Custodia attenuata, così si progetta un “carcere” per madri e bambini di Francesco Floris Redattore Sociale, 2 dicembre 2019 Parla l’architetto Cesare Burdese, che dal 1986 si occupa di edilizia penitenziaria e ha progettato l’Icam di Torino. “Le inferriate non devono impedire la fuga ma proteggere donne e bimbi dal gettarsi”. Gli spazi? “Giorno e notte su due piani. Cambiare stanza permette una quotidianità detentiva”. “Le telecamere ci sono, tante, e le esigenze di sicurezza sono garantite. Ma quando ho dovuto disegnare la figura dell’inferriata ho scelto di scostarmi da quella tradizionale carceraria, per progettarne una che avesse una funzione primaria differente: non impedire la fuga, l’evasione, ma proteggere la mamma dal buttarsi dalla finestra o dal gettare il bambino”. Cesare Burdese, architetto piemontese, classe 1952, da 32 anni si occupa di edilizia penitenziaria e del rapporto città-carcere per conto del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). Ha progettato l’Istituto di custodia attenuata per madri detenute (Icam) di Torino, il secondo in Italia dopo Venezia, a seguito della legge 62 del 2011 che ha istituito le nuove strutture. “A Torino ho trasformando gli ex balconi in logge, usando temi metallici che si adoperano nelle normali abitazioni e che hanno la funzione di fare da frangisole, senza negare la visibilità, e che d’estate danno un senso di freschezza: sono soluzioni ampiamente utilizzate nell’edilizia civile. Quelle reti in simil-tessuto non le percepisci come gabbia o inferriate”. Nella sua lunga carriera, Burdese si è occupato di diversi istituti penitenziari italiani. Ha elaborato le linee guida per il nuovo carcere di Bolzano. Sono suoi gli “Spazi gialli”, dove i figli incontrano i genitori detenuti, voluti e gestiti dalla Onlus Bambini senza sbarre che da 14 anni si occupa dei bambini con i genitori in carcere. Burdese ha curato la riorganizzazione dell’istituto penale per minorenni di Torino, lavorato sulle aree verdi destinate agli incontri nella casa circondariale di Vercelli e sul “Giardino delle visite” in quella del capoluogo piemontese. Un’esperienza maturata sin dal 1986, che lo ha infine portato ad essere membro, nel 2013, della Commissione Palma per la riorganizzazione penitenziaria e una “nuova quotidianità detentiva”, oltre a essere stato l’unico architetto a sedersi al tavolo “Architettura e Carcere - Gli spazi della pena” degli Stati generali dell’esecuzione penale. Di queste ultime due esperienze parla con rammarico: “Ho vissuto i recenti fallimenti che hanno caratterizzato nel nostro paese in questi ultimi anni lo scenario architettonico penitenziario. I bambini continuano da innocenti a scontare la galera - scrive Burdese - in ambienti inadatti a loro e alle loro mamme, disumani e inadeguati, salvo rarissime eccezioni. La cosa che più sconcerta è che non si intravedono all’orizzonte, da parte di chi ne ha la responsabilità istituzionale, per la questione delle mamme detenute con i loro bambini, segnali di una programmazione certa fatta di strategie edificatorie, progetti architettonici, risorse economiche utilizzabili, auspicabilmente alternativa al carcere”. Ma come si progetta un carcere che non deve sembrare un carcere, per mamme e bambini? La parola d’ordine è “trasformare le parole in muri in maniera coerente - risponde Burdese: la pena non deve consistere in metodi disumani. Ma che cosa significa questo in termini spaziali? Cosa vuol dire un carcere umano?”. “Quando è uscita la legge 62 sugli Icam ho affrontato la progettazione di quello torinese chiedendo al Dipartimento quali fossero i requisiti spaziali che deve avere un Icam - spiega l’architetto. Nessuno ne aveva idea, mancavano riferimenti codificati e il committente sapeva solo che quello è un istituto a custodia attenuata”. E allora Burdese è partito dal concetto di “ambiente domestico”, dal punto fermo che “bisogna creare una casa, non ingentilire una sezione femminile”, mutuando prassi dall’edilizia civile e trasportandole su quella penitenziaria. “Voi in casa mettete i cartelli con scritto ‘bagno’, ‘cucina’?” si chiede l’architetto, ma anche con un po’ di polemica, perché “l’ho visto fare all’Icam di Venezia e anche nel nostro di Torino con dei cartelli di carta provvisori che indicavano le stanze prima che li facessi togliere”. Per Burdese a Torino “c’era da progettare una casa che avesse solo alcuni aspetti tipici della connotazione carceraria, come le tante telecamere, funzionali alle esigenze di sicurezza e controllo, ma senza connotazioni ulteriori”. L’Icam di Torino, che è costato 600 mila euro e può ospitare 15 persone, si trova dentro una palazzina di quattro piani, un tempo appartamenti per il personale. “In questi due piani ho concepito la zona notte differente dalla zona giorno. La prima al piano superiore, con piccolo ascensore e sali-scale per disabili, la seconda al piano inferiore con delle zone dedicate ai tappeti morbidi per il gioco dei bambini”. “Le camere da letto non hanno i portoni blindati ma le stesse porte degli appartamenti preesistenti: entri ed esci quando vuoi”. Perché? “Perché così al mattino le donne sono obbligate a non ‘bivaccarè sulle brande, come succede nelle sezioni ‘Nido’ delle carceri che ho visitato” spiega Cesare Burdese. Gli arredi? “Realizzati nella falegnameria del carcere: un letto, un armadio, un tavolo, un fasciatoio e l’Ikea ci ha regalato le culle”. “C’è una quotidianità spaziale e una temporale che vanno di pari passo, perché alle 8 sono in camera al piano superiore a lavarsi, a preparare il bimbo per la giornata, oppure nella lavanderia-stireria che abbiamo ricavato. E poi alle 9 sono in soggiorno, al piano inferiore, per preparare la colazione o dargli il biberon, oppure in alcune sale dove incontrano l’avvocato, lo psicologo, imparano a scrivere, si formano alla professione se ci sono dei progetti all’interno della struttura”. Burdese è netto: “Il cambio di stanze permette di articolare una quotidianità detentiva”. Con un accorgimento: “Una sola cucina di casa, ma con doppia postazione”. Perché? “Per problemi di etnia: lì dentro ci sono soprattutto donne Sinti e dal Maghreb, che potrebbero avere dei problemi culinari che sfociano in rabbie e astio. Con le due postazioni abbiamo risolto il problema alla radice”. Le sale colloquio? “Degli spazi immaginati come un locale da ristoro, con tavolini da bar non avvitati al pavimento e il gazebo all’esterno. D’estate si va all’ombra a parlare sul prato e nel dehors, in un ambiente normalizzato”. “Non mi è stato permesso - aggiunge - ma nel giardino volevo creare una piccola collina dove mettere delle capre a brucare l’erba e stringere un accordo con la facoltà di Agraria che è a quattro passi dall’Icam”. Burdese chiude con una nota dedicata ai bambini. Per lui “al fanciullo bastano i suoi sogni e la sua fantasia, le suggestioni le crea da solo dentro la camera, non serve addobbare le pareti con Pippo, Pluto e Paperino”. Però una cosa l’ha voluta fare: “Sono andato al supermercato a comprare delle tonalità di colore e su ogni perimetro delle finestre delle stanze ce n’è uno diverso: così il bimbo, ogni volta che vuole, può disegnare la sua casa dicendo anche ai compagni di scuola che quella verde, rossa o gialla è la sua finestra. È l’unica ‘protesi’ che ho dato ai bambini: devono poter essere orgogliosi di dire ‘la mia finestra è quella’“. Prescrizione, penalisti in sciopero da oggi a venerdì di Erilberto Rosso Il Riformista, 2 dicembre 2019 Le ragioni del perché la prescrizione debba continuare ad operare nel nostro sistema sono connaturate ad una concezione del diritto penale liberale. La prescrizione chiama in causa la funzione della pena o per meglio dire la sua concezione finalisticamente orientata anche alla riabilitazione e al reinserimento sociale del reo; è comunque espressione dell’inviolabilità del diritto di difesa avendo a che fare con i ricordi e con la possibilità delle ricostruzioni alternative del fatto, è infine presidio a che una abnorme dilatazione del procedimento prima e del processo dopo, non porti a decisioni in un tempo nel quale l’interesse alla punizione non appartiene più alla comunità. Ovviamente il momento oltre il quale il processo è deprivato del suo significato sociale muta a seconda della gravità del reato, parametro che definisce l’intensità dell’interesse pubblico alla punizione. Queste sono le idee che appartengono alla comunità dei giuristi, in questi mesi mobilitata contro la legge Bonafede che dal 1 gennaio 2020 abroga la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione. Lo scenario che si prospetta è quello del processo infinito e dell’imputato costretto in questa sua condizione per un tempo indefinito della sua esistenza. I detrattori di questa cultura giuridica semplicemente praticano una idea vendicativa del diritto penale per la quale al castigo non vi deve essere scampo e solo la pena detentiva è equa riparazione alla lesione del patto sociale. Costoro, con enfasi, da un lato propinano ricostruzioni secondo le quali il lavoro di Pubblici Ministeri e Giudici si rivela inutile a causa della prescrizione, dall’altro sostengono come non ci siano ragioni di allarme per l’entrata a regime della nuova disciplina poiché la stessa opererà in concreto tra diversi anni, essendo applicabile solo a fatti e procedimenti successivi alla data di operatività della nuova norma. L’assunto è palesemente contraddittorio e comunque sono falsi entrambi i postulati. I processi definiti con sentenza di prescrizione sono in diminuzione, la causa si concentra nel lungo tempo delle investigazioni e dei tempi morti tra una fase processuale e l’altra a riprova del fatto che l’incongruenza sta, per tante ragioni, alcune complesse altre meno, nel troppo tempo utilizzato per giungere all’eventuale esercizio dell’azione penale. L’abolizione della prescrizione dopo il primo grado farà si che da subito - non fra anni - i tempi di investigazione e i calendari di celebrazione dei nuovi processi si spalmeranno sul lungo tempo a disposizione per il primo grado con il risultato che la durata dei processi diverrà abnormemente irragionevole. Contro la legge Bonafede da lunedì l’avvocatura penale si asterrà dall’attività di udienza per una settimana. È una forma di protesta dura che bloccherà i tribunali italiani - durante la quale comunque la prescrizione sarà sospesa fino alla data delle nuove udienze - per chiedere al Parlamento una decisione semplice: abrogate quella norma e ripristinate così la legalità costituzionale. In quegli stessi giorni terremo una “maratona oratoria”, un microfono aperto a Roma in piazza Cavour dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. Prenderanno la parola centinaia e centinaia di avvocati che dalla mattina fino a tarda sera esprimeranno le ragioni della nostra protesta, diranno delle proposte che l’avvocatura ha formulato, anche nelle consultazioni indette dal Ministro Bonafede, per nuove regole, condivise da tutti gli operatori, in grado di incidere sulla durata dei processi al contempo salvaguardando e rafforzando le garanzie difensive. Senza la riforma dei tempi del processo la nuova disciplina avrà l’effetto di “una bomba atomica”, più semplicemente manderà in tilt il sistema. Al realismo di questa constatazione si oppongono indisponibilità anche da parte di forze politiche che hanno votato contro la legge Bonafede ma che oggi, al Governo, non esprimono la determinazione necessaria al suo superamento. Chi vuole mantenere ferma l’abolizione della prescrizione solletica la pancia dell’opinione pubblica con esempi eclatanti. L’ultimo caso è quello della sentenza della Corte di Appello di Firenze che ha preso atto dell’intervenuta prescrizione di una delle imputazioni per le quali vi era stata condanna in primo grado a carico di due imputati per un drammatico fatto occorso nel 2010 in Spagna. Non si indaga l’eccezionalità del caso che ha previsto necessariamente rogatorie e altre attività, le quali hanno eccezionalmente dilatato i tempi dell’investigazione; non si spiega poi che se la data dell’accadimento fosse stata successiva, il reato non si sarebbe oggi prescritto per gli interventi che si sono succeduti fino alla legge Orlando del 2017, che prevede un recupero dei tempi dei diversi gradi del giudizio. È disciplina che non abbiamo condiviso per l’eccessiva dilatazione, peraltro indistinta, del tempo atto ad estinguere il reato e che necessiterebbe essa stessa di ulteriori regole di assestamento. Quel che è certo è che senza dover ricorrere a norme sciagurate e contrarie alla civiltà giuridica, l’ordinamento già oggi prevede tempi congrui entro i quali è possibile definire le vicende giudiziarie. Prescrizione. I magistrati: “Sì convinto a stop dopo primo grado con riforma strutturale” Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2019 Due giorni di discussioni su i tanti aspetti della giustizia da riformare proprio nei giorni in cui nel governo il tema dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione è ritornato prepotente. L’Associazione nazionale magistrati, riunita a Genova, ha rilasciato in documento per chiarire delle toghe. Due giorni di discussioni su i tanti aspetti della giustizia da riformare proprio nei giorni in cui nel governo il tema dell’entrata in vigore della riforma della prescrizione è ritornato prepotente. L’Associazione nazionale magistrati, riunita a Genova, ha rilasciato in documento in cui chiede di fermare gli attacchi alle iniziative dei magistrati, ma soprattutto ricorda il sì convinto allo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che ancora non mette d’accordo M5S e Pd. Nel documento anche la richiesta esplicita di essere coinvolti nella riforma elettorale del Consiglio superiori della magistratura l’organo di autogoverno dei magistrati che, dopo lo “scandalo” delle nomine della scorsa estate, deve a sua volta voltare pagina: deve arginare le “degenerazioni correntizie” e non essere considerato più dai magistrati e dagli stessi consiglieri un “comitato” per le carriere delle toghe, ma “un insostituibile organo di garanzia”, con regole certe che rendano le sue decisioni “trasparenti” e non “arbitri”. Il documento dei magistrati contiene anche un richiamo alla centralità dell’”etica” per i magistrati, che non devono ricercare “il consenso”, né la “visibilità personale”. Prescrizione, Bonafede: “Siamo tutti d’accordo ma in stallo. Asse Pd-Fi? Spero non accada”. Da lunedì gli avvocati in sciopero per 5 giorni. L’allarme sulla “ricorrente tentazione da parte di esponenti politici di dolersi di iniziative o decisioni giudiziarie” e di bollarli come “attacchi politici”, non è di maniera. Vale per tutti, ma in questi giorni in particolare per Matteo Renzi, che continua a parlare contro i magistrati che stanno indagando sulla fondazione Open, auspicando che l’Italia non diventi “un Paese del Sud America”. “I magistrati nell’adottare le loro decisioni applicano, interpretandola, la legge e sono guidati dai principi dettati dalla Costituzione e delle Fonti sovranazionali. Non accettarlo significa mettere pericolosamente in discussione l’assetto di una democrazia liberale”, avverte il sindacato delle toghe. La parte politica del documento è anche l’occasione per chiarire la linea sulla riforma della giustizia e sullo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. All’inaugurazione del Congresso il presidente Luca Poniz aveva parlato del rischio di “squilibri” se la riforma non fosse stata accompagnata da un insieme di interventi strutturali. Il testo approvato alla fine dei tre giorni di lavori sembra spazzare tutti i dubbi: “L’Anm ha chiesto da sempre l’interruzione della prescrizione con la sentenza di condanna di primo grado, per restituire al processo la sua piena efficacia. Lo abbiamo proposto noi stessi anche di recente, e sul punto non abbiamo e non avremo ripensamenti”. Resta comunque “indispensabile” la riforma strutturale del processo penale. Sulla legge elettorale del Csm, l’Anm accoglie positivamente il superamento del sorteggio, annunciato dal ministro Bonafede sabato al congresso, per i suoi “evidenti profili di incostituzionalità”. Ma va comunque cambiato l’attuale sistema, che ha alimentato “gli aspetti deteriori del correntismo”, e l’Anm chiede di poter dare il proprio “consapevole contributo”. Ampio spazio all’autocritica, dopo lo scandalo delle nomine. “È necessario abbandonare del tutto l’idea che l’Associazione sia un luogo di potere, dove acquisire e consolidare consenso e magari prepararsi per la scalata al Consiglio Superiore della Magistratura o verso altri incarichi”. Prescrizione. Caiazza (Ucpi): “Saldatura inquietante tra i 5 Stelle e le toghe” di Luca Fazzo Il Giornale, 2 dicembre 2019 Il presidente dell’Unione camere penali “C’è un impazzimento giustizialista”. Cinque giorni ininterrotti di ragionamenti, di esempi, di fatti, di numeri: è la “maratona oratoria” con cui da oggi a venerdì, in piazza Cavour a Roma, i penalisti di tutta Italia racconteranno come la abolizione della prescrizione, in vigore dal’1 gennaio, devasterà il sistema giudiziario italiano. Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, è reduce dal congresso genovese dell’Anm. E quello che ha visto non gli è piaciuto affatto. Visto da lontano, l’impressione è di una saldatura tra l’ala grillina del governo e il partito delle toghe... “Purtroppo è esattamente quanto sta accadendo. La saldatura è sotto gli occhi di tutti. Ed è resa possibile da una svolta profonda da parte dell’Anm. La modifica della prescrizione i magistrati la chiedono da tempo, ma fino a ieri la accompagnavano a misure di riforma dei processi. Basta leggere le dichiarazioni dell’ex presidente Anm, Minisci. Con la nuova presidenza Poniz il cambio di accenti era evidente, si parlava solo della prescrizione. E alla fine si è arrivati ai fatti di Genova”. Cioè? “Quello che è successo al congresso dell’Anm è evidentissimo. Il ministro Bonafede si è presentato annunciando che ritirava l’idea di eleggere il Csm per sorteggio, e i magistrati gli hanno risposto eliminando ogni riserva sulla sua riforma della prescrizione. Tutto qui”. In questo scambio di favori tra grillini e magistrati, il Pd che fine fa? “Ce lo chiediamo anche noi. Con il Pd un dialogo, anche faticoso, era stato avviato. Le ultime dichiarazioni di Andrea Orlando erano positive, perché ritenevano inaccettabile il rifiuto di Bonafede a qualunque intervento sulla riforma. Adesso cosa faranno? Voglio augurarmi che la presa di posizione dell’Anm non determini una mutazione di orientamento del Pd”. Per andare dietro ai magistrati accetteranno questa riforma considerata incostituzionale da tutti i docenti italiani? “Nel giro di una decina di giorni dovremmo capirlo”. Ma se non succede nulla a Capodanno la riforma entra in vigore... “I tempi per intervenire ci sono. C’è un disegno di legge Costa che abrogherebbe la riforma di Bonafede. Il Pd ha avuto atteggiamenti contraddittori, credo che il loro problema fosse non sembrare schiacciati su una proposta che viene da Fi, così alla fine non hanno votato per dare l’urgenza all’iter. Ma la partita non si chiude con l’entrata in vigore della legge, il disegno Costa arriverà in aula e lì si faranno i conti. Italia Viva credo che la pensi come noi”. Intanto, però Pd-M5s si stanno mettendo d’accordo sulla galera per i reati tributari... “Stiamo vivendo un periodo di impazzimento collettivo in cui davanti all’unico dato sicuro, e cioè che i processi in Italia durano troppo, si introducono due riforme che avranno l’effetto di allungare ancora di più questa durata: la riforma della prescrizione consentirà di trascinare un processo in eterno, la norma sui reati tributari intaserà procure e tribunali di un numero incalcolabile di processi. È un impazzimento giustizialista e populista che produce danni enormi. Ma il loro unico obiettivo è andare il 2 gennaio in televisione a dire: abbiamo vinto, abbiamo tolto ai furbi e ai ricchi lo strumento per sottrarsi alla giustizia. Un falso colossale: il 95% dei reati che si prescrivono oggi in Italia sono reati bagatellari”. Prescrizione. Svegliare i sonnambuli d’Italia sulla vergogna del processo senza fine di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 dicembre 2019 La nuova norma sulla prescrizione in vigore tra un mese. Una classe politica responsabile può ancora scegliere tra chi ha a cuore il rispetto delle garanzie e chi persegue invece la cultura della gogna e della vendetta sociale. Un appello. In un paese civile desideroso di togliersi dal collo il cappio letale del giustizialismo grillino le principali energie dei politici responsabili e degli osservatori con la testa sulle spalle dovrebbero essere concentrate nel denunciare uno dei principali scempi con cui dovrà fare i conti la nostra democrazia a partire dal primo gennaio del 2020. Anche questa settimana, con ogni probabilità, verrà egemonizzata dal dibattito surreale intorno alla riforma o alla non riforma del Fondo salva stati, una riforma negoziata dagli stessi irresponsabili leader politici che oggi improvvisamente e spassosamente si ritrovano all’opposizione delle loro stesse politiche, ma se c’è un tema che meriterebbe di essere portato in Parlamento, costi quel che costi, quel tema dovrebbe coincidere con un orrore giuridico approvato lo scorso anno dal Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio e dalla Lega di Matteo Salvini. La storia probabilmente la conoscete già: a partire dal primo gennaio del 2020, grazie a una riforma votata in questa legislatura dalla ex maggioranza gialloverde, scatterà la sospensione della prescrizione “dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”. In altre parole, grazie a un punto della così detta legge “anti corruzione”, tra un mese esatto entrerà in vigore l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che per effetto della riforma non potrà più maturare nei giudizi di Appello e di Cassazione. In un paese civile desideroso di togliersi dal collo il cappio letale del giustizialismo grillino il tema della fine della prescrizione dovrebbe essere centrale non solo nel dibattito pubblico ma anche nel dibattito giornalistico. Eppure, nonostante qualche timida presa di posizione di qualche parlamentare del Pd e di Italia viva, e nonostante qualche ridicola presa di posizione di qualche esponente della Lega - fare opposizione contro le riforme approvate dal governo di cui si faceva parte per la Lega sta diventando una specie di disciplina olimpica - il dibattito sul dramma della fine della prescrizione è come se non esistesse e tutti coloro che si permettono di notare quanto la fine della prescrizione andrebbe a rafforzare le prerogative di una repubblica fondata sulle procure di solito finiscono per essere descritti come se fossero dei farabutti amici dei criminali. Negli ultimi undici mesi, nessuno dei grandi giornali italiani ha scelto di denunciare con costanza, con coerenza e con orgoglio l’orrore di avere un paese che con grande nonchalance si prepara a vivere nella stagione dei processi infiniti (qualche giorno fa, come notato su Twitter dal nostro Guido Vitiello, un programma de La7 ha ospitato “un dibattito molto civile tra Gianrico Carofiglio che difendeva l’abolizione della prescrizione, Massimo Giannini che esortava i grillini a impuntarsi contro la prescrizione, e poi Marco Travaglio: quasi quasi - ha scritto con perfetto cinismo Vitiello - mi metto al 41bis da solo nel cesso di casa e butto la chiave”). Eppure gli argomenti per indignarsi sarebbero infiniti e sono quelli perfettamente sintetizzati dall’Unione delle camere penali, da oggi saggiamente in sciopero fino al prossimo 6 dicembre per ragioni giuste. Perché non si può accettare come se nulla fosse un’aggressione allo stato di diritto capace di trasformare ogni imputato in un presunto colpevole a vita (se i processi possono non finire più, togliere la prescrizione non può che avere l’effetto di trasformare ogni processo in una persecuzione). Perché non si può accettare il fatto che venga stravolto il principio costituzionale del giusto processo eliminando un limite entro il quale deve intervenire la definitiva risposta di giustizia e senza il quale la macchina giudiziaria piuttosto che diventare più efficiente diventerà inevitabilmente più inefficiente (“la prescrizione nel nostro ordinamento - dice l’Unione camere penali - è indissolubilmente legata ai princìpi di presunzione di innocenza e di inviolabilità del diritto di difesa”). Perché non si può accettare il fatto che l’eliminazione della prescrizione offra ai magistrati ulteriori strumenti per utilizzare con sempre maggiore discrezionalità i propri strumenti di persecuzione giudiziaria (con i processi che durano all’infinito, i magistrati desiderosi di occuparsi solo di indagini ad alto impatto mediatico avranno una buona scusa per mettere da parte indagini meno appetitose e meno notiziabili: tanto quelle non scadono mai, no?). La battaglia attorno alla disciplina della prescrizione è una battaglia tra due concezioni diverse e opposte dello stato di diritto. Da una parte vi è chi ha a cuore la cultura delle garanzie e il rispetto del giusto processo. Dall’altra parte vi è chi ha cuore la cultura della gogna e chi affida alla giustizia il compito di portare avanti una missione finalizzata a fare del processo uno strumento utile a imporre un’idea malata di vendetta sociale (i sostenitori della necessità di abolire la prescrizione sostengono che con la prescrizione in troppi oggi la fanno franca, ma dimenticano di ricordare che nel 70 per cento dei casi la prescrizione interviene prima della sentenza di primo grado e che la responsabilità dei processi lenti è da attribuire più alla giustizia lenta che all’avvocato spregiudicato). Una classe dirigente con la testa sulle spalle dovrebbe fare della battaglia contro la fine della prescrizione un punto d’orgoglio. Una classe politica con la testa sulle spalle dovrebbe trasformare la battaglia contro la fine della prescrizione in un atto concreto per compiere una mossa difficile ma possibile: portare in Parlamento una norma capace di abrogare l’articolo della legge che fa entrare in vigore la riforma che abolisce la prescrizione dal primo gennaio. E se la scelta dovesse essere tra salvare il governo e salvare lo stato di diritto, la scelta non dovrebbe essere 15, così difficile. Basta sciocchezze: è il momento di svegliarsi. Pene pecuniarie: riscosse solo il 3%. Sei miliardi di euro che l’Italia regala ai condannati di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 2 dicembre 2019 Lo spacciatore di droga oltre a rischiare fino a 20 anni di carcere può essere condannato anche a pagare una sanzione massima di 260 mila euro. Per molti reati considerati minori - come l’abuso edilizio, piccoli furti, guida in stato di ebrezza, mancato versamento dei contributi Inps, contrabbando ecc. - la pena di solito viene trasformata in una multa o un’ammenda. Nel 2018, le condanne a pene pecuniarie sono state 66.949 (il 25% delle condanne complessive), per un totale di 973 milioni di euro. Quanto è riuscito ad incassare lo Stato? 14,5 milioni di euro. Nei primi dieci mesi del 2019 le pene pecuniarie ammontavano a 1,6 miliardi. Riscossi: 5 milioni. Dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia, dal 2012 ad oggi la somma complessiva è di 6,9 miliardi. I soldi recuperati non arrivano a 196 milioni, poco più del 3%. Com’è possibile? Il meccanismo di riscossione - La macchina della riscossione si attiva alla fine del percorso giudiziario: da quando viene commesso il fatto alla condanna definitiva passano mediamente 7/8 anni. La pena è stabilita dalla legge ed è uguale per tutti: se il reato prevede 50.000 euro di multa, 50.000 restano, indipendentemente dal fatto che il condannato abbia un reddito o sia un indigente. La procedura è lunga, e ogni passaggio ha lo stesso costo, sia per incassare una multa da 30 euro che da 30.000. Per cercare di migliorare un sistema che arranca da sempre, dal 2010 la quantificazione, l’iscrizione a ruolo e la riscossione dei crediti di giustizia a favore dell’Erario è passata dalle cancellerie dei tribunali nelle mani di Equitalia Giustizia (società al 100% pubblica). A sua volta Equitalia Giustizia invia le cartelle all’Agenzia delle Entrate, che deve procedere alla riscossione con l’invio delle raccomandate. A quel punto, il destinatario della cartella, che magari a suo tempo i soldi per pagare li aveva, se li è spesi, o si è liberato dei suoi beni, mentre chi era nullatenente, tale è rimasto. Il 97% non paga - Per fare le verifiche sul patrimonio e il reddito reale serve l’intervento della Guardia di Finanza con indagini approfondite e dispendiose. Alla fine il 97% non paga, e per recuperare quel 3%, si è speso il doppio. Il caso italiano è così grave da essere entrato nei manuali di diritto. I giuristi della Statale di Milano Emilio Dolcini e Giorgio Marinucci hanno più volte sottolineato: “Le pene pecuniarie non vengono né eseguite, né convertite. Le statistiche evidenziano un grave stato di ineffettività della pena”. Eppure sarebbe da promuovere come alternativa alla detenzione per una serie di reati di media entità, visto che il 70% di chi sconta la pena in carcere torna a delinquere, oltre al sovraffollamento delle strutture (10 mila detenuti in più). Missione impossibile, perché di fatto la pena pecuniaria si trasforma in impunità. Il modello tedesco - Su questo tema, il Paese che viene preso a modello dal resto d’Europa, è la Germania, dove la pena pecuniaria supera l’80% del totale delle condanne e il tasso di riscossione si aggira intorno al 90% dei casi. Il tagessatzsystem tedesco ruota intorno a due pilastri: il giudice stabilisce, a seconda del tipo di reato, i giorni di pena da infliggere (si chiamano tassi giornalieri), e in quanti giorni il condannato deve pagare, da un minimo di 90 ad un massimo di 360 giorni. Poi, in proporzione alla capacità reddituale, viene fissata la rata da versare. In sostanza ti chiedo di pagare in base alle tue possibilità, dopodiché se non saldi il conto, rischi il carcere o in alternativa il lavoro di pubblica utilità (non retribuito). Si chiama principio di realtà. In Italia sarebbe inapplicabile sia per profili di incostituzionalità, che per l’inefficienza generale del sistema giudiziario. Le nuove norme: di male in peggio - E quindi come si argina il problema? La legge dice che in caso di mancata riscossione, e dopo aver tentato in tutti i modi di riscuotere la somma (anche attraverso pignoramenti), su richiesta del pm, il magistrato di sorveglianza può convertire la somma in libertà controllata, ovvero “l’insolvente” deve presentarsi una volta al giorno a firmare dai carabinieri, viene sospesa la patente di guida e poco altro. Il criterio: un giorno di libertà controllata ogni 250 euro da versare (per un massimo di 18 mesi). Con la legge di Bilancio 2018 il Governo prende atto che Equitalia Giustizia riscuote ben poco, e cambia le regole. Obbliga chi non paga il dovuto a svolgere lavori socialmente utili? Sarebbe di grande aiuto alla collettività per esempio ripulire gli argini dei fiumi. Nulla di tutto questo, il nuovo articolo del Testo unico in materia di spese di giustizia all’articolo 238 bis dice: “L’ufficio investe, altresì, il pubblico ministero se, decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell’agente della riscossione, non risulti esperita alcuna attività esecutiva”. In sostanza, l’agente di riscossione può anche astenersi dallo svolgere qualunque attività di recupero del credito, e dopo due anni la pratica arriva automaticamente al magistrato di sorveglianza, al quale non resta altro da fare che trasformare il debito con lo Stato in libertà controllata. Vuol dire che se la pena è di 2.500 euro, basta che ti presenti per 10 giorni dai carabinieri a firmare e la cosa finisce lì. Risultato: nei primi dieci mesi del 2019 le somme riscosse sono precipitate dal 3% (dato medio degli ultimi 6 anni) allo 0,3%. Falliti i tentativi di invertire la rotta - Ogni tentativo di modificare il sistema è caduto nel vuoto, a partire dalla proposta di appaltare tutto ad una banca specializzata nel recupero crediti, la quale può, in quanto soggetto privato, selezionare il credito recuperabile da quello irrecuperabile. Un’ipotesi sollevata nel 2013 dal ministero della Giustizia allora guidato da Paola Severino, che aveva costruito la possibilità di affidare a gara pubblica i crediti partendo dalle sentenze passate in giudicato, saltando così tutte le trafile successive. I vantaggi: annullare le spese di recupero a monte e monetizzare subito denaro da reinvestire nel sistema giudiziario (per miglioramenti tecnologici e strutturali, nonché per programmare nuove assunzioni di magistrati e personale amministrativo). Sarebbe stato anche un valido deterrente per tutti quei condannati che trovano la strada per sottrarsi ai propri obblighi grazie all’inefficienza del sistema. C’erano i margini per una verifica sul campo, con un progetto sperimentale che prevedeva una convenzione tra il Tribunale di Milano e Unicredit Credit Management Bank che offriva il 25/30%. Certo per fare questo ci voleva un riforma legislativa, ma il progetto si incagliò nei dipartimenti del Ministero dell’Economia. Le ragioni non sono difficili da intuire: meglio non privarsi di 6 miliardi da mettere in bilancio fra le partite attive, pur sapendo che quei soldi non li incasserai mai. Se lo facesse una società privata finirebbe a processo per falso in bilancio. Csm, sorteggio addio. Bonafede ai magistrati: “Ballottaggi in piccoli collegi” Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2019 Il Guardasigilli, che nei giorni scorsi aveva detto che non si impuntava sul meccanismo, al congresso dell’Anm spiega il sistema pensato “rende un po’ più complicata la possibilità di quelle degenerazioni”. In piena estate sembrava l’unica via e fino alla fine settembre l’ipotesi di sorteggiare i componenti del Consiglio superiore della magistratura sembrava “una scelta difficile da accettare”, ma che andava fatta “per estirpare le degenerazioni correntizie”. Erano i giorni incandescenti dello scandalo sulle nomine ai vertici degli uffici giudiziari con la pubblicazione di intercettazioni che dimostravano tutte le manovre per piazzare i candidati graditi nelle procure. Nelle ultime settimane la posizione del ministro della Giustizia è cambiata. Alfonso Bonafede, di fronte al muro innalzato dalla Associazione nazionale magistrati che ventilava l’incostituzionalità della modalità del sorteggio, aveva sempre dichiarato di essere comunque aperto al dialogo e al confronto, tanto che un mese fa in audizione alla commissione Giustizia della Camera sulle linee programmatiche del suo il Guardasigilli aveva detto: “Non mi impunto su un sistema elettorale rispetto all’altro” ma quel che è certo è che “va blindata l’indipendenza del Csm”. Oggi proprio di fronte a una platea di toghe, riunite in congresso a Genova, il ministro sembra aver guardato oltre quella modalità: “Non voglio sbilanciarmi, ma molto probabilmente nel nuovo sistema elettorale del Csm non ci sarà alcun meccanismo di sorteggio”. Un’affermazione che è arrivata per rispondere al vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura David Ermini, che aveva bocciato il meccanismo del sorteggio. E precisa che per l’elezione dei togati del Csm “l’idea è quella di un ballottaggio in piccoli collegi”. “Ci sono sistemi elettorali che meglio del sorteggio possono eliminare la possibilità di disfunzioni del sistema elettorale nel Csm” ed è “l’idea sul piatto che vedo crescere: è quella per esempio del ballottaggio in collegi piccoli tra i magistrati che ottengono più voti. Il ballottaggio - ha concluso - rende un po’ più complicata la possibilità di quelle degenerazioni che purtroppo in passato abbiamo visto”. L’Anm ha sempre osteggiato la riforma per le elezioni dei componenti dell’organo di autocontrollo. Riforma, che dopo il disvelamento di vere e proprie trame e complotti, sembrava più che necessaria. Secondo Ermini però il rinnovamento del sistema “deve avvenire senza finalità punitiva e salvaguardando la dignità e l’autorevolezza di un organo di rilievo costituzionale qual è il Csm. Personalmente, eviterei interventi come il sorteggio tra i togati per l’individuazione dei candidabili, un meccanismo cabalistico che deresponsabilizza e ha in sé evidente il tratto della sfiducia nei confronti dei magistrati, e come quello che innalza a perentoria incandidabilità la mera incompatibilità prevista oggi per i membri del Parlamento e dei Consigli regionali”. Questi, ha concluso Ermini “sono interventi che, oltre a suscitare dubbi di legittimità costituzionale, contrasterebbero con il fondamentale interesse di favorire l’accesso degli esponenti maggiormente dotati, sul piano scientifico e culturale, della magistratura, dell’accademia e del foro”. E facendo riferimento alla vicenda di Luca Palamara, Ermini sottolinea che segna un punto di non ritorno. “Quanto accaduto nei mesi scorsi indica un crinale dell’irreversibilità e richiede una vera e propria cesura con il passato e un deciso passo indietro. Le parole del Capo dello Stato pronunciate in plenum il 26 giugno suonano da imperativo per tutti noi”. Mattarella, in merito all’inchiesta di Perugia che ha rivelato gli scandali che hanno travolto il mondo delle toghe, aveva espresso infatti “grande preoccupazione per il coacervo di manovre nascoste”, definendo quanto emerso un “quadro sconcertante e inaccettabile” che ha “minato l’autorevolezza” dei magistrati. Evasori e carcere, Confindustria attacca il governo di Andrea Ducci Corriere della Sera, 2 dicembre 2019 Il via libera al decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio richiede una maratona notturna. In tarda serata viene convocato un vertice di maggioranza per consentire l’approvazione, in commissione Finanze a Montecitorio, del testo finale atteso in aula già oggi, a seguire il voto di fiducia del governo calendarizzato per domani. Il tema più controverso nelle ultime ore ha riguardato le modifiche introdotte all’articolo 39 del testo e l’inasprimento del decreto 231, stabilendo di estendere l’ambito applicativo ai reati tributari. Lo stallo si è registrato sul carcere per i gradi evasori, con il raggiungimento di un’intesa su un emendamento, che pur prevedendo un innalzamento delle pene, ne attenua l’effetto nel caso di reati occasionali, commessi cioè senza una chiara intenzione di frodare il fisco. La via di uscita per il via libera al decreto viene discussa durante la notte, con la riformulazione delle ultime modifiche per mano del governo. Salvaguardando così gli equilibri tra M5S, che chiedeva un secco giro di vite contro chi non paga le tasse, e Italia Viva, fermamente orientata a non inasprire le pene esistenti. Tra le correzioni inserite figura, per esempio, la scelta di mitigare gli effetti della confisca per sproporzione. Una misura che consente di aggredire beni, che un condannato non potrebbe permettersi in virtù del reddito dichiarato, solo in caso di evasione da 100 mila euro in su. Il quadro di inasprimento delle pene, la revisione delle soglie di punibilità, e l’ estensione del decreto 231 sulle responsabilità degli amministratori allarmano soprattutto Confindustria. Il pacchetto di interventi, rivendicato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, secondo l’Associazione di Viale dell’Astronomia denota più che altro un “approccio iper repressivo”. “Non è certamente questo proliferare di interventi penali, volti a criminalizzare il mondo dell’impresa, il modo corretto per combattere l’evasione e far crescere l’economia del Paese. Preoccupa - lamenta Confindustria - il continuo ampliamento della sfera penale ai fatti economici”. Polemiche e scontri a parte, va ricordato che il decreto fiscale fornisce un contributo di 6,4 miliardi alla manovra del 2020. Oltre alle voci relative alle nuove misure contro l’evasione (stretta sul contante, detrazioni tracciabili, riduzione delle compensazioni dei crediti fiscali e previdenziali) buona parte delle risorse (3 miliardi euro) necessarie a fare quadrare i conti pubblici arriveranno grazie allo slittamento al 2020 del pagamento delle tasse 2019 di lavoratori autonomi e forfettari. Le misure per contrastare le frodi sui carburanti e le compensazioni portano in dote altri 2,4 miliardi. Caso Yara, Bossetti spera: si può ripetere il test del dna di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 dicembre 2019 Denuncia per frode processuale. Lo scatolone è di cartone bianco e un po’ malandato. Porta la scritta “plico 3” e la sigla TI_00205. Sull’esame, anzi il riesame, del suo contenuto poggiano oggi le speranze di Massimo Bossetti, il muratore bergamasco condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un pool di tecnici, avvocati, genetisti, informatici, docenti universitari, persone capaci di coltivare il “ragionevole dubbio” anche in presenza di una sentenza di condanna, si è messo spontaneamente a disposizione della famiglia per nuove perizie sui reperti che languivano sugli scaffali dove venivano conservati gli oggetti corpo di reato della procura della repubblica di Bergamo. Non si sa chi abbia fatto la richiesta, se Bossetti in persona o la moglie Marita Comi, visto che l’avvocato Salvagni, difensore storico dell’ergastolano, dice di non saperne niente. Lo scatolone è stato presentato giovedì scorso nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, la stessa, condotta da Marco Oliva, in cui un mese fa il professor Taormina aveva annunciato di aver presentato un’istanza alla procura generale di Brescia perché verificasse se all’ospedale san Raffaele di Milano esisteva ancora materiale genetico di Yara, come affermato in aula dal professor Giorgio Casari, consulente della procura di Bergamo. Il particolare non è secondario, perché la difesa di Bossetti nel corso dei processi aveva ripetutamente chiesto che fosse ripetuto l’esame del dna, l’unica prova su cui l’imputato è stato condannato, ma le era sempre stato risposto che non c’era più materiale disponibile. Un falso, evidentemente, che risulta anche scritto nella sentenza. Ma nei giorni scorsi il professor Casari, intervistato dal giornalista Giangavino Sulas per il settimanale Oggi, ha confermato che il materiale genetico esiste ancora. Ha anche aggiunto che (si presume in seguito all’istanza del professor Taormina) gli stessi magistrati ne hanno richiesto la consegna. “Stiamo restituendo le rimanenze alla procura di Bergamo” ha annunciato, aggiungendo che è meglio quel materiale vada nelle mani giuste”. Come a dire: si assumano i magistrati le loro responsabilità. Lui ha già dovuto rinunciare, negli anni scorsi, a un’intervista televisiva, proprio dopo la sua deposizione in aula, a causa di interventi “superiori”, proprio dal mondo investigativo. E la corte di cassazione ha dichiarato fuorvianti” le sue dichiarazioni. Comprensibile che un genetista stimato e consulente della procura chiami oggi la magistratura ad assumersi i suoi oneri, dopo tanti onori. C’è un accanimento incredibile contro chiunque osi mettere in dubbio quel processo e quella sentenza ripetuta ormai per tre volte. Ma stranamente, benché Massimo Bossetti non sia certo una persona potente capace di muovere intorno a sé il mondo intero, è incredibile anche quante siano ormai le persone che hanno dubbi sulla sua colpevolezza. Nel corso di questi anni si sono formati comitati e gruppi di suoi sostenitori che operano al di fuori della stretta difesa nel processo. Soprattutto perché emerge sempre più quanto quel processo costoso (sono stati spesi 6 milioni di euro solo per gli esami del dna, cui sono state sottoposte tutte le persone di un’intera valle) non abbia portato a nessuna prova né sul movente né sulla dinamica dei fatti. C’è solo la prova del dna, quasi la giustizia abbia abdicato in favore della scienza. Ma oggi, con il riesame dei reperti (in particolare computer e cellulare) che furono sequestrati a Bossetti e su cui si è a lungo favoleggiato su particolari che in seguito sono evaporati, e con la certezza che nella sentenza c’è scritto il falso sulla disponibilità di materiale genetico su cui rifare l’esame del dna, si apre più di uno spiraglio, forse un portone, per arrivare alla revisione del processo. Omicidio stradale: le concause che fanno diminuire le sanzioni di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2019 La legge 41 del 2016 sull’omicidio e le lesioni personali stradali ha attribuito un ruolo cruciale al concorso di cause negli incidenti con morti o feriti gravi. Infatti le nuove pene edittali - comprese quelle previste per l’uso di droghe e l’abuso grave di alcol o - possono essere dimezzate in presenza di una concausa di qualunque origine e natura, tanto da consentire al giudice di applicare sanzioni quasi identiche a quelle previste prima del 2016. Inoltre, se la condotta dell’interessato ha avuto un’efficacia del tutto marginale nell’incidente, la pena può scendere ancora, perché in questo caso non scatta il “blocco” delle attenuanti previsto nelle ipotesi aggravate di omicidio e lesioni stradali. Si tratta di norme cui prestare particolare attenzione, dato che dalla loro applicazione pratica può derivare una sanzione mite, senza revoca della patente, al posto di una pena detentiva da scontare in carcere, accompagnata dal divieto di guidare fino a 30 anni. Peraltro, sono frequenti gli incidenti causati, o aggravati, da un insieme di disattenzioni spesso banali, e negligenze di vario genere. L’impatto - Sino al 2016 il Codice penale non prevedeva un’attenuante per il concorso di cause negli incidenti stradali. La legge 41 ha introdotto i delitti di omicidio stradale e lesioni stradali gravi e gravissime, caratterizzati da pene detentive molto severe; nel contempo ha previsto - al comma 7 dei nuovi articoli 589-bis e 590-bis del Codice penale - che le pene possano essere diminuite fino alla metà se l’evento non è esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole. L’attenuante non può essere bilanciata con le aggravanti previste dai nuovi reati (abuso di alcol o droghe, condotte di guida particolarmente pericolose, fuga del conducente), perché l’articolo 590-quaterstabilisce che la diminuzione si calcola sulla pena prevista per l’ipotesi aggravata. L’unico caso in cui il giudice può derogare a questa regola è quando ravvisa a carico del reo l’attenuante della minima partecipazione, prevista dall’articolo 114 del Codice penale. Non è una variabile di poco conto: le due attenuanti possono concorrere, determinando - nel contempo - l’inefficacia del “blocco” previsto dall’articolo 590-quater e la diminuzione di pena fino alla metà prevista dal comma 7 degli articoli 589-bis e 590-bis. In pratica, significa che un omicidio stradale aggravato da abuso di alcol o droghe, per cui è prevista una pena minima di 8 anni, può essere punito, nel caso di rito alternativo premiale come il giudizio abbreviato o il patteggiamento, con una pena inferiore a 1 anno di reclusione. La “minima partecipazione” - La linea che distingue la diminuente del concorso di cause da quella della minima partecipazione non è così sottile. La Cassazione, in diverse sentenze, ha spiegato che l’attenuante prevista dall’articolo 114 può scattare solo se il ruolo assunto dal reo ha avuto un’efficacia quasi insignificante nel causare l’evento, cioè tale da poter essere avulsa dalla successione delle condotte che lo hanno determinato senza apprezzabili conseguenze pratiche sul risultato complessivo: ciò la rende incompatibile con le condotte di guida più pericolose, come inversioni di marcia, sorpassi azzardati, attraversamento di intersezioni stradali con semaforo rosso. Paradossalmente, essa può invece convivere con ipotesi di abuso di alcol o droghe non accompagnate da altre trasgressioni del Codice della strada: si pensi a un incidente in cui la responsabilità quasi esclusiva è della vittima (perché ad esempio correva a folle velocità, o contromano), mentre lo stato di ebbrezza del reo, magari di poco superiore del consentito, non ha avuto alcuna reale efficacia causale. Molto più frequenti possono essere i casi di concessione della diminuente speciale del concorso di cause senza che si ponga il problema della minima partecipazione del reo: come ha ricordato di recente la Cassazione (sentenza 13103/2019), la prima attenuante ricorre ogni volta in cui “sia stato accertato un comportamento colposo, anche di minima rilevanza, della vittima o di terzi”. Ciò significa che basta poco per applicare, di fatto, le pene precedenti al 2016. Beni del fallimento, confisca in bilico tra opposte garanzie di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2019 Il giudice penale può sequestrare e poi confiscare un bene che già faccia parte dell’attivo di una procedura fallimentare o più in genere di natura concorsuale? Una questione delicata poiché vede contrapposti l’interesse dello Stato alla confisca rispetto alle pretese dei creditori insinuatisi nel fallimento, su cui la giurisprudenza ha dato risposte diverse e contrastanti. Il Tribunale di Potenza con la decisione del 18 aprile scorso ha revocato in sede di incidente di esecuzione una confisca disposta con una sentenza passata in giudicato quattro anni prima. E lo ha fatto con il conforto di un precedente della Corte di Cassazione. Nella vicenda di cui si sono occupati i giudici lucani, nella sentenza di condanna di un imprenditore per reati tributari, emessa nell’ottobre 2015 e divenuta irrevocabile l’anno successivo, era stata disposta la confisca per equivalente, fino a concorrenza dell’imposta evasa, dei suoi depositi bancari e dei titoli. Alcuni mesi prima della sentenza che disponeva la confisca il Tribunale fallimentare aveva accertato lo stato di insolvenza della ditta individuale facente capo all’imprenditore condannato ed essa era stata sottoposta alla procedura dell’amministrazione straordinaria. Nel 2019 i commissari straordinari si erano rivolti al giudice dell’esecuzione chiedendo la restituzione dei titoli e delle somme di cui ai depositi bancari per farli confluire nella procedura. Il Tribunale di Potenza ha accolto la richiesta evidenziando in sostanza che la confisca non doveva essere disposta con la sentenza, la quale era intervenuta diversi mesi dopo l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria. Secondo il Tribunale, infatti, il presupposto della confisca è che il condannato abbia la disponibilità dei beni. Ma se i beni sono già assoggettati a procedura concorsuale, tale presupposto non può sussistere perché la dichiarazione di insolvenza comporta il venir meno in capo al fallito del potere di disporre del proprio patrimonio e la gestione transita in capo al curatore. Sul punto i giudici potentini richiamano la sentenza 45574/2018 della terza sezione della Cassazione che si era espressa in questi termini. L’orientamento a favore - Non mancano però pronunce opposte. A meno di un anno dopo la sentenza citata dai giudici di Potenza, la quarta sezione della stessa Corte, con la sentenza 7550/2019, non solo ha affermato la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente per reati tributari di somme di denaro appartenenti a società fallita, ma ha ritenuto che tale misura potesse essere adottata anche quando le somme risultavano assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito. Secondo i giudici della quarta sezione i beni del fallito, anche se passano nelle mani del curatore, restano del fallito e sono sequestrabili fino alla materiale consegna ai creditori. Un’interpretazione che riprende i precedenti orientamenti della Cassazione favorevoli alla prevalenza dell’interesse dello Stato alla confisca rispetto alle pretese dei creditori insinuatisi nel fallimento. Quest’orientamento era stato affermato in più occasioni. In primo luogo, per le ipotesi di confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall’articolo 12-bis, comma primo, del Dlgs 74/2000, quando il bene è ricompreso nell’attivo di un concordato preventivo e quindi per l’avvio di questa procedura su di esso vengono fatti valere dei diritti di credito; tuttavia l’obbligatorietà della confisca fa prevalere il vincolo posto dal giudice penale sugli interessi dei creditori (Cassazione 28077/2017). E, a tale prevalenza della misura ablatoria sugli interessi dei creditori si è fatto riferimento anche per la confisca obbligatoria del profitto o del prezzo del reato, prevista dall’articolo 322 ter del Codice penale per i reati contro la pubblica amministrazione (Cassazione 23907/2016). Il Codice della crisi - La questione avrà inoltre diversa soluzione con l’entrata in vigore nell’agosto del 2020 del Codice della crisi, dove si stabilisce all’articolo 318 che, dopo la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, il sequestro preventivo di beni dell’attivo viene revocato su richiesta del curatore. Maltrattamenti in famiglia e atti persecutori: concorso apparente di norme Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2019 Reati contro la persona - Maltrattamenti - Atti persecutori - Configurabilità delle due fattispecie di reato - Concorso apparente di norme - Possibilità. Il reato di maltrattamenti in famiglia è un reato proprio che può essere commesso solo da chi rivesta un ruolo nel contesto familiare (coniuge, genitore, figlio) e soltanto ai danni di un soggetto che faccia parte dell’aggregazione familiare, latu sensu intesa, laddove invece il reato di stalking può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati e non presuppone l’esistenza di relazioni soggettive specifiche tra l’agente e il soggetto passivo del reato. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza del 15 novembre 2019 n. 46476. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - In genere - Cessazione della convivenza - Separazione legale o di fatto dei coniugi - Configurabilità del delitto di atti persecutori - Esclusione - Ragioni. Le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori, in quanto i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che il reato previsto dall’articolo 612-bis del codice penale è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 gennaio 2018 n. 3087. Atti persecutori - Maltrattamenti in famiglia - Differenze. L’oggettività giuridica dei reati di cui agli articoli 572 e 612-bis del Cp è diversa, perché il primo è un reato contro l’assistenza familiare e il secondo è un reato contro la libertà morale, e diversi sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite, ancorché le relative condotte materiali appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Infatti, il reato di atti persecutori può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati e non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche tra l’agente e il soggetto passivo, mentre, al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”), il reato di maltrattamenti familiari si connota come reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un ruolo nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) e soltanto in pregiudizio di un soggetto che faccia parte dell’aggregazione familiare lato sensu intesa. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 19 luglio 2016 n. 30704. Maltrattamenti in famiglia - Stalking - Distinzione tra i due reati. Deve essere escluso il concorso apparente di norme tra il reato di maltrattamenti e lo stalking laddove la condotta persecutoria si realizzi nell’ambito di rapporti previsti dall’articolo 572 del Cp (prevalendo, in tali casi, quest’ultima fattispecie più grave). Il concorso viene, invece, ammesso solo quando vi sia la cessazione del sodalizio familiare e affettivo: sotto questo profilo, ferma l’eventualità di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati, il reato di cui all’articolo 612-bis del Cp diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale (come nell’ipotesi di divorzio). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 20 giugno 2012 n. 24575. Reati contro la famiglia - Delitti contro l’assistenza familiare - Maltrattamenti in famiglia - In genere - Rapporti con il delitto di atti persecutori (cosiddetto “stalking”) - Forma aggravata del reato di cui all’articolo 612-bis, comma secondo, codice penale - Concorso apparente di norme - Possibilità - Limiti - Indicazione - Fattispecie. In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori (articolo 612-bis, codice penale), salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’articolo 612-bis, comma primo, codice penale - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’articolo 612-bis, comma secondo, codice penale) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. (In motivazione, la Suprema corte ha precisato che ciò può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 20 giugno 2012 n. 24575. Udine. Uccise la fidanzata, dopo la sentenza di condanna si impicca nel giardino di casa Il Piccolo, 2 dicembre 2019 Il 38enne Francesco Mazzega si è impiccato nella tarda serata di sabato. L’uomo è stato trovato morto ieri sera nel giardino della sua abitazione, in Friuli, dove era agli arresti domiciliari. Venerdì in appello era stata confermata la condanna a 30 anni. Dopo la sentenza di conferma della pena l’uomo era tornato a casa dei genitori, a Muzzana del Turgnano, agli arresti domiciliari, con il braccialetto elettronico. Sono stati i parenti a trovarlo; hanno chiamato i soccorsi e i sanitari del 118, arrivati subito, e per 40 minuti hanno tentato di rianimarlo. Nadia Orlando, di Vidulis di Dignano (Udine), aveva 21 anni quando fu uccisa a pochi passi da casa la sera del 31 luglio 2017 da Mazzega, che vagò con il cadavere in auto per tutta la notte. La ragazza voleva porre fine alla loro relazione. “Non merito il perdono, ho paura anche a chiederlo vista la gravità di quanto fatto”. È il concetto che Francesco Mazzega aveva espresso venerdì in aula in una dichiarazione spontanea davanti ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Trieste e ai familiari di Nadia Orlando. Mazzega aveva ribadito ancora una volta di non riuscire a capacitarsi di quanto aveva fatto e di non sapere come poteva essere accaduto. Aveva aggiunto di non riuscire nemmeno a sentir pronunciare più il suo nome, associato a un fatto tanto grave. E proprio venerdì la Corte d’Assise d’Appello di Trieste aveva confermato la condanna a 30 anni di reclusione inflitta in primo grado applicando anche la misura di sicurezza di 3 anni di libertà vigilata, una volta espiata la pena. Condanna avverso la quale la difesa di Mazzega aveva annunciato l’intenzione di ricorrere in Cassazione. Nei prossimi giorni i giudici avrebbero dovuto esprimersi sulla richiesta di inasprimento della misura cautelare che avrebbe potuto riportare in carcere Mazzega avanzata dal Procuratore generale Federico Prato. Catania. Lettera di un boss dal carcere: “Giovani, non fate come me: lavorate onestamente” La Repubblica, 2 dicembre 2019 Sebastiano Lo Giudice, 42 anni, esponente della cosca dei “Carateddi”, è all’ergastolo col 41 bis. “Istruitevi, aprite gli occhi e non rovinatevi la vita”. Non prendete esempio da persone come me che si sono rovinati la vita”, “abbandonate la droga e l’alcol e godetevi la vita lavorando onestamente e con dignità”, così “non dovete avere la paura di chi bussa alla vostra porta”. È l’invito ai giovani dei rioni a rischio di Catania che arriva dal boss ergastolano Sebastiano “Iano” Lo Giudice, 42 anni, detenuto da quasi dieci anni in regime di 41 bis nel carcere di Spoleto per associazione mafiosa, estorsioni, traffico di droga e per diversi omicidi commessi tra il 2001 e il 2009. Lo fa con una lettera inviata al suo legale, l’avvocato Salvatore Leotta, fatta pervenire all’Ansa, al quotidiano “La Sicilia” e al sito “Live Sicilia”, e che è passata al vaglio delle autorità competenti prima di essere resa nota. Lo Giudice è un esponente di vertice della cosca dei “Carateddi” legata al clan Cappello-Bonaccorsi che negli anni scorsi ha dato vita a una sanguinosa faida mafiosa contro Cosa nostra capeggiata dalla famiglia Santapaola-Ercolano. Secondo il suo legale “non ha manifestato intenzione di collaborare con la giustizia, ma vuole evitare che altri giovani commettano i suoi stessi gravissimi errori”. “Istruitevi, aprite gli occhi e lasciate perdere i falsi miti”, scrive Lo Giudice, che invita a “dare il giusto valore alla vita” perché poi, osserva, “sarà troppo tardi” e “le sofferenze resteranno soltanto a voi e alle vostre famiglie”. “Ho visto tanti bravi ragazzi - aggiunge - perdersi senza capirne la motivazione e sono certo che, se potessero tornare indietro, non rifarebbero più gli stessi errori”. Quindi, sottolinea, “abbiate la forza di dare una svolta alla vostre vite e non date adito alle millanterie dei quartieri perché prive di fondamento e fine a se stesse”. “Io ho perso la vita, la mia bella gioventù, l’amore dei miei figli e delle persone che mi amano veramente - conclude Lo Giudice - se avrò la possibilità mi godrò i miei nipotini, altrimenti accetterò di morire in carcere come la Giustizia ha deciso, ma vorrei essere curato e scontare la mia pena con la mia dignità, senza avere problemi”. Udine. Un melo in carcere e il sogno di dare dignità ai detenuti di Margherita Terasso Messaggero Veneto, 2 dicembre 2019 “Da intellettuale ed eroe civile, Maurizio Battistutta aveva scelto come luogo del fare il carcere, uno dei più difficili, e nella sua utopia lo aveva trasformato nel luogo da disfare e rifare con un meleto: oggi iniziamo a realizzare il suo sogno”. Massimo Brianese ha introdotto così, ieri, il momento della piantumazione di un melo nel prato all’ingresso del carcere di via Spalato. Un appuntamento emozionante per ricordare l’amico, per 20 anni anima dell’associazione Icaro e Garante Diritti delle persone private delle libertà personali per il Comune di Udine scomparso il 22 febbraio del 2017. “Maurizio sognava un meleto al posto del carcere e, richiamando una lettera di John Ber-ger, si rivolgeva al sindaco per esprimere il bisogno di dedicare più attenzione ai luoghi dimenticati della città - ha detto Roberta Casco, presidente di Icaro. Auspichiamo riforme che mettano al centro i diritti, la persona e la presa di responsabilità, che si punti sulla promozione della legalità e si lavori per una giustizia riparativa”. Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana e autore del libro “Via Spalato” insieme a Casco ha fatto il punto sulla difficile situazione del carcere udinese. “Ha una storia di sofferenze e tragedie -ha detto, sottolineando che risolvere i problemi sociali chiudendo le persone colpevoli di reati dentro un carcere sia un’illusione da superare -. Ma si lavora per migliorare le condizioni della struttura: si realizzerà la sezione di salute mentale, sono stati individuati i fondi per gli spazi dedicati alla semi libertà ed è stata bandita la gara per i lavori di sistemazione della sala convegni”. Ha ribadito la necessità di ristrutturare la casa circondariale anche il sindaco Pietro Fontanini. “I detenuti devono espiare le loro colpe, ma in questo percorso vanno aiutati per ritornare nella società in una posizione collaborativa - ha detto -: l’opinione pubblica è sempre più cattiva e solo cambiando questo atteggiamento si potranno fare passi avanti”. Il primo cittadino ha aggiunto che “si potrebbero piantumare meleti anche, per esempio, nello spazio dell’ex caserma Piave, che verrà demolita”. È intervenuto anche don Pierluigi Di Piazza: “Piantiamo un melo come segno di coinvolgimento in un impegno reale affinché si realizzi il sogno di una vita dignitosa per i detenuti - ha detto. Non possiamo accettare che prevalga la mentalità vendicativa del “fateli marcire in carcere e buttiamo via la chiave”“. Presenti, tra gli altri, Irene Iannucci, fino a poche settimane fa direttrice del carcere udinese, Roberto Fraticci, responsabile dell’area educativa, e Natascia Marzinotto, Garante dei detenuti. Catanzaro. “La vita oltre le sbarre”, il carcere agli occhi degli studenti dell’Ite soveratounotv.net, 2 dicembre 2019 Gli alunni dell’Ite Cambretta di Soverato delle classi 5 A Turismo e 4 B Afm, frequentanti il Pon 10.2.5 A- Fse Pon Cl 2018-242 “I giovani cittadini del futuro … in una società globale della legalità” al fine di conoscere la realtà del territorio, nel pomeriggio del 26 novembre, accompagnati dalle docenti di Diritto Susanna Perri e Rossella La Rosa, rispettivamente esperto e tutor del progetto, hanno fatto visita alla casa circondariale di Siano sotto la guida attenta della Direttrice Dott.ssa Angela Paravati. In accoglienza, la Direttrice dopo aver salutato i ragazzi ha illustrato loro la vita dei detenuti nel carcere dall’entrata ai momenti di socializzazione e momenti scolastici. La visita è proseguita alla conoscenza della struttura. Al momento di varcare i cancelli della Casa circondariale i ragazzi sono apparsi silenziosi e visibilmente coinvolti. È stata una esperienza toccante perché il contatto diretto con i luoghi dove vivono quotidianamente i detenuti ha dato modo di trasformare le conoscenze teoriche in una significativa crescita personale. Soltanto conoscendo la condizione carceraria dei detenuti, i giovani studenti, si sono resi conto di quanto sia importante la rieducazione e il rimpianto per la perdita della libertà che è stata loro giustamente tolta per aver commesso un reato. Gli alunni hanno continuato il percorso visitando le celle nella sezione di alta sicurezza dove hanno potuto cogliere la durezza di dover scontare la pena lontano dalla famiglia e dalla società e nello stesso tempo, visitando i laboratori di pittura, ceramica e riutilizzo di materiali di scarto, hanno potuto riflettere anche sull’importanza della forma rieducativa della pena. Al rientro a casa durante il viaggio i ragazzi hanno espresso apprezzamento e gratitudine per aver vissuto questa esperienza di forte umanità che li ha emozionati nel pensare a quanto sia preziosa la libertà e il rispetto delle norme del vivere sociale. Un ringraziamento per aver reso possibile questa esperienza formativa va alla Dott.ssa Angela Paravati direttrice della casa circondariale di Siano per aver guidato i ragazzi durante la visita, l’ispettore di polizia Granato Noè, l’educatrice Enza Di Filippo e tutti gli agenti penitenziari incontrati Catania. La prof. di matematica spende per il carcere i soldi del premio di Carmen Greco La Sicilia, 2 dicembre 2019 Daniela Ferrarello vincitrice dell’”Italian Teacher prize” con i 30mila euro ricevuti ha comprato una stampante 3d per un progetto-mostra nella casa circondariale di Bicocca “Vietato Non toccare” Catania, la prof. di matematica spende per il carcere i soldi del premio. I cancelli della Casa circondariale di Bicocca (diretta da Giuseppe Russo) si apriranno agli studenti delle Superiori per visitare una piccola mostra di macchine matematiche. Una mostra come spazio di incontro tra chi è libero e chi è in carcere, tra chi è presente e chi è assente. L’hanno chiamata “Vietato non toccare” ed è opera di detenuti e professori che l’hanno realizzata grazie ad una stampante 3d. È quella comprata dalla prof. di matematica, Daniela Ferrarello, l’ideatrice del progetto, con i soldi del “Premio Nazionale Insegnanti - Italian Teacher Prize”, gemellato con il Global Teacher Prize (una sorta di Nobel degli insegnanti). Due anni fa era stata eletta fra i cinque insegnanti più bravi d’Italia (la sua scuola è la sezione dell’alberghiero “Wojtyla” all’interno della casa circondariale di Bicocca frequentata da 48 alunni, altri 25 fanno la scuola media e 35 la primaria) e i 30mila euro del premio li ha impiegati oltre che per la stampante, anche per libri, quaderni, penne. La stampante 3d è servita per costruire le macchine matematiche prendendo spunto dal Laboratorio di macchine matematiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Una cosa insolita per un carcere nel quale “i laboratori - sottolinea il responsabile dell’area pedagogica, Maurizio Battaglia, da 30 anni in questo settore - in genere sono di tipo umanistico, invece la matematica è uno strumento potente quando si parla di pedagogia della devianza, perché il rispetto delle regole, della logica matematica, sono un insegnamento”. Un progetto che ha coinvolto tutti all’interno della casa circondariale, a partire dagli agenti della polizia penitenziaria che hanno permesso di allestire tutto in sicurezza. Non è stato facile, infatti, portare determinati materiali all’interno di una struttura di alta sicurezza come quella di Bicocca. La stampante 3d ha dato vita a macchine matematiche come la “Bottiglia di Klein” (il pezzo di apertura della mostra) o la leva di Archimede). Per il nastro di Möbius, è bastata una strisciolina cartonata bicolore larga qualche centimetro e incollata agli estremi dopo avergli dato un mezzo giro di torsione. Se si fa scorrere un dito sulla parte “esterna” ci si ritrova (senza sollevare il dito dal nastro) nella parte interna e non si capisce più quale sia il “dentro” e quale il “fuori”. In matematica si chiamano “superfici non orientabili”, perché non hanno le classiche due facce con le quali siamo abituati a pensare quando guardiamo un oggetto. Il dentro e il fuori in questo tipo di superfici si fondono, anzi si confondono. Ma ci sono anche le macchine matematiche di Archimede, la leva, lo specchio parabolico, la coclea. Riprodotte tutte in 3d. Una piccola mostra con una grande visione, quella di fare della matematica uno strumento di libertà. Al progetto hanno collaborato i prof. del Dipartimento di Matematica dell’Università di Catania Flavia Mammana, Giuseppe Scollo, Rita Cirmi e Clelia Leotta, quest’ultima autrice della progettazione 3d e di una tesi su “Vietato non toccare”, relatrice la prof. Ferrarello). Un’idea geniale - le macchine matematiche - per “attraversare bordi” non solo fisici ma anche mentali. Le frontiere del pregiudizio, i muri delle certezze assolute, il bianco e nero, il giusto o sbagliato. Qual è il limite fra matematica e filosofia? Non a caso grandi filosofi sono stati anche grandi matematici. “Mi piacerebbe che le persone fuori vedessero i detenuti anche come li vedo io: persone che sono anche “altro”- dice la prof. Ferrarello mentre mostra anche le macchine matematiche di Archimede. “La Sicilia non è solo terra di mafia (un altro “pregiudizio” da superare), ma anche di matematica. Pensiamo alla leva - spiega - può aiutare anche una piccola persona a sollevare il mondo, come diceva Archimede, uno che, da solo, difese la città di Siracusa contro i romani. Fare evolvere le persone non significa cambiarle. Se stiro un quadrato, trasformandolo in un rettangolo, le lunghezze non si mantengono, ma il parallelismo dei lati sì. Ecco, la scuola deve far crescere le persone e farle evolvere, pur cambiando alcune cose di noi, ma mantenendone altre”. Per la prof. Flavia Mammana dell’Università di Catania questa esperienza in carcere ha lasciato il segno, professionale e umano. “Quando mi hanno proposto di partecipare a questo progetto non ci ho dormito la notte - confessa - avevo paura di non riuscire. Poi ho capito che certe sfide vanno accolte perché spesso le partite vanno giocate”. Quella del laboratorio di matematica era una partita iniziata con nove giocatori, tanti erano i detenuti “iscritti” al progetto, e finita con tre per effetto di trasferimenti o di uscite. I tre che sono rimasti avranno adesso il compito di fare da ciceroni alle scolaresche e anche ai docenti che verranno a visitare la mostra. Un modo anche questo, per far dialogare direttamente il “dentro” con il “fuori”. Saluzzo (Cn). “Destini incrociati”, rassegna nazionale di teatro in carcere cuneodice.it, 2 dicembre 2019 Da giovedì 12 a sabato 14 dicembre Saluzzo ospita la sesta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, che raggruppa 33 compagnie teatrali provenienti da 16 regioni d’Italia, e dalla Compagnia “Voci Erranti” di Savigliano. Per la prima volta in provincia di Cuneo (dopo Firenze 2012, Pesaro 2015, Genova 2016, Roma 2017 e Firenze 2018, ndr), l’appuntamento propone tre giornate di teatro con attori-detenuti che giungeranno nel Cuneese, in regime di massima sicurezza, provenienti dai carceri di Cosenza, Livorno, Pesaro, Palermo, oltre che di Saluzzo. Saranno proiettati, inoltre, gli spettacoli realizzati da altre 15 realtà carcerarie italiane, ma non mancheranno seminari, conferenze, mostre d’arte, dimostrazioni di lavoro. “Destini incrociati”, che vedrà la già sicura partecipazione di oltre 300 studenti provenienti da alcuni dei principali istituti scolastici della Granda, chiamati a prendere parte a laboratori di accompagnamento alla visione, si tiene con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, il Ministero di Giustizia/Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la Fondazione Piemonte dal Vivo con il contributo della Compagnia di San Paolo, della Cassa di Risparmio di Saluzzo e delle Città di Saluzzo e Savigliano. La rassegna è promossa in Rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, avendo come capofila l’associazione Teatro Aenigma. Per maggiori informazioni visitare il sito Internet vocierranti.org o telefonare al numero 340/3732192. “Detenuti da tutta Italia, alcuni dei quali usciranno per la prima volta dal regime detentivo, giungeranno a Saluzzo e Savigliano nel corso della tre giorni. Il teatro in carcere è ormai in Italia un’esperienza matura sia sul piano artistico che organizzativo/progettuale, come dimostra anche il recente sviluppo del teatro negli istituti di pena per minori - afferma Grazia Isoardi, direttrice artistica della rassegna -. Evidenti sono poi gli sconfinamenti verso gli ambiti del cinema, della produzione video/fotografica ed editoriale; così come cominciano ad emergere esperienze di professionalizzazione di attori ex-detenuti”. La rassegna, che a Saluzzo coinvolgerà La Castiglia, l’antico palazzo comunale, il teatro civico Magda Olivero e la casa di reclusione, con un’appendice presso il Teatro Milanollo di Savigliano, sarà occasione per restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano nelle realtà detentive del Paese. Si assisterà a spettacoli nati dalle narrazioni e dalle biografie dei detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. Tra i personaggi più attesi che animeranno l’evento sono attesi Elvio Fassone, scrittore, già magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura che racconterà la sua corrispondenza, ancora viva, con un giovane condannato all’ergastolo; Angelica Corporandi D’Auvare, vedova del prof. Alberto Musy, che ha trasformato la propria personale vicenda di vita in uno spettacolo teatrale. Interverrà anche Ronald Jenkins, docente di teatro alla Wesleyan University di Middletown (Connecticut) che relazionerà su alcune esperienze lavorative condotte in carcere in USA e Indonesia sulla Divina Commedia di Dante. “La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere - non appare come una moda teatrale, ma come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva, una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere: si riduce dal 65 al 6%”. Voghera (Pv). Torna alla sala Pagano il maxi-presepe realizzato dai detenuti La Provincia Pavese, 2 dicembre 2019 Per il quarto anno Voghera si prepara al Natale con la rassegna dei presepi in sala Pagano: l’inaugurazione sabato 14 dicembre alle 17. Ancora una volta il clima natalizio sarà arricchito dalla possibilità di donare giocattoli usati e libri per i bimbi meno fortunati e dall’esposizione di un presepe realizzato dai detenuti del carcere. L’evento è stato presentato in municipio: alla conferenza stampa hanno partecipato il sindaco Carlo Barbieri e il presidente del consiglio comunale, Nicola Affronti, la presidente della Consulta del volontariato, Costantina Marzano, l’educatrice Fortunata Di Tullio, la direttrice del carcere Stefania Mussio e il comandante del reparto di polizia penitenziaria Michela Morello; c’era anche il consigliere Claudio Zuffi con il volontario Giacomo Alloni. “Continua questa bella tradizione, arricchita dal rinnovarsi della collaborazione con la casa circondariale”, ha sottolineato il sindaco. I detenuti hanno realizzato una grande rappresentazione della Natività, di 15 metri quadrati di superficie. “Voghera apre sempre di più al suo carcere, è una svolta importante - ha detto Mussio. Il carcere è una realtà sociale e per farlo crescere è necessario l’aiuto del volontariato e delle istituzioni. Il presepe è stato realizzato quasi esclusivamente con materiale di riciclo”. I presepi saranno visitabili (con ingresso gratuito), ogni giorno, dal 14 dicembre, dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19. Nuoro. Oltre i muri e le sbarre il canto degli Istentales per essere liberi dentro di Giacomo Mameli La Nuova Sardegna, 2 dicembre 2019 Nel libro in edicola curato da Luciano Piras il lungo tour della band nuorese nelle carceri sarde e della penisola. Gli antichi greci dicevano che “l’usignolo in gabbia non canta”. Leggendo le novantasei pagine con trentatré capitoli di “Liberi dentro” di Luciano Piras che la Nuova Sardegna propone in edicola ai suoi lettori (prima edizione del 2010, adesso ristampato da Grafiche Ghiani e arricchito da una prefazione del cantante Roberto Vecchioni) si potrebbe parafrasare quel proverbio e dire che l’uomo non parla quando è in gabbia. Se è muto è basalto, non uomo. Gabbia-carcere dove, se non si parla, non si ha anima. Perché manca la parola, il verbum che è l’essenza del vivere. Se non comunichi, se non sei libero di dialogare, non sei persona viva, non trasmetti sentimenti, siano pure di odio o di rancore. Una invocazione alla non punibilità? Assolutamente no. Si chiede con forza, con la passione civile e l’impegno etico che contraddistingue da sempre l’autore, che venga attuato l’articolo 27 della Costituzione. Chiede il rispetto del “senso di umanità” perché “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non è accettabile far vivere anche i responsabili di reati gravissimi in “carnai da terzo mondo”. La nostra Carta è quasi un’utopia, ma in quella direzione bisogna andare, insistendo come fa Piras, giornalista che ama stare vicino alle sofferenze delle fasce più fragili della società, i vip non gli interessano, ama strada e mercati, non i Billionaire. Basta leggere i numeri, le denunce delle commissioni d’inchiesta in campo regionale e nel resto dei penitenziari d’Italia. Piras ripropone per i distratti un libro utile, da leggere e da meditare, dati di fatto, documentati riga dopo riga, racconta verità che scuotono. La cronaca recente ci ha svelato le torture atroci su Stefano Cucchi a Roma. Non è un fatto isolato. Casi altrettanto drammatici sono stati segnalati anche in Sardegna (vogliamo ricordare, per tutti, quel giovane di Fonni soffocato - anni Sessanta del secolo scorso - con un fazzoletto in stanze della polizia di Stato). Disumanità? Certamente. Barbarie? Pure. Disprezzo del colpevole? Condizioni difficili per gli stessi agenti addetti alla sorveglianza? Ancora sì. Ma anche “questione di edilizia carceraria nelle strutture isolane e nazionali”. Vecchioni scrive: “La prima cosa che farei sarebbe proprio far sì che i luoghi di detenzione siano più umani, spazi più grandi, con molto tempo per leggere, per favorire la propria creatività”. Le cose sono cambiate, migliorate, dopo i nuovi edifici fuori Cagliari e Sassari? Purtroppo no. L’attualità di questo libro-denuncia è rimasta pressoché immutata. Siamo allo status quo ante, a quanto denunciavano dieci anni fa consiglieri regionali dotati di sensibilità (Bachisio Falconi, Maria Grazia Calligaris) o deputati (Guido Melis, Francesco Sanna). La risposta positiva non c’è. In particolare per i giovani. Sandro Marilotti, ex direttore del “Cesare Beccaria” di Milano: “Il carcere attrae e contiene minori cresciuti nella povertà, nel disagio, ragazzi che rientrano nella fascia dell’emarginazione di scarto”. C’è spazio (breve) al sorriso con i concerti che - dopo tanto insistere - sono stati eseguiti dentro quelle gabbie dove, anche Oltre Tirreno, non canta e non parla l’usignolo-uomo. Bisogna esserci stati in queste “gabbie” e vedere gli occhi delle detenute e dei detenuti che ascoltavano note musicali, con le mani libere, liberi di parlare, di avere voce, di applaudire a un inno d’amore per una bambina assassinata. Concerti, poesie delicate e di umanità composte e musicate da Gigi Sanna pastore poeta e leader degli Istentales, con Luca Floris alla batteria, Tattino Canova basso, Pierfranco Meloni alle tastiere e Alessandro Damiano alla chitarra. Canti nel solco dell’impegno civile, De André, Guccini con Bertoli. Aggiungete Maria Luisa Congiu decisa a esaltare “le virtù e la fierezza dei sardi”. E finire con l’innovazione dei “fari accesi nella notte” e l’esperienza di “Lumeras” nata tra le campagne di Badde Manna di Nuoro davanti alla roccia bianca di Monte Corrasi di Oliena. E chi è uscito da quelle gabbie ha “visto lacrime andare verso il cielo”. Una modesta proposta per combattere l’odio sul web di Luca Ricolfi La Stampa, 2 dicembre 2019 Credo che, prima o poi, si arriverà a qualcosa che limiterà la circolazione gratuita e illimitata delle informazioni su internet. Potrebbe essere un “francobollo elettronico” sulla posta trasmessa via internet, o la nascita di un circuito parallelo a pagamento, e perciò stesso sostanzialmente impermeabile allo spam e alla violenza simbolica che infesta la rete. In una società opulenta qual è diventata l’Italia sono certo che molti sarebbero ben felici di pagare un abbonamento, verosimilmente meno costoso di quelli del calcio, per proteggersi dal flusso di informazione indesiderata che ci tormenta 24 ore su 24. È abbastanza incredibile che non sia ancora successo nulla, nonostante due fatti incontrovertibili: la circolazione illimitata di materiale sulla rete saccheggia la nostra riserva personale di tempo; la proliferazione dei messaggi di posta elettronica, attraverso l’iper-consumo di energia sui server, danneggia l’ambiente, che pure tutti diciamo di avere a cuore (un fatto noto da almeno un decennio, ma che, sorprendentemente, solo da poco sta ricevendo la dovuta attenzione). Quando internet non sarà più una prateria unica, su cui tutti possono scorrazzare a piacimento senza regole e senza rispetto per gli altri, certi problemi che ora infiammano gli animi, come l’hate speech (i discorsi d’odio), finiranno per appassire. Se mandare una mail o postare un messaggio avrà un costo, succederà quel che succede in tutti i campi in cui le risorse non sono illimitate: la scarsità delle risorse indurrà un loro uso più razionale, o semplicemente meno smodato. Ma nel frattempo? Nel frattempo come facciamo a difenderci dagli scocciatori e dagli odiatori? Sugli scocciatori non ho idee. Temo che, come nella vita è quasi impossibile liberarsi di uno scocciatore, lo stesso valga per internet e più in generale per lo spazio pubblico (ad esempio gli stadi): lo spam, l’iper-comunicazione e il tifo sono quasi impossibili da schivare. Ma sugli odiatori, sui malati di aggressività e di cattiveria, una modesta proposta per difenderci ce l’avrei. Per illustrarla, però, devo partire da una triplice osservazione: primo, il grosso dell’odio si concentra su personaggi pubblici che, per una ragione o per l’altra, sono divenuti simboli di qualcosa; secondo, quando un personaggio pubblico è sotto attacco, i media danno un enorme risalto ai messaggi che lo riguardano; terzo, la diffusione sui media dei messaggi d’odio spinge altri odiatori a imitarli, entrando a loro volta in campo. Ed eccomi alla proposta. Se vogliamo frenare la circolazione dell’odio, innanzitutto in rete ma non solo, la prima regola dei media dovrebbe essere: negare lo spazio. O, se preferite: non farsi strumentalizzare. Perché è un po’ ipocrita indignarsi per la volgarità della comunicazione pubblica quando ci si presta quotidianamente a farle da megafono. È un circolo vizioso: i malati d’odio aspirano alla notorietà, ossia precisamente a ciò che gli autorevoli censori dei loro discorsi quotidianamente concedono loro. Per un odiatore non è importante colpire il personaggio che odia, ma fare un salto di status grazie a un articolo su una quotidiano nazionale o a un servizio di un telegiornale. I media, spiace dirlo, sono i complici più utili degli odiatori. Come i tossicodipendenti, che manipolano gli psicologi raccontando loro quel che questi ultimi si aspettano, così gli odiatori manipolano i media dando loro in pasto materiale che i media stessi - immancabilmente - non resistono alla tentazione di pubblicare e fare oggetto di “dibattito”. Perché? Dovere di informare l’opinione pubblica? No. Allo stato attuale non ci sono strumenti per stabilire in modo obiettivo dove stia andando il “fiume immondo” del web (così Massimo Cacciari nell’ultimo film di Elisabetta Sgarbi, Vaccini, nove lezioni di scienza). Tutto dipende dalle piattaforme che si monitorano, dalle parole-chiave che si utilizzano, dai periodi di tempo che si analizzano. Non c’è alcun valore aggiunto, non c’è alcuna vera notizia, solo la stessa immota verità: sul web operano impunemente “legioni di imbecilli” (così li chiamava Umberto Eco). E allora perché pubblichiamo e dibattiamo di tutto? La realtà, temo, è che l’unica vera bussola del mondo dei media è suscitare emozioni, possibilmente quelle che favoriscono la propria parte politica. È questo che rende irrefrenabile l’impulso a pubblicare di tutto, anche se il pubblicarlo alimenta il male che si finge di voler combattere. Ed è per questo la mia modesta proposta - tacere - non potrà essere ascoltata. Con questo non voglio dire che il silenzio, il rifiuto di dare visibilità alla miseria umana, sia l’unica via per combattere odio, disprezzo, volgarità. C’è almeno un caso in cui l’informazione, la discussione, anche l’indignazione, sono legittime, se non doverose. Questo caso è quello in cui un personaggio pubblico, che ha fama, visibilità, potere, responsabilità, viola le regole minime del vivere civile, che sono fatte di rispetto, sensibilità, capacità di ascolto. In questi casi è bene parlare, perché l’odio o il disprezzo manifestato da chi ha più potere o più voce degli altri non sono neutralizzabili semplicemente ignorandoli, ma richiedono una risposta ferma. Il punto delicato è solo questo: dobbiamo dare una risposta, ma dobbiamo darla a 360 gradi. Non si può trovare inaccettabili le cadute di stile dei nostri avversari, e sorvolare su quelle dei nostri amici, qualsiasi cosa ciascuno di noi intenda per avversari e per amici. Per quanto mi riguarda sono stato profondamente colpito da gesti come quello di Matteo Salvini, quando ha tenuto un comizio esponendo una bambola gonfiabile che rappresentava Laura Boldrini, o quando ha commentato la sentenza di condanna degli uccisori di Stefano Cucchi con la frase “la droga fa male”. Ma altrettanto mi ha turbato la campagna di odio di alcuni media e di alcuni intellettuali verso Salvini, dipinto ora come non-uomo, ora addirittura come “bestia”. E ancor più mi ha sconcertato che un sedicente “artista” non abbia trovato di meglio che esporre un’opera d’arte (?) che raffigura Salvini stesso mentre spara a due immigrati-zombie, quasi che questa fosse la proposta politica della Lega in materia di immigrazione. Finché non capiremo questo, e cioè che chi ha responsabilità pubbliche non può cavalcare la disumanizzazione dell’altro, ogni speranza di neutralizzare l’odio che circola in rete non potrà che andare delusa. Perché è la nostra faziosità che ci fa vedere il “fiume immondo” di internet non come qualcosa che possiamo sconfiggere ignorandolo, ma come una riserva infinita di strali con cui colpire i nostri avversari. Migranti. L’intesa sui ricollocamenti alla prova di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 dicembre 2019 Operativa l’intesa della Ue: 8 su 10 redistribuiti nei Paesi del patto. Applicato in tre casi il patto di Malta: le destinazioni Ue si decidono prima dell’attracco. Richieste congiunte di “ricollocazione” dei migranti presentate all’Unione Europea. La svolta sulla distribuzione di chi sbarca in Italia arrivata dieci giorni fa - quando Germania, Francia e Malta hanno indicato a Bruxelles la cifra di stranieri che avrebbero accolto - è ormai operativa per tutti gli approdi delle navi. Vuol dire che nel momento in cui da bordo viene chiesto il via libera all’attracco nei porti, scatta la divisione per quote tra i governi. Una ripartizione preventiva che evita le estenuanti trattative condotte nei mesi scorsi quando il braccio di ferro con l’ex ministro Matteo Salvini le costringeva a stare per giorni in mezzo al mare. Risultato, esclusi minori e donne incinte: l’82 per cento di chi è già stato registrato andrà via. L’accordo - rimasto finora riservato anche per evitare l’ostruzionismo degli altri Stati Ue in attesa dell’insediamento della Commissione guidata da Ursula von der Leyen - è dunque “a regime”. Agevolato certamente dal calo degli arrivi che in un anno sono più che dimezzati: dai 23.370 del 2018 si è passati ai 10.882 del 2019. Sono in aumento gli sbarchi autonomi, un fenomeno che rimane preoccupante anche perché le partenze sono dalla Libia, ma anche dalla Tunisia, però la cifra complessiva è al minimo rispetto agli ultimi quattro anni. E questo sta spingendo altri Paesi ad offrire la propria collaborazione, compresa la Spagna. I tre sbarchi Ong - Dopo il patto siglato a La Valletta a settembre, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha continuato a tessere la tele dei rapporti bilaterali con i partner europei per renderlo stabile, ma soprattutto per far passare il principio che la distribuzione diventasse “automatica e preventiva”. Una richiesta accolta con freddezza da numerosi Stati del Nord Europa e definita “irricevibile” da quelli del blocco di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia). Al fianco dell’Italia si sono invece schierati diversi Paesi e ciò ha consentito di raggiungere l’obiettivo per gli ultimi tre sbarchi delle navi delle Ong che hanno così ottenuto subito il Pos per entrare in porto e sono approdate. Il 24 novembre è giunta a Messina la Ocean Viking con 212 migranti, due giorni dopo la Open Arms ha portato a Taranto 62 stranieri (11 erano stati prelevati prima) e sempre il 26 novembre la Aita Mari ha attraccato a Pozzallo con 78 persone. In tutti i tre casi è stato applicato l’articolo 80 del Trattato di fondazione dell’Unione che sancisce il principio di “solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri”. Ed è scattata la divisione: la Germania ha accettato 69 richiedenti asilo, mentre 90 andranno in Francia. A loro si sono aggiunti la Spagna con 25 stranieri, il Portogallo 20 e l’Irlanda 6. Il percorso è avviato e adesso si sta trattando con Cipro, Lussemburgo e Grecia, ma anche con la Romania per ampliare la rosa di chi accoglie. Via 57 persone al mese - Secondo i dati forniti dal Viminale “nel 2019 sono stati trasferiti con ricollocamenti 262 migranti, 172 di quali dopo il 5 settembre”, dunque dopo l’insediamento del governo Conte 2 e l’uscita di Matteo Salvini dal Viminale. Negli ultimi tre mesi “i trasferimenti con ricollocamento sono stati 172 (57 al mese) che comprendono anche le quote offerte precedentemente dai Paesi Ue”. Una media molto più alta di quella registrata tra giugno 2018 e agosto 2019 quando “i migranti trasferiti con ricollocamento sono stati 238 (16 al mese)”. Le cifre danno conto della situazione e soprattutto dei problemi da affrontare. Dopo la cifra record di 119.369 sbarchi nel 2017, il 2018 ha mostrato un drastico calo con 23.370 arrivi che si sono ridotti ulteriormente quest’anno con 10.882 stranieri registrati. Rimane però sempre alto il numero di chi arriva a bordo di gommoni e barchini direttamente sulle spiagge o nei porti. Se nel 2018 erano stati 5.999, negli ultimi undici mesi siamo già a 7.926 migranti. Gran Bretagna. Dopo l’attacco del London Bridge “stretta” sui benefici ai detenuti rainews.it, 2 dicembre 2019 Dopo la polemica sul rilascio dal carcere dell’attentatore il Ministero della Giustizia ha cominciato ad esaminare almeno 70 casi su input del primo ministro Boris Johnson. Il ministero della Giustizia britannico ha iniziato nella notte una revisione urgente dei casi di benefici e permessi, come la semilibertà, a detenuti potenzialmente pericolosi, esaminando almeno 70 casi, su input del primo ministro Boris Johnson. Lo scrivono alcuni media britannici, fra cui la Bbc e il Daily Mail. Il governo, incalzato anche dall’opposizione Labour di Jeremy Corbyn, che lo accusa di aver stretto i cordoni della borsa con la polizia per motivi di austerità, è stato investito dalla bufera dopo l’attentato di venerdì a London Bridge. L’accoltellatore 28enne Usman Khan, che ha ucciso due persone e ne ha ferite gravemente altre 3, è infatti risultato essere stato scarcerato in anticipo, malgrado avesse scontato solo 6 dei 16 anni della condanna inflittagli per terrorismo nel2012. Ieri Johnson, che si è recato sul luogo dell’attacco, ha promesso “certezza della pena” per i soggetti pericolosi. Parlando dopo l’attentato e prima della riunione d’emergenza della sicurezza britannica, Johnson aveva detto: “Ho sostenuto a lungo che è un errore permettere ai criminali gravi e violenti di uscire di prigione in anticipo”. “È molto importante - ha aggiunto il premier - uscire da questa abitudine e far rispettare le pene appropriate per i criminali pericolosi, specialmente per i terroristi, che penso che l’opinione pubblica vorrà vedere”. L’Isis rivendica l’attacco - Ieri, il sito di monitoraggio della galassia jihadista, ha reso noto che l’Isis ha rivendicato l’attacco spiegando che l’aggressore del London Bridge un suo “combattente”. Ferma la campagna elettorale - Sospesi diversi appuntamenti della campagna elettorale, sia dai conservatori di Johnson, sia dai laburisti di Jeremy Corbyn, così come dai liberaldemocratici di Jo Swinson, in vista del voto del 12 dicembre prossimo, voto al quale il partito del premier si avvicina con il netto favore dei pronostici dei sondaggi, con un ulteriore possibile vantaggio legato ora al fatto che il programma dei conservatori richiama la sicurezza nelle strade come uno dei suoi cavalli di battaglia. Ex capo terrorismo: colpa del sistema giudiziario - “Stiamo giocando alla roulette russa con la vita delle persone, lasciando noti, condannati criminali radicalizzati liberi in circolazione nelle nostre strade”. Così l’ex capo dell’ufficio anti terrorismo britannico, Chris Phillips, si è sfogato contro “un sistema giudiziario che deve fare i conti con se stesso”. “Facciamo uscire le persone dal carcere, prima le condanniamo per crimini molto, molto gravi e poi le rilasciamo quando sono ancora radicalizzati - ha aggiunto Phillips, secondo il sito della Bbc - così come diavolo possiamo chiedere ai nostri poliziotti e servizi di sicurezza di mantenerci al sicuro?”. Una zanna di narvalo e un estintore per fermare i killer - Un nuovo video pubblicato sul sito del Daily Mail mostra quanto accaduto prima che il killer fosse atterrato e disarmato da un gruppo di passanti e poi ucciso dalla polizia. Nelle immagini il 28enne Usman Khan viene inseguito da due persone che gli sbarrano la strada. Uno usa contro di lui un estintore e l’altro brandisce una zanna di “narvalo”, un cetaceo di mari artici. Riescono così a bloccarlo e farlo cadere. Senza di loro, il bilancio dell’attacco, due vittime e diversi feriti, sarebbe probabilmente stato più pesante. Una vittima lavorava per la riabilitazione dei detenuti - Una delle due vittime dell’attentato a Londra era il 25enne Jack Merritt, laureato a Cambridge. Lavorava per Learning Togheter, l’iniziativa per la riabilitazione per i detenuti che aveva organizzato la conferenza alla Fishmongers’ Hall dove è iniziato l’attacco. In una serie di tweet, David Merritt, il padre di Jack dichiara di non volere che la morte del figlio serva da pretesto per un inasprimento delle pene. “Mio figlio Jack, che è stato ucciso in questo attacco, non avrebbe voluto che la sua morte fosse usata come pretesto per sentenze draconiane o per trattenere le persone in carcere senza necessità - ha scritto il padre - riposa in pace Jack, eri una bella persona che stava a fianco dei perdenti”. Il poliziotto coraggioso - Era un funzionario in borghese della British Transport Police l’uomo che è stato ripreso da un video mentre portava via il coltello sottratto al killer di London Bridge, Usman Khan, dopo aver aiutato alcuni civili a placcarlo. Lo ha rivelato oggi il suo comandante. “Stamattina ho parlato con questo coraggioso funzionario che ieri ha sfidato il pericolo, facendo qualcosa di rimarchevole”, ha detto Paul Crowther, chief constable della British Transport Police. “Egli, come altri cittadini, devono essere estremamente fieri di aver fermato quell’uomo sul London Bridge”, ha aggiunto, senza svelarne per ora l’identità. Daphne Caruana, il papà: “Nel suo nome forse Malta diventerà un Paese migliore” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 dicembre 2019 Michael Vella, 81 anni, padre di Daphne Caruana Galizia: “È cresciuta col pallino della verità”. “Dafne è sempre stata di carattere forte. La prima dei miei figli, funzionava da apripista. Sin da bambina, se si metteva in testa un progetto doveva portarlo a termine. Aveva l’urgenza di dire la verità. Il suo assassinio è stato un trauma gravissimo per tutti noi. Ma forse servirà a cambiare Malta. Grazie al salvagente rappresentato dall’Unione Europea, probabilmente potremo creare una nuova democrazia, più pulita, più credibile”. Come molti anziani parla lento, Michael Vella. Ma la sua voce è ferma, lucida, lo sguardo diritto. Lui e la moglie Rose-Marie, entrambi 81enni, sono stati in piedi, silenziosi, dignitosi di una dignità che commuove, per le due ore della grande manifestazione ieri nel tardo pomeriggio nella cittadella de La Valletta. La folla li rispetta, qualcuno va ad abbracciarli, i fotografi evitano di essere invadenti. Sono i genitori di Daphne Caruana Galizia, assassinata a 53 anni nell’ottobre 2017 perché dava fastidio a troppi potenti con le sue inchieste sui legami tra criminalità e politica. Le immagini della giornalista sono dovunque. “Mafia, mafia, mafia. Giustizia, giustizia. Il primo ministro Joseph Muscat e gli altri corrotti devono dimettersi subito”, gridano in migliaia alle loro spalle. Alla fine, mentre la folla si disperde promettendo di rinnovare le proteste domani (oggi per chi legge), Michael Vella accetta di parlarci su di una panchina a lato della piazza. Cosa le suggeriscono queste persone che inneggiano a sua figlia? Come si sente? “Vedo che per la prima vota i maltesi parlano con una voce sola. Non colgo le solite divisioni di partito. Qui ci sono elettori laburisti e della destra conservatrice. Ma tutti chiedono la stessa cosa: la fine della corruzione, le dimissioni di questi politici prezzolati e l’avvio di inchieste serie contro i criminali, senza protezioni, senza collusioni con il potere del palazzo”. La morte di Daphne è vendicata? “Non lo so. Dobbiamo andare avanti, insistere affinché il sistema giudiziario faccia il proprio dovere senza condizionamenti di sorta. I fatti sono gravissimi. È stato incriminato persino Keith Schembri, il braccio destro di Muscat. Ormai nessuno ha dubbi sull’evidenza che i massimi esponenti di questo governo hanno coperto, se non attivamente voluto, l’assassinio di mia figlia”. Un assassinio di Stato? “Assolutamente sì. Ecco il motivo per cui occorre insistere. Le manifestazioni devono continuare. Quando Daphne fu uccisa noi restammo traumatizzati, ma non sorpresi. Poteva accadere, lo sapevamo. E ciò è inammissibile. Dobbiamo rifondare Malta”. I laburisti fanno quadrato attorno al premier. Che però proprio ieri in tv ha annunciato le dimissioni per il 12 gennaio... “Alla manifestazione si è parlato di disobbedienza civile per ottenere i nostri obbiettivi e le dimissioni. Occorre passare dalle parole ai fatti”. Il ruolo dell’Europa? “È il nostro salvagente. Se non ci fossero state le pressioni europee, la stampa europea, qui tutto sarebbe rimasto come prima. Io devo personalmente ringraziare l’ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che subito dopo l’assassinio ci ha sostenuto, spingendo per l’inchiesta di polizia sorvegliata dalle commissioni di Bruxelles. Ha anche voluto intitolare a mia figlia la sala stampa dell’Unione Europea a Strasburgo”. Cina. Riconoscimento facciale obbligatorio, cellulari e web senza privacy di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 2 dicembre 2019 Per stipulare un contratto di telefonia mobile (e per navigare) non basta più presentare la propria carta d’identità, occorre fornire la scansione del proprio viso. Per aprire un contratto di telefono mobile da oggi in Cina non basta più presentare la propria carta d’identità, è obbligatorio anche sottoporsi al riconoscimento facciale, fornendo alle aziende di telefonia la scansione del proprio viso. Il ministero dell’industria e tecnologia ha spiegato in una nota che gli operatori Telecom debbono utilizzare programmi di intelligenza artificiale per verificare l’identità dei nuovi utenti. In Cina lo smartphone è la porta d’accesso a Internet. Novecento milioni di cittadini navigano sul web attraverso il telefonino, per ogni attività quotidiana, dai pagamenti all’acquisto di biglietti di aereo e treno. E l’obbligo di riconoscimento facciale, dicono le autorità, serve a ridurre il rischio di abusi e truffe ai danni degli utenti. Continua la nota: “Incrementeremo la supervisione e l’ispezione per promuovere un sano e ordinato sviluppo di Internet, proteggere la sicurezza dello Stato e l’interesse del pubblico”. Gli ultimi dati propagandati da Pechino sostengono che il sistema di riconoscimento facciale (videosorveglianza accoppiata a intelligenza artificiale) è così perfezionato che ora si identifica il 98,1 per cento dei volti in 8 decimi di secondo. La stampa ha citato decine e decine di arresti, con i ricercati scoperti dalle telecamere a circuito chiuso durante concerti, partite di calcio, negli aeroporti e in piazza. Le aziende hi-tech cinesi nel settore sono le più avanzate al mondo e propongono anche servizi spettacolari, come nelle lounge Vip del nuovo aeroporto di Pechino dove hostess dotate di occhiali a realtà aumentata riconoscono i passeggeri (“schedati” in precedenza) e li informano sul loro volo. Ma il riconoscimento facciale per avere il numero di telefono non è una questione di comodità. Si controlla chi accede al web e ai social network. L’innovazione ha aperto un dibattito: “È il progresso”, “No, è troppo”, “Di che cosa ha paura il governo?” si leggeva ieri sui microblog.