Un detenuto su quattro è sotto psicofarmaci. A Spoleto il record col 97% di Franco Giubilei La Stampa, 30 dicembre 2019 L’assistenza in carcere è un’emergenza trascurata. Reparti senza medici nel periodo festivo. In media, ogni recluso in terapia ha a sua disposizione uno psichiatra per 4 minuti alla settimana. Le attività rieducative, scolastiche e lavorative sono ridotte al minimo. Dietro le sbarre i suicidi sono dieci volte più frequenti che nel resto della società. Il dato secco è impressionante: il 27% dei detenuti italiani viene sottoposto a terapia psichiatrica, percentuale che, come tutte le medie statistiche, oscilla fra l’incredibile 97% della casa di reclusione di Spoleto e il minuscolo 0,6% di Volterra. L’associazione Antigone, con la sua ricerca condotta su oltre 60 istituti detentivi su 190, alza il velo sull’ennesima, grave espressione di disagio del mondo carcerario italiano. Forme di sofferenza che spesso sfociano in aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, atti di autolesionismo dei reclusi e suicidi: nel 2018 si sono tolti la vita 61 detenuti, il 33% in più rispetto al 2015 (quando erano stati 39), ma è soprattutto il divario con quanto accade fuori dal carcere a dare la misura della drammaticità della situazione: il tasso di suicidi nel mondo libero è sotto l’1 per mille, mentre dietro le sbarre un anno fa è balzato al 10,4 per mille. Il numero del 2019 aggiornato allo scorso 7 dicembre parla di 46 episodi. Un’emergenza così acuta, quella dei problemi mentali e delle loro conseguenze sulla vita all’interno delle carceri, che pochi mesi fa il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha scritto al governo e ad altri organismi interessati una lettera dal titolo inequivocabile: “Interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico”. “Occorre dedicare ogni sforzo all’implementazione dell’assistenza psichiatrica negli istituti, per le valutazioni delle persone detenute e per i contatti con i dipartimenti di salute mentale del territorio, ai fini della continuità terapeutica al ritorno in libertà”, vi si legge. Vanno promossi “accordi su tutto il territorio nazionale fra direzioni penitenziarie e Asl” e soprattutto, per l’assistenza ai detenuti malati, vanno rafforzati “i servizi psicologici e psichiatrici”. Già, perché allo stato attuale, sempre secondo Antigone, l’assistenza è chiaramente insufficiente se, ogni 100 detenuti, la presenza settimanale media degli psicologi è pari a 11 ore e mezza, dato che precipita a 7 ore quando si parla di psichiatri. Sette ore alla settimana per cento persone significa che ogni recluso ha uno specialista a sua disposizione per quattro minuti e venti secondi, quanto basta a mala pena a un medico per fare una domanda, avere una risposta e prescrivere un medicinale. Il che fa sorgere il dubbio ragionevole che un ricorso così generalizzato agli psicofarmaci sia spesso la risposta impropria a problemi di altro genere: “La situazione di istituti come quello di Spoleto, dove le persone in terapia psichiatrica superano il 97% del totale e le ore passate dagli psichiatri con cento di loro ogni settimana sono 2 e 21 minuti, ci dice che non si fa null’altro che prescrivere medicinali, trascurando qualsiasi altra forma di intervento, il che vuol dire che diventa anche uno strumento di controllo”, sostiene Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone. Gli ansiolitici sono i medicinali cui si ricorre più spesso e con cui si interviene su detenuti nelle attività rieducative, scolastiche e lavorative ridotte al lumicino: “Occorrerebbe distinguere il disagio mentale vero dal disagio sociale legato alla famiglia di provenienza e alla povertà dei detenuti - aggiunge Miravalle -. Molti dei casi trattati come psichiatrici hanno proprio di questi problemi. D’altra parte chi non impazzirebbe a passare venti ore al giorno di ozio penitenziario?”. Il contesto di sovraffollamento cronico - 123,5% il dato medio - ovviamente non aiuta, così come non aiuta la scarsità del servizio assicurato dalle Asl in certe realtà: “A Foggia, dove ci sono oltre 600 detenuti, non c’è neanche uno psicologo e gli psichiatri sono presenti per tre ore alla settimana per cento persone”. Felice Nava, direttore dell’Unità operativa di sanità penitenziaria Auls 6 di Padova, pensando all’enormità del dato di più di un detenuto su quattro in cura con psicofarmaci, indica un equivoco di fondo: “La prima distinzione da fare è fra patologia psichiatrica e disagio psichico: il reo folle ha le caratteristiche del soggetto malato per cui è in cura da psichiatri, ma non va confuso con chi, non avendo una patologia, esprime un disagio che si traduce in autolesionismo o in un tentativo di suicidio. Voglio dire che le percentuali dei soggetti veramente psicotici sono le stesse sia fuori che dentro il carcere, ma in prigione c’è il disagio psichico che si manifesta molto di più perché quello è un luogo estremo. È la mancanza di attività rieducative e lavoro, propedeutiche alla riabilitazione, che induce questo problema”. L’impennata delle terapie psichiatriche degli ultimi anni, con ricorso indiscriminato alle benzodiazepine - “di cui in molti casi si abusa, come avviene col Rivotril” - aggiunge Nava, è anche legata a un evento importante per il nostro sistema carcerario: la fine degli Opg, gli ex manicomi criminali che ospitavano circa 1.500 persone. “Da quando, cinque anni fa, sono cominciati a diminuire gli invii di detenuti agli Ospedali psichiatrici giudiziari in vista della loro chiusura, nelle carceri hanno osservato l’aumento di problematiche mentali, un aumento che è esploso quando tutti gli Opg hanno cessato di esistere, fra il 2016 e il 2017”, evidenzia Miravalle. Nel frattempo venivano istituite le Rems (capienza complessiva di 600 posti su 32 centri, ndr), le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dai servizi sanitari territoriali, concepite per accogliere gli ex detenuti degli Opg oltre agli autori di reati giudicati incapaci di intendere e di volere, tutta gente che un tempo finiva dimenticata nei manicomi criminali. La legge 81 del 2014 ha stabilito anche l’impossibilità, per quanti si ammalano di patologie mentali all’interno di un carcere dopo la condanna, di essere trasferiti nelle Rems: è in prigione che devono essere curati, al pari di qualsiasi altro paziente, e sono i medici delle Asl a dover farsene carico. “L’intento del legislatore era proprio quello di evitare che anche le Rems, come avveniva una volta per gli Opg, diventassero un luogo dove scaricare i casi difficili”, commenta Miravalle. Sulla carta tutto bene, peccato che il meccanismo ben presto si sia inceppato per la latitanza dei servizi psichiatrici territoriali, al punto che, riporta il coordinatore di Antigone, “oggi, parlando con qualsiasi direttore di carcere, fra le problematiche più rilevanti, ci sono i detenuti con problemi mentali”. Al Dap confermano le criticità, parlano di “forte preoccupazione” e mettono in evidenza la “difficoltà di dialogo con una pluralità di soggetti”, cioè le Asl delle varie città che si regolano ognuna in maniera diversa. Denunciano anche il “malessere dei detenuti manifestato con aggressioni al personale” e ricordano che “non sempre i nostri appelli (ai servizi sanitari territoriali, ndr) alla collaborazione, a parte alcune realtà, vengono seguiti”. Ne fanno le spese i detenuti malati, soprattutto ora, durante le feste. Alcuni fra i 30 reparti psichiatrici attivi in altrettante carceri italiane sotto le feste dovranno chiudere per mancanza di assistenza, ma i pazienti resteranno lì, in prigione, coi loro disturbi. Quei reparti ospitano in tutto 300 persone, in più ci sono i malati in lista d’attesa, perché tutta l’Italia è paese, al di qua e al di là delle sbarre. Perché in Italia il reo non paga quasi mai di Luca Tescaroli* Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2019 L’effettività della sanzione penale, e del carcere in particolare, è nel nostro Paese una chimera e nel dibattito pubblico non si affronta il tema con la necessaria attenzione. Tale mancanza è una delle principali carenze del sistema penale che vulnera le funzioni stesse della pena astrattamente prevista, che rimane con molta frequenza solo sulla carta. Ciò alimenta la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia e di chi l’amministra. Vediamo di capire quali sono le cause e il perché. La condanna definitiva interviene non solo a distanza di molti anni, quando l’imputato potrebbe aver cambiato vita, ma il condannato in libertà varca le soglie del carcere solo quando la pena supera i 4 anni di reclusione (una percentuale altissima di condanne è sotto quel limite) a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 41/2018, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 656 V c del Cpp, elevando il limite dai 3 ai 4 anni. Fanno eccezione i soli reati indicati nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (quelli di mafia e terrorismo, contro la PA e un ulteriore catalogo di altri gravi reati) ai quali si applica comunque l’istituto della liberazione anticipata, che offre al detenuto che dia prova di partecipazione all’opera di rieducazione la possibilità di detrarre 45 giorni per ogni semestre di pena scontata. Un “bonus” che in concreto viene applicato sistematicamente senza approfondite verifiche anche ai mafiosi condannati all’ergastolo, che si comportano sempre da detenuti modello. Non solo: il carcere non si applica anche quando la pena residua da espiare sia uguale o inferiore ai 4 anni e si computa il periodo di liberazione anticipata alla carcerazione preventiva già sofferta. Dunque, in generale, l’ordine di carcerazione - in caso di custodia in carcere o arresti domiciliari di 2 anni prima della condanna definitiva - può essere emesso quando le pene superano i 4 anni e 6 mesi di reclusione. Così l’esecuzione di moltissime condanne a pena detentiva per i delitti dei colletti bianchi, come i reati societari, tributari e bancari, e tantissimi reati comuni (es. rapine ed estorsioni non aggravate) viene sospesa e verranno applicate sanzioni alternative al carcere: l’affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà, diverse rispetto a quella prevista dalla norma incriminatrice. La pena detentiva, per essere eseguita, dovrà superare i 6 anni quando si tratta di reati commessi a causa dello stato di tossicodipendenza o alcool-dipendenza e il responsabile partecipa a un programma terapeutico. È poi prevista la liberazione condizionale per il condannato che, durante la pena detentiva, abbia tenuto un comportamento tale da ritenere sicuro il suo ravvedimento, sempre che abbia scontato almeno metà della pena inflitta, qualora il rimanente della pena non superi i 5 anni (il condannato all’ergastolo può essere ammesso dopo averne scontati 26). I magistrati si attestano sempre su pene a ridosso del minimo, come gli viene “insegnato” nel loro periodo di formazione. Così, per quanto grave possa essere un reato, nessuno viene mai condannato al massimo della pena prevista. Perciò gli aumenti di pena introdotti di tanto in tanto dal legislatore si traducono in un nulla di fatto, salvo che non si intervenga drasticamente sui minimi edittali (come si è fatto con le recenti norme contro i reati tributari dette “manette agli evasori”). L’applicazione delle attenuanti generiche, che abbattono la pena sino a un terzo, avviene in maniera quasi automatica e nella massima estensione. È inoltre prevista la possibilità di applicare alla condanna la sospensione condizionale quando la pena in concreto inflitta (quindi tenendo conto delle attenuanti generiche e di tutte le altre attenuanti ritenute sussistenti) sia contenuta entro i 2 anni, caso tutt’altro che infrequente col rito abbreviato (che comporta un ulteriore abbattimento di pena di un terzo) o al patteggiamento (diminuzione sino a un terzo). Occorre chiedersi se la previsione di una sanzione che non si esegue possa giustificare il ricorso al processo penale. Non è forse più ragionevole costruire un diritto penale minimo, che selezioni i comportamenti meritevoli, carichi di disvalore perché offendono autenticamente i valori costituzionali, munendoli di pene certe, procedendo alla depenalizzazione massiva dei comportamenti di fatto non puniti, applicando la sanzione amministrativa che non può essere sospesa? Può considerarsi rieducativa una pena che si sa che non verrà espiata? La pena ha una funzione retributiva, sebbene raramente lo si ricordi (art. 25 della Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”). Come si può distogliere dal commettere un reato la collettività ed evitare che il reo torni a delinquere se la pena prevista non viene eseguita? Come possono essere salvaguardati i diritti inviolabili dei cittadini e le garanzie collettive di libertà, sicurezza, proprietà e iniziativa economica con un sistema penale privo di effettività? È ora di ripensare e ridisegnare il diritto penale dell’esecuzione, depenalizzando le contravvenzioni e i delitti davvero minori, per punire quelli più gravi. *Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Firenze Giustizia prima grana sul tavolo di Conte Poi il nodo sicurezza di Diodato Pirone Il Messaggero, 30 dicembre 2019 Processi, la riforma di Bonafede spacca i rosso-gialli. Renziani sulle barricate. Premier e Pd vogliono cambiare i decreti Salvini, dubbi M5S. Sarà la giustizia, e in particolare la prescrizione, la prima tappa dello slalom di gennaio di Giuseppe Conte. Tappa spinosissima, perché M5S, Pd e Iv viaggiano su binari lontanissimi e il rischio è che lo stallo sulla riforma Bonafede inquini sul nascere il confronto nel governo dal quale il presidente del Consiglio vuol far ripartire la sua agenda. Del resto, nonostante nella conferenza di fine anno abbia dato un suo netto imprinting alla direzione del governo giallorosso, la maggioranza resta fragile. Con l’ombra del nuovo gruppo alla Camera che, nonostante l’appello del premier a non destabilizzare, resta un’ipotesi sul tavolo. Il capo del governo arriverà al vertice sulla giustizia previsto il 7 gennaio probabilmente dopo aver completato l’insediamento di nuovi ministri alla Scuola e all’Università e Ricerca Lucia Azzolina e Gaetano Manfredi. La scelta dello spacchettamento, a livello numerico, avvantaggia il Pd e, allo stesso tempo, frena la possibile richiesta di un mini-rimpasto da parte dei Dem dopo le Regionali. Fra gli altri temi caldi in agenda quello della correzione dei decreti Salvini che però probabilmente non sarà affrontato prima delle elezioni regionali previste per il 26 gennaio. Prima arriveranno altri nodi al pettine come quello del futuro dell’Ilva, l’Alitalia e il rebus concessioni con i 5Stelle che premono per la revoca della Concessione ad Autostrade e il Pd che ha una posizione più cauta. Prescrizione - maggioranza divisa, vertice il 7 gennaio. Il nodo non è ancora stato sciolto. La riforma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede entrerà in vigore mercoledì prossimo, quando, di fatto, dal primo grado di giudizio la prescrizione verrà abolita. E se il Pd punta ancora a intervenire per modificare la norma, smontando il provvedimento che aveva visto scontrarsi anche Lega e Cinque Stelle, Conte prova ad aggirare l’ostacolo, considerando che gli effetti non arriveranno prima di due o tre anni. La questione sarà comunque affrontata in un vertice convocato a palazzo Chigi per il 7 gennaio. Migranti - i rilievi sollevati dal Colle ai testi dei giallo-verdi. L’intenzione di modificare i decreti sicurezza, varati dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, dovrebbe concretizzarsi in tempi brevi. l premier Conte è tornato ad annunciarlo e a ricordare che è uno dei 29 punti del programma di governo. La direzione è quella indicata dal Presidente della Repubblica Mattarella che aveva rilevato due criticità: la prima riguardava l’ammenda amministrativa, che arriva fino a 1 milione di euro, per chi salva i migranti. L’altra invece si riferiva al rispetto dei trattati internazionali. Questioni sulle quali Di Maio continua a nutrire dubbi. Riforme - Legge elettorale in Parlamento e referendum. Il referendum per introdurre il sistema elettorale maggioritario di Salvini, dopo aver ha ottenuto l’ok della Corte di Cassazione, attende il via libera della Corte Costituzionale. Il quesito era stato depositato a settembre dall’ex Ministro dell’Interno e da otto Consigli regionali. Se la Consulta lo ammetterà potrebbe diventare più complicato l’iter di riforma elettorale che la maggioranza ha faticosamente avviato anche se un’intesa ancora non c’è. Favorevoli ad un ritorno al proporzionale con sbarramento, sono infatti il M5S, IV e Leu mentre il Pd resiste e, insieme alla Lega, attende la Consulta. Prescrizione, ecco come evitare l’ergastolo processuale. Parla Migliore (Italia Viva) di Francesco De Palo Palazzi formiche.net, 30 dicembre 2019 L’ex sottosegretario (renziano) alla Giustizia a Formiche.net: “Né di lato né indietro: da Bonafede mi aspetto un passo che impedisca questa riforma. Conte la disinneschi perché è sinonimo di un populismo penale”. “Dal nostro punto di vista ribadisco il punto fondamentale della questione: garantire che non vi sia una sorta di ergastolo processuale”. Gennaro Migliore, ex sottosegretario (ed esponente renziano) alla Giustizia, cerchia in rosso il passaggio nevralgico del dibattito sulla prescrizione. E affida a Formiche.net la sua analisi sui prossimi passi da compiere, nella consapevolezza che un possibile terreno comune è individuato nella riforma Orlando che ha in sé il contenuto del ddl Costa. La proposta dem di sospendere i tempi della prescrizione di due anni per l’Appello e di uno dopo la Cassazione vi interessa? Potrebbe essere un compromesso accettabile? “Penso innanzitutto che si debba fare sul serio una modifica della legge che entrerà in vigore il 1 gennaio. Per cui prima di partire dalla proposta dem, vorremmo chiarezza sul fatto che la riforma Bonafede non sia operativa. Mi auguro si blocchi con una apposita legge. Non vorrei che la proposta del Pd fosse solo un ballon d’essai. Noi siamo prontissimi a discutere di qualsiasi proposta possa modificare la pessima legge Bonafede che, nelle intenzioni, sarebbe dovuta essere anticipata dalla riforma del processo. Vedremmo bene anche il ritorno della riforma Orlando che poi è il contenuto della proposta di legge Costa”. La mediazione di Palazzo Chigi, ovvero applicare lo stop per i soli condannati di primo grado, è un palliativo o potrebbe essere la chiave? “Il primo passaggio deve essere quello tra assolti e condannati in primo grado, ma una prescrizione sine die non andrebbe bene comunque perché la nostra Costituzione prevede all’articolo 111 la durata ragionevole del processo. La sola idea che ci possa essere una presunzione di colpevolezza, per quanto ci riguarda, non va bene: questo è un punto di partenza che dimostra come non esistono tabù rispetto ad una vicenda delicata come la prescrizione. Dal nostro punto di vista ribadisco il punto fondamentale della questione: garantire che non via una sorta di ergastolo processuale”. Il Premier Conte ha detto di comprendere la proposta dem ma di appoggiare la riforma Bonafede. Da che parte sta? “Lui dovrebbe essere il garante di tutta la coalizione, visto che in maggioranza non ci sono solo Pd e M5s, ma anche noi di IV che abbiamo dato un contributo essenziale alla sua stessa riconferma. Dal momento che abbiamo ottenuto risultati significativi, come la sterilizzazione dei 23 miliardi di iva, le risorse per la famiglia, oltre alle nostre proposte di shock fiscale per rilanciare il Paese con nuove opere pubbliche, a questo punto penso che Conte si debba fare carico della modifica radicale e profonda di quella riforma che è solo espressione di un populismo penale, non avendo nulla a che vedere con una sana amministrazione della giustizia”. Il Guardasigilli potrebbe fare un passo indietro o di lato? “Né di lato né indietro: da Bonafede mi aspetto un passo che impedisca questa riforma. Non è una questione legata al singolo ministro”. Quale lo scenario più verosimile il 7 gennaio prossimo? “O si cerca un accordo all’interno della maggioranza di governo o si verificheranno le condizioni affinché se ne trovi una alternativa che impedisca di attuare la riforma Bonafede sulla prescrizione. Non c’è la possibilità di recedere da questa opzione”. Se i renziani votassero la proposta di Forza Italia, aumenterebbero i rischi di un incidente nella maggioranza di cui si parla ormai da settimane? “Sento troppo spesso parlare di una proposta forzista: in realtà quello spunto fa riferimento alla legge Orlando promulgata durante il governo Gentiloni. Direi che è più ragionevole che la votino anche i dem, oltre a noi, anziché attribuire a questa eventuale scelta che per quanto mi riguarda è estrema ratio, un valore legato alla tenuta della maggioranza”. Rosato (Iv): “Prescrizione, il governo rischia grosso, siamo pronti a votare il testo di FI” di Diodato Pirone Il Messaggero, 30 dicembre 2019 “La giustizia è una cosa seria. Per cui ciò che ha fatto il governo Lega-5Stelle sulla prescrizione va semplicemente abrogato. Se non accadrà, come abbiamo sempre detto, noi voteremo con Forza Italia che consideriamo il male minore”. Ettore Rosato, vicepresidente della Camera e esponente di Italia Viva, annuncia che sul tema della prescrizione il suo partito non arretrerà al tavolo di trattativa che dovrebbe aprirsi il 7 gennaio. Onorevole Rosato, ma davvero ci sono margini di trattativa nella maggioranza? “Direi di sì. L’abrogazione dello stop alla prescrizione era una battaglia anche del Pd e ogni altra mediazione su questo punto mi sembra molto, molto debole”. Ma è ipotizzabile una rottura della maggioranza? “Mi auguro di no ovviamente. Ma se non ci sarà un lavoro serio che intervenga sul punto, ottenendo che alla prescrizione eterna si sostituiscano processi più rapidi, allora voteremo il male minore”. Ovvero le proposte di Forza Italia. Non sarebbe una rottura politica? “Il nostro non vuole essere né un segnale politico né una rottura di maggioranza. Si tratta di una posizione coerente con ciò che abbiamo sempre detto. Sono mesi che ricordiamo che le norme Bonafede-Salvini sulla prescrizione dovevano essere abrogate prima di gennaio”. Sta dicendo che la maggioranza ha perso tempo? “La nostra Costituzione è profondamente garantista e non è che la possiamo cambiare con qualche norma da sbandierare rendendo i processi infiniti. Un processo eterno rappresenta in sé una condanna per l’imputato, anche se innocente”. Possibile che fra le proposte che sono emerse negli ultimi giorni non ce ne sia nessuna che possa ottenere anche il vostro gradimento? “Il ministro Bonafede ha anticipato alcuni contenuti sul processo penale. Benissimo. Siamo assolutamente interessati a lavorarci”. Anche il Pd ha fatto le sue proposte… “Non polemizziamo con nessuno e capisco che ci possa essere del tatticismo ma la riforma della prescrizione è stata fatta solo qualche anno fa con Orlando ministro e dobbiamo ancora misurarne gli effetti. Allungarne i termini solo per motivi ideologici è assurdo”. Sta dicendo che il Pd mercanteggia coi 5Stelle? “Mi piacerebbe vedere il Pd coerente con quanto ha sempre detto sulla prescrizione”. Italia Viva si è distinta nei mesi scorsi posizioni duramente critiche verso le scelte della maggioranza rosso-gialla, continuerete così anche nel 2020? “Aiuteremo a rendere concreti i prossimi mesi lavorando sulle cose che servono all’Italia, a cominciare dallo sblocco degli investimenti, 120 miliardi bloccati, un delitto di questi tempi. Ci vuole uno choc all’economia, il nostro problema resta la bassa crescita e la bassa occupazione. Questa è la nostra ansia quotidiana su cui vogliamo ingaggiare il governo”. Cosa vuol dire in concreto? “Abbiamo già anticipato che entro gennaio presenteremo una norma sblocca-cantieri e continueremo la nostra battaglia per abbassare le tasse e contrastare l’evasione fiscale”. Ma spesso siete sembrati oppositori più che una forza di maggioranza… “Abbiamo aiutato il governo a evitare errori macroscopici come quello dell’aumento dell’Iva, delle micro-tasse in finanziaria e abbiamo chiesto trasparenza sulla vicenda della Popolare di Bari. Continueremo ad aiutare il nostro governo a non sbagliare anche sulla prescrizione”. Ultima domanda: cosa prevede sulla legge elettorale? “Tutte le forze politiche stanno lavorando su un testo che tenga conto della necessità di scrivere regole condivise”. Siete favorevoli al proporzionale con sbarramento al 5%? “Abbiamo già detto che lo sbarramento non è un problema”. Giovanni Maria Flick: “Sulla prescrizione sbagliano tutto” di Francesco Specchia Libero, 30 dicembre 2019 L’ex ministro di Prodi: “Non si può fare una riforma come se i processi lenti fossero colpa della difesa”. Professor Giovanni Maria Flick, da pregiato giurista, accademico, presidente emerito delle Corte Costituzionale ed ex magistrato, lei si è molto esposto sulla riforma del processo penale che entrerà in vigore il 1° gennaio. Ha parlato di “approccio sbagliato”. E se l’approccio è sbagliato, figuriamoci il resto.... “Sì. Il metodo stesso con cui ci si è approcciati alla riforma è profondamente sbagliato. Oltre alla prescrizione c’è un mondo da riformare prima e contemporaneamente. Per esempio, la pletora dei reati: e meno reati significa meno processi. Tutti ora parlano di depenalizzarli ma si fa l’esatto contrario”. Cosa non la convince? Il processo che diventerà eterno? L’ossessione del ministro Bonafede per l’abolizione della prescrizione dopo il 1° di giudizio? L’approssimazione? “Il punto è che non si può parlare solo di prescrizione tralasciando tutto il resto. E qui si tende a fare confusione tra la prescrizione - che è la cancellazione sostanziale del reato dopo un certo tempo - e la ragionevole durata del processo - che prevede un limite processuale previsto dalla Costituzione e dalla Cedu. E si vuole stabilire uno stesso identico limite per reati e per processi completamente diversi. Non funziona così”. Cioè secondo lei occorreva prima una riforma complessiva dei processi? “Certo. Si parte dal concetto sbagliato che la durata eccessiva dei processi sia colpa degli avvocati, anche se l’imputato ha il sacrosanto diritto di essere difeso. Quando in realtà, guardi, le lungaggini sono dovute, per la maggior parte, ad enormi disfunzioni organizzative degli uffici giudiziari, anche in periodi in cui la difesa non può fare nulla, come i passaggi dei fascicoli. E la soluzione di tutto questo sarebbe aumentare la durata della prescrizione o cancellare le impugnazioni? Mi pare tutto molto confuso...”. Però con la riforma del processo civile era andata un po’meglio, no? “Sì, ma la materia è più facile. E ci hanno messo più energia. Ma la politica è così: si concentra, ad intermittenza, ora sul processo civile lasciando sguarnito il penale, e viceversa. A me questa pare una riforma confusa che ha mischiato temi molto politici ad altri tecnici ma senza un baricentro chiaro. Sarebbe stato meglio, ad esempio, tenere il buono della riforma Orlando, invece la si è eliminata in blocco”. E secondo lei, alla fine della fiera, quale potrebbe essere la soluzione? “Ovviamente, fermo restando che l’obbligatorietà dell’azione penale è una cosa estremamente seria, qui, per una riorganizzazione del tema processuale occorre chiamare dei tecnici, riunirli attorno ad un tavolo e ascoltarli. E dire che il codice riformato del 1989 aveva una sua precisa fisionomia, che poi progressivi interventi correttivi ma disorganici hanno snaturato”. Per rimanere più terra-terra, oltre a smaltire i reati non sarebbe utile - che so - aumentare il personale nelle aule e negli uffici giudiziari? “Certo, potrebbe giovare: non è un caso che in alcuni tribunali d’Italia alcuni processi durino la metà degli altri. Ma c’è altro. Siamo davvero sicuri, per esempio, che l’informatizzazione degli uffici, così com’è fatta ed applicata, risolva i problemi della giustizia?”. Lei non è d’accordo neanche sull’uso dei trojan nelle intercettazioni (anche se sfido chiunque ad averne, ad ora, un’idea chiara)... “Il Trojan è uno strumento di captazione delle informazioni molto pesante ed invasivo rispetto al precetto costituzionale di rispetto della libertà e segretezza delle comunicazioni. Lo stesso codice penale dice che le intercettazioni devono servire per confermare situazioni di prove già raccolte. Mi pare invece che qui si stia optando per estendere l’uso dei trojan come criterio generale di indagine. La qual cosa è inaccettabile. Il resto della riforma - parlo dal punto di vista penale di mia competenza - non riesco proprio a vederlo se non in questa iniziativa sulla prescrizione che ha soltanto il sapore dello scambio: io cedo sulla prescrizione e tu lo fai sulle intercettazioni”. Ma, per restare in tema, almeno questa riforma non blocca definitivamente la porta girevole politica-magistratura? “Ecco, quello è uno dei pochi elementi condivisibili di questa riforma; ed era una cosa per cui mi ero fortemente battuto da ministro: massima libertà nello scegliere la politica, ma se un magistrato varca quella porta non può tornare più indietro”. Quando lei era ministro delle Giustizia nel governo Prodi propose le pagelle per i magistrati. Come vede il fatto che oggi le stanno riproponendo? “Allora mi presero a pietre in faccia. Ora che in molti ne stanno riparlando ammettono che non era una cattiva idea”. Il premier Conte, nel discorso di fine anno, ha promesso di velocizzare i processi Direi che sarebbe stata una notizia il contrario... “Vedo un lieve miglioramento rispetto al silenzio pressoché totale sulla giustizia nel suo discorso d’insediamento. Velocizzare i processi è una cosa ovvia. Si tratta di vedere come e quando farlo. In realtà questa riforma epocale della giustizia viene declamata da tempo dal ministro Bonafede, ma non abbiamo ancora capito bene di cosa si tratti”. La riforma della prescrizione, una nuova via all’impunità di Gianluigi Pellegrino* La Repubblica, 30 dicembre 2019 Forte ma incapace di dare uno straccio di risultato. Per quanto acceso, il dibattito sulla riforma della prescrizione che sta per entrare in vigore, sembra finito su un binario morto. Fertile di analisi quanto sterile di soluzioni. Mentre rischiamo il paradosso di passare dal salvacondotto della prescrizione, a quello persino più odioso di pene che non diventano mai definitive, né esecutive e, allo stesso tempo, processi infiniti per gli innocenti. Il tutto, come bene evidenziato sabato da Luigi Manconi su queste colonne, senza aver nemmeno avuto il tempo di verificare gli effetti delle novità rilevanti che poco tempo fa il Pd con Orlando aveva faticosamente introdotto e che ora già ci rimangiamo. Allora una soluzione va ricercata partendo necessariamente dal dato di realtà costituito dalla riforma Bonafede che, con i botti di Capodanno, entrerà sicuramente in vigore, rischiando però di scoppiare tra le mani dello stesso ministro. Come noto, la legge voluta dai Cinque Stelle si riassume nell’abolizione della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado quale che essa sia, persino di assoluzione. Certo di tale riforma pur molto zoppicante negli effetti, e malferma nelle basi di cultura giuridica, va riconosciuta l’esigenza di partenza, tante volte anche qui denunciata, costituita dalla intollerabile impunità che negli anni il pur civile istituto della prescrizione ha portato con sé e con la sua degenerazione. Senza quindi dimenticare questa ragione giustificativa, si deve però evitare che la novella generi l’effetto paradossale di aprire una nuova via alla impunità, perché condanne che non diventano mai definitive equivalgono a pene che mai si scontano e a parti civili che mai hanno giustizia. E allo stesso tempo deve garantirsi che l’imputato che voglia davvero il processo abbia in tempi ragionevoli un verdetto finale per esigenza minima di civiltà giuridica. E allora una piccola ma essenziale modifica da introdurre senza indugio alla riforma Bonafede, magari per mano dello stesso ministro, è quella di prevedere che almeno all’imputato che richieda il giudizio immediato con le relative rinunce processuali, lo Stato garantisca la relativa celebrazione in tempi ragionevoli, in difetto operando la prescrizione che a quel punto non sarà più odioso salvacondotto da un processo che invece lo stesso imputato ha chiesto e costruttivamente sollecitato. Si tratta di una modifica minima quanto essenziale come quella di escludere che la prescrizione sparisca, pur quando si sia stati assolti in primo grado. Due piccoli ma decisivi ritocchi cui il ministro non dovrebbe avere ragione alcuna di opporsi se davvero della prescrizione vuol gettare via soltanto l’odioso portato di salvacondotto e impunità. E non voglia invece rischiare di passare alla storia per aver fatto rientrare dalla finestra sia l’uno sia l’altra, con pene mai definitive che restano solo sulla carta e con l’insopportabile processo infinito anche per gli innocenti. *Costituzionalista e avvocato esperto di diritto amministrativo Referendum e giustizia: per la Consulta un 2020 in trincea di Stefano Bressani ilsussidiario.net, 30 dicembre 2019 Il 2020 si annuncia di grande impegno - in definitiva politico - anche per la Corte costituzionale. In un regime democratico di eccezionalità ormai quasi permanente, anche la Consulta ha visto evolvere il suo ruolo, a ruota stretta rispetto alla Presidenza della Repubblica (il Capo dello Stato in carica è fra l’altro un ex giudice costituzionale). Entrambi i soggetti designati dalla Carta all’ultima garanzia della Repubblica si sono visti chiamati sempre più nel merito del confronto politico e delle scelte di governo: ciò che ha reso sempre più impervio il loro lavoro nella democrazia sostanziale. Ora per la Consulta si profila un ruolo di arbitro ultimo della definizione del possibile percorso elettorale: a incrociare il cammino del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari e quello abrogativo dell’abolizione del metodo proporzionale nel sistema elettorale. Ma ci sarà prevedibilmente dell’altro, su fronti non meno delicati. Poche settimane fa la Corte ha ad esempio restituito al gip di Taranto le carte di un ricorso d’incostituzionalità riguardante lo “scudo penale” previsto negli accordi fra governo e Arcelor-Mittal sul salvataggio Ilva, tuttora irrisolto. Nei giorni scorsi il politologo Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera, ha finito per richiamare in causa la Consulta su ambedue le questioni sostanziali rimaste inevase da una scelta apparentemente tecnica. La prima e principale è il ruolo assunto dal potere giudiziario nella democrazia repubblicana, rispetto agli altri due poteri costituzionali e nelle dinamiche complessive della società italiana (il caso Ilva è su questo piano certamente significativo). Panebianco ha infatti discusso l’imminente varo della riforma della giustizia firmata dal ministro pentastellato Alfonso Bonafede incentrata sulla sospensione della prescrizione. Il passo - ad avviso del commentatore - segnerebbe l’instaurazione definitiva di una “repubblica penale”, egemonizzata dalla magistratura: proprio quando essa appare più assillata da inquietudini politiche, lacerazioni corporative, crisi di credibilità democratica. Questa “penalizzazione” della vita politico-economica - sottolinea Panebianco - rischia fra l’altro di rendere l’Azienda Italia estremamente poco appetibile per gli investitori esteri. Indipendenza e Costituzione nella formazione dei nuovi magistrati di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 30 dicembre 2019 Una elevata e aggiornata formazione dei magistrati è ciò che i cittadini hanno diritto di pretendere. La complessità e gravità di molte delle decisioni che sono chiamati a prendere e la indipendenza che è loro garantita nell’esercizio delle loro funzioni, esigono la massima preparazione culturale, sia di carattere strettamente giuridico, sia ampiamente sociale. Della formazione dei magistrati nella fase del loro tirocinio iniziale e poi in tutto il corso della loro attività, a partire dagli anni 80 del secolo scorso, prese ad occuparsi direttamente il Consiglio superiore della magistratura. È stato poi istituito un ente autonomo - la Scuola superiore della magistratura - che ha iniziato a operare con i suoi primi corsi nel 2013. L’opera che svolge è molto intensa e di alto livello, nell’assicurare lo sviluppo di una cultura professionale adatta ad un corpo giudiziario composto da circa diecimila magistrati professionali e delle migliaia di magistrati onorari. Fino ad ora hanno organizzato e diretto l’attività della Scuola due successivi comitati direttivi, che vengono composti con una quota di componenti nominati dal Consiglio superiore della magistratura ed una quota nominata dal ministro della Giustizia. Per escludere una chiusura culturale corporativa della magistratura, si tratta di magistrati, avvocati e docenti universitari. Tra di essi viene eletto il presidente, che svolge un ruolo attivo, essenziale per garantire il prestigio dell’istituzione nei rapporti con tutto il mondo sociale e culturale cui la magistratura necessariamente deve rapportarsi: in primo luogo, ma non solo, l’avvocatura e l’Università. Fino ad ora i presidenti sono stati due ex presidenti della Corte costituzionale. La loro personalità ha assicurato alla Scuola il proficuo inizio di attività di una istituzione che in altri Paesi europei esiste da maggior tempo. Gli organi direttivi della Scuola sono da poco scaduti, il Consiglio superiore ha già nominato la sua parte di componenti e con particolare interesse si attendono ora le prossime nomine da parte del ministro. La capacità di assicurare una riconosciuta, autorevole linea di indipendenza culturale di carattere giudiziario è richiesta alla Scuola e ai suoi organi direttivi. In tale ordine di idee dovrebbero sempre muoversi il Consiglio superiore e il ministro. Vi sono aspetti della cultura giudiziaria che sono del tutto specifici, tanto che proprio ora in Francia è vivissima la polemica contro il progetto di riforma della Scuola nazionale dell’amministrazione (Ena). Lanciata dal presidente Macron, il progetto prevede l’assorbimento dell’attività della Scuola della magistratura in quella della nuova Scuola dedicata agli alti funzionali della amministrazione: non l’eliminazione della specifica formazione per i magistrati, ma l’instaurazione di un consistente periodo in comune con i dirigenti amministrativi. Dimissioni tra i membri della Commissione che elabora la riforma e vivaci polemiche con i vertici della magistratura e le associazioni dei magistrati sembrano aver ottenuto un ripensamento, ma è interessante notare che il cuore del contrasto risiede nel senso che si dà al ruolo dei giudici, nella scelta tra il valore (costituzionale) della loro indipendenza anche culturale e quello (diverso) della attitudine a dare esecuzione alle scelte politiche del governo. Tra gli aspetti della cultura giudiziaria dei magistrati, che la Scuola cura e dovrebbe ancor più sviluppare, c’è quello che riguarda il difficile equilibrio tra l’indipendenza individuale, di ciascun giudice, nel decidere le cause secondo l’interpretazione della legge che adotta e la consapevolezza di essere parte e voce di una istituzione, quella giudiziaria, chiamata a fornire il servizio pubblico del risolvere le controversie secondo Costituzione e legge. I momenti formali di incontro tra magistrati, come sono particolarmente le Camere di consiglio, sono il luogo in cui le opinioni si incontrano e cercano la soluzione comune. Utilissime sono però anche le occasioni informali offerte dalla Scuola, in sede centrale o in sede locale. Nei corsi della Scuola si incontrano e discutono, tra loro e con i docenti, magistrati di sedi diverse e distanti, che mai altrimenti avrebbero occasione di confrontare esperienze e opinioni. Così si formano i singoli e così emerge e si armonizza una cultura comune, capace di produrre una giustizia tendenzialmente omogenea e prevedibile, così come dovrebbe essere. È bene allora che sul lavoro della Scuola sia viva l’attenzione dell’opinione pubblica, anche attenta alle responsabilità del Consiglio superiore della magistratura e, ora, del ministro della Giustizia nel formarne gli organi direttivi. Buon processo eterno. Previsioni di ingiustizia per l’anno che verrà di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 dicembre 2019 Tra poche ore, con l’inizio del nuovo anno, entrerà in vigore la riforma che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione. La riforma, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (e approvata in Parlamento dal Movimento 5 stelle e dalla Lega ai tempi del governo gialloverde), trasformerà i processi in persecuzioni potenzialmente infinite: qualsiasi cittadino potrà restare in balia della giustizia italiana per 20, 30, persino 50 anni, o anche per tutta la vita, con effetti devastanti sul piano personale, familiare, economico e sociale. Questo varrà non solo per gli imputati, ma anche per le vittime dei reati e le parti civili. Insomma, un fallimento a 360 gradi della giustizia, in cui perdono tutti, ma anche un fallimento dal punto di vista della logica legislativa, se si considera che nel 75 per cento dei casi la prescrizione dei reati matura prima di una sentenza di primo grado, a causa delle inefficienze del sistema giudiziario. I nuovi alleati di governo del M5s, cioè il Partito democratico, Italia viva e Liberi e uguali, hanno accettato supinamente la volontà dei grillini di non rinviare l’entrata in vigore della riforma, nella convinzione che i suoi effetti devastanti si manifesteranno solo tra qualche anno, rendendo possibile approvare nel frattempo una legge che possa velocizzare i tempi del processo. Una bufala clamorosa: basterà infatti un processo per direttissima e una sentenza emessa per fatti compiuti dopo il 1° gennaio 2020 per vedere applicata immediatamente la nuova norma sulla prescrizione e vedere iniziare un processo eterno. D’altronde, la lentezza della giustizia italiana è nota: già oggi vengono presentate ogni anno circa 17 mila richieste di indennizzo per violazione dei termini stabiliti dalla legge Pinto per la ragionevole durata dei processi (tre anni per una sentenza di primo grado, due anni per l’appello e un anno per il grado di legittimità). La riforma, più che da un’ignoranza di fondo del ruolo e del significato dell’istituto della prescrizione nel nostro ordinamento, sembra nascere proprio da una mancata consapevolezza dei danni devastanti che il processo eterno può causare sulla vita delle persone. E pensare che anche il 2019, come gli ultimi anni, ci ha consegnato una serie incredibile di flop giudiziari e di processi lunghissimi. Lo scorso luglio, ad esempio, è stato di nuovo assolto Calogero Mannino, al centro di una persecuzione giudiziaria che dura ormai da 28 anni. Esponente di spicco della Democrazia cristiana e cinque volte ministro nella Prima Repubblica, Mannino è stato assolto in appello nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. La sentenza di appello, pur essendo il processo in rito abbreviato, è arrivata dopo sette anni. Ma la vicenda non è ancora finita e continua a palesare tutta la schizofrenia della giustizia italiana. Se infatti Mannino è stato assolto due volte dall’accusa di aver dato input ai contatti tra i carabinieri del Ros e Cosa nostra negli anni delle stragi, nel filone principale del processo quei carabinieri del Ros (Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) sono stati condannati in primo grado proprio per aver portato avanti la presunta trattativa, insieme all’ex senatore Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino. Nel 2010, invece, è finito con una sentenza definitiva della Cassazione l’altro calvario giudiziario di cui Mannino è stato vittima per ben 19 anni, con al centro l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Un’accusa infamante per chi, durante le elezioni del 1991, da responsabile politico della Dc in Sicilia, contrastò apertamente la mafia, tanto da tappezzare la regione con dei manifesti con su scritto “Contro la mafia, costi quel che costi”. Eppure nel 1995 la procura di Palermo, guidata da Giancarlo Caselli (supportato dai sostituti Vittorio Teresi e Teresa Principato) chiese e ottenne per Mannino persino l’arresto. L’ex deputato Dc trascorse nove mesi in carcere e altri tredici mesi agli arresti domiciliari. La detenzione sconvolse la salute fisica e psichica di Mannino, che arrivò a perdere addirittura venti chili. Quindici anni di sofferenze dopo, nel 2010, Mannino venne assolto in via definitiva da tutte le accuse, al termine di un processo a dir poco tortuoso: assoluzione in primo grado, condanna in appello, annullamento della condanna in Cassazione, assoluzione nel nuovo appello, assoluzione definitiva in Cassazione. Nel 2008 il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, nel chiedere l’assoluzione nei confronti di Mannino, definì la precedente sentenza di condanna “un esempio negativo, da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Quando nel 2015 venne assolto nel processo di primo grado sulla trattativa, il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella, parlò di “prove inadeguate”, “suggestiva circolarità probatoria”, “interpretazioni di colpevolezza indimostrate”. Difficile parlare di vittoria, dopo che si è stati vittime del tritacarne mediatico-giudiziario per oltre un quarto di secolo e a causa di processi che non avrebbero dovuto neppure cominciare. “Si sono portati via la mia vita. Quella di processato in aeternum è un’esperienza drammatica e inenarrabile. Non ci sono neanche mezzi espressivi sufficienti per rappresentare la realtà drammatica di questa condizione”, dichiara Mannino al Foglio. “I miei avvocati non hanno mai chiesto un rinvio delle udienze per una qualsiasi ragione, eppure i processi si sono presi ventotto anni della mia vita”. È inevitabile pensare a quanti altri casi Mannino potrebbero accadere con l’abolizione della prescrizione. “Aver modificato ulteriormente la prescrizione è un errore che deriva dalla dominanza di un pensiero giustizialista, che manca di considerare la realtà del processo nel suo complesso - spiega Mannino - Ad esempio la fase preliminare, chiamata istruttoria, non finisce mai. Quando il processo comincia il tribunale non si trova delle bocce ferme, ma si trova molte bocce che corrono e che sono nelle mani esclusive del pubblico ministero. Si tratta di un meccanismo perverso, che ha trasferito il processo dall’aula del tribunale all’ufficio del pm, il dominus assoluto del processo. Riformare la prescrizione senza considerare questi aspetti è un grandissimo errore. Il risultato sarà che i processi avranno una durata ancora più lunga, perché quando il pubblico ministero saprà di poter contare su termini di prescrizione più lunghi utilizzerà ancora più discrezionalmente il tempo che gli è riservato per la sua istruttoria”. “Anziché evocare la mia triste esperienza di uomo in attesa di giudizio-conclude Mannino, che ad agosto ha compiuto ottant’anni - vorrei quindi richiamare su questi aspetti l’attenzione di tutti, anche del legislatore, che non avrebbe dovuto lasciare passare questa riforma solo perché un ministro della Giustizia, che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie, ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici”. Il 2019 è stato anche l’anno di Antonio Bassolino, sindaco di Napoli dal 1993 al 2000, poi ministro del primo governo D’Alema e presidente della Regione Campania per dieci anni, dal 2000 al 2010. Lo scorso maggio si è concluso definitivamente il processo in cui, insieme ad altri ventisei imputati, era accusato di irregolarità nella gestione dei rifiuti in Campania, compiute durante l’emergenza commissariale. A tutti gli imputati erano state contestate presunte responsabilità riguardo anomalie e inadempienze nel contratto di gestione del ciclo dei rifiuti, stipulato tra il commissario straordinario - carica ricoperta da Bassolino dal 2000 al 2004 - e la società Fibe-Impregilo. La vicenda giudiziaria è durata la bellezza di 16 anni. Le indagini, iniziate nel 2003, avevano portato a una prima sentenza di assoluzione nel 2013. Essendo trascorsi dieci anni, i reati erano finiti in prescrizione, ma i giudici del tribunale di Napoli, anziché prendere atto della prescrizione, avevano assolto Bassolino nel merito, smontando l’intero impianto accusatorio. Non pago, il pm aveva quindi presentato ricorso in appello. Dopo altri sei anni, lo scorso maggio, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato inammissibile il ricorso del pm, facendo diventare definitiva l’assoluzione dell’ex governatore. In tutto sono passati 16 anni. “Il vero problema è rappresentato dai tempi del processo. Giustizia giusta significa in primo luogo tempi giusti per tutti”, dice Bassolino al Foglio. “Ho visto che ora il Partito democratico ha annunciato una sua iniziativa legislativa. Il punto fondamentale, che non bisogna smarrire e deve essere al centro dell’attenzione, è costituito proprio dai tempi della giustizia: i tempi lunghi sono un danno per le persone innocenti, così come per le persone che si sentono offese, mentre sono un vantaggio per quelle potenzialmente colpevoli”. Ovviamente il problema della lentezza dei processi non riguarda solo esponenti politici. Riguarda protagonisti del mondo delle imprese, come Giulia Ligresti, assolta lo scorso aprile dopo sei anni dalle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai (per il quale era stata incarcerata due volte). Riguarda semplici cittadini, come Mario Capobianchi, l’unico imputato per il crollo del palazzo di via di Vigna Jacobini avvenuto a Roma il 16 dicembre 1998 dove morirono 27 persone. Due mesi fa è stato assolto dalle accuse di disastro colposo e omicidio colposo plurimo dopo un processo durato vent’anni, con due sentenze annullate in Cassazione. Ma i processi eterni riguardano paradossalmente anche ex ministri della Giustizia, come Clemente Mastella, assolto quindici volte su quindici, incluso il caso che nel 2008 lo costrinse alle dimissioni da ministro e che contribuì alla caduta del governo Prodi. La vicenda giudiziaria, incentrata su presunte pressioni esercitate per le nomine nella sanità, e che coinvolse anche sua moglie Sandra Lonardo, si è chiusa con l’assoluzione di fronte al tribunale di Napoli nel 2017: la sentenza (di primo grado) è arrivata dopo ben nove anni. Nel frattempo, però, la vita di Clemente Mastella e della sua famiglia è stata stravolta. “Le notizie ottengono grande evidenza e rumore pubblico quando sei sottoposto al giudizio, anche se improprio e improvvido, di alcuni pm, ma emergono in maniera molto più dimessa quando sei assolto, quasi in retro-pagine, che consolano soltanto i tuoi parenti e qualche amico più intimo”, afferma al Foglio Mastella, oggi sindaco di Benevento. “Quando si è travolti da questi casi, si è soliti sottolineare la propria fiducia nella giustizia. Certo che crediamo nella giustizia, ma intanto magari ti dimetti per poterti difendere con tranquillità. Io facevo il ministro e dopo l’assoluzione non ho mica recuperato quello che ho perso. Non c’è mica una legge, come quella che riguarda ad esempio la pubblica amministrazione, secondo cui se vieni dichiarato innocente vieni reintegrato e recuperi gli anni persi. Io sono stato costretto a dimettermi da ministro e non ho recuperato niente”. Sul terreno non restano solo le ripercussioni sul piano professionale e le ingenti spese economiche (soprattutto legali), ma anche le sofferenze umane e familiari. In alcuni casi vere e proprie umiliazioni, come quando a Mastella fu negato dal questore l’imbarco per un volo per gli Stati Uniti per le vacanze natalizie, o quando la moglie (a cui era stato imposto il divieto di dimora in Campania) fu scortata dai carabinieri fin dentro la sala operatoria di un ospedale. “Mi sono reso conto pure di aver subito un piccolo infarto, senza saperlo - aggiunge Mastella - Perché la vicenda giudiziaria ti corrode dentro. Sei innocente e vieni guardato in maniera sospettosa, anche dagli amici. Tutto questo crea problemi enormi sul piano personale, che non ripaga nessuno”. Eppure, uno dei successori di Mastella (l’attuale Guardasigilli Alfonso Bonafede) ha pensato bene di istituzionalizzare il processo eterno. “Della riforma della prescrizione penso tutto il peggio possibile - dichiara Mastella - La prescrizione imponeva persino ai pm che conducono inchieste in maniera pregiudizievole di accorciare i tempi e di rendere il processo un po’ meno illimitato, perché se fosse arrivata la prescrizione avrebbero fatto un buco nell’acqua. Nel mio caso, il processo sarebbe stato infinito e sarei ancora sotto le macerie di questo terremoto. La remissività del Pd, che abiura a principi che legittimano la Costituzione e la persona umana come cittadino, è politicamente disdicevole. Altro che sardine, per risvegliare il Pd occorrerebbero le orche”. Ci sono poi quei cittadini che, pur di veder riconosciuta la propria innocenza, hanno deciso di rinunciare alla prescrizione affidandosi alla giustizia italiana, ma in cambio di questa fiducia si sono ritrovati impelagati in processi infiniti. Ne sa qualcosa Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo e amministratore delegato di Pirelli, da quindici anni al centro di una vicenda giudiziaria che farebbe impallidire Franz Kafka. Il caso risale al 2004, quando Tronchetti era presidente di Telecom Italia, e si colloca all’interno della contesa per il controllo di Telecom Brasil. L’allora presidente di Telecom Italia giunse allo scontro con l’allora gestore del fondo Opportuniy (azionista di controllo di Telecom Brasil), Daniel Dantas, e l’ex presidente di Telecom Brasil Carla Cico. I due rivali carioca incaricarono l’agenzia investigativa Kroll di portare avanti un’attività di spionaggio nei confronti di Telecom Italia e soprattutto dell’allora presidente Tronchetti Provera. Il team di spioni venne a sua volta intercettato dalla squadra di sicurezza interna dell’azienda, guidata da Giuliano Tavaroli. Il capo della security e gli avvocati di Telecom Italia consegnarono, così, a Tronchetti Provera un cd contenente le prove dell’attività di spionaggio compiuta dall’agenzia Kroll nei suoi confronti su mandato dei rivali brasiliani. Il manager diede disposizione di presentare denuncia in procura, non sapendo che le informazioni erano state ottenute in maniera illecita con un’attività di controspionaggio. Così, Tronchetti si è ritrovato coinvolto in un’inchiesta per ricettazione che sì trascina da oltre quindici anni e che ha portato a ben sei processi. Condannato in primo grado, Tronchetti Provera è stato assolto due volte in appello, sentenze entrambe annullate dalla Cassazione. Al terzo processo di appello, nel novembre 2018, il manager è stato assolto per la terza volta. E pensare che nel 2015 aveva pure rinunciato alla prescrizione per vedersi riconosciuta un’assoluzione piena. Anche il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha una certa esperienza di processi eterni. Nel dicembre 2012, ad esempio, è stato assolto dal tribunale di Salerno insieme ad altre 12 persone nel processo su presunte irregolarità nella variante urbanistica che permise la delocalizzazione delle Manifatture Cotoniere Meridionali (Mcm). Pur avendo rinunciato al decorso dei termini di prescrizione dei reati (che andavano dalla truffa al falso), la sentenza di assoluzione di primo grado è arrivata dopo ben otto anni. Nel settembre 2016, in maniera ancora più incredibile, il governatore è stato assolto insieme ad altri 41 imputati dalle accuse legate alla vicenda del Sea Park, un parco marino che si sarebbe dovuto costruire a Salerno ma che poi non fu mai realizzato. L’inchiesta era stata avviata 18 anni prima (dalla stessa pm, Gabriella Nuzzi, che aveva accusato De Luca nel caso Mcm) e la sentenza di assoluzione di primo grado è giunta dopo otto anni di dibattimento. Anche in questo caso De Luca aveva rinunciato alla prescrizione. Ciò non è bastato a velocizzare i tempi della giustizia, né a impedire che contro il governatore scattasse l’infernale meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria. Stavolta pure per mano politica: proprio a causa della vicenda Sea Park, De Luca era stato inserito - tra mille polemiche - nella lista dei cosiddetti candidati “impresentabili”, preparata dall’allora presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, prima delle elezioni regionali, che poi l’ex sindaco di Salerno avrebbe vinto comunque. Ma la vittima per eccellenza del processo eterno all’italiana è sicuramente Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta (in provincia di Taranto) e per tre volte senatore nelle fila del Pci-Pds-Ds da11992 al 2001. Il 4 giugno 2001, il giorno dopo aver perso l’immunità parlamentare per l’insediamento delle nuove Camere, Loreto venne arrestato su richiesta dell’allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock, con l’accusa di calunnia ai danni di un magistrato, il pubblico ministero di Taranto Matteo Di Giorgio, e di violenza privata nei riguardi di un imprenditore. La colpa di Loreto (che trascorse quattro giorni in carcere e undici ai domiciliari) era quella di aver presentato un memoriale al ministero della Giustizia e in seguito al Consiglio superiore della magistratura e alla procura generale della Corte di cassazione in cui si criticava proprio l’operato del pm Di Giorgio (anch’egli di Castellaneta), sostenendo che questi avesse esercitato le sue funzioni in maniera opaca e al servizio di interessi privati. Il tempo, molti anni dopo, darà ragione a Loreto: nell’agosto 2017 Di Giorgio sarà infatti condannato in via definitiva a otto anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari e concussione. Fra le accuse contestate al pm (poi rimosso pure dall’ordine giudiziario) anche quella di aver costretto un consigliere comunale di Castellaneta alle dimissioni per provocare lo scioglimento del consiglio comunale, sotto la minaccia dell’arresto di alcuni suoi parenti. Secondo i giudici, Di Giorgio, strumentalizzando le funzioni di magistrato, aveva costruito una rete di potere per contrastare i propri avversari politici e favorire gli alleati come Italo D’Alessandro, poi eletto sindaco di Castellaneta, e anch’egli condannato in via definitiva a tre anni. La verità è quindi emersa, ma troppo tardi. Dopo aver subito l’onta della carcerazione preventiva, Loreto è stato costretto a vivere un calvario giudiziario durato addirittura 17 anni. Rinviato a giudizio nel 2008, l’ex senatore ha deciso di rinunciare alla prescrizione, ma ha dovuto aspettare fino al 2017 per ottenere la sentenza di assoluzione in primo grado, poi divenuta definitiva un anno dopo perché non impugnata dalla procura. “Io sono il classico esempio di chi, rinunciando alla prescrizione, si è visto condannato a un processo interminabile, fermatosi fortunatamente al primo grado, perché non c’è stato appello né da parte del pubblico ministero né dalle parti civili. Il paradosso dei paradossi è che proprio la rinuncia alla prescrizione ha determinato un percorso giudiziario così lungo”, racconta Loreto al Foglio, spiegando anche di aver rinunciato a presentare richiesta di indennizzo per la durata irragionevole del processo: “Quando il mio avvocato mi ha informato sulla somma che avrei potuto ricevere ho deciso di non presentare richiesta, per non essere ulteriormente offeso dallo stato dopo tutto quello che avevo subito”. Loreto, però, non dimentica “il trauma che ha segnato me, la mia famiglia e anche la mia città, di cui ero sindaco, eletto per tre volte consecutive a furor di popolo”. “Ero dirigente scolastico del più grande istituto di istruzione secondaria di secondo grado della zona occidentale dell’arco ionico, frequentato da oltre un migliaio di studenti. Dopo essere stato arrestato ed essere stato buttato giù come sindaco, quando entravo nell’istituto mi sentivo gli occhi addosso, sia da parte degli alunni che dei docenti e del personale amministrativo. Nessuno aveva il coraggio, se non anonimamente, di esprimersi sulla mia vicenda tragica. Mio figlio è scappato da Castellaneta e ora è a Londra. Ci sono i danni economici, soprattutto per le spese legali, ma c’è anche la lacerazione degli affetti familiari. Ci sono danni immateriali incalcolabili”. E in questo caso la vicenda ha avuto ripercussioni anche di carattere politico sull’intera città di Castellaneta: “A causa della vicenda giudiziaria il paese mi ha voltato le spalle - racconta Loreto - Dalle percentuali bulgare degli anni 90, sono passato a perdere le elezioni del 2002, del 2007 e del 2012. Mi hanno voltato le spalle anche i partiti, compresa la sinistra radicale (ex Rifondazione comunista), perché per loro ero comunque una persona sotto processo, da cui bisognava mantenere le distanze. Dopo la terza sconfitta ho detto basta e mi sono ritirato a vita privata”. È con questa esperienza tragica nella mente che Loreto guarda all’entrata in vigore della riforma della prescrizione: “Sicuramente con l’entrata in vigore della riforma ci saranno tanti altri casi Loreto, perché i magistrati, quando vedranno che non c’è il rischio della prescrizione, daranno naturalmente precedenza ad altri processi”. A pagare il prezzo di questa infausta riforma, come abbiamo sottolineato, non saranno solo gli imputati, ma anche le vittime dei reati e le parti civili. La norma, infatti, pur essendo stata ideata da Bonafede per venire incontro, in maniera populistica, alle proteste delle associazioni che riuniscono i familiari delle vittime di alcune tragedie (“La chiameremo ‘legge Viareggio”, disse il Guardasigilli prima dell’approvazione, facendo riferimento all’incidente ferroviario del 2009), avrà come effetto proprio quello di rinviare ancora di più nel tempo l’accertamento dei fatti in sede giudiziaria. Se a ciò si aggiunge che nel 75 per cento dei casi la prescrizione dei reati matura prima di una sentenza di primo grado, e quindi prima del momento a partire dal quale si applicherà la riforma Bonafede, si può comprendere come i familiari delle vittime di alcune tragedie rischino di rimanere col cerino in mano, e senza giustizia, anche dopo l’entrata in vigore della norma, e come quindi si sia di fronte solo a un grande bluff giustizialista. L’unica cosa certa, alla fine, è il rischio di processi eterni per tutti. Che dire, auguri. La legge “spazza-corrotti” sotto il tiro dei giudici di Guido Camera e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2019 La “spazza-corrotti” perde i pezzi. Nel suo primo anno di vita, la legge 3/2019, cavallo di battaglia del M5S e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, non ha infatti retto al banco di prova della giurisprudenza. È stata soprattutto la mancanza di una disciplina transitoria a far approdare le norme di fronte ai giudici che, in più di una occasione, ne hanno limitato l’applicazione. E ora si attendono gli esiti dei procedimenti aperti di fronte alla Corte costituzionale, che dovrà fare chiarezza sulla natura di una delle misure simbolo della legge, ovvero l’equiparazione, per la concessione dei benefici penitenziari, dei fenomeni corruttivi a quelli mafiosi e terroristici. Ma andiamo con ordine. Benefici premiali limitati - La legge spazza-corrotti ha modificato l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario(legge 354/1975), stabilendo che le misure alternative al carcere (affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà), i permessi premio e l’assegnazione al lavoro all’esterno del carcere possono essere concessi ai condannati per reati di corruzione, istigazione alla corruzione, corruzione in atti giudiziari, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e peculato solo se collaborano con la giustizia efficacemente. E si adoperano per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, assicurare le prove dei reati e consentire di individuare gli altri responsabili o sequestrare le somme o le altre utilità trasferite. Ma la legge non ha spiegato se questa misura - mutuata dalla disciplina in materia di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo - si debba applicare anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, il 31 gennaio 2019. Le correzioni dei giudici - La Cassazione (con le sentenze 25212/2019 e 48499/2019) ha chiarito che gli ordini di sospensione dell’esecuzione della pena emessi prima dell’entrata in vigore della legge Spazza-corrotti non possono essere revocati benché la nuova legge limiti i benefici premiali per i condannati per corruzione. Per la Cassazione, infatti, “la validità degli atti è regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione”. Sulla “retroattività” delle limitazioni ai benefici premiali ai fatti di corruzione commessi prima dell’entrata in vigore della legge 3/2019 si attende che si pronunci la Corte costituzionale. Sono infatti diverse le questioni di costituzionalità presentate alla Consulta, che ha fissato le udienze a febbraio 2020. Il nodo centrale è chiarire se la modifica apportata dalla legge spazza-corrotti all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario abbia natura di “pena” in senso vero e proprio. Altri giudici, tra cui la Cassazione, hanno inoltre messo in discussione l’eccessività della misura per induzione indebita e peculato lieve. Intanto la Consulta, con la sentenza 253/2019, ha già dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, sancendo che i permessi premio possono essere concessi ai condannati per i reati indicati nella disposizione - inclusi, quindi, quelli di corruzione - anche in assenza di collaborazione con la giustizia, se non risultano collegamenti (spesso, peraltro, nei reati di corruzione, inesistenti) con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Gli effetti - I dubbi sulla legittimità dei limiti ai benefici premiali per i reati per corruzione non hanno - per ora - ricadute sugli ordini di esecuzione emessi dopo l’entrata in vigore della legge. La Cassazione, con la sentenza 51905, depositata lo scorso 23 dicembre, ha riconosciuto come “l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola”, senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità” con il principio di legalità, ma la questione di costituzionalità può essere posta solo nella fase dell’esecuzione della pena. Quindi, se l’ordine di esecuzione è stato emesso dopo l’entrata in vigore della legge 3/2019, il condannato, per eccepirne l’incostituzionalità, deve entrare in carcere e rimanerci fino alla decisione della Consulta. Una decisione in linea con la sentenza 45319/2019 della Cassazione, che ha stabilito che il giudice dell’esecuzione, anche se ha sollevato questione di costituzionalità sull’applicazione dei limiti ai benefici per i reati di corruzione, non può sospendere l’efficacia dell’ordine di esecuzione. Gli altri punti cancellati - Con la sentenza 5457/2019, la Cassazione ha stabilito che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici del condannato per corruzione - un altro dei cavalli di battaglia della Spazza-corrotti - non si applica ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Infine, con la sentenza 12541/2019, la Cassazione ha stabilito che la sanzione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dal corrotto - introdotta dalla legge 3/2019 all’interno dell’articolo 322-quater del Codice penale, e pari a una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato, da aggiungersi al risarcimento dei danni causati - non scatta in caso di patteggiamento. Anche il palpeggiamento integra il reato di violenza sessuale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2019 Tribunale di Napoli - Sezione V penale - Sentenza 3 maggio 2019 n. 4738. Il reato di violenza sessuale, nella forma consumata, è configurabile in presenza di un qualunque atto indirizzato verso zone erogene e idoneo a compromettere la libera determinazione della sessualità della vittima, compiuto con modalità costrittive o abusive. Pertanto, anche “palpeggiamenti e sfregamenti” possono integrare il reato ex articolo 609-bis cod. pen., salvo che la valutazione globale del fatto porti a ritenere configurabile la violenza sessuale di minore gravità, prevista dal comma 3 della medesima disposizione. Questo è quanto afferma il Tribunale di Napoli con la sentenza 4738/2019. Il caso - All’origine della vicenda c’è la condotta posta in essere da un uomo su un treno della Circumvesuviana, sul quale viaggiava un gruppo di ragazzi di nazionalità francese in gita scolastica in Campania. Durante la corsa del treno, approfittando della folla, l’uomo si era avvicinato a una prima ragazza della scolaresca “iniziando a toccarle il sedere in maniera violenta e insistente”, per poi puntare una seconda ragazza strusciando “le sue parti intime sulla gamba della stessa, nei pressi dell’inguine”. Il tutto avveniva in pochi istanti con lo spavento delle due ragazze, che dopo aver subito le gesta dell’uomo si era dirette verso gli altri compagni mischiandosi nel gruppo. Le due scene furono però notate da due carabinieri che in quel momento si trovavano a svolgere un servizio di controllo in borghese all’interno del treno. Così uno dei due agenti ha fermato l’uomo per poi condurlo in caserma, mentre l’altro ha raccolto la denuncia delle due ragazze francesi. In seguito, durante il processo per violenza sessuale nei confronti dell’uomo, che già in passato si era reso protagonista di episodi simili, il Collegio giudicante, ritenuto provato il fatto sulla base delle dichiarazioni delle due persone offese, ha riconosciuto la piena responsabilità penale dell’imputato, optando però per la circostanza attenuante ex articolo 609-bis comma 3 cod. pen. Il perimetro applicativo della violenza sessuale - In primo luogo, i giudici napoletani ritengono che vi sia stata una violenza sessuale in forma consumata. Ciò in quanto, risultano integrati perfettamente sia il requisito della costrizione che quello del compimento di un atto sessuale. Quanto al primo, è sufficiente che si realizzi “una notevole compressione della libertà di autodeterminazione di un soggetto, tale che egli non abbia possibilità di scelta”, circostanza avvenuta nella fattispecie in quanto vi è stata un’azione repentina consistita prima nel “palpeggiamento” e poi nello “strusciamento”; quanto al secondo, è sufficiente il compimento di un qualunque gesto idoneo a “compromettere la libera determinazione della sessualità della persona o ad invadere la sfera sessuale”, circostanza avvenuta nella fattispecie in quanto il “palpeggiamento” e lo “strusciamento” sono contatti corporei “suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata”. La violenza sessuale di minore gravità - Ciò posto, per il Tribunale nel caso di specie è opportuno però mitigare la rigida e ampia interpretazione di “atto sessuale” e di “costrizione”, anche alla luce della severa cornice edittale della norma, con la fattispecie attenuante, di cuial comma 3 della disposizione, in relazione al fatto che si è trattato di gesta che hanno offeso in modo non particolarmente grave la libertà sessuale delle due ragazze, le quali non si sono neppur costituite parti civili. Difatti, spiegano i giudici, per la configurabilità della minore gravità “deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievi i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima”. Ebbene, considerando il comportamento quasi maldestro dell’imputato, “nel contesto affollato del vagone, senza compromettere gravemente” la libertà sessuale delle persone offese, per il Tribunale “appare meno grave il fatto contestato” e ciò comporta il riconoscimento della fattispecie attenuata. Non è truffa ma falso in atto pubblico il finto pagamento Inps del commercialista di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2019 Falso materiale di un atto pubblico e non truffa per il commercialista che falsifica e mostra alla società cliente una comunicazione di sgravio redatta su carta intestata dell’Inps e ricevute di pagamento a Equitalia. Una “contraffazione” fatta per dimostrare di aver adempiuto agli obblighi di pagamento, quando i versamenti non erano mai stati fatti. Il ricorso del professionista - La Corte di cassazione, con la sentenza 50196 del 15 novembre scorso, respinge il ricorso del professionista e avalla la scelta della Corte d’appello di assolverlo dall’originaria imputazione di truffa, con la formula perché il fatto non sussiste, condannandolo invece per falso in atto pubblico commesso da un privato, con il conseguente obbligo di risarcire i danni al cliente. I giudici della quinta sezione penale, respingono al mittente tutte le eccezioni della difesa del commercialista, che contestava sia la validità della testimonianza chiave delle parte lesa, considerata “de relato”, sia l’elemento soggettivo del reato. Per quanto riguarda il primo punto, il ricorrente considerava non corretta la valutazione della Corte territoriale, la quale aveva concluso per la sua responsabilità, dando un peso determinante alla deposizione della società cliente, che si era costituita parte civile. Dichiarazioni considerate attendibili benché basate solo sull’indicazione dei nominativi dei funzionari Inps dai quali la società aveva appreso che la documentazione consegnata dall’imputato era falsa. Per la Cassazione però la testimonianza della parte civile, con l’indicazione dei nomi dei pubblici funzionari disponibili a confermare tutto, era valida, anche in presenza di ulteriori riscontri. Il falso in atto pubblico - Non passa neppure il punto centrale del ricorso. Ad avviso della difesa, il falso in atto pubblico sarebbe concepibile solo quando si alterano dei documenti autentici, autenticati o di cui sia stata dichiarata la conformità all’originale. Una tesi che la Suprema corte bolla come infondata, alla luce dei chiarimenti forniti dalle Sezioni unite. Il Supremo consesso ha, infatti, precisato che il reato scatta “quando la copia si presenti o venga esibita con caratteristiche tali, di qualsiasi guisa, da voler sembrare un originale, ed averne l’apparenza”. Il reato, sanzionato dagli articoli 476o 477 del codice penale, c’è dunque quando lo stesso soggetto che produce la copia compie anche un’attività di contraffazione che incide materialmente sui tratti che caratterizzano il documento, dandogli una parvenza di originalità, tale da farlo sembrare “autentico” o una copia conforme. In questo quadro, secondo la ricostruzione dei giudici, rientra il comportamento del commercialista che, per dimostrare di aver compiuto il suo dovere, ha consegnato documenti “fai da te” spacciandoli per originali. Roma. “Nessuna assistenza per mio figlio malato. L’incuria lo ha ucciso” di Franco Giubilei La Stampa, 30 dicembre 2019 Valerio Guerrieri aveva ventun anni quando si impiccò nel carcere di Regina Coeli, a Roma, il 24 febbraio del 2017. “Era un ragazzo con disturbi del comportamento, secondo l’ultima diagnosi”, dice la madre Ester Morassi, e in quella cella non ci sarebbe dovuto stare, perché il giudice ne aveva riconosciuto la seminfermità in un processo per rapina, disponendone il ricovero in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr). Il 16 febbraio, otto giorni prima di morire, Valerio ha scritto una lettera al fratello in cui diceva che era stanco, che non ne poteva più di stare in cella, che si svegliava al mattino e stava male”, racconta la madre riepilogando le tappe di una vita difficile, fatta di permanenze in strutture riabilitative e psicofarmaci pesanti, reati e trattamenti sanitari obbligatori. Dopo che Valerio si uccide annodandosi al collo le lenzuola della sua branda, Ester non si rassegna e si rivolge all’associazione Antigone, che le affianca la legale Simona Filippi e porta il caso davanti alla magistratura: “Ne sono nati due procedimenti - spiega l’avvocato. Il primo per omissione d’atti d’ufficio e indebita limitazione della libertà personale, a carico della direttrice di Regina Coeli e di due funzionari del Dap. Due volte il pm ha chiesto l’archiviazione e due volte il giudice ha accolto la nostra opposizione, perché la disposizione di ricovero in Rems è rimasta ineseguita e perché non si è dato corso alla revoca della custodia in carcere. Ora siamo in attesa della nuova udienza”. La seconda inchiesta, per omicidio colposo, ha visto il rinvio a giudizio di sette agenti di polizia penitenziaria e uno psicologo, l’udienza è fissata per il prossimo 26 febbraio. Ma la storia di Valerio, al di là degli aspetti processuali, pone in tutta la sua drammaticità la questione dell’inefficienza del sistema di trattamento del disagio psichico in carcere: “Da114 febbraio, quando è stato portato a Regina Coeli, al 24 febbraio, quando si è suicidato, nessuno ha mosso un dito per mio figlio - dice la madre. Lì dentro tutti potevano fare la differenza: agenti, psicologi, la direzione, ma nessuno l’ha fatto perché, secondo me, ne avevano fin sopra i capelli di Valerio. Rompeva le scatole, ma lo faceva perché andava curato”. I problemi del ragazzo cominciano a 12 anni, età della prima diagnosi come “borderline con lievi disturbi psico-maniacali”, a 14 anni il ricovero in una struttura riabilitativa, a 16 il furto di una moto e il carcere minorile, commutato in un nuovo ricovero. Nel 2014 è coinvolto in tre rapine, ma il giudice riconosce l’inadeguatezza del regime carcerario e lo rimanda in un centro riabilitativo. “Una volta gli hanno dato il Tso (trattamento sanitario obbligatorio, ndr), ma lui è scappato, l’hanno ripreso e portato in carcere, quindi lo hanno mandato all’Opg di Secondigliano, dov’è rimasto un anno, finché lo hanno destinato a una struttura riabilitativa a Subiaco”. Poi Regina Coeli, la Rems di Ceccano, tutto questo fra fughe e altri ricoveri, fino all’ultima, fatale detenzione a Regina Coeli. “Se fosse stato curato in modo giusto, non sarebbe finito così”. Napoli. “Il carcere? Una società dimenticata” di Mario Pepe Il Roma, 30 dicembre 2019 Intervista a Valentina Ilardi, psicologa della Pastorale: “Poggioreale non può pensare di creare una vita diversa ai reclusi”. “Il carcere? È quella fetta di società della quale ci dimentichiamo. In carcere non c’è vita da nessuna parte”. A dirlo è Valentina Ilardi, psicologa della Pastorale carceraria, che ormai da lustri si occupa della condizione dei detenuti nel carcere di Poggioreale. “E lo dico lontana da ogni pregiudizio, perché chi lavora accanto a loro non può averne anche se io ho iniziato questa esperienza piena di pregiudizi”. Come mai ha deciso di intraprendere questo cammino di vicinanza a chi è recluso? “Essenzialmente per la curiosità di vedere là dentro chi ci fosse. E mi sono subito accorta che queste persone sostanzialmente non vivevano. Chi decide di intraprendere questo tipo di attività al fianco dei detenuti finisce inevitabilmente per essere testimone di quanti pregiudizi ci sono e degli ostacoli che vengono creati”. Qual è, anche in base alla sua esperienza, l’idea che si fa chi è esterno al carcere, il cittadino comune? “Innanzitutto c’è l’idea che chi ha commesso un reato anche la galera è poco. E c’è anche chi dice che le persone recluse sono mantenute da noi. Insomma, una serie di visioni distorte che finiscono anche per allontanare la realtà circostante da quella vissuta all’interno di un penitenziario”. Chi, invece, come lei conosce cosa è il carcere come giudica questo mondo? “Chi lo conosce dice che è troppo così com’è. Anche se, naturalmente, non è che può essere abolito, nessuno chiede questo. Ma soprattutto Poggioreale non è un carcere che può ospitare delle persone e pensare di creare per le stesse una vita diversa. Per questo motivo occorre ripensare totalmente questo tipo di strutture nell’ottica di una visione più umana”. Qual è l’approccio con chi ha un vissuto carcerario da parte di chi opera nel mondo del volontariato? “Beh, bisogna valutare attentamente chi si ha di fronte ci si prende tempo per capire chi si ha di fronte per valutarne anche le potenzialità. Il più delle volte non guardiamo al reato quando ci avvinciamo a queste persone ma a quello che loro possono dare”. In questo senso, Poggioreale che tipo di condizioni può creare affinché ci sia una migliore vita per i detenuti? “Non le può creare perché è una delle carceri più sovraffollate del territorio italiano e ha ospiti che sono più del doppio della capienza. E a questo si aggiunge anche la scarsità di risorse che non sono nemmeno sufficienti per la capacità della struttura stessa di contenere la popolazione. Non parlerei, però, di un difetto di direzione”. Il problema può essere più formativo, se così si può dire? “Sicuramente chi opera all’interno del penitenziario va “mentalizzato”, se così si può dire, diversamente. Ma mi rendo che anche gli agenti di polizia penitenziaria sono sovraffaticati. Tutto ciò porta malessere su tutti i fronti. E quanto entri vedi reparti chiusi, umidi e malridotti”. La politica ha quasi sempre visto il carcere come un luogo dove rinchiudere chi delinque per tenerlo lontano dalla società... “Sicuramente, perché è più comodo pensare che queste persone che hanno sbagliato rimangano chiude lì dentro e in condizione di non nuocere”. Il problema è che, poi, molti escono una volta scontata la pena e si trovano a fare un vero e proprio salto nel buio... “Non solo escono, direi, ma spesso sono anche incattiviti. E ci sono persone che si affiliano ai clan, visto che il penitenziario è uno dei luoghi più adatti per il reclutamento delle cosche. La politica si è solo preoccupata negli anni di togliere chi sbagliava dalle strade, abbandonando le persone a se stesse. Con il risultato questi una volta usciti non sanno cosa fare. Dentro ci sono reclusi che non sanno fare nulla e se qualcuno ha potenzialità gli viene negata un’opportunità. La politica è cieca anche verso strutture come quella della quale faccio parte, la Pastorale carceraria, che accoglie detenuti in regime domiciliare o ex. E queste persone spesso non vanno via per tornare nella società perché non hanno dove andare o perché non vogliono tornare all’esterno. E queste paura può sfociare o in suicidi o nel perdere completamente il contatto con la realtà. Abbiamo avuto persone che avevano affrontato una lunga detenzione che non sapevano nemmeno che esistessero i telefoni cellulari”. Insomma, il vostro compito è arduo... “Sicuramente. Ma ci sono tanti ostacoli. Basti pensare, per esempio, alla normativa che prevede l’abbattimento delle tasse per chi assume. Ma ci sono tanti lavori che i detenuti non possono fare perché non si devono avere procedimenti penali. E c’è sempre il pregiudizio di chi non si fida”. Qual è il suo bilancio dell’attività che svolge? “Al di là delle difficoltà delle quali parlavo, è sicuramente positivo. Specie quando riscontriamo i risultati di chi è in affidamento in prova ai servizi sociali. Qualcuno si inventa lavoro in base alle proprie conoscenze e noi soddisfatti dei risultati raggiunti. Ed è quello che ci rende sempre più determinati ad andare avanti”. Firenze. A Sollicciano troppi detenuti e poco spazio ogginotizie.it, 30 dicembre 2019 Nuovo allarme di sovraffollamento nel carcere di Sollicciano. Molte delle celle che in agosto erano inagibili, sono stati finalmente ripristinate. In questo modo, la capienza è arrivata a 494 detenuti. Tuttavia, vi è un sovraffollamento del 155% nel settore maschile e del 195% in quello femminile. In altre parole, ci sono 680 uomini e 107 donne. Dei 680 uomini 414 (60,9%) scontavano una condanna definitiva, mentre tra i 266 (39,1%) detenuti che ancora non avevano una condanna definitiva il 45,1% (120) era in attesa del giudizio di primo grado. Per quanto riguarda invece le donne detenute, 78 (65%) scontavano una condanna definitiva, 3 risultavano internate, 26 (24%) erano in attesa di condanna definitiva e di queste il 46% (12) in attesa del giudizio di primo grado. Massimo Lensi, presidente di Progetto Firenze, spiega: “Il problema del sovraffollamento di Sollicciano continua a essere ignorato. Nonostante ciò renda afflittiva la pena per chi vi è ristretto e appesantisca enormemente il lavoro di quanti, a partire dalla direzione e dal corpo di polizia penitenziaria, si trovano costretti a fare l’impossibile per gestire una situazione sempre al limite dell’emergenza. La presenza di ben quattro bambini nel nido interno del carcere con le loro madri detenute è il sintomo evidente di un malessere generale che ancora una volta dobbiamo segnalare. A Firenze si attende ormai da tempo l’apertura dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) o di una casa famiglia protetta. Le procedure sono partite dieci anni fa, e tra alterne vicende sembravano arrivate a conclusione l’anno scorso. Invece, ancora oggi tutto tace”. Viterbo. Il consigliere Capriccioli in visita a Mammagialla con il deputato Riccardo Magi tusciaweb.eu, 30 dicembre 2019 “Natale in carcere non è mai festa. Ancor meno a Viterbo, che rispetto alla capitale, ha meno volontari e iniziative”. Alessandro Capriccioli, consigliere regionale di +Europa Radicali, ha visitato Mammagialla il 27 dicembre con il deputato Riccardo Magi. La sua idea è quella di un penitenziario “ingovernabile e a rischio”, dice. Con l’organico ridotto all’osso che, sommato al sovraffollamento, crea una miscela esplosiva. “Al penitenziario viterbese - spiega Capriccioli - mancano all’incirca 60 agenti. Una carenza d’organico che sicuramente si ripercuote sulla serenità di tutti, poliziotti e detenuti”. Insieme a Magi, il consigliere ha passato a Mammagialla tutto il pomeriggio di venerdì. Tre ore nei reparti nuovi giunti, isolamento e reati comuni. E una valanga di segnalazioni. “I detenuti non vedevano l’ora di farsi ascoltare - racconta Capriccioli. Ci hanno praticamente assaliti con lagnanze di ogni tipo La maggior parte sulla gestione sanitaria. C’è chi, malato di tumore, sostiene di aver dovuto aspettare e sollecitare per delle medicazioni. Chi sarebbe stato costretto a scegliere tra la visita medica e l’ora d’aria. Un altro ci si è presentato con le capsule dei denti in mano: le deve rimettere, dice che aspetta da settimane di andare dal dentista”. Il 25 c’è stato un pranzo speciale: con arrosto e patate. Qualcuno lamenta razioni scarse, a Natale e durante l’anno. “Alcuni - spiega Capriccioli - ci hanno detto che se non facessero la spesa, cucinando per sé dentro la cella, mancherebbe da mangiare per chi si serve della mensa”. Sintomi di malfunzionamento, per il consigliere regionale che, visitando più volte Mammagialla, ha notato un clima diverso da altri penitenziari laziali. “Non prendo ogni segnalazione per oro colato - afferma. Verificare certe situazioni è compito della magistratura e, ovviamente, non tutto quello ci viene riportato è necessariamente vero oltre ogni ragionevole dubbio. Ma in altre carceri non mi capita di avere ogni volta questo esercito di persone con questa massa di problemi. È indice di una scarsa attenzione e di un dialogo quotidiano che manca, oltre alla carenza d’organico: chi accompagna i detenuti alle visite mediche se non c’è personale?”. “La sensazione - conclude - è quella di un luogo che è diventato problematico gestire. Con i detenuti, da un lato, che non soddisfano le loro esigenze e il personale, dall’altro, che è stremato, sotto pressione e fatica come faticherebbe chiunque a lavorare in queste condizioni. Il ministero dovrebbe dare una mano a questo carcere”. Reggio Calabria. Presentato il libro “Manuale di giustizia riparativa e devianza minorile” di Maria Simona Gabriele savutoweb.it, 30 dicembre 2019 Nei giorni scorsi si è tenuta la presentazione del testo “Manuale di giustizia riparativa e devianza minorile” presso l’Università della Calabria, Aula Magna (Sala Stampa) ed ha visto protagonisti l’editore della casa editrice “Santelli Editore” nella persona di Giuseppe Santelli, rispettivamente, le due co-autrici del libro dott.ssa Mariacristina Ciambrone, presidente A.I.Me.Pe, mediatrice penale, familiare e scolastica, e dott.ssa Maria Esposito, psicologa, sessuologa, psicodiagnosta, specializzata in devianza minorile. Il tutto è stata arricchito dalla prefazione del prof. Giap Ercole Parini, docente Unical, e dalla prof.ssa Franca Garreffa, docente Unical, che ha contribuito alla stesura del testo argomentando sull’ergastolo ostativo. Ospite dell’evento (nella foto) Lorenzo Sciacca, in qualità di testimone di giustizia riparativa, che ha arricchito il manuale attraverso una sua intervista e testimonianza diretta. Un intervento decisivo quello di Sciacca che ha suscitato molta emozione. L’evento è stato moderato da Alfredo Bruni, collaboratore della “Santelli Editore”. Un dibattito interattivo con il pubblico, carico di domande e spunti di riflessione. Il testo presenta un approccio interdisciplinare per quanto concerne il fenomeno della devianza minorile e l’importanza di percorsi di mediazione penale e giustizia riparativa come modello di giustizia alternativa e come forma di prevenzione nei procedimenti penali minorili. L’editore Santelli ha dichiarato che la stessa casa editrice è attenta verso queste tematiche. In un contesto sociale dove il mondo cambia, le autrici possono offrire nuovi spunti, circa la mediazione penale che d’altronde in Italia sembra essersi sviluppata da poco. Questo manuale pone l’accento a tutti quei mestieri legati alle relazioni d’aiuto: dall’assistente sociale, all’educatore e di come essi abbiano bisogno di strumenti, di supporti, che possano facilitare un determinato percorso rieducativo e valorizzare queste figure professionali. Durante la presentazione Maria Esposito ha difatti centrato l’attenzione sulla devianza minorile, e delle sue esperienze significative nell’ambito, tematiche presenti nel manuale che come possiamo notare, non si limita solo alla teoria, ma rappresenta una testimonianza diretta carica di vissuti. Mariacristina Ciambrone ci ha raccontato come nasce questa vocazione. Laureatasi in Scienze del Servizio Sociale proprio all’Unical, successivamente decide di intraprendere un percorso formativo specializzandosi negli ambiti della mediazione: quello della mediazione penale, famigliare e quella scolastica. L’autrice ha dichiarato: “oggi è molto semplice acquisire un titolo ma è difficile essere un mediatore, e per me che è diventata una filosofia di vita lo è ancora di più in una terra come la nostra dove spesso emergere e difendere la propria professione diventa un compito difficile. Attualmente sono promotrice di cinque sportelli comunali dell’hinterland calabrese per quanto riguardo la mediazione famigliare e dei conflitti, e il mio impegno continua con tanti progetti sia nelle scuole che in quello penale”. Una testimonianza importante, quella della dottoressa Ciambrone, che rappresenta per i giovani un invito a credere nelle passioni. Del resto la mediazione sta proprio in questo andare oltre gli ostacoli che la vita ci pone. Non a caso anche la copertina del romanzo, dove vi è raffigurato un bellissimo Fiore di Loto, sottolinea l’autrice, non è di certo una scelta puramente casuale. Il Fiore di Loto è il simbolo della mediazione umanistica, che nasce dal fango, e con esso si nutre, e nonostante ciò diventa un bellissimo fiore. Il Fior di Loto è quindi la metafora di come spesso dalle difficoltà possano fiorire nuove opportunità, di come la nostra esistenza possa abbracciare strade completamente inaspettate. È il simbolo della resilienza, che per l’autrice è lo scopo della mediazione umanistica, perché la mediazione umanistica pone al centro di tutto l’uomo e i suoi valori. La mediazione è il luogo dove manifestare la propria diversità, che incontra anche quella dell’altro e la accoglie. Quando parliamo di mediazione umanistica, non possiamo non parlare di giustizia riparativa, che è quella giustizia “ristoratrice” che nasce in Canada tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta. Il fine della giustizia riparativa è quello di donare l’equilibrio, e potremmo anche dire che è la parte più nobile della giustizia, perché è quella giustizia che non giudica, non da sentenze ma mira solo a far sì che l’uomo possa riconciliarsi con sé stesso e con il mondo. Perché la giustizia riparativa pone al centro il conflitto che nasce tra l’autore del reato e vittima. Il mediatore è un “artigiano di pace”, uno stratega del conflitto. È un professionista che lavora per ridurre questo conflitto. Una presentazione che ha appassionato anche chi di mediazione umanistica ne conosce poco, un manuale carico di intensità, che ci auguriamo possa rappresentare un punto di riferimento per tutti i professionisti e non solo. Sassari. “Liberi dentro”, un viaggio nel tempo con gli Istentales di Paolo Ardovino La Nuova Sardegna, 30 dicembre 2019 In edicola il dvd con i successi della band Gigi Sanna: “I giorni passano ma ci sono brani che restano”. Vien facile chiamare in causa i viaggi nel tempo. D’altronde è lo stesso Gigi Sanna a rimarcare i cambiamenti, le evoluzioni, che hanno subito la musica degli Istentales; ma anche prima che le note inizino a susseguirsi tra loro, bastano le immagini. “Prendi la barba, da nera è diventata più folta e completamente grigia” ci scherza su il frontman della storica band nuorese. C’è una storia lunga decenni nel dvd del progetto “Liberi dentro”, in edicola con La Nuova sino al 1° gennaio 2020 e che comprende anche il libro omonimo, un racconto a firma di Luciano Piras del tour nelle carceri - sarde e della penisola - fatto in questi anni dagli Istentales. Il dvd è un’efficace sintesi della storia del gruppo, di conseguenza della Sardegna. Sedici videoclip, i grandi successi (capeggia “Promissas”), le collaborazioni con Pierangelo Berti e Roberto Vecchioni. Il primo video della tracklist è l’ultimo girato. “A Gianluca”, una canzone-ricordo in memoria della scomparsa, a inizio anno, del fratello di Gigi Sanna. “Un testo che non avrei voluto mai scrivere - dice - lui era il più piccolo di casa. Era un dovere raccontalo. Ironia della sorte, è morto lo stesso giorno di mio padre, ma quarant’anni dopo”. Otto gli autori dei videoclip del dvd, Peppino Canneddu, Gianni Medda, Gian Luca Sotgiu, Gianni Ledda, Daniele Barbato, Pier Andrea Maxia, Paul Dessanti e Francesca Lai. “Promissas” era la sigla di “Sardegna canta” del 1997, la prima volta che Bertoli cantò in sardo”. Il leitmotiv dell’intera raccolta è “Ricordo”. “È una bella cosa ricordarsi le cose fatte in passato - conferma Gigi. Sandro (Canova) aveva i capelli, io la barba nera, Luca (Floris) i capelli neri. Ci si rende conto del tempo che passa e delle canzoni che sono rimaste nel tempo”. Storia della band, come detto, ma anche della realtà isolana. Che è cambiata parecchio: “Lettera nel tempo”, per dire, attraverso il rito della preparazione del corredo da sposa da parte della madre, parla di una simbologia ormai perduta. “La parola “amore” non esisteva nel nostro vocabolario, si parlava di “Ti cherio bene”, che era molto più grande. Si son persi molti valori - è sicuro - ancora oggi, passare giornate a sentire le storie degli anziani mi fa crescere, vorrei tornassero certi tempi fatti di tanta sincerità, oggi purtroppo vedo una realtà molto più individualista e dove si è perso il rapporto col proprio vicino di casa”. Arriva verso la fine “Testamento del poeta”, la voce è di Roberto Vecchioni. “Un brano scritto proprio per lui, il maestro - anzi no -, il professore, è una persona dai forti valori. E ama la Sardegna, sei anni fa è diventato cittadino onorario di Mamoiada. Averlo frequentato è un patrimonio importante. Un giorno capito a Milano e mi invita a pranzo a casa sua, colgo l’occasione e gli faccio sentire “Testamento del poeta”, gli scendevano le lacrime agli occhi”. Così, ha trovato spazio anche una sua strofa. E non solo, dato che Vecchioni ha scritto anche la prefazione al libro “Liberi dentro”. Roma. Libera Rugby Club incontra i detenuti di Rebibbia agorasportonline.it, 30 dicembre 2019 La Libera Rugby Club, la prima squadra gay inclusiva di rugby d’Italia, incontra i detenuti del carcere di Rebibbia in un incontro amichevole all’interno del progetto di rugby nelle carceri sviluppato dai Bisonti Rugby. Il programma è riconosciuto dalla Fir e dal Coni e si fonda sulla convinzione che il rugby sia una vera e propria scuola di vita in grado di riavvicinare coloro che lo praticano a valori sani e al rispetto delle regole. Nato nella Casa circondariale di Frosinone e ora esteso anche al carcere romano di Rebibbia il progetto rugby nelle carceri aiuta coloro che decidono di mettersi in gioco a riscoprire valori come la lealtà, la voglia di migliorarsi, l’accettazione della sconfitta e il gioco di squadra. Principi fondamentali per un futuro reinserimento nella società. “Siamo entusiasti e orgogliosi di poter partecipare a questo evento - spiega Valerio Amodeo, allenatore di Libera Rugby - per la sua importanza da un punto di vista sociale ancora prima che sportivo. Come squadra inclusiva ci battiamo contro ogni pregiudizio e sappiamo quanto il rugby sia un mezzo efficace verso l’abbattimento di barriere e la scoperta di valori. “ “Almarina”, di Valeria Parrella. Il fiore che può sbocciare in un posto ostile recensione di Marilu Oliva* huffingtonpost.it, 30 dicembre 2019 “Chiunque varchi la porta di un carcere lo sa (e se non lo sa, lo sente) che sta passando da un’altra parte inconciliabile con la promessa che ci fecero da bambini: che la vita non avrebbe fatto paura, e non saremmo mai rimasti soli. Il carcere invece è paura e solitudine”. Il carcere di cui parla la citazione è quello minorile di Nisida, dove è ambientato gran parte del romanzo “Almarina”, di Valeria Parrella (Einaudi, collana Coralli). Il contrasto tra l’amenità di quel territorio di confine in bilico tra terra e mare e la ferocia della vita salta subito agli occhi attraverso le parole della voce narrante di Elisabetta Maiorano. Insegnante cinquantenne, si è sposata tardi e la perdita del suo Antonio l’ha collocata in una posizione di vedovanza che la costringe a fare i conti con i propri fantasmi. Approdata in questo posto dopo anni di supplenze in giro per l’Italia, ogni volta che vi entra dentro, però, si deve quasi bilanciare, deve ricalcolare gli spazi e le distanze. Tra gli allievi di Elisabetta c’è la detenuta eponima del romanzo, Almarina. Romena, sedici anni, un padre che la violentò e le ruppe le ossa a forza di mazzate, un fratello che lei avrebbe voluto salvare e che per questo aveva portato con sé in Italia, ma ora è stato affidato a qualcuno e Almarina non sa più nulla di lui. La docente assiste a ciò che fiorisce dopo tanta disperazione e anzi, contribuisce a questo sbocciare nel suo modo discreto e sensibile, mentre attorno ai singoli destini si attorciglia una città bella e mostruosa, ambivalente, eppure sempre vera e mai impreparata: “Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla”. Se la cura, l’attenzione per l’altro sono valori cardine di questo romanzo, fanno invece da contraltare i meschini riti carcerari, l’idea della repressione forzata, della libertà negata - e il lettore che vorrà cogliere interessanti spunti di riflessione, potrà farlo su più livelli. A questo mondo di norme ripetitive si oppone la fuga del pensiero attraverso i libri, la speranza e un amore - un filo filiale-materno che lega le due donne - che si fa beffe delle convenzioni: “Voi che giudicate, siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto. Le amicizie sembrano maliziose, l’amore per i discepoli riverbera di paternalismo e l’ammirazione profonda per gli anziani pare sia coperta da chissà quale mancanza nascosta nel passato. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, guardare, morbosi, tutto. Invece no, non si guarda: il cuore è opalino e gli esami di coscienza sono per gli infelici”. Valeria Parrella ci ha regalato un altro libro prezioso, un altro tassello che fa luce sull’ombra, con uno stile raffinato che omaggia alcuni grandi dal passato: ho ritrovato echi di Primo Levi (una ragazza che “aveva gli occhi scoppiati delle rane d’inverno”), echi biblici, citazioni gramsciane, passaggi dove solo la poesia è in grado di esprimere la nostalgia (“La prima volta che ho visto Antonio stava annottando: eravamo entrati sparsi, e dopo, subito dentro il recinto della solfatara, ci eravamo raccolti in gruppi. Era bella l’ora di settembre quella sera che avevamo trent’anni”) e addirittura strofe di canzoni romene, come quella tratta dalla canzone Lie Ciocarlie, interpretata da Maria L?t?re?u. *Scrittrice, noirista e insegnante di lettere I troppi spazi “a-legali” generati dall’innovazione di Edoardo Segantini Corriere della Sera, 30 dicembre 2019 Ogni minuto di ogni giorno, in ogni angolo della Terra, dozzine di aziende, sconosciute ai più e operanti su terreni privi di regole, tracciano i movimenti di decine di milioni di persone attraverso gli smartphone. Ogni minuto di ogni giorno, in ogni angolo della Terra, dozzine di aziende, sconosciute ai più e operanti su terreni privi di regole, tracciano i movimenti di decine di milioni di persone attraverso gli smartphone. Raccolte le informazioni, le immagazzinano in grandi depositi di files. L’operazione è resa possibile dai software di localizzazione presenti in molte app di uso comune. L’obiettivo è rivendere i dati ad altre aziende, che li utilizzano per rendere più efficace e mirata la pubblicità. Questa però è la migliore delle ipotesi: non si esclude che quelle informazioni possano essere usate in altri modi, meno innocenti e più intrusivi, ad esempio a fini di condizionamento elettorale. Tutto questo non è fantascienza: accade in America e, presumibilmente, in Europa e in Italia. Il New York Times ha ottenuto uno di questi files e, con un lungo lavoro, l’ha decifrato, analizzato, commentato e tradotto in un’infografica impressionante, che ritrae i percorsi di milioni di “ping” (gli spostamenti delle persone), raffigurati come puntini verdi. Ne risultano immagini di gigantesche nuvole, fatte di puntini verdi. Nessuno sfugge a questo tracciamento, ignoti o celebrità che siano, come Johnny Depp: neppure il presidente Trump, seguito nei suoi spostamenti. L’inchiesta del quotidiano americano suggerisce varie riflessioni. La principale è sull’immensità degli spazi “a-legali” che si aprono con l’avanzare dell’innovazione tecnologica e sulla necessità di regolare il commercio dei dati personali. Obiettivo raggiungibile, come si è cominciato a fare con la Direttiva europea sulla privacy. La seconda riguarda l’informazione di qualità: che richiede tempo, investimenti e competenze, ma è uno dei pochi antidoti contro il rischio di un’opinione pubblica debole, manipolabile e condizionabile. I migranti nel 2019: come è andata nel Mediterraneo. Grecia sotto pressione, Italia ai margini di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 30 dicembre 2019 Lo rileva l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. In tutta l’area le partenze sono ibn calo ma il flusso principale in un anno si è ribaltato dalla Spagna ai Balcani. È la Grecia lo stato del Mediterraneo che nel corso del 2019 si è visto sottoposto alla pressione migratoria più forte. In un anno in cui il numero degli sbarchi sulle coste europee ha conosciuto un marcato ma non macroscopico calo, si è ribaltata la mappa rispetto al 2018 quando invece era stata la Spagna il punto di approdo privilegiato da chi fuggiva dall’Africa. L’Italia, come accade da due anni in qua, è invece una rotta secondaria nel quadro generale del Mediterraneo. Il dato emerge dalla mappa - aggiornata al 23 dicembre scorso - visibile sul sito dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati. Da ovest a est - Complessivamente tra gennaio e Natale sono partite dalle coste nordafricane turche 123.000 persone contro le 141.400 del 2018. Una tendenza in costante calo dal 2015, anno in cui il flusso dei migranti aveva superato la soglia del milione. Nel 2019 sulle coste della Grecia sono arrivati 73.377 stranieri, 31.400 in Spagna, 11.270 in Italia, 3.300 a Malta, 1.600 a Cipro. Circa 2.000 sono arrivati invece in territorio Ue varcando la frontiera terrestre tra Turchia e Bulgaria. Il quadro rispetto al 2018, come detto, è mutato radicalmente da ovest a est: un anno fa la pressione migratoria maggiore aveva riguardato la Spagna (65.600) seguita dalla Grecia (32.500) e dall’Italia (23.400). Afghanistan e Siria sono i due paesi principali di partenza dei migranti (rispettivamente 20.600 e 16.300). In calo anche il numero dei morti durante le traversate, scesi da 2.277 a 1.277. Il ruolo di Turchia e Italia - Diversi fattori possono aver contribuito a mutare la prospettiva. Nei campi delle Turchia restano fermi circa 3 milioni di rifugiati la maggior parte dei quali vuole raggiungere l’Europa; Erdogan, come arma di pressione verso la Ue, ha periodicamente minacciato di allentare i controlli alle sue frontiere e probabilmente la minaccia si è tradotta in realtà. Riguardo alla rotta tra Libia e Italia, invece, nel 2019 è stato rinnovato il memorandum sottoscritto a suo tempo dal ministro Minniti con le autorità di Tripoli (che dà sostegno alla guardia costiera libica ma di fatto trattiene i migranti in condizioni disumane nei campi libici) e dell’altro sono rimasti in vigore i decreti di Salvini (che se non si sono ripetute le crisi che avevano caratterizzato la presenza al Viminale del leader leghista). D’altro canto va registrato che, specie nella seconda parte del 2019 sono calate le partenze dalla Libia e sono invece cresciute quelle con i “barchini” dalla Tunisia. Stati Uniti. Sempre più attacchi antisemiti: le crepe dell’odio nel melting pot di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 30 dicembre 2019 Combattere il repentino - e deciso - aumento della violenza antisemita è difficilissimo: anche perché gli attacchi arrivano dai mondi più diversi della società. Così, le radici dell’odio da estirpare si moltiplicano, e si fanno sempre più profonde. Ostilità della destra radicale e nazionalista, dei suprematisti bianchi o antisemitismo di afroamericani seguaci dell’estremista nero Louis Farrakhan? O, ancora, sette ebraiche nere che considerano i rabbini bianchi degli usurpatori? Combattere il repentino aumento della volenza antisemita registrato negli ultimi anni anche negli Stati Uniti - e soprattutto a New York, la città con le maggiori comunità ebraiche del mondo - è difficilissimo per gli organismi di pubblica sicurezza: gli attacchi non solo si moltiplicano, ma vengono dai mondi più diversi e non sono quasi mai collegabili a una specifica organizzazione estremista. L’assalto col machete durante una cerimonia a Monsey, nella contea di Rockland, estrema periferia della metropoli, chiude un anno nel quale le aggressioni antisemite in America sono aumentare dei più del 50 per cento (e sono quasi raddoppiate a New York) arrivando a rappresentare oltre la metà di tutti gli hate crimes, i crimi di odio registrato dalla polizia. Un numero quattro volte superiore a quello degli attacchi contro i neri (forse non sempre denunciati). A differenza dell’Europa, negli Usa sono rarissimi gli episodi la cui matrice va ricercata nel fondamentalismo islamico mediorientale. E, anche se gli attacchi più gravi come l’assalto alla sinagoga di Pittsburgh che l’anno scorso ha provocato la morte di 11 fedeli, sono da attribuire a suprematisti bianchi, Mark Molinari, il capo della task force della polizia di New York che combatte specificamente i crimini d’odio, nota che per nessuno delle centinaia di episodi registrati negli ultimi 22 mesi - ebrei ortodossi picchiati per strada senza motivo, vandalismo contro sinagoghe e centri ebraici e altro ancora - è emerso un collegamento specifico con organizzazioni di estrema destra. A New York le tensioni fra le varie etnie sono perenni, ma la città è sempre riuscita ad attutirle nel suo melting pot. Tensioni nate dai motivi più diversi: ad esempio dai rapporti difficili tra inquilini neri e padroni di casa ebrei: “Quanto crescevamo ad Harlem traslocavamo spesso e ogni volta odiavamo i nostri padroni di casa: tutti ebrei e tutti severi”. Queste sono memorie scritte da James Baldwin nel 1967 ma da allora la situazione non è cambiata. Eppure qualcosa di nuovo deve esserci se solo nel 2013 veniva registrato con soddisfazione il livello più basso di crimini contro gli ebrei - 750 episodi in tutta l’America, con 31 assalti violenti e nessuna vittima - mentre nel 2018, a parte la strage nella sinagoga Tree of Life di Pittsburgh, gli attacchi antisemiti sono stati quasi 1900 con diverse vittime. E quest’anno le cose, pur senza stragi, sono ulteriormente peggiorate. Le cause sono diverse e coinvolgono tutte le comunità: bianchi, neri e ispanici. A New York nuovi motivi di risentimento sembrano legati a fenomeni di gentrificazione: per via del continuo aumento dei prezzi delle case, molte famiglie di ebrei ortodossi (in genere piuttosto poveri, a differenza dei padroni di grandi patrimoni immobiliari) si sono trasferite da Brooklyn e da Queens in zone più periferiche come, appunto, la contea di Rockland. Che sia stato determinato o meno da questa migrazione, l’aumento del costo della vita in queste aree è stato attributo da molti residenti ai nuovi venuti contro i quali sono partite rappresaglie di varia intensità. O, ovviamente, gli ortodossi chassidici, facilmente identificabili per il loro abbigliamento, la barba e la capigliatura, possono diventare bersagli. E c’è, addirittura, chi tratta gli ortodossi da untori, tirando in ballo la loro opposizione alla vaccinazione dei figli. Ma le cause di fondo delle crepe che si stanno aprendo nel melting pot, il pentolone interrazziale dell’America - non solo antisemitismo ma anche minore tolleranza e capacità di comprendere le diversità culturali degli altri - sembrano derivare soprattutto dalla diffusione del linguaggio brutale e delle visioni unilaterali nelle reti sociali e nei blog di Internet. E anche dalla radicalizzazione della lotta politica in America. I progressisti accusano la destra, soprattutto per la diffusione del nazionalismo bianco sdoganato da Trump. I repubblicani replicano che è tutta colpa dei democratici: criticano Israele, mentre tollerano gli atteggiamenti radicali di una parte della comunità nera e anche di certi esponenti islamici. E, come sempre di questi tempi, si finisce per discutere di fattore-Trump anche sull’antisemitismo: lui è amico indiscutibile degli ebrei - dalla stretta alleanza con Israele alla figlia Ivanka convertita all’ebraismo del marito, Jared Kushner, coi nipoti di Donald che sono ebrei - ma è al tempo stesso accusato dai suoi avversari di “antisemitismo positivo” per tanti suoi atteggiamenti contraddittori anche nei confronti di questa comunità. Trump incontra ed elogia spesso gli ebrei americani, ma li tratta quasi da ospiti in un Paese non loro: durante la festa di Chanukkah alla Casa Bianca si è congratulato coi presenti per la loro fedeltà a Israele mentre alla convention degli ebrei repubblicani ha detto che “Netanyahu è il vostro vero premier”. E più volte il presidente ha ridato spazio a vecchi stereotipi come quello dell’avidità degli ebrei. Come si spiega? Come sempre, con la contraddittorietà di Trump: non solo ama stupire con repentini cambiamenti di rotta, ma considera virtù positive quelli che nel sentire comune sono vizi. Arabia Saudita. Condanne a morte per l’assassinio Khashoggi, l’Onu: “Parodia della giustizia” di Giampaolo Pioli quotidiano.net, 30 dicembre 2019 Prosciolti sia il consigliere del principe ereditario sia l’ex numero due dei servizi segreti sauditi. Il commento della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, Agnes Callamard, è tranciante: “La parodia di indagini, processo e giustizia continua”. Le cinque condanne a morte emesse da un tribunale speciale di Riad dopo un processo durato un anno, che si è svolto a porte chiuse, e una sentenza dalla quale non si conosce nemmeno il nome dei condannati, non poteva essere più negativo. Solo sei mesi fa la stessa Callamard aveva steso un rapporto sul barbaro assassinio nel consolato saudita di Istanbul del giornalista Jamal Khashoggi definiva “prove credibili” quelle nei confronti del mandante del delitto e avrebbero portato dritto al principe ereditario Mohammed bin Salman. I magistrati della monarchia però non ne hanno tenuto minimamente conto e hanno fatto cadere ogni sospetto sia su di lui sia sulla sua cerchia ristretta, compresi i leader dei servizi segreti sauditi che avrebbero architettato l’intero piano per far cadere in una trappola e uccidere Khashoggi, attirato a Istanbul con la promessa di un visto per poter contrarre matrimonio con la fidanzata turca. Nessuna accusa nemmeno per il consigliere del principe Saud al Qahtani, considerato anche da molti e dai magistrati turchi il vero “architetto” del delitto, così come dell’ex numero due dei servizi segreti Ahmed al-Assiri che avrebbe addirittura diretto in prima persona le operazioni sul campo ma contro il quale non ci sarebbero state “mancanza di prove”. Per la Ue, contraria alla pena capitale, si tratta di una condanna disumana e crudele quella applicata ai cinque indiziati che hanno fatto a pezzi Khashoggi facendo sparire il suo corpo, così come ridicole le pene minori comminate agli altri 6 indiziati coinvolti nella missione omicida, condotta con due jet privati che sono atterrati e ripartititi da Istanbul in poche ore. Ma a Riad è la voce di Salah figlio del giornalista del Washington Post e della moglie separata quella che il regime saudita usa per riabilitarsi. “Oggi giustizia è stata fatta per i figli di Jamal Khashoggi - dichiara dalla sua residenza segreta all’interno del Regno- Affermiamo la nostra fiducia nella magistratura saudita a tutti i livelli”. Fonti del quotidiano della capitale sostengono però che dopo una prima reazione di orrore, i figli e la famiglia di Khashoggi sarebbero stati compensati e tacitati con una straordinaria somma di denaro, anche se loro negano. Per la fidanzata di Khashoggi che lo attendeva fuori dal consolato in Turchia mentre lo facevano a pezzi, invece “la giustizia è stata calpestata”. Incredule le reazioni al Palazzo di Vetro anche se il processo prevede anche una fase di appello, ma per il Dipartimento di Stato americano essere arrivati alla sentenza si tratta di “passo importante”. Le organizzazioni dei diritti umani e Reporters sans Frontière si accaniscono contro la sentenza di Riad ma continuano la pressione sperando che si arrivi anche al processo di appello nel tentativo di allargare le maglie di una inchiesta misteriosa e senza alcun elemento di trasparenza ma passata di contraddizioni in contraddizioni, a partire dall’affermazione che Khashoggi sarebbe entrato si al consolato ma poco più di un’ora dopo sarebbe uscito. Non senza significato però è il fatto che dopo la sentenza di morte criticata ma senza troppo clamore a livello internazionale il principe ereditario saudita abbia subito avviato un negoziato con le forze ribelli in Yemen contro le quali sta combattendo da anni, abbia praticamente allentato la tensione col Qatar e oltre ad aver messo sul libero mercato parte delle azioni della società petrolifera saudita, si prepari adesso con l’ombra e la macchia di Khashoggi sempre più lontane a giocare una grossa partita nella politica medio orientale, compreso un diverso approccio non solo con Israele ma anche con l’Iran. Libia. Oim, situazione sempre più pericolosa, detenzione migranti deve finire agenzianova.com, 30 dicembre 2019 La situazione in Libia è sempre più pericolosa e ora più che mai la detenzione dei migranti deve finire. Lo ha dichiarato il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Flavio Di Giacomo, in un messaggio su Twitter. “Con il peggioramento della situazione della sicurezza a Tripoli e nelle aree circostanti, i civili più innocenti, in particolare i migranti detenuti, sono a rischio maggiore. I migranti vulnerabili devono essere liberati dalla detenzione e devono essere prese misure per salvaguardare le loro vite”, ha sottolineato Di Giacomo. Ieri il rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu in Libia, Ghassan Salamé, ha condannato i ripetuti attacchi aerei contro installazioni civili nella Libia occidentale, tra cui Zawiya, Tajoura e Abu Salim. “Abbiamo affermato chiaramente che gli attacchi indiscriminati contro i civili non solo costituiscono una grave violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, ma intensificano ulteriormente il conflitto e incitano a futuri atti di vendetta, che minacciano l’unità sociale in Libia”, ha avvertito Salamé in una nota. “Questo è assolutamente inaccettabile”, ha aggiunto. Nella nota Salamé ha sottolineato che in uno degli attacchi, avvenuto lo scorso 27 dicembre, è stato colpito l’Istituto di ingegneria applicata, situato in prossimità del centro migranti Al Nasser di Zawiya, dove sono detenuti centinaia di migranti. “Fortunatamente, nell’attacco aereo non sono state riportate vittime”, ha precisato. Il rappresentante speciale Onu ha citato anche l’attacco del 26 dicembre, sempre a Zawiya, che ha provocato la morte di due civili e altri otto feriti con proprietà pubbliche e personali distrutte. “Il 27 dicembre, gli attacchi ad Abu Salim hanno provocato la morte di un civile e il ferimento di sei civili, tra cui due bambini. Il 24 dicembre a Tajoura, gli attacchi aerei hanno provocato numerose vittime tra i civili”, ha aggiunto Salamé. L’inviato speciale Onu ha sottolineato la necessità di proteggere la popolazione e le infrastrutture civili in tutta la Libia: “I principi di distinzione, proporzionalità e precauzione devono sempre essere pienamente rispettati”. L’Eritrea ai primi posti per numero di giornalisti in carcere. Italia e Ue finanziano il dittatore raiawadunia.com, 30 dicembre 2019 In nome della lotta al terrorismo e di quella all’immigrazione illegale Italia e Europa finanziano il regime eritreo. Grandi gruppi finanziari e industriali italiani ci fanno affari. L’Eritrea è uno degli Stati dove si rischia di più a pubblicare notizie “non gradite” al Governo. Un rischio che non di rado si traduce in lunghi anni di galera. Il regime di Isaias Afewerki risulta infatti al quinto nel mondo per il numero di giornalisti fatti sparire nel buio di una prigione: almeno 16, quasi tutti detenuti ormai da molti anni. Ce ne sono di più, dietro le sbarre, soltanto in Cina (48), in Turchia (47), in Egitto e in Arabia Saudita (26 ciascuno). Ma nel Corno d’Africa e nell’Africa subsahariana l’Eritrea è ampiamente in testa, seguita da Camerun (7), Uganda e Burundi (4). È quanto emerge da un nuovo dossier della Commissione internazionale per la tutela dei giornalisti (Cpj), lo stesso organismo che nell’inchiesta sulla libertà di stampa, pubblicata nel settembre scorso, ha collocato l’Eritrea all’ultimo posto assoluto. La firma della pace con l’Etiopia è stata da più parti indicata come una “svolta” che avrebbe avviato il paese alla democrazia e, dunque, anche a ripristinare una stampa libera e indipendente. È passato un anno e mezzo, ma non è cambiato nulla: l’unica “fonte di informazioni” è ancora la Tv di Stato, l’accesso a internet resta pressoché impossibile e, soprattutto, non uno solo dei giornalisti in carcere è stato liberato. Il presidente etiopico Abiy Ahmed, ritirando il premio Nobel per la pace a Oslo, ha dichiarato di voler condividere quel riconoscimento con Isaias Afewerki, “la cui volontà, il cui impegno e la cui determinazione - ha specificato - sono stati decisivi per porre fine a vent’anni di guerra tra i nostri due paesi”. Alla luce di quanto sta accadendo in Eritrea, non ultimo il quadro descritto dalla Cpj, c’è da chiedersi su cosa si basi questa ennesima apertura di credito di Abiy nei confronti di Afewerki. Come possa ritenere, cioè, che un riconoscimento quale il Nobel per la pace possa essere accostato anche solo per un momento al nome di un dittatore come Afewerki. A meno che Abiy non ritenga che la libertà e la democrazia non siano - come invece sono - i fondamenti stessi della pace. A meno che, anzi, non ritenga che la libertà e la democrazia con la pace non c’entrino per niente. Ucraina. Scambio di 200 prigionieri tra ucraini e separatisti filo-russi La Repubblica, 30 dicembre 2019 Gli accordi sono stati avviati all’inizio di dicembre a Parigi durante un vertice tra il presidente russo Putin e l’omologo Zelenskij. Un passo verso il disgelo. Le autorità ucraine e i separatisti filo-russi nel Donbass hanno scambiato duecento prigionieri, evento che segna una de-escalation nell’unico conflitto attivo in Europa. “Il rilascio reciproco di detenuti è finito”, ha annunciato la presidenza ucraina su Facebook, spiegando di avere ricevuto 76 prigionieri. Le autorità separatiste delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, invece, hanno annunciato di avere ricevuto in totale 124 persone, 61 riconsegnate a Donetsk e 63 a Lugansk. “Al checkpoint di Mayorske è iniziato il processo di rilascio delle persone detenute”, aveva reso noto in mattinata l’account Twitter ufficiale del presidente ucraino Volodimir Zelenskij. Lo scambio è avvenuto al posto di controllo di Mayorske, vicino a Gorlovka. Gli autobus con i prigionieri consegnati dall’autoproclamata repubblica popolare di Lugansk sono stati i primi ad arrivare sul luogo dello scambio, dove c’erano rappresentanti della Croce Rossa e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Gli accordi che hanno portato allo scambio sono stati avviati all’inizio di dicembre a Parigi durante un vertice tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo ucraino Zelenskij. A settembre Kiev e Mosca avevano effettuato uno scambio di 70 detenuti. Nello scambio tornarono a casa anche i 24 marinai ucraini catturati dalla Russia nello stretto di Kerch al largo della Crimea nel novembre 2018. La risoluzione del conflitto nell’est dell’Ucraina è una delle priorità del governo del presidente ucraino Volodimir Zelenskij. Lo scambio avviene dopo un negoziato che ha coinvolto il gruppo Normandia (Francia, Germania, Ucraina e Russia) e il gruppo di contatto trilaterale (Russia, Ucraina e Osce). Il Comitato internazionale della Croce Rossa e altri organismi internazionali avranno pieno accesso ai prigionieri liberati dalle due parti. Iniziato nell’aprile 2014, il conflitto nel Donbass, est dell’Ucraina, ha provocato oltre 13mila morti. Iran. Sciopero della fame in carcere per la ricercatrice Fariba Adelkhah Il Dubbio, 30 dicembre 2019 La ricercatrice accusata di spionaggio. Antropologa di fama mondiale ha passaporto francese. Da ieri è in sciopero della fame e della sete. Rischia la pena di morte. Macron: “liberatela”. Ma il regime non molla. Fariba Adelkhah è un’antropologa franco-iraniana specialista della cultura e religione sciita e direttrice del Centro di ricerca internazionale dei Sciences- Po di Parigi; dallo scorso giugno assieme alla collega australiana Kylie Moore- Gilbert, marcisce nel celebre carcere di Evin, situato a pochi chilometri dalla capitale Teheran. È stata arrestata dai Guardiani della Rivoluzione con la grottesca accusa di “spionaggio” e “attentato alla sicurezza dello Stato”. Se verrà condannata rischia fino alla pena di morte. Da ieri Fariba è scesa in sciopero della fame e della sete per protestare contro una detenzione “ingiusta” e un trattamento totalmente al di fuori del diritto internazionale. “Siamo costantemente sottoposte a tortura psicologica e subiamo ogni giorno delle flagranti violazioni dei diritti umani”, si legge in una lettera inviata al Center for Human Rights in Iran, una Ong che a base a New York. “Fariba ha deciso di non alimentarsi e di non bere più per difendere la sua libertà e la sua dignità” spiega il ricercatore Jean- François Bayart, collega e amico della 60enne. All’inizio di dicembre il presidente francese Macron era intervenuto in prima persona e aveva chiesto la liberazione “immediata” della ricercatrice, definendo “intollerabile” la sua detenzione. Dal canto suo la Repubblica sciita non riconosce la doppia nazionalità ai suoi cittadini e quindi ha liquidato come “un’ingerenza inaccettabile” le richieste dell’Eliseo. Gli avvocati di Fariba Adelkhah avevano provato a ottenere la libertà provvisoria sotto il pagamento di una cauzione poi regolarmente rifiutata dal tribunale. Sono circa una ventina gli universitari e i ricercatori iraniani con doppia nazionalità attualmente detenuti nelle carceri del paese, tutti con l’accusa di spionaggio e cospirazione contro l’integrità e la sicurezza dello Stato. “La nostra lotta è anche quella di tutti gli studiosi ingiustamente imprigionati in Iran con accuse campate in aria”, conclude la lettera di Adelkhah e Moore- Gilbert.