Le carceri scoppiano di nuovo. Servono risposte: dal personale all’edilizia di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 dicembre 2019 I numeri del ministero della Giustizia “scottano” e se non si ricorrerà presto a rimedi concreti il rischio è che l’Italia subisca un’altra salata sanzione della Corte Europea dei diritti umani. Carceri sovraffollate e di nuovo “esplosive”. Al 30 novembre i reclusi nei 190 istituti penitenziari italiani erano 61.174, quasi 11mila in più rispetto alla capienza prevista dalla legge (sono 50.476, infatti, i posti disponibili). Le conseguenze? Atti di violenza, sommosse, aggressioni e suicidi dietro le sbarre. Ieri a Poggioreale, Napoli, un detenuto di 45 anni ha tentato di uccidersi in cella, dove aveva fissato un cappio alle inferriate della finestra del bagno: è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria intervenuti appena in tempo. Nell’infermeria di Marassi, a Genova, un poliziotto è stato aggredito e ferito con un ferro di 40 centimetri da un carcerato 43enne che poi l’ha morso. Nello stesso carcere, giorni fa, due detenuti sono evasi. E venerdì, nella casa circondariale della Spezia, un uomo che deve scontare 19 anni non è rientrato in cella dopo un permesso premio. I numeri forniti dal ministero della Giustizia “scottano” e se non si ricorrerà presto a rimedi concreti il rischio è che l’Italia subisca un’altra salata sanzione della Corte Europea dei diritti umani, come avvenne nel 2013 con la “sentenza Torreggiani” per trattamenti inumani o degradanti subiti da sette detenuti a Busto Arsizio e Piacenza, costretti a vivere in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. I detenuti negli ultimi undici mesi sono aumentati anche in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando se ne registravano 9mila in più rispetto al numero consentito. “Giorni fa a Taranto, per esempio, ce n’erano più del doppio (619 anziché 306 ndr) come ho potuto constatare di persona” dice Mauro Palma, presidente del “Garante nazionale privati della libertà”. Le carceri scoppiano: a Poggioreale ci sono 2.090 reclusi sui 1.636 consentiti, al Marassi di Genova sono pigiati in 735 (dovrebbero essere invece 525); pure le Case circondariali della Capitale, Rebibbia e Regina Coeli, sono largamente soprannumero: 1.645 e 1.041 “ospiti”, rispettivamente, quasi 500 in più in entrambe le strutture. E, ancora, a Milano, San Vittore con 1.067 detenuti (quasi tutti in attesa di giudizio) sui 798 previsti, e Opera, con 1.334 sui 918 stabiliti dal regolamento. “Ma il sovraffollamento è forte un po’ ovunque - precisa Palma - e non si può “spalmare” in modo uniforme. Ciò che mi preoccupa più della condizione materiale dei detenuti, in questo momento - prosegue - è però la mancanza di una linea progettuale da parte dell’Amministrazione penitenziaria. Non basta, cioè, mettere un occhio “oggi e dentro” le carceri, bisogna essere capaci di guardare “dopo e fuori”, di investire in un progetto”. Il vero nemico da battere, secondo l’Autorità che vigila sui diritti delle persone detenute, è “la povertà” sociale e culturale largamente diffusa nel Paese. “Tra le persone trattenute in carcere, per esempio, ce ne sono anche 1.700 che devono scontare una pena inferiore a un anno, e circa 2mila condannate definitivamente a una reclusione che va da uno a due anni - spiega Palma -. Si tratta per la maggior parte di gente senza dimora, di poveri che non hanno una casa e un lavoro e non possono permettersi una difesa adeguata, sono soggetti, cioè, che non hanno legami con la società: non si può relegare la povertà esistenziale alla struttura restrittiva, bisogna creare una rete di fiducia fuori dal carcere, perché il sistema sociale oggi non è capace di sanare queste ferite: servono quindi più servizi sul territorio” dice Palma. E serve anche una riforma penale che preveda sanzioni alternative alla detenzione: “I reati di minore entità non vanno puniti col carcere” dice il Garante. “La realtà del sovraffollamento è ben peggiore delle cifre ufficiali - commenta Alessio Scandurra, dell’Associazione Antigone - ma visto che stavolta la crescita è più lenta rispetto al passato, abbiamo tempo e modo di rimediare”. Come? “Applicando più misure alternative alla pena detentiva, concedendo più liberazioni anticipate e norme penali più adeguate ai reati”. Altra questione da affrontare è l’edilizia carceraria. È utile costruire nuove strutture per consentire a reclusi e operatori penitenziari di “stare più larghi”? “La politica adottata oggi, secondo noi, va bene: si costruisce solo dove è necessario, senza frenesie emergenziali, e le carceri vecchi e malmesse si smantellano” dice Scandurra. La pensa diversamente, invece, Pompeo Mannone, segretario generale della Federazione nazionale sicurezza della Cisl: “C’è bisogno di nuove sedi, di più spazi, magari adattando strutture statali dismesse, perché alcune carceri risalgono all’età borbonica, servono impianti moderni”. Per il sindacalista, comunque, il sovraffollamento si può governare solo con più personale: “Servono 5mila agenti penitenziari per coprire gli organici e garantire un minimo di servizi, attualmente ogni poliziotto è costretto ad affrontare turni massacranti di oltre 8 ore al giorno: è una vita impossibile e causa spesso suicidi”. Nel 2019 sono state 30 le guardie che si sono tolte la vita. Dal pranzo di S. Stefano al presepe ecologico, quante iniziative in carcere di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 29 dicembre 2019 Il giorno di Santo Stefano, nel carcere di Regina Coeli, la Comunità di Sant’Egidio ha accolto a pranzo un centinaio di detenuti mentre in tutte le sezioni dell’istituto è stato distribuito lo stesso menù, fatto di lasagne e polpettone. Il Pranzo di Santo Stefano, giunto alla decima edizione, è un evento che caratterizza all’interno degli istituti penitenziari il periodo che va da Natale all’Epifania, un lasso di tempo caratterizzato da varie iniziative con momenti di svago e scambio di doni. A Perugia, nel carcere di Capanne, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo del capoluogo umbro e presidente della Conferenza episcopale italiana, ha partecipato al pranzo di Natale, allestito nella sezione femminile, assieme a 95 detenuti. Durante il pranzo, a cui ha partecipato anche la direttrice del carcere Bernardina Di Mario, un gruppo di donne ha intonato dei canti spiritual accompagnati con entusiasmo da tutti i partecipanti attraverso il battito ritmato delle mani. “Pranzare insieme con tutte voi il giorno di Natale - ha detto Bussetti - è un segno dell’attenzione da parte mia e della Caritas diocesana verso voi che state vivendo una condizione particolare della vostra vita”. “Auguro a voi, alle vostre famiglie, a tutto il personale di quest’istituto - ha aggiunto il cardinale - un Natale buono e luminoso”. I detenuti del carcere di Pavia hanno invece offerto il pranzo ai 400 ospiti della Comunità di Sant’Egidio: antipasto, primo, due secondi con contorno, dolci, spumante e caffè che sono stati serviti nelle cripte di San Miche e San Luca alle persone meno fortunate della città. Gli ospiti della sezione ‘Protetti di Torre del Gallo’, prima di affrontare l’impegno natalizio, hanno frequentato un corso di cucina che gli ha dato le conoscenze necessarie a imbandire una tavola così numerosa e impegnativa. Ha fatto molto parlare il grande ‘presepe ecologico’ (realizzato con materiali riciclati come materassi, lenzuola, bottiglie e polistirolo) allestito dai detenuti del carcere palermitano di Pagliarelli. La giornalista Simona Licandro, autrice del servizio, ha anche intervistato due detenuti-artigiani. Il primo ha concluso il suo commento dicendo “noi ci abbiamo messo tutto il cuore” mentre il secondo ha dichiarato: “È un’attività che potrebbe servire anche a nel futuro perché è una sorta di inserimento. Oltre a imparare l’arte è anche una bella soddisfazione”. L’iniziativa organizzata dall’associazione nazionale Polizia di Stato raccoglie a Palazzo Cuto a Bagheria le opere realizzate dai detenuti ed ex detenuti di varie parti della Sicilia. Quel residuo di libertà dietro le sbarre di Enrica Riera L’Osservatore Romano, 29 dicembre 2019 Sesta edizione per la rassegna nazionale di teatro in carcere. Abbattere l’intrinseco stato di invisibilità, accorciare le distanze tra il mondo di fuori e il mondo di dentro, favorire percorsi rieducativi e riabilitativi. Perché anche chi si trova in stato di detenzione ed è privato della libertà personale ne conserva pur sempre un residuo. In tutto ciò, in quello che gli addetti ai lavori chiamano principio di umanizzazione della pena, ci hanno creduto Vittorio e Paolo Taviani quando, nel 2012, realizzarono Cesare deve morire, il docu-film sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia (“Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione”, tra le battute più emblematiche). E, come i geniali fratelli, ci credono tutti coloro i quali continuano, grazie alle attività più disparate, tra cui il volontariato dietro alle sbarre, ad annullare ogni sorta di pregiudizio. Tra di loro, tra i convinti che ci sia spazio per le seconde possibilità, c’è pure l’attore e regista Adolfo Adamo: dopo i successi accanto al padre delle avanguardie teatrali, Giuliano Vasilicò, è lui che mette, da ben sei anni, a disposizione dei ristretti la sua arte. “Sono convinto - afferma - che fare teatro nelle case circondariali risulti importante sia come opportunità sia come esperienza artistica. È un qualcosa che consente alla persona di ritrovare il filo della propria storia e di poterla raccontare e, soprattutto, di superare certe ombre interiori, capire il senso della libertà, conquistare le parole”. Così, sempre all’insegna dei valori catartici del teatro, l’ultimo spettacolo diretto da Adamo, nonché adattato per chi sconta una pena detentiva, ha il titolo di Redemption Day. Gli interpreti sono, per l’appunto, detenuti. Quelli della casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza che, di età compresa tra i 25 e i 60 anni, sono stati scelti per esibirsi alla sesta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere, dal titolo Destini incrociati, tenutasi a Saluzzo dal 12 al 14 dicembre scorsi e promossa dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere e dalla Compagnia Voci erranti, con la collaborazione, tra gli altri, del Mibact e del ministero della Giustizia. Otto ristretti in permesso premio sono, dunque, eccezionalmente volati in provincia di Cuneo per prendere parte e aprire il progetto che ha anche coinvolto le detenute e i detenuti delle case circondariali e di reclusione di Palermo, Pesaro, Livorno e Saluzzo e, nondimeno, i pazienti della struttura Rems di Bra. Oltre alle loro performance, la rassegna è stata arricchita dai video di circa venti realtà carcerarie, da mostre e installazioni, da laboratori e incontri di approfondimento, compresi quelli sulle esperienze dal carcere di Wroc?aw (Polonia) e dalla Wesleyan University (Usa) per far conoscere l’impegno di tanti artisti relativo al “mondo” delle reclusioni. C’è chi, da detenuto, ha raccontato l’attesa, la distanza, i sentimenti e le proprie emozioni; chi, pure, ha parlato di seconde volte, di opportunità, di voglia di libertà. “Partecipare a Destini incrociati - racconta il regista - è stato indimenticabile. Non solo per me, ma principalmente per i ragazzi che ho preparato grazie all’apposito laboratorio teatrale di oltre 250 ore in carcere: alcuni di loro mi hanno confidato che l’emozione più forte l’hanno provata al momento degli applausi dato che mai, nella vita, avrebbero pensato di poterne ricevere uno; un altro, invece, mi ha detto che nel suo futuro non vorrebbe abbandonare il non facile gioco del teatro. Il motivo? Gli appare come un’occasione imperdibile di vivere la vita”. A Saluzzo, in particolare, lo spettacolo portato in scena dagli attori-detenuti di Adamo si è liberamente ispirato al Moby Dick di Melville. Un atto unico in cui i personaggi/persone si riappropriano del significato di una parola faro. Per tutti, indistintamente: autostima, consapevolezza e perdono di sé stessi per intraprendere una nuova vita. “Sconfiggendo la balena bianca, che altro non è che la paura dell’ignoto, rappresentato dal perdersi nel bianco, un colore non colore, gli interpreti capiscono, sulla scena come nella vita, che non tutto è andato perduto e si riconciliano con la propria anima. Se nel libro di Melville, è il capitano Achab ad inseguire la balena, in Redemption Day è Moby Dick a inseguire il Pequod: ciò perché volevo far intendere agli spettatori e non soltanto a loro, che, nonostante si possa essere perseguitati da angosce e tormenti, il male può essere bloccato per far nascere il bene”, spiega sempre Adamo che conclude rivelando il suo sogno nel cassetto. “Dar vita - dice - a una compagnia stabile di attori reclusi, un po’ sulla scia della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, fondata da Armando Punzo e al suo trentesimo anno di vita, dove ciascuno di loro riceva una giusta paga”. Un riconoscimento tanto prezioso quanto quell’ultimo residuo di libertà che possiedono. Prescrizione. Il premier non convince il Pd: “Ci ascolti o si decide in aula” di Liana Milella La Repubblica, 29 dicembre 2019 Sulla prescrizione Giuseppe Conte non convince gli alleati. Né il Pd, né Italia viva. Come ha sempre detto, il premier condivide la prescrizione “corta” del Guardasigilli Alfonso Bonafede (stop dopo la sentenza di primo grado), ma promette novità sul sistema del processo penale per accelerarne i tempi. E un niet alla proposta presentata dal Pd che vuole azzerare la Bonafede (che entrerà in vigore dal primo gennaio e riguarderà solo i reati commessi da quel giorno in avanti) per ripristinare la prescrizione dell’ex ministro della Giustizia Dem Andrea Orlando (sospensione della prescrizione per 42 mesi tra appello e Cassazione). È un ginepraio da cui non si esce, mentre Bonafede insiste nel suo silenzio e non reagisce alla proposta del Pd. Gli basta la piena copertura di Conte che giocherà un ruolo il 7 gennaio quando si terrà il prossimo vertice sulla giustizia. In cui Bonafede dovrà presentare un pacchetto per accelerare i processi. L’unica strada per salvare non solo la sua legge, ma pure la sua poltrona. Perché è chiaro che sono pronti alla sfida non solo i forzisti di Enrico Costa, ma anche il Pd e i renziani di Italia viva. Dice Costa: “L’avvocato del popolo, difendendo la Bonafede, assesta un sonoro ceffone al Pd e alla sua proposta tardiva”. Poi suggerisce a Conte e al Pd “di accettare che sia al Parlamento a esprimersi, invece di legare le mani ai tanti garantisti che considerano uno scempio la riforma Bonafede”. Infine una minaccia neppure velata: “Prima e poi arriverà un voto segreto...ci sono temi sui quali i parlamentari devono potersi esprimere liberi dai vincoli di maggioranza”. Costa parla della sua proposta di legge per cancellare la Bonafede che 1’8 gennaio arriva agli emendamenti in commissione Giustizia. Il renziano Ettore Rosato ha subito detto ieri che se la Bonafede non cambia “noi voteremo quella di Costa”. E su Conte aggiunge: “Abbiamo posto il tema del superamento della legge sulla prescrizione voluta da Lega e M5S da subito. Confidiamo in un accordo. Altrimenti in aula saremo coerenti con quanto abbiamo sempre detto”. E va ricordato che Italia viva per tre volte ha già votato in difformità con il governo. Nella maggioranza la crisi della giustizia cresce. Tant’è che il responsabile Giustizia Dem Walter Verini su Conte dice: “Ha ammesso che la norma sulla prescrizione così com’è non offre garanzie ai cittadini. Ha riproposto il tema della durata dei processi. Ma a queste parole non corrisponde niente di concreto. La prescrizione è sbagliata e va cambiata, tre forze su quattro della coalizione insistono su questo, e ce ne sarà una ragione”. Poi un nuovo appello a Bonafede: “Il primo che deve uscire dalla rigidità e dare ascolto al Pd e alle altre forze della coalizione dev’essere lui. Altrimenti sarà il dibattito parlamentare a decidere”. Anche qui, come per i renziani, si profila una netta spaccatura in aula della maggioranza. Prescrizione, intesa lontana. La minaccia dei renziani: “Noi pronti a votare con FI” di Marco Conti Il Messaggero, 29 dicembre 2019 La mediazione di Palazzo Chigi: applicare lo stop solo per i condannati in primo grado e non per gli assolti. “La prescrizione sospesa alla sentenza di primo grado non è un obbrobrio giuridico”, “ma rischieremmo di andare in difficoltà sul piano della garanzia ai diritti dei cittadini senza meccanismi di garanzia per la durata ragionevole del processo”. La speranza del Pd di scalfire l’irremovibile ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si aggrappa alla seconda parte del ragionamento fatto da Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di fine anno. Subito dopo la Befana, la delegazione dei partiti di maggioranza si incontreranno per riprendere il tema e Walter Verini, responsabile giustizia del Pd, arriverà all’incontro con la proposta presentata ieri l’altro dai Dem sulla quale il ministro Guardasigilli non ha ancora espresso verbo. La mediazione parte quindi in salita con i 5S aggrappati alla narrazione del “fine processo mai” e consapevoli che poiché gli effetti della riforma a suo tempo votata con la Lega si vedranno nei prossimi anni, c’è tempo sia per intervenire sia per sventolare una bandiera particolarmente cara agli elettori M5S. Così come ci vorrà tempo che venga sollevato un quesito di costituzionalità presso la Consulta che, secondo i bene informati, potrebbe cancellare “l’obbrobrio”. Ma di tempo ce ne è invece poco per evitare che la maggioranza voti in ordine sparso sul testo ora in Commissione, del deputato azzurro Enrico Costa. A metà del prossimo mese sarà in aula e Ettore Rosato, esponente di Italia Viva, ribadisce l’intenzione dei renziani di votare l’azzeramento della riforma Bonafede “se non ci saranno novità rilevanti”. Il presidente del Consiglio Conte ha da tempo in mano il delicato dossier e ieri ha fatto capire in che direzione potrebbe muoversi per cercare di tenere unita la maggioranza. L’idea sarebbe quella di agganciare alla riforma del processo penale una norma che distingua tra gli assolti e i condannati in primo grado. Ai primi non si applicherebbe la riforma votata dal governo gialloverde con lo “spazza-corrotti”, mentre ai condannati in primo grado verrebbe cancellata ogni forma di prescrizione come prevede il testo-Bonafede. Il tutto dovrebbe andare in aula nei tempi che verranno stabiliti dal cronoprogramma che la maggioranza dovrebbe mettere a breve nero su bianco. Una soluzione che potrebbe accontentare il Pd, che da tempo chiede ai 5S e a Conte di tenere in considerazione la contrarietà alla riforma Bonafede “di tre partiti su quattro della maggioranza”. Sulla possibile distinzione tra condannati e assolti in primo grado i dubbi di costituzionalità restano, visto che la Carta considera gli imputati innocenti sino al terzo grado di giudizio e quindi non solo non dovrebbe bastare la conferenza stampa di un pm per condannare, ma servirebbe una sentenza della Cassazione passata in giudicato. L’attenzione con la quale ieri l’avvocato e premier Conte si è espresso sui tempi “troppo lunghi” dei processi tributari, con tanto di proposta di ridurre a due i gradi di giudizio, ha però fatto scattare l’allarme tra i renziani. Anche perché nel frattempo le pene per i presunti evasori sono state fortemente inasprite. È anche per questo che Italia Viva continua a tenere alta l’asticella e, in caso di mancato accordo, è pronta a presentare un emendamento al testo-Costa che di fatto riprenderebbe la proposta formulata solo qualche giorno fa dal Pd in modo da mettere in difficoltà i Dem. A rendere ancor più complicata la tenuta della maggioranza anche i voti segreti che generalmente fioccano quando il Parlamento è chiamato ad operare su materie che attendono i diritti civili. Verini (Pd): “Sulla prescrizione non vogliamo abiure, ma Bonafede cambi” di Francesco Grignetti La Stampa, 29 dicembre 2019 “Sulla riforma avevamo fatto passi avanti, l’unico immobile è stato il ministro”. Walter Verini ha ascoltato con attenzione Giuseppe Conte dire, dello stop alla prescrizione, che “non è un obbrobrio giuridico” purché si possa “assicurare la ragionevole durata dei processi”. Il Pd è soddisfatto? “Queste parole intanto attestano che la norma da sola colpisce principi costituzionali. E diciamo che è finalmente ora di passare dalle parole ai fatti”. Avete fatto il gesto di presentare un vostro ddl. È una rottura irrimediabile dentro la maggioranza? “Ora sta a Bonafede avanzare proposte serie per la riforma del processo penale. Noi, alcune idee le abbiamo già inviate. Ma è evidente che la norma sulla prescrizione va modificata”. Farete una controriforma? “A volere essere precisi, fino al 31 dicembre rimane in vigore la legge Orlando che nel 2017 aveva modificato la prescrizione. Vede, se avessimo voluto farne un totem, avremmo potuto fare le barricate. Invece abbiamo dimostrato che non ci interessano le bandierine propagandistiche. Dicevamo: modifichiamo la riforma Bonafede e al tempo stesso lavoriamo sulla riforma del processo penale. Avevamo fatto dei passi in avanti, nostro malgrado. L’unico immobile è stato il ministro”. Come se lo spiega? “Probabilmente questa legge rappresenta un principio identitario. Però paralizzante. Bene, ora entra in vigore, ma poi facciamola finita con i totem. Il ministro non può ignorare che su quattro forze politiche della maggioranza, tre sono profondamente contrarie alla sua riforma. Non chiediamo abiure, ma è inaccettabile che lui stia fermo su posizioni che vedono contrario tutto il mondo della avvocatura, e se anche l’Anm si è espressa a favore, nelle audizioni ci sono stati autorevoli magistrati che hanno evidenziato i rischi. È ora di passare dalle bandierine a un lavoro serio di sintesi”. Il ministro una sua idea l’aveva: un meccanismo disciplinare contro i magistrati che sforassero i tempi delle varie fasi del processo… “Meccanismo superato. Pensare di risolvere il problema con le pagelle, con i punti come fosse la patente, ci sembra una proposta bizzarra”. E allora? “Si tratta di fissare tempi ragionevoli, magari per tipologie di reato. Procedere a depenalizzazioni che diano certezza della pena e alleggeriscano la macchina della giustizia. Troppo spesso sono proprio i reati con pene edittali minori che ingolfano i tribunali e poi si prescrivono. Ci possono esser varie modalità, senza punti e penalizzazioni, per rendere certi i tempi dei processi. E poi parallelamente si può lavorare alla prescrizione: depotenziando il problema, dobbiamo tornare a discuterne. È ora di farla finita sia con le bandiere dell’estremismo giustizialista sia con le bandierine di un garantismo a corrente alternata”. Ma voi del Pd andreste fino in fondo? “Guardi, abbiamo detto che non vorremmo usare la nostra proposta di legge non per paura, ma perché continuiamo ad augurarci che si giunga a un punto di vista condiviso. Se così non fosse, ce la vedremo in Parlamento”. Costa (Fi): “La proposta dem ancora non basta, stanno mercanteggiando con M5S” di Emilio Pucci Il Messaggero, 29 dicembre 2019 “Noi siamo coerenti, pensiamo ai contenuti che si possano condividere le idee dell’avversario politico. La riteniamo insufficiente ma siamo disponibili a votare la proposta del Pd”. Enrico Costa, deputato di Forza Italia ed ex viceministro della Giustizia nel governo Renzi, è il relatore del disegno di legge che punta a imporre lo stop alla riforma Bonafede ma apre alla possibilità - prospettata dai dem - di proporre una sospensione dei tempi della prescrizione di due anni per l’appello e di un anno dopo la Cassazione, ai quali si possono aggiungere altri sei mesi se c’è il rinnovo dell’istruzione dibattimentale. “È il male minore”, afferma. Dunque ritiene ancora possibile una convergenza con il Pd? “Presentino un emendamento al ddl in discussione in commissione. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di definire tempi certi per ogni grado di giudizio e far prescrivere il processo se si sforano quei tempi. In ogni caso se Bonafede pensa di risolvere il problema della durata ragionevole dei processi con qualche accorgimento si sbaglia”. Prevede a gennaio un redde rationem nel governo su questo tema? “Non credo proprio che il Pd premerà il grilletto. Avrebbe potuto spingere il bottone verde invece che quello rosso per approvare le nostre proposte e non lo ha fatto. Per ora i dem si sono piegati a MSS. La sensazione è che abbiano portato sul tavolo una proposta per fare un po’ di propaganda. Una cortina fumogena per evitare lo scontro con il ministro della Giustizia”. I renziani però si sono schierati al suo fianco per affossare la norma approvata nel decreto legge Spazza-corrotti… “C’è corrispondenza tra ciò che dichiarano e ciò che votano. Fino a questo momento i numeri in Parlamento non sono stati sufficienti, perciò auspichiamo che il Pd venga sulle nostre posizioni. Lo stop alla prescrizione è davvero uno scempio giuridico”. Per il Movimento 5 stelle non è così… “I cittadini hanno il diritto di pretendere una durata ragionevole dei processi”. Il ministro ritiene che l’entrata in vigore della riforma della prescrizione il primo gennaio non comporta rischi di questo genere… “La prescrizione è uno stimolo ad agire, a non mettere il fascicolo nel cassetto. Se si toglie questo istituto si colpiscono i cittadini. Gli italiani non possono pagare l’inefficienza del sistema. Consideriamo poi che abbiamo delle conferenze stampa degli inquirenti che sono delle vere e proprie sentenze. La presunzione d’innocenza viene per così dire trascurata, vieni marchiato appena sei sottoposto a processo. Voglio ricordare che da11992 ad oggi 28mila persone sono state arrestate ingiustamente. Lo Stato è costretto a pagare continuamente indennizzi. Il record di ingiuste detenzioni nel 2018 è spettato a Catanzaro, con più di 10 milioni di risarcimenti”. L’8 gennaio scade il termine per presentare gli emendamenti al suo ddl. Che cosa si augura? “Mi aspetto che le forze politiche ragionino in termini costruttivi e non soppressivi, che il Pd presenti sotto forma di emendamento la sua proposta e che non venga quindi considerato strumentale il mio ddl per il solo motivo che proviene dall’opposizione”. Teme un ulteriore rinvio della discussione in Aula? “Abbiamo presentato questa proposta ad agosto, è in quota opposizione, non è più possibile rallentarne l’iter. Se la maggioranza vuole bocciare il ddl lo faccia tranquillamente, ma se ne assuma la responsabilità. Non possiamo andare avanti a tirare la palla in tribuna. È arrivato il momento che il Parlamento si esprima. Il Pd eviti di mercanteggiare con M5s sui diritti ed entri nel merito della questione”. Ci saranno voti segreti? “Il voto segreto non è uno strumento radioattivo. Bisogna trovare delle modalità parlamentari per consentire ai deputati di esprimersi secondo coscienza, indipendentemente dagli ordini di scuderia”. Armando Spataro: “Giusto pretendere sentenze definitive, ma il tempo non può essere eterno” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 dicembre 2019 L’ex procuratore: soluzione Pd ragionevole. “La riforma Bonafede parte da un rilievo logico: una condanna anche di primo grado non può cadere nel nulla per il solo decorso del tempo. Ma è una scelta della politica non il frutto di una pretesa dei magistrati. E non sì può partire da questa legge per attaccare il potere giudiziario o declassarlo a ordine”. L’ex procuratore di Torino Armando Spataro apprezza solo l’intento della legge Bonafede. Perché? “L’intento è arrivare a concludere il processo. Ma prevedere un tempo infinito non va bene ed urta contro il principio della sua ragionevole durata. Né la condanna di primo grado equivale a una sentenza definitiva”. La proposta del Pd la convince? “È ragionevole. La prescrizione indica un venir meno dell’interesse dello Stato alla punizione del reato per il decorrere da un tempo che varia a seconda della gravità del reato. Se però il pm promuove l’azione penale o arriva una condanna si può anche dire che quell’interesse si è manifestato. Quindi una soluzione che dopo la sentenza di primo grado si limiti ad allungare i tempi della prescrizione mi sembra ragionevole”. C’è chi addebita ai magistrati le lungaggini… “Generalizzare è sempre una stupidaggine. I riti processuali sono pieni di passaggi ormai privi di senso. E molti problemi sarebbero risolvibili colmando i vuoti d’organico del personale amministrativo e dei magistrati. Difficile capirlo se non si sta nei tribunali”. Sul “Corriere” Panebianco dice che esiste un panpenalismo… “Non c’è dubbio che la panpenalizzazione esista. Ma un conto è dire che il magistrato deve muoversi con professionalità ed equilibrio, un conto è pensare che debba prestare ossequio alle logiche della politica o dell’economia. Soprattutto non si può dire che secondo la Costituzione la magistratura sia un ordine, come già affermarono circa dieci anni fa noti personaggi politici. Definirla così ne sottintende la declassificazione e la sua conseguente subordinazione alla classe politica”. E l’articolo 104 della Carta? “È vero che dice: “La magistratura costituisce un ordine”. Ma prosegue: “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Dire “altro” implica che essa stessa è un potere. In Assemblea Costituente tutti gli interventi muovevano dal presupposto di una magistratura configurata come potere dello Stato posto sullo stesso piano degli altri. due. Del resto né il Parlamento né il governo sono mai qualificati “poteri”, nel testo. La verità è che l’opposta concezione dei rapporti tra poteri dello Stato ne rievoca un’altra”. Ovvero? “Quella di Mussolini che, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1940, affermò: “Nella mia concezione non esiste una divisione di poteri, nell’ambito dello Stato il potere è unitario”. Forse senza che i sostenitori se ne rendano conto, rievoca la concezione fascista”. Gian Domenico Caiazza: “Tra dem e 5 Stelle gioco delle parti, le riforme si annullano tra loro” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 dicembre 2019 Il capo dei penalisti: imputati danneggiati. “Il Pd aspettava la mediazione del presidente Conte sulla prescrizione. Ora che lui ha risposto sostanzialmente “marameo”, cosa farà?”. Sorride Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Cosa intende? “Beh, insomma, quando gli è stato chiesto se ci sarà una sua mediazione, il presidente Conte mi pare abbia risposto che si farà la riforma del processo penale per accorciarne i tempi. Come dire: la mediazione sarà quella lì”. Non l’auspicavate? “Certo. Ci abbiamo lavorato 5 mesi col ministro a quella riforma, ma bisognava prima scrivere e fare entrare in vigore quella e solo dopo introdurre la legge Bonafede, che peraltro non incide nemmeno tanto sulle prescrizioni”. Perché? “Perché la gran parte delle prescrizioni, il 60%, a detta dello stesso ministro interviene prima dell’udienza preliminare, e su questo la norma nulla cambia. Un ulteriore 1596 si prescrive prima della sentenza di primo grado, e anche su questo nulla dice la legge. Perciò incide solo su un 25% delle prescrizioni”. Allora perché la avversate così tanto? “Perché anche quel 25% di cittadini ha diritto a non rimanere appeso a un processo senza termine”. Non è colpa di voi avvocati che la tirate per le lunghe? “È una sciocchezza. Prima potevamo. Dal 2006 gli impedimenti legittimi di imputati e difensori e le astensioni per protesta degli avvocati sospendono i termini”. Cosa pensa della proposta Pd? “A noi non piace, come non ci piaceva la legge Orlando, perché riteniamo che i tempi di prescrizione sono ormai lunghissimi. E quindi non è necessaria. Ma comunque, come alternativa alla bruttissima legge Orlando abbiamo detto che siamo pronti ad accoglierla positivamente. Il punto però è un altro”. Ovvero? “Ci sembra un gioco delle parti. La proposta Pd non è altro che la riproposizione della legge che era in vigore”. I tempi di sospensione non sono diversi? “Sono solo distribuiti diversamente. La legge Orlando ora in vigore prevede un anno e mezzo di sospensione tra la sentenza di primo grado e la sentenza di appello. E un altro anno e mezzo di stop tra la sentenza di appello e la sentenza definitiva in Cassazione. La proposta Pd due anni di sospensione tra la sentenza di primo grado e l’appello e un anno tra l’appello e la sentenza di Cassazione. Più sei mesi, ma solo in casi eccezionali”. E quindi? “Quindi è di fatto abrogativa della riforma Bonafede. E lui, certo, non potrà mai accettarla. E allora il Pd che ci fa, la birra?”. Non crede la presenterà in Parlamento? “E poi? La vota con le opposizioni? Fa cadere il governo? In più Enrico Costa (Fi) ha subito detto che l’accoglierà come emendamento, alla propria proposta. Così il Pd si troverà, magari nella condizione di dover bocciare la propria proposta perché ormai è travestita da legge di Forza Italia. Siamo alle comiche”. Scontro Lupacchini-Gratteri, Area e MI: “Intervenga il Csm” di Simona Musco Il Dubbio, 29 dicembre 2019 Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini rischia un trasferimento d’ufficio dopo l’attacco al capo della Dda Nicola Gratteri. L’attacco al capo della Dda Nicola Gratteri potrebbe costare caro al procuratore generale Otello Lupacchini che ora rischia un trasferimento d’ufficio. Una possibilità che emerge tra le righe della richiesta inviata dai togati di Area al comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, con la quale invocano l’apertura di una pratica in prima commissione, che tra le sue competenze ha l’accertamento dei casi di incompatibilità. E a loro si associano i colleghi di Magistratura Indipendente, che hanno chiesto maggiori tutele per i magistrati del distretto. Nel mirino dei consiglieri di Area l’intervista rilasciata da Lupacchini a TgCom in merito ai 330 arresti eseguiti su disposizione dell’autorità giudiziaria di Catanzaro, durante la quale ha ripreso i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri. Ancora una volta a suscitare l’indignazione del pg è stato il “mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari”. “I nomi degli arrestati - aveva dichiarato - e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa”. Parole dure, con le quali Lupacchini ha criticato non solo il silenzio della Dda, ma anche l’efficacia del lavoro della procura antimafia. Dichiarazioni “particolarmente allarmanti” per i consiglieri di Area, “in ragione del ruolo rivestito dall’intervistato ed in quanto riferite ad un provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari di Catanzaro, sul quale dovrà pronunciarsi nei prossimi giorni il Tribunale per il Riesame di Catanzaro”. I magistrati Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Mario Suriano e Giovanni Zaccaro hanno dunque chiesto l’apertura di una pratica in prima commissione “per l’adozione di urgenti provvedimenti a tutela della credibilità dell’autorità giudiziaria di Catanzaro e dell’esercizio sereno, imparziale ed indipendente della funzione giudiziaria in quella sede”. Ma non solo: i consiglieri hanno anche manifestato l’esigenza di un piano straordinario per gli uffici giudicanti di Catanzaro, il cui “sottodimensionamento” unito alle “croniche scoperture” e all’accentuato turn over, rischia “di impedire un veloce ed efficace accertamento delle ipotesi accusatorie”. A fianco a loro anche i tre consiglieri di Magistratura Indipendente, Paola Braggion, Antonio D’Amato e Loredana Micciché, che hanno denunciato il proliferare di “commenti, prese di posizione e comportamenti potenzialmente lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione, tali da turbare il regolare svolgimento ovvero da appannare l’immagine della funzione giudiziaria” immediatamente dopo l’esecuzione degli arresti. In particolare i consiglieri fanno riferimento alle dichiarazioni della deputata dem Enza Bruno Bossio, moglie di Nicola Adamo - per il quale è stato disposto il divieto di dimora nell’ambito di tale inchiesta, la quale aveva accusato Gratteri di essere artefice di uno “show” con lo scopo di “colpire la possibilità di Oliverio (Mario, governatore uscente della Calabria, ndr) di ricandidarsi”. Ma nel mirino di MI ci sono anche le “particolarmente allarmanti” dichiarazioni di Lupacchini, in particolare per il ruolo da lui ricoperto. “Con la richiesta di apertura di pratica a tutela hanno aggiunto - intendiamo assicurare un tempestivo intervento a tutela della indipendenza e della serenità di giudizio dei magistrati del Distretto di Catanzaro, in particolare quelli della Procura distrettuale preposti allo svolgimento di ulteriori indagini; dei giudici per le indagini preliminari; dei magistrati del Tribunale del Riesame di Catanzaro e di tutti gli altri magistrati del Distretto, direttamente o indirettamente chiamati a svolgere il proprio ruolo nell’ambito del procedimento penale relativo alla esecuzione dei recenti arresti”. Si schiera, invece, contro la gogna mediatica il direttivo della Camera Penale “Avvocato Fausto Gullo” di Cosenza, che punta il dito contro la “spettacolarizzazione dei fatti giudiziari”, foriera di possibili ““sentenze anticipate” sui mezzi d’informazione e non formate correttamente nelle sedi proprie delle aule di giustizia”. Il tutto “in pieno contrasto con il principio di non colpevolezza sancito, riconosciuto e tutelato nella nostra Carta Costituzionale”. La testuggine dei Pm e il sussurro di Panebianco di Piero Sansonetti Il Dubbio, 29 dicembre 2019 È un sussurro quello di Panebianco. Non perché le sue idee non siano forti e argomentate con rigore. Ma perché il professore appare sempre più solo: nessuno ha voglia di ascoltare la sua voce e il suo ragionare. A occhio, neppure il giornale che lo ospita. E infatti Panebianco pone esattamente questo problema: le élite. Le élite, dice, cioè le classi dirigenti - semplificando un poco - non sono affatto sensibili alla democrazia e ai suoi cardini. Sono estranee. E perciò in Italia diventa impossibile mantenere integro lo Stato di diritto. E la stessa democrazia regge solo perché imposta dalle relazioni internazionali. Ma, senza una direzione, vacilla. Non è irreversibile. Queste cose Angelo Panebianco le ha scritte nell’editoriale del Corriere di ieri, spiegando come in Italia non sia mai esistito un equilibrio tra i poteri. Nella vecchia repubblica dei partiti - scrive - la magistratura era subordinata al potere politico. Ora l’ordine giudiziario ha smesso di essere un ordine, è diventato potere e ha sottomesso la politica a se stesso. Gli intellettuali, i giornali, le case editrici, i circoli culturali, le associazioni, le Tv, il cinema, gran parte dei partiti sono i difensori di questo ribaltamento dei poteri che ha portato alla repubblica giudiziaria. Prendiamo il discorso più coraggioso pronunciato in Parlamento negli ultimi 25 anni. Quello di Matteo Renzi, che ha denunciato l’arroganza dei Pm e l’invasione di potere. Quanto è durato? Una settimana dopo quel discorso il partito di Renzi ha chiesto che Salvini sia consegnato ai Pm, e subito dopo è scattato in difesa di un Pm di assalto, come Gratteri. Il quale ha ricevuto critiche pesanti da alcuni suoi colleghi, per esempio dal Procuratore generale di Catanzaro, Lupacchini, e da un monumento della magistratura italiana come Armando Spataro. Che lo hanno accusato di teatralità nell’esercizio della sua funzione. Come hanno reagito i politici alle critiche verso Gratteri? Col silenzio. E i magistrati? Sono insorti. Non contro Gratteri, però: contro i critici. Sia la corrente di sinistra, e cioè Area, sia quella moderata, e cioè Magistratura Indipendente, all’unisono si sono scagliate contro Lupacchini e Spataro e hanno chiesto che fosse loro imposto il silenzio. Ecco come si spiega la solitudine del coraggioso Panebianco. La politica si acquatta quando vede un Pm. I Pm invece si compattano se qualcuno li tocca. Gridano e fanno la faccia feroce. Sono casta, pura casta. E in questo modo il loro potere diventa incontrollabile. Il magistrato e Twitter: istruzioni per l’uso di Pieremilio Sammarco* Libero, 29 dicembre 2019 All’indomani della maxi operazione della Procura della Repubblica di Catanzaro, il Procuratore Capo Gratteri pubblica un tweet osservando come i grandi giornali sulle loro prime pagine avessero ignorato la notizia dei 330 arresti e rimarcando la sua volontà di “smontare la Calabria come i Lego”. Questo episodio ci induce alcune riflessioni sui delicati rapporti tra la magistratura e i social. In questo nuovo contesto comunicativo che ha contagiato tutte le fasce della popolazione, non si sottraggono i giudici che, attratti dalla potenza del mezzo e alla ricerca di popolarità e consenso, aprono un proprio profilo e da lì irradiano i loro messaggi sperando di raggiungere il maggior numero di seguaci. Ma si tratta di una materia da maneggiare con cura, atteso il ruolo e la funzione che assolve il magistrato su cui il legislatore e il Csm non hanno ancora elaborato delle linee guida. Negli Stati Uniti è consentito ai giudici di utilizzare queste forme di comunicazione con dei distinguo. Ad esempio, il Committee on Judicial Ethics del Massachusetts, nell’affermare il principio generale che ogni forma di comunicazione al pubblico del giudice non deve ledere l’indipendenza, l’integrità, l’imparzialità e la fiducia nel sistema giudiziario, prescrive il divieto di pubblicare informazioni o commenti inerenti al processo, di abusare del prestigio dovuto all’incarico e di mantenersi distanti dalle attività politiche. Il giudice, inoltre, deve comportarsi in tutte le sue attività extragiudiziarie, anche private, in modo tale da minimizzare il rischio di un conflitto con i propri doveri di ufficio, nonché, deve aspettarsi di essere oggetto di controllo da parte del pubblico e, nell’usare Twitter, deve considerare che un messaggio che egli valuta neutro può, invece, indurre altri a ritenere che sia messa in dubbio la sua imparzialità. L’esperienza nordamericana consente queste forme di comunicazioni in virtù dell’architettura del suo ordinamento, che ha due pilastri fondamentali a sostegno: il First Amendment della Costituzione con il principio della freedom of speech e il sistema di selezione ed arruolamento dei giudici delle corti statali che prevede l’elezione da parte dei cittadini e dunque l’onere per i candidati di costituire dei solidi canali comunicativi con la collettività. Nel Regno Unito, invece, per evitare in radice ogni situazione potenzialmente lesiva del prestigio e dell’immagine del corpo giudiziario, il Judicial Office, un ufficio del Ministero della Giustizia inglese, ha emanato una direttiva che vieta ai magistrati di essere titolari di pagine personali nei social media. Essi, naturalmente, quali privati cittadini possono utilizzarli, ma nelle loro comunicazioni devono omettere ogni riferimento alla loro appartenenza al corpo giudiziario ed alle loro attività istituzionali, limitandosi a pubblicare post su fatti estranei al sistema giudiziario. D’altronde, la pubblicazione delle comunicazioni personali, combinate tra loro, riflettono la personalità del giudice, il suo livello culturale, le sue passioni ed interessi, talvolta, anche il suo orientamento politico, elementi tutti che contribuiscono a delinearne il suo profilo e probabilmente coglierne le caratteristiche ed il suo modo di essere. E questo senza considerare le attuali tendenze di analizzare i dati, anche quelli a prima vista più insignificanti, rilasciati sulla rete, che consentono, attraverso complesse operazioni di trattamento, di ottenere una previsione, oltre che sulla personalità ed il carattere, anche sulle condotte e sulle decisioni che attueranno gli individui. Proprio per queste ragioni, si preferisce il modello di giudice apparentemente neutro, la “bocca della legge”, che comunica al pubblico unicamente con i suoi provvedimenti, che rifugge dai social media per parlare delle proprie gesta, che non le enfatizza e non cerca il consenso. *Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo Torino. Suicida in cella, il monitor che lo sorvegliava era rotto di Federica Cravero e Ottavia Giustetti La Repubblica, 29 dicembre 2019 Per venti minuti mentre il detenuto tentava di uccidersi nessuna guarda penitenziaria ha controllato. Ci sono voluti venti interminabili minuti prima che Roberto Del Gaudio riuscisse a uccidersi, a 65 anni, impiccandosi in cella la sera del 10 novembre. Venti minuti passati ad armeggiare con i pantaloni del pigiama appesi alla finestra e usati come cappio. La sequenza si vede chiaramente nel filmato delle telecamere interne. Non era facile trovare un modo per farla finita con le poche cose che aveva a disposizione, ma l’uomo - che era rinchiuso nel carcere Lorusso e Cutugno per aver ucciso ad agosto la moglie Brigida De Maio - ostinatamente ha provato e riprovato a fissare il cappio alla grata della finestra, fino a quando non gli è parso ben solido e allora ci si è appeso e si è lasciato andare. Eppure, sarebbe bastato un rapido sguardo al monitor che filmava ogni suo movimento, per far saltare il piano. Del Gaudio era un soggetto psicotico, in cura al centro di salute mentale già prima del delitto e, per il timore che potesse togliersi la vita, era sotto sorveglianza 24 ore su 24. Ma nessuna delle guardie si è accorta di nulla quella sera. Solo quando ormai non c’era più niente da fare, gli agenti della polizia penitenziaria sono entrati nella sua cella e hanno cercato inutilmente di soccorrerlo. C’era la partita, quella sera. Juventus-Milan, calcio d’inizio alle 20.45. Un incontro concitato soprattutto nel secondo tempo, quando Cristiano Ronaldo è stato sostituito da Paulo Dybala, che poi ha segnato il gol decisivo. I filmati dell’impianto di video sorveglianza hanno mostrato che proprio in quei minuti, intorno alle 22.30, Roberto Del Gaudio ha messo in atto il suo piano suicida. È un’ipotesi, al momento. Ma il solo sospetto di una simile spiegazione pare spaventosa: mentre il detenuto era impegnato a costruirsi un cappio tra le quattro mura della sua cella, le guardie che avrebbero dovuto vigilare su di lui erano invece concentrate a guardare la partita. Per venti lunghi minuti, questo invece è una certezza, nessuno ha rivolto un solo sguardo verso il monitor di controllo. Del Gaudio per molte settimane era stato guardato a vista. Poi la misura era stata sostituita con la vigilanza costante attraverso telecamere a circuito chiuso che inquadrano gli interni di diverse celle e passavano le immagini su un video nella saletta delle guardie. Proprio quella sera, si sono giustificati gli agenti, lo schermo si è rotto. Si è staccato dalla robusta staffa che lo assicurava al muro ed è caduto a terra. Quando la polizia giudiziaria ha effettuato il sopralluogo, gli agenti su cui si concentrano i sospetti hanno mostrato il televisore ancora in frantumi. Ma la ricostruzione non chiarisce tutti i dubbi e sulla morte di Del Gaudio i pm Giulia Marchetti e Francesco Pelosi hanno aperto un’inchiesta. Anche il ministero di Giustizia ha disposto un’ispezione in carcere. “È una vicenda che ci addolora perché il nostro compito è prevenire il suicidio e il disagio dei detenuti, ma con i numeri elevati e i grandi flussi a cui dobbiamo fare fronte è un’impresa che a volte non riusciamo a compiere”, dice il direttore, Domenico Minervini. Anche fosse vero che quella sera il monitor è andato in tilt, i sorveglianti avrebbero dovuto organizzare la vigilanza diversamente, passando di persona a controllare. Invece l’hard disk dell’impianto video mostra che nessuno si è mai affacciato nella cella di Del Gaudio per tutto il tempo che gli è servito a morire. “I particolari che stanno emergendo dalle indagini lasciano basiti”, è il commento dell’avvocato Riccardo Magarelli, che difendeva Del Gaudio nell’inchiesta per il femminicidio e che adesso assiste il fratello del suicida come parte offesa in quest’ultimo capitolo. “Abbiamo sempre avuto fiducia - aggiunge - nel fatto che i magistrati stessero indagando con scrupolo per fare piena chiarezza su questo decesso”. Vigevano (Pv). Detenuti violenti e un suicidio in cella, Sindacati in allarme di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 29 dicembre 2019 “Nel carcere dei Piccolini ci sono troppi soggetti psichiatrici e violenti”. Lo denuncia Gian Luigi Madonia, segretario regionale dell’Uspp, l’Unione sindacati polizia penitenziaria, in seguito all’aggressione che pochi giorni fa un detenuto ha messo in atto nei confronti di un agente di polizia penitenziaria. Pochi giorni prima di Natale, inoltre, un detenuto si è tolto la vita in cella. Per quanto riguarda l’aggressione, i sindacati riferiscono che agente si era rivolto al detenuto, un 36enne sottoposto ad un regime di sorveglianza particolare che prevede restrizioni al trattamento e ai diritti dei detenuti ritenuti pericolosi. L’agente aveva chiesto al detenuto se intendesse usare la doccia, ma invece di rispondere il 36enne gli si è scagliato contro procurandogli traumi per 5 giorni di prognosi. Altri agenti in servizio hanno provato a ripristinare l’ordine, ma anche un altro detenuto è intervenuto per dare man forte al 36enne, urlando ed offendendo gli agenti. “La Casa di reclusione di Vigevano - prosegue Madonia - sta diventando un contenitore di soggetti problematici. Da tempo è individuata dall’amministrazione penitenziaria come luogo in cui collocare soggetti psichiatrici e violenti, trasferiti ai Piccolini proprio per precedenti episodi disciplinari. Non si può andare avanti così: servono ambienti più idonei e personale formato”. L’allarme aggressioni, conseguenza soprattutto di una forte carenza di personale, è stato più volte evidenziato dal personale, dal sindacato e dal direttore del carcere Davide Pisapia. Non c’è stato invece niente da fare per salvare un detenuto che si è tolto la vita pochi giorni prima di Natale. Da quanto si è appreso l’uomo, che doveva scontare ancora 12 anni di carcere, proveniva dal bresciano, era un senzatetto ed era in carcere per omicidio preterintenzionale: aveva picchiato a morte un altro clochard. Il detenuto ha aspettato che il compagno di cella uscisse per andare al lavoro che poteva svolgere fuori dal carcere e, rimasto solo, si è soffocato con un sacchetto di plastica. Il corpo è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria. Napoli. “Il carcere sia davvero rieducativo” di Antonio Sabbatino Il Roma, 29 dicembre 2019 L’intervista a don Franco Esposito, cappellano della Casa circondariale di Poggioreale e presidente della “Liberi di Volare Onlus”. “Il carcere riesce poche volte ad essere rieducativo. Basti pensare che l’80% delle persone che finisce di scontare in carcere la propria pena poi torna a delinquere”. È l’allarme lanciato da don Franco Esposito, presidente della Onlus “Liberi di Volare”. Don Franco, la sua attività per il reinserimento dei detenuti risale nel tempo: “Da 15 anni sono cappellano al carcere di Poggioreale e sono anche direttore della Pastorale Carceraria. Inoltre, sono presidente della Liberi di Volare Onlus con la quale portiamo avanti progetti di recupero dei detenuti disposti a cambiare vita dopo aver scontato la propria pena. Da un anno la nostra sede si trova in via Giuseppe Buonomo 39 alla Sanità, in uno spazio della Curia. Prima eravamo ai Tribunali”. Quanti sono i detenuti in affidamento e quali sono le attività? “Attualmente sono una cinquantina i detenuti che accogliamo nella nostra struttura. Una quarantina, in affido, qualche altro è ristretto ai domiciliari ed altre ancora si trovano ancora in carcere. Insieme alla cooperativa Articolo 1 promuoviamo laboratori di scrittura creativa, di realizzazione di prodotti di pellame, bigiotteria che poi vengono messi in vendita. Le persone che frequentano la Liberi di Volare Onlus hanno tra i 18 e i 60 anni ed oltre, provengono da diverse realtà ed hanno commessi reati diversi. Questo, però, per noi non fa differenza ed anzi rappresenta una cosa positiva perché grazie questa diversità di contesti c’è la possibilità per tutti di arricchirsi spiritualmente e come persone”. Come vengono inseriti nei percorsi da voi promossi? “Le persone ci vengono segnalate dagli istituti penitenziari, i papabili però prima fanno un colloquio con noi per capire se davvero hanno la volontà di cambiare vita dopo aver scontato la pena. Solo allora partono con il percorso riabilitativo”. Ecco, su questo: il carcere davvero riesce a cambiare le persone? “In Italia il carcere riesce poche volte ad essere rieducativo. Basti pensare che l’80% delle persone che finisce di scontare in carcere la propria pena poi torna a delinquere una volta libero. Il dato, invece, si abbassa dell’8% quando i detenuti accedono a misure alternative. Ripeto, la funzione rieducativa del carcere qui non si realizza. Inoltre, a Napoli e al Sud c’è un ulteriore handicap”. Quale per la precisione, don Franco? “Che ad esempio una realtà come la nostra non è riconosciuta a livello istituzionale. Parecchie volte ho chiesto al sindaco Luigi de Magistris e all’Assessorato alle Politiche Sociali di intervenire su questo punto e darci una riconoscibilità. Spero che, al silenzio attuale, si sostituisca una presa d’atto”. Proprio il sindaco di recente ha indicato come garante dei detenuti Pietro Ioia, una nomina che ha creato numerose polemiche. Lei come la vede? “Sono contento per Pietro, con il quale abbiamo collaborato in diverse occasioni. Non sarei onesto se omettessi di dire che qualche perplessità in me si è comunque palesata perché sapevo che tra i candidati c’erano persone che avevano compiuto un certo percorso di studi e che avevano una certa padronanza di linguaggio. Però c’è anche da dire che Ioia ha dimostrato di voler abbracciare una nuova fase della sua vita dopo essere stato in carcere tanti anni e quindi mi fa piacere abbia questo nuovo incarico”. A livello legislativo è cambiato qualcosa sulle carceri? “Si è fatto un passo avanti e poi due indietro. L’ex ministro della Giustizia Orlando, nel Governo del centrosinistra con Gentiloni, aveva dato delle indicazioni alle quali però non sono state date seguito con i successivi Governi. La politica dovrebbe toccare con mano la realtà delle carceri. Ma ciò non avviene”. Napoli. A Pozzuoli, tra le donne detenute che lavorano per rinascere di Rosanna Borzillo Avvenire, 29 dicembre 2019 Appena entri il profumo del “Caffè Lazzarelle”, pregiata miscela prodotta dalle detenute del carcere femminile di Pozzuoli. Spetta a Giuseppina e Claudia tostare, seguire le fasi di asciugatura, macinare il caffè e occuparsi della manutenzione dei macchinari nei locali dell’istituto penitenziario in provincia di Napoli. È solo uno dei tanti progetti in cui sono impegnate le 160 detenute che, nonostante le enormi difficoltà del sistema carcerario italiano - dal sovraffollamento alla mancanza di progetti di lavoro o di reinserimento - qui, dietro le sbarre, hanno trovato per la prima volta una casa. Nei giorni scorsi il carcere, diretto da Carlotta Giaquinto, ha ospitato la visita del cardinale Crescenzio Sepe e di oltre duecento persone: “È stato emozionante - racconta Valentina, 25 anni - essere impegnata in un progetto: il presepe vivente. Per me era la prima volta che mi occupavo in qualcosa”. Valentina è arrivata alla casa circondariale per una rapina. Da un mese è a Pozzuoli. “Facevo la barista: il lavoro era impegnativo. Provengo da una famiglia normale: papa, mamma, tre fratelli. Poi le compagnie sbagliate”. Ma qui ha trovato una famiglia. “Ho capito che nella vita si può migliorare. Sbagliare è umano, perseverare un vizio. Qui sto avendo una seconda opportunità”. Valentina è stata selezionata tra le detenute che segue il corso professionale di estetista, finanziato dalla Regione Campania. Invece è stato un Natale a casa con i propri figli per trenta detenute: tra queste c’è Anna. È a Pozzuoli da 4 anni. Racconta la sua storia tra le lacrime. “Ho perso un bambino: è questo il mio dolore più grande”, per questo ha trascorso il 25 a casa con gli altri sei figli, tra cui Marco, che è gravemente disabile. Ma Anna si dice “sostenuta dalla fede; solo grazie ad essa ho ancora la forza di non lasciarmi andare”. Valentina, Anna, Lucia che lavora in lavanderia, “ma ho fatto una corsa per essere qui”, chiedono tutte preghiere e esprimono ringraziamenti per il cappellano don Fernando Carannante, la polizia penitenziaria, la direttrice. “Grazie a loro in questo carcere - dice Luana, 33 anni di Taranto, arrestata a Napoli mentre compiva una rapina- ci diamo una mano l’una con l’altra, convinte che alla fine di questo percorso saremo certamente diverse”. Su tutte l’incoraggiamento di Caterina: “Ce la possiamo fare: questo è solo un passaggio. Coraggio, andiamo avanti”. Oltre alla torrefazione del caffè, c’è l’orto in cui le ragazze sono impegnate, c’è una boutique per riadattare abiti usati e soprattutto per 40 di loro, la scuola. È attiva quella elementare, la media inferiore e il biennio delle scuole medie superiori. Recentemente sono stati attivati corsi universitari, nell’ambito di una collaborazione degli istituti penitenziari della provincia di Napoli con la Federico II. Ai corsi universitari (trasmessi dalla casa di reclusione di Secondigliano) partecipano 3 donne detenute, via Skype. “Abbiamo aperto le porte del carcere al territorio - spiega la direttrice Giaquinto - augurandoci che così le nostre detenute siano conosciute e riconosciute con la dignità di persone. Speriamo così che il carcere non sia considerato una realtà a sé ma parte integrante della società”. Ecco allora l’idea del presepe in cui 40 tra italiane e straniere hanno raccontato la Natività, in 5 spettacoli e dodici quadri viventi. Spetta al cardinale Sepe concludere: “Sono qui per dirvi che vi vogliamo bene, la Chiesa vi sta accanto e anche il Signore è con voi. L’importante è non arrendersi mai: tutti possiamo sbagliare. Il carcere non è certo l’ultima spiaggia. C’è sempre una speranza. Dio non ha paura del nostro peccato: ha paura solo se ci arrendiamo”. A Sepe la replica di Anna: “Eminenza, dalla mia cella al terzo piano, si vedeva un bel Crocifisso che si illuminava la sera. Ora non si accende più. Me la fate la cortesia di farla riparare? La vista di Gesù mi consolava”. Un impegno per l’arcivescovo, che abbraccia personalmente ogni detenuta mentre il quartetto “Discantus” diretto dal maestro Luigi Grima, saluta le detenute intonando “O sole mio”. Torino. La Natività nella botte di rovere per aiutare i bambini malati di Marina Lomunno Avvenire, 29 dicembre 2019 Costruita da due ex detenuti ed esposta in una mostra a San Gioacchino. Sta dentro una botte di rovere il presepe sotto la neve in una Betlemme di montagna con la capanna con i tetti di lose. Autori di questa originale Natività sono Nicola e Antonio che, con il materiale procurato da don Alfredo Stucchi, cappellano “in pensione” dopo 25 anni di “galera” nel carcere torinese, l’hanno costruito in due mesi con pazienza certosina in un capannone di un autolavaggio alle porte di Torino. Adagiato su un carro di quelli che si usavano in campagna tirati dai buoi, dalla scorsa settimana si può ammirare nella mostra di presepi nella parrocchia di San Gioacchino, a Porta Palazzo, affidata alle cure pastorali di don Andrea Bisacchi, della fraternità del Sermig, a due passi di qui e dal Cottolengo, nel cuore della Torino multietnica e dei santi sociali. “Il presepe nella botte l’hanno inventato due ex detenuti che hanno finito di scontare la propria pena ma che vogliono continuare a fare qualcosa per chi è meno fortunato” ha spiegato don Alfredo, 77 anni, già prete operaio, poi cappellano del penitenziario torinese e collaboratore parrocchiale per 19 anni a San Gioacchino, durante l’inaugurazione della mostra. Il sacerdote, anche se non è più in servizio “dietro le sbarre”, continua a seguire e a sostenere gli ex detenuti che ha conosciuto in carcere. “Nicola, quando era recluso ha costruito tanti presepi con alcuni compagni di cella con gli oggetti e le statuine che molti amici mi regalano conoscendo la mia passione per la Natività” prosegue don Alfredo “la botte, ad esempio, me l’ha regalata un amico che ha una cantina nella Langhe, le lose per i tetti della capanna arrivano da amici della Val Brembana. L’anno scorso Nicola ha costruito un presepe dentro un armadietto, ad ante anch’esso in esposizione a San Gioacchino, e uno in un baule montato nella cappella del carcere in occasione della Messa di Natale presieduta dall’arcivescovo Cesare Nosiglia. Quest’anno ha ideato il presepe nella botte. Per i detenuti costruire presepi è un modo per pensare alla loro famiglia, ai bambini che li aspettano a casa e che non possono festeggiare il Natale con i propri genitori”. E proprio ai bambini meno fortunati saranno devolute le offerte donate da coloro che visitano la mostra dei presepi a San Giocchino: al reparto oncologico dell’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino e all’Arsenale della Speranza, una casa famiglia gestita dal Sermig che accoglie i piccoli pazienti malati di tumore che vengono a curarsi Torino da lontano con i loro genitori ma non possono permettersi l’albergo durante le pause delle lunghe terapie ospedaliere. Anche i detenuti e gli agenti del penitenziario torinese aderiscono alla raccolta di offerte per i piccoli malati oncologici promossa da don Stucchi: “L’anno scorso in carcere abbiamo raccolto quasi 4 mila euro che abbiamo devoluto all’Ospedale infantile di Torino. E speriamo di replicare anche quest’anno. Il Bambino Gesù che nasce a Natale nella povertà di una capanna ci interroga su chi è il nostro prossimo: chi è più bisognoso di un bambino malato i cui genitori sono in difficoltà economica e non possono assicurargli le cure?”. Anche dal carcere arriva una risposta in con un presepe dentro una botte. Roma. Santo Stefano, quando il carcere si “illuminò”, ma la crudeltà non finì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2019 Il carcere di Santo Stefano è un penitenziario voluto dai Borboni costruito su misura per gli ergastolani in una piccola isola dell’arcipelago delle Pontine. All’entrata del penitenziario, l’architetto Francesco Carpi fece apporre come monito la frase latina: “Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis victa tenet, stat res, stat tibi tuta domus” e cioè: finché la santa Temi (personificazione della giustizia per gli antichi greci) terrà avvinti in catene così tanti mostri, lo Stato e la tua casa saranno al sicuro. Fu inaugurato il 26 settembre 1795 con i primi 200 detenuti, che presto divennero 900 - ben oltre la capienza regolamentare - divisi in 99 celle tutte uguali, ciascuna delle dimensioni di quattro metri per due. Parliamo del carcere di Santo Stefano, un penitenziario voluto dai Borboni costruito su misura per gli ergastolani in una piccola isola dell’arcipelago delle Pontine. La sua storia ha inizio nella seconda metà del secolo dei lumi, allorché si pensò di popolare le isolette con gente indesiderata della vicina costa napoletana, camuffando la deportazione interna come esperimento pratico di alcune idee illuminate del tempo. Uno sguardo seppure sommario a queste nuove idee che illuministi italiani ed europei portavano avanti serve meglio a comprendere le motivazioni che convinsero i sovrani a ripopolare le isole Ponziane. Il Settecento fu infatti caratterizzato da un movimento ideologico e culturale che intese portare i lumi della ragione in ogni campo dello scibile umano, allo scopo di rinnovare non soltanto gli studi e le varie discipline, ma anche la vita sociale attraverso l’abolizione degli infiniti e secolari pregiudizi che impedivano il cammino della civiltà e si opponevano al progresso e alla felicità degli uomini. A questo movimento di rinnovamento non fu estranea la politica criminale e penitenziaria di quella vasta schiera di filosofi, giuristi, filantropi e criminologi, vanto dell’Illuminismo e della tradizione liberale europea. Da una giustizia inquisitoriale oscura e rigida - che puniva per il reato e per l’azione anche non commessa - si passa ad una giustizia trasparente che inizia a considerare l’uomo delinquente e non solamente il reato. Però non era tutto oro ciò che luccicava. Se da una parte furono formulati i presupposti per una teoria giuridica del reato, delle pene e del processo sollecitando l’abolizione delle “stanze delle torture” e delle “segrete”, dall’altra si è creata come alternativa l’ergastolo a vita e i lavori forzati. In sintesi il 700 è caratterizzato dalla nascita del carcere come alternativa alle sole torture e morte. Infatti la “questione carceraria” cominciò ad essere al centro di discussioni non solo accademiche, a livello europeo (e non solo in Italia), ma fu oggetto anche di attenta analisi da parte di politici e giuristi illuminati. L’autorità sovrana e la coscienza pubblica, però, al contrario dei giuristi, dei filosofi e dei filantropi, desideravano invece che il carcere fosse reso solamente sempre più crudele, tale da reggere il confronto prima con le pene corporali e le mutilazioni e dopo con la crudeltà dei numerosi sistemi di messa a morte nelle più svariate forme di spettacolarità. Era, in effetti, alquanto difficile affrontare e risolvere il problema carcerario dell’epoca in quanto se era vero che la pena carceraria doveva sostituire quella capitale, come suggerito dagli illuminati, la stessa in qualche modo doveva invece, per forza di cose e particolarmente per problemi di prevenzione generale, continuare ad avere carattere disumano, afflittivo, retributivo ed intimidativo. Una storia che si ripete ciclicamente e, sotto certi aspetti, anche nei giorni nostri. Il carcere di Santo Stefano nacque come compromesso. L’architetto Carpi costruì il penitenziario abbandonando la tecnica punitiva della mortificazione del corpo nelle buie celle sotterranee cosiddette “segrete”, passando alla luminosità dando una parvenza di edificio pubblico, più umano ed al servizio sia della giustizia sia della società. Contemporaneamente però garantiva i sovrani e buona parte della popolazione legata ad un sistema carcerario sempre più retributivo e intimidativo, capace di tranquillizzare le diverse correnti. Ed ecco che il penitenziario fu progettato secondo un modello panottico, che prevedeva un controllo visivo totale e costante dei detenuti, per ottenere il “dominio della mente su un’altra mente”, come teorizzato nel trattato “Panopticon” (1787), opera del filosofo inglese Jeremy Bentham, (1748-1832), coadiuvato dal fratello Samuel Bentham (1757-1831), ingegnere. La struttura circolare si sviluppava intorno a un cortile, ed era ispirata ai gironi dell’Inferno dantesco. Nel cortile avvenivano ugualmente le punizioni corporali, vere e proprie torture che, a scopo di ammonimento, erano inflitte sotto gli occhi di tutti i detenuti, grazie proprio alla forma circolare. In corrispondenza dell’entrata la struttura circolare è interrotta da un edificio rettangolare, munito di due torri verso l’esterno e di una terrazza con due garitte verso l’interno. Ai piani superiori di questo edificio alloggiavano il chirurgo, due medici, il farmacista, gli infermieri e i sorveglianti. Al piano terra si trovavano gli uffici della direzione, amministrativi e della matricola, i magazzini di vestiario ed alimenti, e la taverna, gestita da un privato ed aperta anche agli abitanti di Ventotene. Ad inaugurare le celle di questa struttura furono gli stessi reclusi: l’architetto Carpi li chiamava “disterrati”, ovvero coloro che sono stati fatti “dissotterrare” dalle segrete. Successivamente vi furono trasferiti sia criminali delle carceri cittadine sia rivoluzionari antiborbonici. Santo Stefano, sin dalla sua apertura, ha sofferto problemi di sovraffollamento ospitando detenuti in numero superiore alle proprie capacità. A seguito dell’imprigionamento di circa cinquecento politici e rivoluzionari del 1799 (epoca della rivoluzione napoletana), il penitenziario arrivò a contenerne poco meno di mille (otto- dieci per ogni cella) su seicento posti disponibili. Tale numero si ridusse a circa ottocento cinquant’anni dopo, quando ospitò prevalentemente detenuti politici a seguito dei moti insurrezionali del 1840- 1850. Si ridurrà ulteriormente allorché le celle saranno suddivise in modo da potere attuare il sistema dell’isolamento individuale continuo dei soggetti e, quindi, per un massimo di duecento detenuti. Altri cento detenuti circa saranno relegati nei locali della nuova IV sezione, costruita da ultimo. La media delle presenze si stabilizzerà fino al 1965 (anno di chiusura), in circa duecentocinquanta unità. Anche i Savoia, succeduti ai Borboni con l’Unità d’Italia, utilizzarono la struttura - oltre agli intellettuali e facinorosi non allineati - per rinchiudere particolarmente contadini meridionali considerati “briganti”. Ed i Savoia li carcerarono solo perché, subito dopo l’Unità d’Italia, con le armi in pugno, essi si opposero alla politica considerata affamatrice dei conquistatori piemontesi. Così come anche con l’avvento del fascismo, tale penitenziario venne utilizzato per punire i criminali comuni, ma anche gli oppositori politici. Sevizie, morti sospette, sofferenza perenne. Ma anche spettacolari fughe dal carcere, nonostante l’inaccessibile scogliera a picco sul mare che doveva essere garanzia sia per le evasioni sia per l’impossibilità di tentare un qualsiasi bellicoso avvicinamento. L’uomo, reso dalla disperazione e la voglia di libertà, riesce a fare imprese mirabolanti anche dove ciò potrebbe risultare impossibile. Ma questo lo vedremo sabato prossimo. Libri. La violenza giusta, la giusta ingiustizia: un pensiero sul garantismo di Alberto Abruzzese Il Riformista, 29 dicembre 2019 Così Eligio Resta nel suo “La violenza (e i suoi inganni)”: “Il primo grande processo “mediatico” che ci racconta di una pena di morte è quello che Atene intenta a Socrate: il processo si conclude con una pena capitale in cui la morte del corpo si ribalta nella salvezza dell’anima, l’ingiustizia subita nella giustizia della città: il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice, appunto pharmakòs. Non si esce dall’ambivalenza se non “ingannando” la violenza; mi è capitato molte volte di ripeterlo, si tratta di un gioco serio quello dell’inganno della violenza. Chi non prende sul serio l’inganno vedrà ritornare la violenza. Il diritto che interdice la morte condensa anche questa difficile scommessa per ingannare la propria violenza. Per questo non dobbiamo stupirci della violenza”. Devo a Eligio Resta l’ispirazione a destinare questo mio articolo a Il Riformista. Spero di essere convincente nel contesto di questo giornale, unico nel genere per la sua specifica vocazione garantista. Le ordinarie prese di posizione del garantismo impongono a mio avviso una urgente domanda: c’è qualcosa di nuovo e diverso che si muove nella sua tradizionale vocazione a preservare la vita umana dalle ingiurie della Legge, dei suoi processi e delle pene affettive e corporali che infligge? Di continuo la violenza sui singoli non cessa e dunque non cessa mai la semplicità - semplicità sempre più apparente e dunque sempre più ultimativa - dei discorsi garantisti. Viviamo nell’allentarsi dei dispositivi di “verità” più elementari di una democrazia sotto attacco e più ancora sfibrata dalle proprie contraddizioni storiche, originarie, e insieme dalla sua immersione in una globalizzazione finanziaria decisa a infrangere i suoi stessi presupposti etici e politici. Sembra anzi che la contrapposizione tra una giustizia giusta e una giustizia ingiusta (dunque in sintesi una ingiustizia giusta) incappi nel non-senso. In una sorta di nichilismo. Forse, ad evitarne gli effetti di logoramento, è necessario spostare in avanti e indietro l’ottica del garantismo per arrivare non soltanto alla denuncia di un potere penale incapace e iniquo - un potere che produce sofferenza senz’altra utilità che non sia la sua necessità di sopravvivenza - ma arrivare anche all’analisi dei i fattori socio-antropologici che ne sono complici, involontariamente e cioè automaticamente. Potremmo dire “per distrazione”. Azzardo una domanda diretta a me stesso e a chi sta leggendo questa pagina, quale egli sia e quale voglia essere nel suo ruolo, nella la propria professione di fede nella società civile (attenzione!). La domanda riguarda, innanzi tutto, quale sia, nel parlare abitudinario di “società civile”, il significato che le attribuiamo: positivo o negativo? E cioè, nell’usare questo classico termine della tradizione moderna, aderiamo al suo significato letterale oppure lo assumiamo in quanto falsificazione (falsa coscienza) di ciò che essa in realtà è, dunque “società incivile”? Ma il punto cruciale da affrontare riguarda direttamente, intimamente, la nostra coscienza personale: sappiamo frenare le seduzioni culturali alle quali apparteniamo - per alcuni il libro, altri lo spettacolo, altri la rete, altri il metodo e la teoria, altri la politica, altri la religione, altri la più minuta vita quotidiana - per guardare direttamente dentro la condizione umana di una sofferenza di cui siamo complici in quanto comunque afflitti dalla necessità di sopravvivenza e dalle violenze che essa ci spinge a compiere su noi stessi e sugli altri da noi? Eligio Resta ci può aiutare a rispondere a questa domanda leggendo l’appassionato rilancio che l’autore ci offre del suo lungo lavoro di filosofo del diritto. La figura di intellettuale che gli si può accostare è certamente Stefano Rodotà, e infatti Resta rivolge un sentito omaggio alla sua memoria, ma queste poche dense pagine pubblicate ora da Sossella Editore nella collana Collassi, dimostrano una inquietudine ben diversa e in tutto particolare: il coraggio di trattare il tema della violenza senza temere di entrare in contraddizione con se stesso ma scegliendo di fare proprio di essa la sua vocazione. Dunque di farne lo strumento per dividere - invece che saldare in una sola prigione - la persona umana dalla propria professione, dal ruolo di competente nel campo delle infinite tecnicalità che compongono e scompongono i dispositivi (scritti, interpretati e applicati) del Diritto Penale: là dove è in gioco la morte della carne e più si “mostra” - viene mostruosamente messo in scena - il circolo vizioso tra pena e violenza. Tale è, per Resta, questo rapporto: un legame vizioso, dunque una abitudine “cattiva” (che imprigiona). Inclinazione, deriva, che impone di continuo la necessità di un pensiero in grado di resisterle, rivelarla (nel giusto senso di una scrittura apocalittica). Cinema. Checco Zalone l’africano: ecco perché “Tolo Tolo” siamo tutti noi di Alessandra De Luca Avvenire, 29 dicembre 2019 Il 1° gennaio, preceduto da polemiche, arriva in sala il nuovo film: il comico (qui anche regista) mette alla berlina i diffusi pregiudizi contro i migranti. Quattro anni fa, in occasione dell’uscita nelle sale di “Quo vado?”, avevamo scritto che la “storia di un italiano” tracciata dalla coppia Sordi/Sonego nel secolo scorso ha da qualche anno a questa parte un nuovo interprete, vicino a vizi, ipocrisie, nevrosi, fragilità, furbizie, meschinità, ma anche virtù di un paese ferito da una totale perdita di innocenza. L’erede in questione si chiama Luca Medici, in arte Checco Zalone, che con Tolo Tolo, in sala dal 1° gennaio, distribuito da Medusa in ben 1.200 copie, è il comico che più si avvicina alla lucida ferocia della grande tradizione dei Monicelli e dei Risi. Zalone, che firma per la prima volta la regia (ma con il suo nome all’anagrafe), punta ancora più in alto e rivendicando il diritto a non far ridere parla di Africa, di migrazione, di pullman affollati che attraversano deserti e di barconi che affondano, di chi lotta e di chi si vende, mettendo alla berlina luoghi comuni e pregiudizi, chi pensa di aver capito il mondo e lo racconta su giornali, politici improvvisati e fascismo (“tutti lo abbiamo dentro, come la candida”). Tra i tanti riferimenti alla commedia all’italiana, ci sono quelli a Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? di Ettore Scola e a Finché c’è guerra c’è speranza di Sordi. “Guardo con estremo rispetto alla commedia all’italiana - dice il regista - Non paragono i miei film a quei capolavori, ma sono quelli i miei modelli”. Scritto da Zalone con Paolo Virzì, interpretato dal comico pugliese insieme a Souleymane Sylla, Manda Touré, Nassor Said Birya con la partecipazione di Barbara Bouchet e Nicola di Bari, prodotto da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbit per Tao Due, Tolo Tolo (ovvero “Solo solo”) racconta la storia di Checco, che si definisce un sognatore, ma che in nome delle sue malriposte ambizioni manda in malora la famiglia e, inseguito dai creditori, si trasferisce in Africa e lavora come cameriere in un resort per ricchi turisti bianchi. Quando arrivano le milizie e scoppia la guerra civile, Checco, dato per disperso con grande gioia da parte di tutti i familiari che ha inguaiato, è costretto a tornare in Europa facendo “il grande viaggio” attraverso la Libia, insieme a Oumar, appassionato di cinema italiano, alla bella Idjaba e al piccolo Doudou. Egoista, ignorante e cialtrone, convinto che la vera guerra sia quella combattuta con ex mogli e creditori, che gli africani siano migranti per definizione e che la vera salvezza stia negli abiti firmati e in una miracolosa crema per le rughe, Checco pensa sempre di saperla più lunga de- gli altri e spera di finire in Liechtenstein, paradiso fiscale. Ma le cose vanno diversamente e il “candido” opportunista deve vedersela con una serie di problemi dei quali ignorava l’esistenza. E se c’è chi chiede aiuto a Macron, Checco è costretto a rivolgersi a Nichi Vendola, che non rinuncia alla sua proverbiale logorrea in un esilarante cameo. Aldilà di gag più o meno riuscite (la fluidità del film risente di una regia non troppo esperta o forse di un montaggio a volte un po’ sommario), il talento di Zalone sta nel metterci davanti allo specchio e farci vedere un italiano cinico, spesso sgradevole, eticamente discutibile, mediocre e qualunquista, ma nel quale tutti noi possiamo riconoscerci, almeno in parte, perché mai privato della sua umanità, per quanto imperfetta. Cosa che dovrebbe essere chiara anche a tutti coloro che hanno polemizzato con la canzone che accompagna i titoli di coda, Immigrato, paradossalmente difesa proprio da chi il regista prendeva in giro. Certo, Zalone che se ne infischia del politicamente corretto, che non teme di pestare su tasti che altri non vogliono neppure sfiorare, rischia di finire strattonato in un dibattito assurdo che lo accusa di razzismo e crudeltà, di fare dell’ironia su una tragedia umanitaria. Ma è dai tempi di Chaplin che il cinema trasforma i drammi in commedie e la satira segue le proprie feroci regole, anche se Valsecchi durante la conferenza stampa ieri a Roma ha precisato: “Non ho certo speso venti milioni di euro per fare un film contro Salvini. Tolo Tolo parla di persone che non cercano un futuro migliore, ma un futuro e mette in scena la realtà contemporanea con il sorriso, con un tocco magico e poetico”. Eppure Zalone, a proposito di Luigi Gramegna interpretato da Gianni D’Addario, che da disoccupato scala i vertici della pubblica amministrazione e della politica diventando prima carabiniere, poi pignoratore, assessore comunale, ministro degli Esteri, presidente del Consiglio e presidente della Commissione Europea e dice “non è mica colpa mia se siete nati in Africa”, commenta: “Ho inserito nel film un personaggio che somiglia ai politici attuali: ha una carriera sorprendente come Di Maio, veste come Conte e parla come Salvini. Ho creato una specie di mostro, insomma”. Il finale musicale del film, che non vi anticipiamo, è un vero e proprio colpo di genio, e tutto il racconto è costellato di canzoni del repertorio italiano, da Vagabondo di Nicola di Bardi a Viva l’Italia di Francesco De Gregori. Se le polemiche sembrano imbarazzare, ma non preoccupare Zalone, la vera sfida sarà riempire di nuovo le sale e magari superare l’incasso di Quo Vado? che nel 2015 aveva rastrellato la cifra record di 65 milioni di euro. La palla passa ora al pubblico. Le vere ragioni per cui i giovani stanno fuggendo dall’Italia di Gloria Riva L’Espresso, 29 dicembre 2019 Ogni giorno vanno a vivere all’estero 400 ragazzi, molti dei quali laureati. Ma non sono arrabbiati o egoisti come li dipinge una certa retorica. E se vanno via non è solo per una questione di soldi. Laura ha 31 anni, lavora a Parigi, ha una relazione complicata con l’Italia: “Uno di quegli amori non corrisposti che ti strazia il cuore”. Alberto vive a Londra e ci insegna perché gli expat, cioè i giovani in cerca di fortuna all’estero, detestano la definizione di “cervelli in fuga”: “Si fugge da una guerra, non da un paese bello come l’Italia”. Sergio, 35enne e professore negli Stati Uniti, spiega che il sistema educativo italiano è migliore di quello americano. Giulia sta in Cina e dice: “Il sistema sanitario italiano, gratuito per tutti, è cosa di cui andar fieri”. Laura, Alberto, Sergio, Giulia fanno parte di una generazione di italiani under trentacinque, per lo più laureati e diplomati, che nell’ultimo decennio ha lasciato in massa l’Italia, ma che è pronta a tornare. Lo raccontano le loro cartoline all’Italia, pubblicate da l’Espresso e tante altre ancora sul nostro sito, e lo confermano con maggior forza due studenti italiani della Kennedy School di Harvard che dalle colonne dell’Espresso lanciano un appello politico a chi, come loro, si trova all’estero e sente forte il desiderio di rientrare, per contribuire a far risorgere il proprio paese. Sono Gaia van der Esch, 32 anni di Anguillara Sabazia (Roma), selezionata nel 2017 da Forbes fra i trenta giovani europei più talentuosi, e Tommaso Cariati, 26 anni, fiorentino, ex consulente McKinsey, che oggi si divide fra un mba a Stanford e un master ad Harvard. Dicono: “Torniamo a casa. Siamo partiti, abbiamo imparato, ci siamo divertiti. Ci siamo sentiti anche lontani da casa, soli. L’Italia è in crisi, economica e culturale: sta a noi fare qualcosa per il paese che ci ha cresciuto e ci ha insegnato tanto. Tocca a tutti noi, è il nostro turno. Torniamo a un lavoro che paga meno, con l’obiettivo di cambiare le regole dall’interno, torniamo per fare fronte comune alla corruzione e alla politica da spiaggia. Lanciamo questo appello a tutti coloro che come noi sono partiti: abbiamo un’opportunità e una responsabilità unica per partecipare alla rinascita dell’Italia. Usiamo le nostre idee ed energie per fare dell’Italia un esempio per il mondo. Torniamo e portiamo con noi i nostri colleghi e compagni di università, invitiamoli a lavorare nel Bel Paese, invertiamo la rotta, assicuriamoci che i giovani di oggi e di domani siano valorizzati, come noi lo siamo stati all’estero. Dobbiamo provarci. Tutti insieme”. L’appello di Gaia e Tommaso giunge nel momento in cui il fenomeno dell’espatrio sta assumendo una dimensione preoccupante. Lo conferma il rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes: “In dieci anni il numero di expat è triplicato, passando da 39 mila nel 2008 a117 mila nel 2018”. Nell’ultimo anno le partenze hanno interessato soprattutto i giovani - il 40 per cento sono ragazzi fra 18 e 34 anni - provocando “la dispersione del grande patrimonio umano giovanile. Capacità e competenze che, invece di essere impegnate al progresso e all’innovazione dell’Italia, vengono disperse a favore di altre nazioni più lungimiranti, che le attirano a sé, investono su di esse trasformandole in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento”. Se non lotta per gli altri l’intellettuale è inutile di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 29 dicembre 2019 Chi esercita la funzione critica del pensiero ha un dovere morale: svegliare le coscienze sui disagi sociali, le disuguaglianze e il lavoro. Cheikh Anta Diop, il grande storico e antropologo senegalese, diceva che “l’alienazione culturale finisce per essere parte integrante della nostra sostanza, della nostra anima e quando pensiamo di averla eliminata non l’abbiamo ancora fatto completamente”. Purtroppo questa alienazione genera una società cannibalizzata dalla cultura del consumismo e del presentismo con un’anima dormiente priva di uno spirito critico. Di conseguenza, l’espansione della povertà, la dilatazione delle disuguaglianze, la degradazione delle condizioni di vita e l’omologazione culturale vengono letti in superficie anziché essere analizzati nella loro profondità. A questo riguardo, va ricordato che uno dei principali compiti degli intellettuali è quello di risvegliare le coscienze accompagnando le masse, anche nei loro atteggiamenti “spontanei”, a decifrare le cause profonde (dirette o indirette) che determinano i mali che affliggono le popolazioni. Per rendere questo esercizio efficace, gli intellettuali dovrebbero sapersi calare nella dimensione materiale e immateriale della vita delle masse. In effetti, chi svolge la funzione di intellettuale dovrebbe possedere la capacità di immedesimarsi nelle sofferenze delle persone al fine di poter cogliere le varie sfumature del loro dolore e formulare spiegazioni sui fenomeni che ostacolano il cammino verso la felicità. Oltre a saper leggere in modo empatico e critico le cause dei mali della società, gli intellettuali dovrebbero altresì aver la propensione di immaginare soluzioni propositive per donare speranza a coloro che vivono il dramma delle disuguaglianze. Gli intellettuali dovrebbero essere liberi di ispirare la politica affinché quest’ultima possa infondere speranza - risolvendo, nel contempo, i problemi reali che attanagliano le persone - invece di socializzare il pessimismo o di collettivizzare l’illusione. In questa ottica, gli intellettuali dovrebbero stimolare la politica a ricostruire sintonie con il mondo reale e a dare anima ed identità ad un progetto di comunità capace di rendere reale l’immaginazione e il sogno di chi è stato reso invisibile. Inoltre, chi esercita il ruolo di intellettuale dovrebbe sollecitare i corpi intermedi, nelle loro varie articolazioni, a rimanere ancorati alla propria missione di portatori di istanze delle masse, considerato che le sfide della società vanno affrontate in una prospettiva d’interdipendenza. La funzione di intellettuale è un nobile privilegio che va esercitato con responsabilità ed onestà e con la consapevolezza del rischio di permeabilità di influenze e pulsioni del contesto circondante. Questi artisti del pensiero critico, analitico e propositivo diventano l’antidoto di una cultura alienata, alla quale si riferisce Cheikh Anta Diop, quando riescono a ridurre il divario tra cultura e masse. In questa attività occorre ridare speranza (generata in quell’angusto spazio collocato tra immaginazione della ragione e utopia dei desideri) a chi è stato ridotto in scarto della società dalla logica della capitalizzazione dei disagi sociali. Tuttavia, la fantasia dell’immaginazione connessa alle dinamiche della vita materiale deve diventare terreno di verifica dell’elaborazione del pensiero. Solo cosi, questo sforzo fantastico può portare ad un’idea di modello di società che sappia farsi comunità attraverso una narrazione diversa fatta di parole chiare e responsabili. In questa prospettiva, gli intellettuali, resistendo alla tentazione dell’elitarismo e dell’omologazione culturale, dovrebbero impegnarsi a tenere saldo il labile legame tra cultura e masse al fine di porre argine all’arte della politica del “consenso” e della cultura del consumismo, che non permettono di indagare la profondità delle crisi e dei processi (come quella del lavoro che andrebbe analizzata nella sua dimensione quantitativa e qualitativa) che continuano a logorare i rapporti sociali. Come diceva Pier Paolo Pasolini, “ci sono degli intellettuali che considerano dovere proprio e altrui (…) spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri”. Alla luce di tutto ciò, non è ambizioso affermare che occorre una cultura al servizio della società in grado di decifrare la complessità delle diverse articolazioni dell’attuale sovrastruttura sempre più spinta verso l’individualismo a discapito del senso di comunità. La funzione di elaborazione degli intellettuali deve aspirare a questo obiettivo dove teoria e prassi si intrecciano per dare vita ad una cultura non alienata. Dietro le sbarre delle prigioni turche di Roberto Saviano L’Espresso, 29 dicembre 2019 Erdogan ha messo in galera migliaia di persone colpevoli solamente di criticarlo. La testimonianza dell’artista curda Zehra Dogan. Quando Enes Kanter, il cestista turco dei Boston Celtics, si è schierato a favore della causa curda contro l’aggressione militare turca, la domanda che gli veniva posta più di frequente era questa: “Ma perché prendi posizione, tu che sei una star del basket in Usa e potresti vivere una vita tranquilla?”. Kanter ha sempre risposto che per lui era impossibile tacere perché nelle prigioni turche ci sono migliaia di detenuti innocenti, la cui unica colpa è aver criticato il governo di Erdogan. Allo stesso modo, quando lo scrittore e giornalista turco Ahmet Altan è stato scarcerato - solo per pochi giorni - dall’ingiusta detenzione cui è costretto dal 2016, ha detto di non riuscire a gioire pienamente perché il suo pensiero andava alle migliaia di persone ingiustamente detenute. Dalle parole di Kanter e di Altan è evidente che bisogna raccontare cosa accade nelle prigioni turche, che bisogna spiegare chi è detenuto e perché. Zehra Dogan è un’artista curda con cittadinanza turca, condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigione per un disegno che rappresenta Nusaybin, città resistente a Sud-Est della Turchia, abitata prevalentemente da curdi e teatro di una terribile strage di curdi già negli anni 90. Nel marzo del 2013, dopo decenni di conflitto, era iniziato un processo di pace tra il governo turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), ma le speranze sono durate poco: nel 2015 ricominciano gli scontri e Nusaybin è di nuovo sotto l’assedio dei militari dell’esercito di Erdogan. Ai giornalisti è impedito l’accesso alla città, ma Zehra Dogan ci va lo stesso perché sa che con i suoi disegni può testimoniare ciò che sta succedendo e raccontarlo al mondo. A Nusaybin c’è un coprifuoco perenne e Zehra, come tutti, è costretta a vivere rifugiata in casa. Per far arrivare i suoi disegni fuori da quell’inferno, li scannerizza e li pubblica su Twitter. Quando, il 19 luglio 2016, termina il coprifuoco, la città è irriconoscibile, ridotta in macerie sotto cui giacciono i corpi delle vittime curde, spesso giovanissime. Un report dell’Onu conterà 1.786 edifici distrutti a Nusaybin e fino a 500.000 sfollati in tutta l’area. È in quei giorni che sull’account Twitter delle polizie speciali turche, Zehra vede una foto scattata proprio a Nusaybin, accompagnata da commenti vittoriosi. Zehra decide di ridisegnarla, ribaltando il punto di vista: non più quello dei carnefici, ma quello delle vittime. I carri armati delle forze armate governative diventano enormi scorpioni che mangiano persone e i vessilli dell’esercito turco solo la rivendicazione orgogliosa della distruzione. Pochi giorni dopo, il 21 luglio 2016, Zehra viene arrestata. Nell’interrogatorio le chiedono insistentemente: “Perché disegni?”. In questa domanda non c’è solo la volontà di trovare “prove” contro una “dissidente”, ma c’è anche tutto il disprezzo nei riguardi di una donna che attraverso la scelta artistica prende posizione, difende la sua identità, ma soprattutto non nasconde o dissimula le sue idee. Zehra viene processata e condannata per “propaganda terroristica”; va in carcere per un disegno e dunque vivrà il carcere da artista per raccontare, nel modo che le riesce meglio, ciò che accade tra quelle quattro mura precluse a ogni sguardo, perché ogni detenuta è una magnifica storia di lotta, dolorosa sì, ma carica di vita. Una storia che deve essere raccontata. Stando lì, in carcere, Zehra può essere testimone altrettanto necessaria come lo era stata fuori durante l’assedio. Userà ogni tipo di materiale per dipingere: come supporto lenzuola, asciugamani, giornali; come pennelli penne di uccello e per colori cibo, cenere, capelli, sangue mestruale. Zehra Dogan è stata rilasciata il 24 febbraio 2019 e oggi vive a Londra; le sue opere vengono esposte e raccontano il dramma di un paese che non tollera la dissidenza e la punisce con la detenzione. Di più, le sue opere sono preziosissime perché raccontano uno dei luoghi meno conosciuti che esistono, anche nelle democrazie più avanzate, il carcere. Siamo lontani dalla Turchia di Erdogan, lo so, ma anche in Italia il carcere è un buco nero, sconosciuto, raccontato solo dai Radicali. È dunque con immenso piacere che ho accolto la nomina di Pietro Ioia a garante dei detenuti per il Comune di Napoli. Ioia è un ex detenuto che ha percorso una strada lunga, difficile e tormentata che lo ha portato a essere, oggi, un anello di congiunzione tra il dentro e il fuori. È di ponti che abbiamo bisogno: il tempo delle fortificazioni è finito. Rifugiati siriani, il popolo fantasma del Libano che ribolle di Maurizio Ambrosini Avvenire, 29 dicembre 2019 Nelle dimostrazioni che stanno agitando da diverse settimane Beirut e il Libano i rifugiati non compaiono. Sono troppo fragili e impauriti per protestare, impegnati in una lotta quotidiana per sopravvivere. E i libanesi scesi in piazza sono troppo frustrati e arrabbiati per preoccuparsi di coinvolgerli. Secondo le cifre dell’Onu, i ‘nuovi arrivati’ che hanno cercato scampo in Libano, quasi tutti siriani, sono circa un milione su 4,5 milioni di abitanti, senza contare i palestinesi. Ogni mille abitanti se ne contano più di 150, ed è un record mondiale. Ma moltissimi non hanno un’identità legale: niente documenti, niente lavoro, niente diritti. Il Libano, pur essendo in prima linea nell’accoglienza dei siriani, non ha mai voluto riconoscerli, né ha firmato le convenzioni internazionali sull’asilo. Tra le motivazioni, è difficile trascurare la tragica esperienza del conflitto con i palestinesi, tuttora insediati ai margini della società libanese, in campi profughi che sono diventati desolanti agglomerati auto-costruiti alla meno peggio. Nel centro di Beirut i rifugiati sono quasi invisibili, salvo qualche bambino che chiede l’elemosina, qualcun altro che lavora in un negozio, qualche giovane donna che dorme per terra, sui marciapiedi, accompagnata da bambini ancora più piccoli. Gli aiuti delle organizzazioni umanitarie non bastano per tutti, o non consentono di arrivare a fine mese. Gli uomini se riescono lavorano, quasi sempre in nero, ma difficilmente escono dai quartieri poveri in cui sono precariamente alloggiati, in stabili abbandonati, gravemente danneggiati dalla guerra civile (1975-1990) e mai restaurati, in baracche, box trasformati in abitazioni o altre sistemazioni di fortuna. I padri se si spostano in città temono di essere intercettati dalla polizia, arrestati come immigrati illegali, malmenati, rinchiusi in prigione, e sempre più spesso espulsi verso la Siria. I minorenni sono circa la metà dei rifugiati, ma hanno accesso soltanto a un’istruzione elementare residuale: ai docenti delle scuole pubbliche è stato imposto di insegnare al pomeriggio ai piccoli profughi, ma senza integrazioni salariali. Un’intera generazione, privata dell’istruzione, rischia di trascinare gli effetti della guerra siriana per decenni. Il Governo libanese con queste misure repressive cerca di indurre i profughi al rimpatrio, mi spiega Simone Scotta di “Mediterranean Hope”. Qualcuno prova anche a ritornare, il confine siriano è vicino, ma poi in genere rientra in Libano. In Siria non solo l’economia è in ginocchio e molte città sono distrutte o semi-distrutte, ma i rifugiati sono attesi dalle temute forze di sicurezza del regime. Assad li considera traditori e ha annunciato la confisca di case e terreni lasciati dai fuggiaschi. Si parla di persone rientrate nel Paese, e poi prelevate e sparite nel nulla. A volte fanno tornare qualche parente anziano, per dimostrare che le proprietà non sono state abbandonate. Qualcun altro ritorna invece per sottoporsi a cure mediche, inaccessibili in Libano dove la sanità è privatizzata, ma poi preferisce rientrare nel Paese dei Cedri. I rifugiati sono quindi presi fra due fuochi, indesiderati e perseguitati da una parte e dall’altra del confine, in uno stallo che per molti non lascia intravedere spiragli. Eppure qualche segno di speranza sbuca dalle pieghe di una Beirut inospitale. Una ricerca dell’Università Americana di Beirut presenta i rifugiati come soggetti attivi della città. Ne mostra le differenze interne, per livello sociale, istruzione, status legale. Oltre ai giovani istruiti che lavorano nell’accoglienza con le Ong internazionali, un numero crescente di rifugiati apre negozietti e piccoli commerci. A centinaia s’ingegnano come fattorini della consegna dei pasti a domicilio. Qualcuno riesce a ottenere uno status legale grazie all’intermediazione di un garante, come prevedono le leggi libanesi: un aiuto raramente gratuito, ma comunque prezioso, letteralmente. Per tanti altri però i corridoi umanitari o altre soluzioni di reinsediamento, appaiono l’unica via d’uscita da una situazione altrimenti senza sbocchi. Quell’intuizione ecumenica dei cristiani italiani che ha già contagiato Francia, Belgio e la piccola Andorra va potenziata e - come si progetta - finalmente estesa a livello europeo, se vogliamo evitare altre tragedie tra Siria e Libano. Così si uccide il nuovo Iraq di Francesca Mannocchi L’Espresso, 29 dicembre 2019 Esecuzioni, sparizioni, milizie che spadroneggiano. Però le manifestazioni contro la corruzione, dopo 450 morti e diecimila feriti, non si placano. “Resteremo in piazza, sempre”, dicono i militanti dal quartier generale nel garage Sinak. L’entrata del garage Sinak è un cancello chiuso da un lucchetto. Di fronte, seduti su sedie di plastica due ragazzini: cappellini con visiera in testa, ai piedi scarpe da ginnastica lise. Sono il servizio d’ordine dell’autorimessa, uno dei due edifici occupati dai manifestanti iracheni che dall’inizio di ottobre stanno animando proteste di massa nella capitale e nel resto del paese. Sorvegliano chi entra e chi esce, controllano borse e giacche, documenti e identità per evitare che si infiltrino sconosciuti in combutta con le milizie. Per evitare un altro massacro al garage Sinak. Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso gruppi di uomini armati non identificati hanno assaltato l’edificio uccidendo venti manifestanti e ferendone più di cento. Un attacco sanguinoso, coordinato, parte della campagna di violenza e intimidazione contro i manifestanti che hanno riempito le strade. Il dottor Muslim Ben Aqeel Ismael al garage Sinak conosce uno per uno i sopravvissuti, era qui anche la mattina dopo il massacro, tra le stanze date alle fiamme sul tetto e gli angoli delle pareti ancora sporchi del sangue delle vittime. Stringe la mano a Hussein, che quella notte era lì. È stato pugnalato alla mano e al braccio destro. Alza la manica della tuta per mostrare i segni delle ferite. I pochi che restano a Sinak, oggi, sono quelli che hanno visto. Erano lì quando i corpi senza vita dei compagni venivano lanciati dal sesto piano del garage, e una dottoressa trascinata via, uccisa, il suo corpo abbandonato sul ponte antistante. Chi resta oggi a Sinak aspetta il ritorno dei manifestanti picchiati e catturati. Ammesso che ritornino. Mohammed ha il braccio fasciato da una benda, un panno blu lo sostiene intorno al collo. È stato colpito da un proiettile, un pezzo è ancora all’interno del braccio. Ma in ospedale Mohammed non va. Perché ha paura di essere schedato. “Chi veniva trasportato negli ospedali pubblici all’inizio delle proteste”, dicono, “non è mai tornato indietro”. L’Assemblea Onu condanna la Birmania per gli abusi sui Rohingya Il Riformista, 29 dicembre 2019 L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che condanna gli abusi dei diritti umani commessi in Birmania contro i musulmani Rohingya e altre minoranze e invita il Paese a fermare l’incitamento all’odio contro queste comunità. Lo riferisce la Bbc spiegando che la risoluzione, che non è legalmente vincolante, è stata approvata con 134 sì (i membri dell’Assemblea sono 193), 9 no e 28 astenuti. Migliaia di Rohingya sono stati uccisi in Birmania e oltre 700mila sono fuggiti nel vicino Bangladesh durante la repressione da parte dell’esercito nel 2017 nel Paese a maggioranza buddhista. La difesa dell’ex Premio Nobel per la Pace - Questo mese la leader birmana Aung San Suu Kyi aveva respinto le accuse di genocidio alla Corte penale internazionale. Il premio Nobel per la Pace del 1991, ministro degli Esteri birmano, aveva dichiarato la Corte internazionale di giustizia dell’Aia che non vi sono prove di “intento genocida” dietro l’azione militare del suo Paese contro i musulmani Rohingya. Suu Kyi aveva affermato che “non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata”, ma ha insistito sul fatto che “sicuramente nelle circostanze l’intento genocida non può essere l’unica ipotesi”.