rom, gli omosessuali, gli psicolabili, gli affetti da handicap, non furono martiri. Nella stragrande maggioranza dei casi non intendevano testimoniare con il sacrificio della vita la loro fede in una religione o in una causa. Furono vittime, travolte e divorate da una tempesta di ferocia, odio e spietatezza che non potevano prevedere e tanto meno capire. Liliana Segre, sopravvissuta all’assassinio del padre e dei nonni, alla deportazione ad Auschwitz-Birkenau, alla tremenda “marcia della morte” del gennaio 1945, era una di loro. Ha raccontato in diverse occasioni di aver “scoperto” le sue origini ebraiche solo dopo l’avvio della campagna razziale, nel 1938. Aveva 8 anni, era stata battezzata prima ancora che le leggi razziali entrassero in vigore. Si trovò all’improvviso alle prese non solo con la violenza straziante della discriminazione, destinata poi a diventare persecuzione aperta, ma anche con quella zona grigia che ha tanto spesso denunciato nei suoi discorsi: quella di chi non aderiva ma neppure sabotava, di chi non era del tutto complice ma neppure riteneva necessario opporsi. Come la Svizzera, che avrebbe chiuso i confini di fronte a lei e a suo padre quando, il 10 dicembre 1943 cercarono inutilmente rifugio a Lugano. Forse nella proposta di una commissione parlamentare contro l’odio in rete avanzata con successo dalla senatrice a vita Segre più che il desiderio di censurare e punire c’è quello di svegliare e risvegliare, di combattere una passività che è tanto pericolosa quanto le forme attive di razzismo. “L’atmosfera dovuta all’ignoranza e all’indifferenza che è stata la regina del mondo di allora c’è purtroppo anche oggi”, dice. Quella commissione, discutibile se immaginata come motore di sanzioni contro la libera espressione di opinioni pur se aberranti, sarebbe destinata a svolgere più meritorie e soprattutto più utili funzioni se immaginata come la ricerca di un antidoto a quei veleni, senza i quali il razzismo esisterebbe comunque ma non prospererebbe. Alcuni dei sopravvissuti si assunsero subito la pesantissima responsabilità di testimoniare l’orrore che avevano conosciuto, nella speranza di impedire così che potesse ripetersi e forse di saldare un debito con i tantissimi che non ce l’avevano fatta. Accettarono di rimanere ostaggi della loro stessa tragedia fino a esserne in molti casi uccisi, come Primo Levi e Jean Améry. Molti altri, come Alberto Sed scomparso pochi mesi fa o la stessa Liliana Segre, combatterono una guerra non meno lunga e non meno dolorosa contro la prigionia di quel passato, per cercare di recuperare una forse impossibile normalità, per riuscire a convivere con il trauma di quell’orrore senza precedenti e a superarlo senza dimenticarlo. Solo dopo decenni hanno rotto il silenzio per iniziare a raccontare. “Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva. Ero io che dovevo adeguarmi a un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati. Ho iniziato prestissimo a tacere. Mi ci sono voluti 45 anni per riuscire ad andare a parlare davanti agli studenti, senza mai nominare odio e vendetta, e a fare il mio dovere di testimone”, racconta Liliana Segre. In un’epoca segnata dal rancore, Liliana Segre, sopravvissuta e senatrice a vita, è diventata così doppiamente testimone. Delle atrocità vissute quando era appena quattordicenne ma anche della capacità di battere il lascito tremendo di quell’esperienza, di vincere gli spettri che inevitabilmente aveva depositato nell’anima delle vittime, di riuscire lo stesso a vivere sino a ritrovarsi capace, a 89 anni, di affermare con drammatica serenità: “Io non perdono e non dimentico ma non odio”. Nella superficialità del discorso politico e culturale contemporaneo parole del genere rischiano di essere confuse con uno dei tanti slogan “contro l’odio”. Pronunciate da chi aveva tutti i motivi di odiare e quell’odio ha saputo superare in una battaglia durata decenni è la testimonianza di una vittoria contro la morte, e contro chi della morte aveva fatto un sinistro feticcio. Quella testimonianza è il dono più prezioso di cui essere grati a Liliana Segre. Cannabis. Coltivazione domestica, il ripensamento della Cassazione di Riccardo De Vito* Il Manifesto, 31 dicembre 2019 Il 7 febbraio 2018 Luigi Saraceni, nel commentare per questa rubrica una sentenza della Corte di Cassazione penale, che riteneva non punibile penalmente la coltivazione di sei piantine di cannabis destinate ad uso personale, auspicava che questa soluzione “in assenza di un intervento risolutivo del legislatore potesse diventare patrimonio unanime della giurisprudenza”. Parole profetiche. A distanza di poco meno di due anni possiamo dire che, mentre la politica si contorce in un dibattito asfittico e moraleggiante, la giurisprudenza di legittimità torna sulla controversa materia della coltivazione di piante di cannabis. Sappiamo perché sia tema spinoso: una distonia tra le formulazioni del comma 1 e del comma 1-bis dell’art. 73 Dpr 309/90 impedisce in astratto di configurare la non punibilità della coltivazione in caso di destinazione all’uso personale, a differenza di quanto accade per la detenzione dei derivati (marijuana e hashish). Di qui un problema serio per il principio di uguaglianza, al quale le Sezioni Unite penali ora offrono una risposta ragionevole e chiara per l’interprete. Siamo in attesa delle motivazioni della decisione presa all’udienza del 19 dicembre 2019 e la cautela è d’obbligo. L’anticipazione tuttavia parla chiaro. Dopo aver ripetuto, conformemente al dato normativo, che per integrare il reato di coltivazione è sufficiente la conformità al tipo botanico della pianta e l’attitudine di questa a maturare e produrre sostanza stupefacente, le Sezioni Unite precisano che “devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Possiamo dire di trovarci di fronte alla reintroduzione della provvidenziale nozione di coltivazione “domestica” ritenuta, a differenza della coltivazione “imprenditoriale”, non penalmente rilevante. L’inversione di rotta rispetto all’orientamento consolidato nelle sentenze gemelle delle Sezioni Unite penali di nove anni fa (28605/2008 Di Salvia e 28606/2008 Valletta) è lampante. Nel fare piazza pulita della distinzione tra tipologie di coltivazione, quelle sentenze specificavano che “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto a uso esclusivamente personale”. Si trattava di un approccio che esaltava il rigore della legge, appena temperato dalla dichiarata irrilevanza di condotte non offensive in concreto. In cosa consistesse questa inoffensività, tuttavia, non era dato sapere, mantenendosi la Cassazione sullo stesso livello di genericità della sentenza 360/1995 della Corte costituzionale. Di qui le interpretazioni contrastanti dei giudici di merito e il diffondersi di un orientamento rigorista che vedeva soltanto nel reato impossibile (totale assenza di efficacia psicotropa) la via d’uscita dal penale. Inutile rimarcare le dannose conseguenze sul processo e sul carcere di questo orientamento. C’è da augurarsi che il ripristino di criteri limpidi di distinzione tra condotte penalmente rilevanti e condotte sanzionate soltanto in via amministrativa produca alcuni effetti sperati: allontanare il consumatore occasionale e personale dalle vie dello spaccio e della criminalità; far riflettere la politica sulla pluralità delle tipologie di consumo e sulla necessità di affrontare questa diversità con politiche sociali non repressive. *L’autore è Presidente di Magistratura democratica La tenaglia mediterranea che si stringe sull’Italia di Franco Venturini Corriere della Sera, 31 dicembre 2019 Il nostro Paese si scopre all’improvviso al centro di una grande partita geopolitica, che non aveva non previsto, che minaccia i suoi interessi energetici. Una tenaglia mediterranea si stringe sull’Italia e rischia di farle vivere, nel 2020, il suo più grave smacco diplomatico dalla fine della guerra: la perdita della Tripolitania. Complici la guerra civile in Libia e la decisione di Turchia e Russia di inviare uomini e armi sul campo di battaglia, l’Italia delle interminabili liti interne si scopre all’improvviso al centro di una grande partita geopolitica che non aveva previsto, che minaccia i suoi interessi energetici e che lascia poco spazio al tentativo di governare i flussi migratori che proprio dalla Tripolitania giungono sulle nostre coste. Quando va bene. Eppure per l’Italia l’emergenza Libia viene da lontano, da un mondo tramontato (chiedere agli Usa) nel quale né Putin né Erdogan oserebbero muoversi come fanno oggi. Fedele alla sua cultura del soft power, per molti anni dopo l’abbattimento militare di Gheddafi nel 2011 l’Italia si è identificata con i buoni uffici dell’Onu. Anche quando essi risultavano palesemente inefficaci o troppo partigiani a sostegno di Fayez al-Sarraj, oggi fragile capo della Tripolitania. E si è nascosta, l’Italia, anche dietro rassicurazioni americane tanto altisonanti quanto prive di concreto significato: il “ruolo dirigente” di Obama, poi la “comune cabina di regìa” di Trump. Ipersensibili eravamo invece ad una ingigantita competizione con la Francia (che esiste ed è lecita), con il risultato che noi e i transalpini collaboriamo strettamente per tentare di recuperare il terreno che entrambi, ma noi più di loro, abbiamo perduto. Schierata decisamente dalla parte di Sarraj, l’Italia poteva almeno vantare una coerenza tra la sua linea e i suoi interessi in Tripolitania. Per un po’ siamo andati avanti così. Ma il 4 aprile scorso questo debole castello di carte, fatto di parole e di cortesi inviti più che di iniziative politiche, è venuto giù. Con l’aiuto dell’Arabia Saudita, degli Emirati e dell’Egitto, e forte di una calcolata disattenzione statunitense, Khalifa Haftar si è lanciato quel giorno all’assalto di Tripoli. Che avrebbe probabilmente espugnato, non fosse stato per le sperimentate milizie di Misurata che in odio al generale cirenaico decisero di difendere la capitale. Nove mesi dopo l’attacco, l’ambizioso Haftar mostra oggi di aver fatto il passo più lungo della gamba. Ma il suo nemico Sarraj è stato comunque costretto a chiedere aiuto, a reclamare forniture di armi malgrado l’ormai ridicolizzato embargo proclamato dall’ONU. Questo poteva essere un momento di scelta strategica per l’Italia, un momento che forse in futuro rimpiangeremo. Sta di fatto che né l’amica Italia né altri esponenti di quella Comunità internazionale formalmente legata a Tripoli hanno accettato di aiutare Sarraj. La guerra civile libica veniva ormai condotta da due sconfitti virtuali tenuti in vita e in guerra dai rispettivi patrocinatori: Arabia Saudita, Emirati e Egitto con Haftar, Turchia e Qatar con Sarraj. Ma il fallimento militare di Haftar e le vane richieste di aiuti di Sarraj avevano ormai creato in Libia un vuoto di potere. Uno di quei vuoti, la Storia insegna, che non rimangono a lungo tali, che i più forti e spregiudicati si precipitano sempre a riempire. Più che mai quando c’è odore di petrolio e di gas. È così che in Libia si è prodotta la svolta russo-turca che oggi ci minaccia e ci impone di reagire. Putin, pur continuando ad auspicare a parole un accordo di pace, ha inviato in appoggio ad Haftar i contractors della Wagner già visti in Ucraina. Erdogan ha fornito a Sarraj armi sofisticate e ha creato le premesse per mandare anch’egli forze di terra (ma avanguardie delle sue milizie turcomanne sono già a Tripoli). Nemiche per interposti clienti, Russia e Turchia si criticano reciprocamente. Ma il loro vero obbiettivo sta già per essere raggiunto senza scontri militari diretti, come in Siria. Quando verrà l’ora del negoziato, quando i due libici sconfitti diventeranno effettivamente tali, sul tavolo della questione libica ci saranno soltanto le pistole della Russia e della Turchia. Loro (così sperano) decideranno se e come la Libia resterà unita. Loro saranno i primi a mettere le mani su petrolio e gas libici. Loro decideranno chi altri potrà mettersi in fila e avere le briciole. Loro decideranno cosa fare con i migranti, sapendo quanto pesa il loro impatto elettorale sulle democrazie europee. Gli antidoti difensivi sono pochi e urgenti. Una “no-fly zone” come quella descritta da Lorenzo Cremonesi sul Corriere potrebbe fermare la cruciale guerra dei droni, soprattutto se ad imporla fosse una forza aerea italiana, britannica, francese e tedesca. Ma per definire un simile accordo serve tempo. E di tempo ce n’è poco, la conferenza di Berlino di fine gennaio rischia di arrivare tardi e gli europei, almeno alcuni di essi, dovrebbero agire subito se non vogliono dover sottostare in futuro alle regole russo-turche. Tanto più che al largo di Cipro le prospezioni dell’ENI e di molti altri sono già oggetto del contendere con Ankara. Tanto più che in Siria infuria la battaglia di Idlib patrocinata da Damasco e dai russi, e la Turchia si rifiuta di far entrare i 350.000 profughi che scappano verso il nulla e che fatalmente diventeranno rifugiati da accogliere in Europa. Tanto più che la Russia è già un forte alleato dell’Egitto, e il turco Erdogan ha appena gettato un amo in Tunisia sognando che l’accordo sottoscritto con Sarraj possa consentirgli di spingere fino alle coste tripolitane le ambizioni marittime di Ankara. E che la Libia di domani possa essere una rivincita della sconfitta ottomana del 1911 contro l’Italia. Nelle stanze dei decisori italiani la sveglia suona ormai con inaudito fragore. E questa volta le parole non basteranno. Migliaia di europei nel limbo dei foreign fighters nelle carceri curde euronews.com, 31 dicembre 2019 Decine di uomini stipati in celle minuscole. Nelle sovraffollate prigioni del nord-est della Siria, da mesi migliaia di membri e fiancheggiatori dello Stato islamico sono sorvegliati dalle forze curde. Almeno 2500 di loro si stima provengano da paesi europei e occidentali: in molti casi si trovano in un limbo giuridico, dal momento che gli stati di provenienza continuano a fare orecchie da mercante di fronte agli appelli alla cooperazione curdi, stretti tra la morsa dell’offensiva turca e le schermaglie con il Daesh, che oggi si può dire defunto solo nella sua incarnazione statale e territoriale. E se a novembre Erdogan si è trovato nelle condizioni di poter fare la voce grossa, avviando le operazioni di rimpatriodei jihadisti detenuti nelle carceri turche, i curdi restano nello stesso limbo dei prigionieri che sorvegliano, il cui destino è tutt’altro che chiaro. “Tornare a casa” - Daniel D. è un giovane svizzero di 25 anni. Lavorava come muratore a Ginevra, prima di unirsi ai jihadisti sotto lo pseudonimo di Abu llias al Swisri (“lo svizzero”). “Non ho ucciso nessuno - spiega - né in Europa né qui. Non ho troppi rimpianti, al contrario, mi sono anche sposato in Siria. Non tutti sono terroristi qui”. “Voglio solo andare a casa” conclude. “Non vogliono riprendermi, anche se si suppone che la Svizzera sia il paese dei diritti umani. Possono mettermi dove vogliono, purché io stia con mia moglie e mio figlio mi va bene”. Di nazionalità danese, Kasper M. era invece un artigiano prima di partire per il Medio Oriente. Per lui, gli attentati compiuti in Europa dallo Stato islamico non sono altro che ritorsioni. “È la guerra, ecco cos’è” dice, serafico. “Molte famiglie di Isis sono state bombardate, molte donne e bambini, quindi loro hanno fatto lo stesso. Non vogliono che torniamo indietro, ma forse non hanno molta scelta”. “Non c’è altra soluzione - continua - non è una buona idea tenerci qui a tempo indeterminato. Ci sono molte persone in questa prigione, migliaia di combattenti di uno stesso gruppo. E se usciranno tutti insieme, forse ne formeranno un altro”. Prigionieri che nessuno vuole - In molti casi, questi uomini si trovano in carcere da oltre nove mesi. E nessuno al momento è in grado di dire quanto ancora dovranno restarci. Sul punto, perfino Donald Trump, durante il vertice Nato di inizio dicembre, ha punzecchiato l’omologo francese Emmanuel Macron, uno dei più riluttanti a riprendere in casa le centinaia di jihadisti partiti dalla Francia. “Vorresti riprenderti qualche simpatico jihadista dalla Siria?”, lo ha incalzato Trump. Ma - al netto dei sarcasmi e delle relative orecchie da mercante - la questione si fa è sempre più sera: lo scorso ottobre, nelle prime ore dell’offensiva turca contro le forze curde nella regione, una sommossa è scoppiata nel campo profughi di al-Hol, che ospita le famiglie - in molti casi europee - dei jihadisti rinchiusi nelle carceri curde. L’obiettivo, a quanto sembra, era tentare di fuggire nel caos dei combattimenti. Non era la prima volta, in realtà, che nel campo si registravano violente rivolte: in molti, tra gli ospiti della struttura, conservano una fede cieca per l’ideologia takfirista dell’Isis, considerando i curdi e il personale umanitario presente alla stregua di infedeli da aggredire o da cui proteggersi. E anche chi sembra aver rinnegato il fondamentalismo del Daesh è comunque costretto a restare in questo limbo: tra carcerieri curdi sotto-organico, che da mesi dicono di non essere più in grado di gestire una simile massa di prigionieri, e paesi di provenienza le cui porte potrebbero non riaprirsi più. Egitto. L’Italia arma la repressione, nuovi accordi con al-Sisi di Pino Dragoni Il Manifesto, 31 dicembre 2019 Incontri tra l’ambasciata di Roma e Il Cairo e visite d’affari di aziende civili e belliche. Intanto nella capitale egiziana aggredito l’attivista egiziano Gamal Eid. E in carcere muore una detenuta Una camionetta della polizia egiziana in piazza Tahrir, al Cairo. La diplomazia italiana al Cairo continua a lavorare alacremente per promuovere le imprese (e le armi) italiane in Egitto. Venerdì 20 dicembre l’ambasciatore Giampaolo Cantini ha incontrato il ministro della produzione bellica Mohamed al-Assar per discutere di “cooperazione economica”. Né l’ambasciata né la Farnesina hanno diffuso note ufficiali e la faccenda è stata quasi del tutto ignorata dalla stampa italiana. Al contrario di quella egiziana che invece, basandosi sui resoconti ufficiali egiziani, ha approfittato dell’occasione per sottolineare ancora una volta che “i rapporti d’affari italo-egiziano si stanno sviluppando molto bene”. Nell’incontro, al quale ha partecipato anche lo staff dell’addetto militare dell’ambasciata, si è parlato di industria, soprattutto bellica. Cantini ha “espresso il desiderio di aumentare gli investimenti italiani in Egitto incoraggiando le compagnie italiane a investire nel paese”, secondo il quotidiano economico Daily News Egypt, facendo in particolare riferimento alla Rheinmentall Defence, azienda leader nella difesa aerea con sede a Roma. L’ambasciatore ha poi “raccomandato” diverse partnership tra imprese italiane e il ministero di al-Assar, espressione del potente complesso economico-militare egiziano. Cantini, sempre secondo il Daily News, avrebbe anche annunciato il suo impegno a favorire la partecipazione di altre aziende alla prossima edizione della Egypt Defence Expo (la fiera cairota dell’industria militare), a dicembre 2020. Il vertice tra il diplomatico italiano e il ministro è stato il culmine di una intensa settimana di incontri d’affari. Sabato 21 una delegazione di quindici imprese italiane ha concluso una visita durata quattro giorni, fitta di incontri con esponenti del governo e dell’imprenditoria egiziana. La visita rientrava nell’ambito del secondo Forum economico italo-egiziano (il primo c’è stato a Napoli a settembre). L’industria italiana ha portato a casa nove accordi economici firmati durante la visita, che confermano “il grande potenziale di crescita della cooperazione economica”, secondo le parole di Giuseppe Romano, presidente della Cise, Confederazione italiana per lo sviluppo economico, presente al Forum. Stando alle notizie diffuse dalla stampa egiziana, alcune aziende italiane prenderanno parte agli investimenti nei progetti per la nuova capitale amministrativa, faraonica città nel deserto voluta da al-Sisi. Non è dato sapere molto altro sul contenuto degli accordi economici e sulle aziende firmatarie, tanto meno per quel che riguarda quelli in ambito militare. Secondo il sito Sicurezza internazionale, il 2018 è stato un anno d’oro per l’export militare italiano in Egitto. L’anno scorso infatti il regime di Abdel Fattah al-Sisi ha pagato oltre 69 milioni di euro per l’acquisto di armi, munizioni e sistemi di informazione per la sicurezza di provenienza italiana, quasi dieci volte il volume d’affari del 2017. I nuovi accordi fanno presagire altri segni positivi per l’industria bellica italiana. Gli armamenti, spiega il quotidiano della Luiss, “sono volti principalmente all’impiego militare, sia per l’esercito sia per la polizia e le forze di sicurezza”. Le stesse forze di sicurezza che in questi giorni sono tornate a fare notizia con altre violazioni. Domenica è toccata di nuovo a Gamal Eid, direttore dell’Arabic Center for Human Rights Information, storica organizzazione per i diritti umani. L’avvocato è stato aggredito sotto casa da una decina di uomini armati e a volto coperto. Mentre alcuni lo tenevano fermo e lo picchiavano, altri lo hanno cosparso di vernice. È la seconda aggressione del genere in pochi mesi. Entrambe portano chiaramente la firma degli apparati di sicurezza statali, denuncia Eid. Si aggrava anche la situazione nelle carceri. Domenica scorsa una donna detenuta è morta nel complesso di al-Qanater, in seguito a una grave negligenza medica dell’autorità penitenziaria. Nella stessa prigione dieci donne sono da due settimane in sciopero della fame. Tra queste c’è la 39enne Aisha al-Shater, figlia di un noto leader della Fratellanza musulmana, detenuta in condizioni durissime e in queste ore in serio rischio di vita, secondo quanto riporta Human Rights Watch. Stati Uniti. Fecero saluto nazista, licenziate 30 aspiranti guardie carcerarie La Repubblica, 31 dicembre 2019 L’immagine fu pubblicata da media locali. Il pugno duro del governatore del West Virginia. Saranno licenziati una trentina di aspiranti guardie carcerarie del West Virginia, negli Stati Uniti, che durante il loro apprendistato hanno fatto il saluto nazista in una foto di gruppo. Lo ha annunciato il governatore Jim Justice in un comunicato in cui ha fatto sapere che seguirà tutte le raccomandazioni rivoltegli da un rapporto interno che aveva suggerito il licenziamento dei responsabili. “Questo tipo di comportamento non sarà tollerato da nessuna agenzia governativa finché ricoprirò questo incarico”, ha promesso il governatore. La foto scattata durante un corso di formazione era stata pubblicata dai media Usa a inizio dicembre. I secondini in uniforme vi fanno il saluto nazista sotto la scritta “Hail Byrd!”, dal nome della loro istruttrice, Kassie Byrd. Proprio l’istruttrice aveva cercato di ridurre l’episodio a una goliardata osservando che il riferimento era al fatto che lei fosse “una dura come Hitler”. Il rapporto inviato al governatore, però, censura pesantemente l’iniziativa dei secondini che definisce frutto di “ignoranza” e di “una deplorevole mancanza di giudizio”. Cina. Condannato a nove anni di carcere il pastore protestante Wang Yi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 dicembre 2019 Il 30 dicembre il pastore Wang Yi, della Early Rain Covenant Church, una delle “chiese domestiche” protestanti più popolari della Cina, è stato condannato a nove anni di carcere da un tribunale di Chengdu, nella provincia del Sichuan, per “incitamento alla sovversione dei poteri dello stato” e “attività economiche illegali”. La vicenda era iniziata poco più di un anno fa, il 9 dicembre 2018, quando la polizia di Chengdu fece irruzione nei locali della chiesa e arrestò circa 100 fedeli, tra cui il pastore Wang. La Early Rain Covenant Church è stata fondata nel 2005 e da allora ha sempre rifiutato di presentare domanda di riconoscimento all’Ufficio degli affari religiosi, che approva le “associazioni patriottiche religiose” cui è consentito operare senza subire persecuzioni da parte delle autorità. Le “chiese domestiche” (chiamate così perché i fedeli tendono a riunirsi e a svolgere funzioni religiose in case private) sono sempre più nel mirino del governo da quando, nel 2018, è stata emendata la Legge sugli affari religiosi. Da varie provincie (tra cui Henan, Zhejiang, Guangdong ed Heilongjiang) arrivano denunce di chiese costrette a chiudere, proprietà sequestrate o distrutte, croci e altre insegne cristiane rimosse dalle facciate dei locali.