Accordi al ribasso sulla giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 28 dicembre 2019 La storia del processo penale infinito, reso tale dalla scelta di sospendere senza limiti la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, è tipicamente italiana. Nel senso che in materia tutti possiedono uno spicchio di ragione e una porzione di torto, ma quasi sempre declinati nei modi sbagliati. Nel complesso, l’immagine che emerge dal conflitto inquadra una maggioranza priva di spina dorsale che si appella al presidente del Consiglio perché trovi lui una sintesi dell’ultim’ora, ossia un compromesso minimo per salvare la faccia a tutti e guadagnare ancora un po’ di tempo. Purtroppo trovare la sintesi è proprio quello che riesce quasi impossibile nella stagione giallo-rossa. Anche quando, come in questo caso, la riforma da correggere è figlia della gestione precedente Lega-5S. Si era detto che saremmo arrivati al primo gennaio 2020, cioè all’entrata in vigore della nuova norma, con un sistema giudiziario ricostruito dalle fondamenta in modo da offrire all’imputato la garanzia di un processo celere, come vuole un principio elementare di civiltà giuridica. Inutile dire che invece di questa grande riforma non c’è ancora traccia, nonostante le assicurazioni del ministro Bonafede. Per cui i Cinque Stelle e coloro che difendono il Guardasigilli si aggrappano all’Europa. La quale in effetti chiede all’Italia di superare l’istituto della prescrizione, ma nel presupposto che la macchina giudiziaria nel frattempo sia stata messa in condizione di funzionare. Viceversa, essendo il meccanismo inceppato (e nessuno se ne sorprenderà), ecco che abolire la prescrizione diventa un surrogato per evitare la decadenza di migliaia, anzi centinaia di migliaia di processi. Con il risultato, tuttavia, di intasare ancora di più i tribunali e di creare una legione di cittadini, innocenti o colpevoli che siano, in attesa perenne di giudizio. Uno scenario vagamente da incubo. La domanda è: il tema della prescrizione vale una crisi di governo? A sentire qualche voce nella maggioranza, la risposta prevalente è “no” e anche in questo caso non c’è da stupirsi. Ma il groviglio è tale che qualche filo potrebbe spezzarsi all’improvviso. Il gruppo renziano di Italia Viva, ad esempio, non ha interesse a favorire accordi tra Pd e Cinque Stelle: ha bisogno invece di trovare spazi a destra incrociandosi con Forza Italia, il partito berlusconiano che non può non combattere la battaglia finale in difesa della prescrizione. Quanto al Partito democratico, esso non può dissolversi lasciando tutto il palcoscenico a Bonafede e Di Maio. La proposta presentata ieri - quasi fuori tempo massimo - serve proprio a questo: a frenare il partner di governo e ridare un ruolo al partito di Zingaretti. Non è una proposta di rottura: la prescrizione viene sospesa di fatto per tre anni dopo il primo grado, ma almeno si evita il processo a tempo indefinito. Come si capisce, esisterebbe il margine per un compromesso, a volerlo cercare. Occorre però che Conte si faccia carico della fatidica sintesi e che Bonafede accetti di patteggiare. Si tratterà in ogni caso di un accordo al ribasso perché i nodi della giustizia penale non vengono sciolti e il sistema resta inefficiente. La navigazione è di piccolo cabotaggio verso il vertice del 7 gennaio. Riforma della prescrizione, per Bonafede una facile vittoria di Francesco Bei Il Secolo XIX, 28 dicembre 2019 Chi ha ascoltato la conferenza stampa organizzata ieri dal Pd sulla riforma della prescrizione ha capito benissimo che il governo non cadrà su questo. Il Pd non ha alcuna intenzione di usare il suo disegno di legge per scalzare di forza la “Spazza-corrotti” del ministro Bonafede grazie ai voti dell’opposizione. E sì che sarebbe facile, visti i numeri in gioco. Praticamente tutto il Parlamento, a parte i grillini, pensa peste e corna della riforma che ha cancellato l’istituto della prescrizione. Il quale prevede, è bene ricordarlo, che un reato sia estinto “decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto. Tanti? Pochi? Diciamo che per la maggior parte dei reati più gravi la prescrizione di fatto già non esiste. Per fare qualche esempio concreto: per un sequestro di persona a scopo di estorsione la pena edittale è dai da 25 a 30 anni, ma la prescrizione è di 60 anni perché il termine dei 30 anni è raddoppiato ex art. 157 del codice penale. Che arrivano a 63 anni dopo la riforma del Guardasigilli Orlando. Sessanta tre anni per avere giustizia: come se un processo per sequestro iniziato ai tempi di Vittorio Emanuele III finisse nel 2009, presidente Giorgio Napolitano. Benissimo, ma il cittadino comune di solito ha in odio la prescrizione perché alcuni politici famosi, grazie a buoni avvocati, l’hanno fatta franca. E pensa che la prescrizione sia la regola per i reati dei colletti bianchi. Sbagliato. Per la corruzione in atti giudiziari il reato si prescrive in 33 anni, per l’induzione indebita a dare o promettere utilità sono 18 anni e nove mesi, per la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), sempre 18 anni. Come detto, la prescrizione, per i reati di particolare allarme sociale, è una parola sull’acqua. Resiste tuttavia come principio di civiltà giuridica, quello appunto di non essere processati a vita. Lo Stato pone un limite a sé stesso e alla propria capacità di “aggredire” un suo cittadino con la forza della legge. E quel limite è anche diacronico non solo fisico, costituisce una sorta di habeas corpus temporale. Come se lo Stato ammettesse: “Non sono riuscito a condannarti in 30 anni, ormai sei un’altra persona rispetto al presunto colpevole che pensavo tu fossi, basta. Mi fermo qui. E chiedo scusa alle vittime”. L’altra grande mistificazione è che i reati vengano prescritti per “colpa” degli astuti avvocati dei potenti di turno. In alcuni casi può essere andata così, ma una recente ricerca Ucpi-Eurispes ci dice invece che appena il 4% delle cause viene rinviato per impedimento del difensore o dell’imputato, mentre il 64% dei rinvii è dovuto a cause fisiologiche inerenti al funzionamento della giustizia. Detto tutto questo, torniamo da dove abbiamo cominciato. Il governo non cadrà, il Pd sulla prescrizione continuerà a mordere ma senza i denti. Una timidezza dovuta a tre fattori. Il primo è che una parte di dirigenti (ed elettori) dem è permeata dalla stessa cultura giustizialista che anima i Cinque Stelle. Non a caso era il Pds, poi Pd, prima della nascita del movimento di Grillo, il partito dei giudici. La seconda ragione è che il giustizialismo è l’ultima ridotta identitaria rimasta ai Cinque Stelle, dopo aver rinnegato le altre istanze delle origini. È però una ridotta ben difesa e il primo a saperlo è proprio Zingaretti. Il Pd è consapevole che può portare a spasso il M55 su molte cose ma non può toccare quella che resta la vera essenza dei grillini, pena la caduta del governo. E sarebbe anche una nobile caduta per Di Maio poter dire di essere stato sbaragliato sulla giustizia da un’alleanza mostruosa tra Salvini, Berlusconi, Renzi e il Pd. La terza ragione della timidezza dem risiede nella speranza che a fare il “lavoro sporco” ci penseranno i giudici della Consulta, non appena saranno investiti della questione. Ma se la prescrizione venisse “resuscitata” dai giudici costituzionali sarebbe un’ennesima sconfitta della politica, incapace di fare il suo mestiere: trovare un compromesso ragionevole tra opinioni diverse. Il Pd lancia la “sua” prescrizione per costringere Bonafede al dialogo di Giulia Merlo Il Dubbio, 28 dicembre 2019 Al Nazareno sfila compatta la cabina di regia dem per la giustizia. Unico grande assente, l’ex ministro Andrea Orlando, che tuttavia è stato mente e penna nella redazione della proposta di legge. Finalmente, dopo gli annunci, il Partito Democratico ha presentato la sua proposta di legge di modifica alla prescrizione, per come entrerà in vigore con la norma Bonafede il 1 gennaio. Il testo, rimasto blindato e top secret fino ad oggi, consta di un solo articolo che recita: “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna, per un periodo di due anni, quando è proposto appello o è presentata opposizione, aumentato di ulteriori sei mesi se nel giudizio di appello è disposta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale o se in quello successivo all’opposizione si verifica una ulteriore causa di sospensione. Esso è altresì sospeso, per un periodo di un anno, dalla pronuncia della sentenza nei cui confronti è proposto ricorso per cassazione. Decorsi gli indicati periodi di sospensione, la prescrizione riprende il suo corso se non è stata pronunciata la sentenza conclusiva del grado”. In sintesi: la prescrizione non viene più sospesa dopo il primo grado, ma subisce due stop, il primo - di durata fino a 2 anni e sei mesi - dopo il primo grado in caso di appello; il secondo di un anno dopo l’appello in caso di ricorso in cassazione. “n questo modo possiamo assicurare che nessun processo andrà più in prescrizione”, chiosa il primo firmatario alla Camera, il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. Lanciato il sasso, però, arriva un mezzo passo indietro: l’obiettivo, ha spiegato Bazoli è quello di “cercare di offrire una possibile via d’uscita” alla maggioranza, perché “La nostra proposta di legge è la soluzione tecnicamente migliore, ma ne esistono anche altre per ottenere il risultato che ha sempre ripetuto il ministro e che noi condividiamo di dare giustizia rapida e certa ai cittadini”. E in quel “ne esistono anche altre” c’è la mano tesa a Bonafede: “Questa proposta ci consente una discussione all’interno della maggioranza senza equivoci, ha spiegato il capogruppo del Pd in commissione Giustizia al Senato, Franco Mirabelli lasciando intendere quello che poi esplicita Walter Verini: “abbiamo depositato un disegno di legge che noi non vorremmo utilizzare”, perché “Il nostro auspicio che la sintesi venga fatta dal Guardasigilli, che non può non tener conto di tre quarti della maggioranza e di tutte le forze che all’esterno del Parlamento hanno fatto sentire la loro voce”. Insomma, se Bonafede è pronto ad addolcire la sua norma baluardo, il Pd è pronto a mettere nel cassetto il suo testo. La domanda, però, ora riguarda i tempi e anche su questo i dem non vogliono cercare strappi ponendo ultimatum. “Nessuna data fissa, nessun paletto”, assicura Walter Verini, ma “la legalità e la giustizia devono essere argomento centrale dell’Agenda 2020, senza totem e tabù” e “non si può aspettare all’infinito”. Il calendario, però, in Parlamento conta. Ieri è stata depositata la proposta di legge targata Pd sia alla Camera che al Senato, il 7 è previsto il vertice di maggioranza convocato dal ministro Bonafede, in cui i dem si aspettano risposte e aperture sulla prescrizione. La stella, però, potrebbe essere già avversa: da un lato del tavolo ci dovrebbero essere i renziani, ma il condizionale è d’obbligo perché Italia Viva ha minacciato di ritirare la sua delegazione senza aperture da parte di Bonafede. L’ 8 gennaio, poi, scadranno i termini per gli emendamenti al ddl Costa che abroga la prescrizione, mentre il voto alla Camera è atteso il 10. Fosse sostenuto solo dalle opposizioni sarebbe una tappa trascurabile, ma lunedì notte Italia Viva ha votato a favore (in disaccordo col Governo) proprio un ordine del giorno di Costa contro la norma Bonafede. Un segnale politico forte, che rende ancora più nevralgico l’appuntamento del 7 gennaio, che sarà uno spartiacque per due ordini di ragioni. Una tutta politica: il Pd ha mostrato la sua faccia conciliante nel definire il suo disegno di legge una sorta di extrema ratio, se il ministro Bonafede non volesse aprire il dialogo per cambiare la prescrizione in modo condiviso con i nuovi alleati di governo. Una pistola per ora tenuta sotto il cuscino, ma pur sempre carica. La seconda, invece, è di tattica parlamentare: se dal vertice si uscisse con un nulla di fatto, ci sarebbe ancora il tempo, il giorno dopo, per presentare emendamenti alla legge Costa e i renziani potrebbero cedere alla diabolica tentazione di proporre un emendamento identico alla proposta di legge del Pd. Proprio in questa direzione spingono gli stessi forzisti: “Quelli del Pd prima respingono più volte la nostra proposta, poi presentano un testo con un’unica differenza in sei mesi di sospensione in più dopo il primo grado e sei mesi in meno dopo l’appello”, ha commentato Costa, che ha aggiunto sibillino: “Se l’8 gennaio venisse presentato un emendamento alla proposta di Forza Italia, contenente questo testo del Pd, lo voteremmo in un minuto”. Messa in questi termini, l’interrogativo amletico sul da farsi sarebbe al Nazareno (e a Palazzo Chigi, dove sarebbe il terremoto). Proprio questa è la domanda che pone polemicamente al Pd anche il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza: “Chiederei ai deputati del Pd con quale maggioranza intendono vedere approvato il proprio disegno di legge. Se il ministro Bonafede non lo fa proprio, lo propongono comunque al voto del Parlamento anche accettando il voto dell’opposizione?”. Pragmaticamente, il leader dei penalisti si attiene alle ultime dichiarazioni del Guardasigilli (“Bonafede è stato categorico sull’immodificabilità della riforma”) e manifesta tutto lo scetticismo rispetto a una proposta che gli stessi dem dicono di non voler votare a tutti i costi: “È il senso dell’operazione politica che ci sfugge, non si sta dicendo che la maggioranza converge sulla proposta. È una cosa che il Pd vuole difendere fino in fondo? Se è solo un modo per nascondere imbarazzi, non ci interessa” In quest’ultima manciata di giorni, dunque, la riflessione spetta a Bonafede. Il ministro dovrà decidere se concedere la battaglia agli alleati, scendendo a patti invece di continuare con l’intransigenza fin qui dimostrata. Se lo facesse, il Pd sarebbe pronto a ritirare il suo disegno di legge per portarne avanti uno condiviso. Altrimenti, scatterebbe la guerriglia, in un Parlamento in cui tre quarti della maggioranza e tutta l’opposizione sono contrari alla norma Bonafede nella sua formulazione attuale. Eppure, lo stato d’animo del Pd è stato ben riassunto da Verini: se sulla prescrizione non si può transigere (anche perché al momento della sua approvazione ai tempi del governo gialloverde i dem avevano sollevato anche pregiudiziale di costituzionalità), è anche vero che “Vorremmo evitare che la giustizia continui ad essere terreno di scontro propagandistico: noi siamo contrari al giustizialismo estremista ma anche al garantismo a corrente alternata di Salvini e quello strumentale di Costa”. Il che dovrebbe tranquillizzare Bonafede e Conte: “L’obiettivo non è far cadere il governo, anche perché rischieremmo di farci tornare chi di garanzie non vuol proprio sentir parlare”. Eppure l’epilogo rischia di finire in una sorta di dilemma del prigioniero: le scelte individuali dei giocatori, pur essendo tutte razionali, determinano un equilibrio di sistema (di governo) inefficiente. Allarme processi infiniti: “Dopo 42 mesi riparta il calcolo per estinguere la pena” di Michela Allegri Il Messaggero, 28 dicembre 2019 Lo scopo della proposta di legge presentata in Parlamento dal Partito democratico è mitigare ad un livello “fisiologico” l’interruzione dei i termini di prescrizione, prevista dal governo a partire dall’inizio del 2020. Una novità introdotta dalla legge Spazza-corrotti e fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, ma che ha diviso gli addetti ai lavori. Secondo i detrattori, infatti, la riforma della prescrizione, così come è stata pensata, non solo non snellirebbe i tempi della giustizia, con processi d’appello che rischierebbero di diventare molto più lunghi, ma metterebbe anche a dura prova gli uffici giudiziari, a rischio collasso. La prescrizione è quell’istituto giuridico che prevede l’estinzione di un reato, e quindi comporta che il processo penale che lo riguarda abbia fine “decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione”. Questo significa che, trascorso un certo periodo di tempo, il reato non possa più essere perseguito, perché non sarebbe più nell’interesse della comunità portare avanti il procedimento, oppure non ci sono più le condizioni per farlo. Fanno però eccezione i reati più gravi, in particolare quelli per i quali è prevista la pena dell’ergastolo. L’assetto attuale prevede che, dopo la sentenza di condanna di primo grado, il calcolo dei tempi per arrivare alla prescrizione venga sospeso per 18 mesi durante il giudizio di appello e per altri 18 mesi durante il processo per Cassazione. In caso di condanna in primo grado e assoluzione in appello, i tempi di prescrizione tornano ad essere calcolati, senza tenere conto dello stop. Tutto questo cambia: in base a quanto previsto dalla legge Spazza-corrotti, dal primo gennaio 2020 il corso della prescrizione viene sospeso dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado. Questo accadrà sia in caso di condanna che di assoluzione. Questo significa che dopo la sentenza di primo grado un imputato non possa più uscire prescritto dal processo. I dem propongono invece una sospensione dei tempi di prescrizione di due anni per l’appello e di un anno dopo la Cassazione, ai quali si possono aggiungere altri sei mesi se c’è il rinnovo dell’istruzione dibattimentale, per un totale di tre anni e sei mesi. Dopo il primo grado, e solo in caso di condanna, la prescrizione si fermerebbe, ma non per sempre. Una proposta che il Pd motiva sottolineando il fatto che è in appello che oggi si prescrive il maggior numero dei reati. Prescrizione, il Pd cede alla linea 5S per salvare il governo giallo-rosso di Alessandro Di Matteo La Stampa, 28 dicembre 2019 Proposta depositata in Parlamento: “Ma speriamo di non doverla votare”. No alla sponda offerta da Forza Italia. Tre anni e mezzo di stop alla prescrizione: è questa “l’offerta” del Pd al Movimento 5 stelle per provare a trovare un’intesa sulla giustizia. I democratici mettono sul tavolo della maggioranza la loro proposta di legge, “con la speranza di non doverla mai votare”, come spiegava alla Camera Andrea Orlando prima della pausa natalizia. Dal primo gennaio entra in vigore la riforma Bonafede che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio e i democratici provano a mettere qualche paletto per evitare il rischio di processi infiniti. Un modo per “convincere” Giuseppe Conte e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a cercare un accordo su un tema che, teoricamente, potrebbe diventare esplosivo per la maggioranza, visto che sulla carta la proposta Pd dovrebbe incontrare i favori di Fi e Lega. Il disegno di legge dem prevede due anni di stop della prescrizione dopo una condanna in primo grado, un altro anno dopo l’appello in caso di ricorso in Cassazione e ulteriori sei mesi se in appello è disposta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Una soluzione molto simile a quella contenuta in una proposta di legge di Forza Italia. Ma il Pd, precisa Walter Verini, non intende “far cadere il governo”, la proposta sembra più uno strumento di pressione per spingere M5S a trattare. Non a caso Forza Italia, che pure sarebbe pronta a votare la proposta Pd, attacca. Dice Enrico Costa: “Quelli del Pd hanno davvero una gran bella faccia tosta. Prima respingono più volte la nostra proposta provocando l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione targato Bonafede, poi presentano un testo con gli stessi contenuti della proposta appena bocciata”. In ogni caso, precisa Costa, “se venisse presentato un emendamento alla proposta di Forza Italia contenente questo testo del Pd, lo voteremmo in un minuto”. E Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli leghista, aggiunge: “Non è normale tenere appeso un cittadino per sempre a un processo, non è normale pensare di risolvere il problema togliendo la prescrizione”. Perplesso anche il presidente dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza: “Al di là del merito della questione il punto è che sfugge il senso dell’operazione politica. Non abbiamo capito da quale maggioranza il Pd pensa che debba essere sostenuta questa proposta”. Il segretario Pd Nicola Zingaretti spiega: “Il Partito democratico è per una giustizia al servizio dei cittadini, per tempi certi nei processi nei quali i colpevoli vengano condannati, agli innocenti venga riconosciuta l’innocenza e nei quali le imprese, che hanno contenziosi, possano contare su esiti rapidi”. I 5 stelle per ora non replicano, Bonafede resta in silenzio. Solo Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, afferma: “Non si può sfuggire dai processi. Il Pd adesso sbaglia a fare la sua proposta di legge cercando di sparigliare le carte sulla tavola, sarebbe meglio discutere nella maggioranza”. In realtà anche Leu e Italia viva mostrano qualche freddezza rispetto all’iniziativa Pd. I renziani condividono le obiezioni dei democratici sulla prescrizione, ma restano in silenzio di fronte alla proposta di legge presentata. Prescrizione. “Poi ci penserà la Consulta”: così i dem prendono tempo di Francesco Grignetti La Stampa, 28 dicembre 2019 La convinzione: gli avvocati troveranno il modo di arrivare alla Corte Costituzionale. Incontro decisivo in calendario il 7 gennaio. Il Pd ha sparato il suo colpo. Subito dopo, però, sorge la domanda: trattasi di proiettile vero o a salve? Davvero i dem sono disposti a immolare il governo per aggiustare la riforma della prescrizione su cui i grillini non hanno ascoltato (e non ascolteranno) le loro ragioni? A sentire le voci della conferenza stampa, tutto si gioca dopo il 7 gennaio quando è in agenda un incontro tra il ministro Alfonso Bonafede e le delegazioni degli altri partiti di maggioranza. Quel giorno è già stabilito che si cominci a parlare di processo penale, di velocizzazione, di altre riforme collegate. Non di prescrizione. E sarà quel giorno che si capirà se le strade sono ancora divergenti e quindi la pistola potrebbe servire per uccidere la maggioranza oppure se il clima sarà diventato mite, e allora la pistola tornerà nel cassetto. Dice ad esempio Walter Verini, il responsabile Giustizia dei dem: “Ci aspettiamo che il presidente Conte e il ministro Bonafede raggiungano la sintesi che non si è raggiunta finora. Questa proposta di legge non vorremmo utilizzarla. Auspichiamo che il governo tenga conto delle esigenze manifestate da tre quarti della maggioranza, dall’avvocatura e dalla magistratura”. Dicono altre voci da dentro il Pd: “Bonafede dovrà mettere mano sul serio alla riforma del processo penale. Perché l’unico punto su cui siamo tutti d’accordo è che il processo penale va velocizzato. E invece con la sua riforma, il risultato sarà l’opposto di quanto lui immagina. I processi rallenteranno vistosamente, perché gli uffici non avranno più il pungolo dei tempi di prescrizione”. Il ddl presentato ieri avrà sostanzialmente una funzione di stimolo per la negoziazione. Potrà funzionare come minaccia di creare maggioranze variabili in Parlamento in nome del garantismo, aggregando sinistra e destra, e isolando il M5S. Oppure potrà essere la foglia di fico che coprirà la retromarcia del Movimento, che vanterà di avere tenuto il punto ma sapendo che le cose finiranno in tutt’altro modo. La mossa, insomma, è stata studiata dal Pd per tenersi aperte diverse strade. Con un retro-pensiero a cui ha dato corpo il senatore Stefano Ceccanti: “Se la politica s’imballa, ci penserà la Corte costituzionale a sciogliere il nodo. È scontato che gli avvocati troveranno il modo di arrivare alla Consulta. Ed è pacifico che la sospensione della prescrizione così com’è, senza correttivi per velocizzare i processi, sarà cassata”. Un argomento, peraltro, che un anno fa i dem illustrarono nell’Aula del Senato quando presentarono la loro pregiudiziale di costituzionalità alla Spazza-corrotti. Nonostante un’opinione così tranchant, la trattativa dentro la maggioranza è andata avanti al piccolo trotto per settimane. Tutti sicuri che alla fine Bonafede avrebbe abbozzato. E invece no. Il ministro e il M5S hanno tenuto duro. Finché si è arrivati alla fine dell’anno e a partire dal 1 gennaio lo stop della prescrizione sarà esecutiva. Il punto è che anche dentro il Pd ci sono filoni diversi. C’è chi era a un passo dal votare la proposta di Enrico Costa, di Forza Italia, pur di sbarrare la strada a Bonafede, a costo di far saltare il governo. E chi, all’opposto, non si straccia le vesti. Tanto più che l’associazione nazionale magistrati ha dato il suo autorevole placet alla riforma, purché lo stop sia accompagnato dalle fatidiche velocizzazioni. “La verità - commenta un giurista molto ascoltato a sinistra quale Giovanni Maria Flick - è che il processo penale è diventato qualcosa di molto diverso da quanto s’immaginò nel 1989 e la prescrizione è solo uno dei problemi, peraltro meno grave di quanto vuole la vulgata. Ma vorrei che al riguardo si smettesse di criminalizzare gli avvocati. La prescrizione è essenzialmente figlia di inefficienza e disorganizzazione degli uffici. Averla affrontata così, con una sospensione che si perde nella notte dei tempi, è al di là del bene e del male. E quando sento di uno scambio tra prescrizione e intercettazioni, non penso che sia il modo migliore per riformare la giustizia”. Prescrizione. Assurdo che la politica si divida su un principio di civiltà giuridica di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 28 dicembre 2019 Il testo che entra in vigore è contrario all’art. 111 della Costituzione. Stupisce che persino la prescrizione sia divenuta oggetto di scontro politico tra le stesse forze della maggioranza di governo. La prescrizione è infatti un istituto che coinvolge fondamentali principi costituzionali in tema di funzionamento della giustizia e diritti dei cittadini, segnatamente il principio del giusto processo e il corollario della sua ragionevole durata, entrambi enunciati dall’articolo 111 della Costituzione. Principi sulla cui attuazione sarebbe ragionevole aspettarsi un sostanziale accordo tra tutte le forze politiche, ferme restando eventuali marginali discordanze tra maggioranza e opposizione. Si tratta cioè di trovare un punto di equilibrio capace di conciliare contrastanti esigenze. Da un lato la pretesa punitiva dello Stato, volta ad applicare la sanzione penale a chi ha commesso il reato e a rispondere alle aspettative di giustizia della vittima del reato e di sicurezza della collettività; dall’altro il cosiddetto “diritto all’oblio” a favore dell’autore del reato, cioè l’esigenza di evitare che la sanzione penale intervenga in un momento eccessivamente lontano dal reato, cioè quando il processo non è più “giusto”, perché le aspettative di giustizia della vittima sono ormai deluse e l’imputato è persona ormai diversa da chi allora aveva commesso il reato. È invece accaduto che il ministro di Grazia e Giustizia, Alfonso Bonafede, ha presentato un disegno di legge, inspiegabilmente approvato da Camera e Senato, che viola clamorosamente quelle esigenze di equilibrio e, prima ancora, si appalesa manifestamente irragionevole. La nuova legge dispone infatti che, dopo la condanna di primo grado, non esistono più termini oltre i quali, se non interviene una sentenza definitiva di condanna, il reato si estingue per prescrizione, ma l’imputato può essere raggiunto in qualsiasi momento, anche dopo anni o decenni da quando ha commesso il reato, da una sentenza definitiva di condanna. Prima della legge Bonafede la disciplina della prescrizione, da sempre tormentata da incessanti modifiche, si era attestata su una legge del 2017, che dopo la condanna di primo grado prevedeva, sia in caso di appello che di ricorso per cassazione, la sospensione del decorso dei termini di durata della prescrizione per un anno e mezzo, e così per un totale di tre anni di sospensione nei due gradi giudizio. Soluzione sostanzialmente equilibrata, a fronte della quale la dilatazione infinita dei tempi della prescrizione prevista dalla legge Bonafede appare priva di misura. Risulta quindi quanto mai tempestiva una proposta di legge di alcuni deputati e senatori del Pd che sostanzialmente ripropone la riforma del 2017, stabilendo la sospensione dei termini della prescrizione per due anni nel giudizio di appello, nel quale più frequenti sono i casi di prescrizione dei reati, e di un anno nel giudizio di cassazione, senza modificare il termine complessivo di sospensione di tre anni. Se la proposta di legge del Pd dovesse tagliare il traguardo dell’approvazione parlamentare, ovviamente risulterà abrogata la legge Bonafede che, destinata ad entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2020, non avrebbe così neppure il tempo di trovare concreta applicazione. Prescrizione, la proposta del Pd per “contenere” la riforma M5S di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 dicembre 2019 Prescrizione fino a due anni dopo la sentenza di primo grado, ripresa del conteggio se l’appello è finito, poi eventuale sospensione di un anno fino in Cassazione. Stop al conto alla rovescia della prescrizione, ma solo fino a due anni dopo la sentenza di primo grado, estendibile fino a due anni e sei mesi. Ripresa del conteggio nel caso che il processo di appello sia concluso. E nuova sospensione, ma solo per un anno, in caso di ricorso in Cassazione. È questa la proposta del Pd per superare la legge Bonafede che, a partire dal 1 gennaio abolisce del tutto la “tagliola” dei processi. E prevede per quelli che inizieranno dal 2020 una conclusione solo per condanna o assoluzione. Forza Italia: “Ma è la nostra proposta” - Il provvedimento di un solo articolo è stato depositato alla Camera e, alla ripresa, verrà presentato anche al Senato. “Una proposta al servizio dei cittadini”, per. Il leader pd Nicola Zingaretti. “Che faccia tosta. Quella è la nostra proposta”, attacca Forza Italia, con Enrico Costa, pronta a votarla. “Bonafede faccia la sintesi”. La proposta, che differenzia l’iter processuale per chi viene condannato e per chi viene assolto in primo grado, è messa sul piatto della discussione tra gli alleati di governo. Lo dice chiaro Walter Verini, responsabile giustizia dei dem: “Noi non la vorremmo utilizzare. Il nostro auspicio è che la sintesi venga fatta dal Guardasigilli, che non può non tener conto di tre quarti della maggioranza e di tutte le forze che all’esterno del Parlamento hanno fatto sentire la loro voce”. E Alfredo Bazoli, capogruppo pd in commissione Giustizia, primo firmatario della proposta, aggiunge: “Ci sono molti modi per trovare l’equilibrio migliore tra il blocco in primo grado della prescrizione ed evitare che processi già iniziati si concludano con una prescrizione, dall’altro evitare che questo si trasformi in processi infiniti. Da un lato proponiamo la distinzione delle sentenze di condanna da quelle di assoluzione, dall’altro in caso di condanna in primo grado si prevede una sospensione della prescrizione per un totale di 3 anni e sei mesi. I processi non possono essere infiniti”. M5S: “Non si sfugge dai processi” - Ora i riflettori sono tutti puntati sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Alla sfida del Pd risponderà come quando la proposta non era ancora stata formalizzata: “Si cerca di far passare dalla finestra quelli che non è entrato dalla porta”? Per ora dal Movimento arriva un “no”. “Il Pd adesso sbaglia a fare la sua proposta di legge cercando di sparigliare le carte sulla tavola, sarebbe meglio discutere nella maggioranza”, dice il vicepresidente dell’Europarlamento Fabio Massimo Castaldo. Che spiega: “Sul tema della prescrizione abbiamo sempre avuto una visione molto chiara: non si può sfuggire dai processi, la prescrizione non comporta l’assoluzione ma la rinuncia da parte dello Stato a stabilire se una persona è colpevole oppure no. Questo va coniugato naturalmente con una riforma più ampia della giustizia”. Le reazioni sul web: “così siamo ostaggio della magistratura” di Fabrizio de Feo Il Riformista, 28 dicembre 2019 “Prescrizione senza fine? È come un ospedale con liste d’attesa infinite”. Il successo della campagna promossa dalle Camere penali contro la riforma Bonafede. Le persone chiedono un’altra cosa: processi più brevi. Ha raggiunto oltre mezzo milione di persone in soli quattro giorni la campagna social dell’Unione camere penali italiane contro il provvedimento della nuova prescrizione che entrerà in vigore dal primo gennaio. I post con vignette e “meme” che sintetizzano gli effetti pratici della nuova legge hanno fatto il giro delle pagine Facebook e Instagram ricevendo l’endorsement di migliaia di persone. Il verdetto è chiaro: dall’analisi delle interazioni dei social media il rapporto tra chi si schiera contro la nuova legge è di sei volte superiore rispetto a chi invece la approva, e il tema si dimostra caldo tanto che un like non basta a esprimere il dissenso. Sono migliaia le persone che hanno lasciato commenti contrari alla nuova legge giudicata iniqua e troppo garantista nei confronti dello Stato, a discapito delle vittime e degli imputati che diventano automaticamente colpevoli “fino a prova contraria”, l’esatto ribaltamento di quanto dice la legge. Lo dice Michele R., che in commento a un post scrive: “Adesso tutti noi siamo passibili di processo eterno, il bello è che qualcuno è pure contento. Beata ignoranza”, e lo sottolinea anche Pierfrancesco C.: “Mi dici che impatto rieducativo ha una pena da scontare venticinque anni dopo i fatti? E che giustizia sarebbe tenere un cittadino imputato a vita, senza prescrizione, praticamente ostaggio della magistratura?”. C’è poi chi non nasconde di aver passato dei guai pur essendo innocente, e porta la sua testimonianza in risposta a chi invece sostiene la nuova legge: “Sei mai stato accusato ingiustamente di un reato, senza averlo mai commesso? Credi che sia così difficile? A me carpirono l’identità per fare delle truffe a parroci dell’Alto Adige. Un cliente mi ha accusato di appropriazione indebita per coprire i suoi mancati versamenti delle tasse”, scrive Dani P. Chiude la discussione Salvatore M.: “Colpevoli o innocenti non si può tenere sotto processo una persona a vita, piuttosto che prolungare la prescrizione sarebbe meglio definire la durata dei processi, perché non mi dite che dopo due o tre anni di indagine non si può definire se una persona è colpevole o innocente”. Su Twitter interviene Giancarlo L.: “La cancellazione della prescrizione è il punto più basso a cui ci sta portando il populismo - scrive - corrisponde all’idea che chiunque è colpevole, basta avere abbastanza tempo per dimostrarlo e anche un innocente è solo un colpevole processato male e quindi va ri-processato fino alla Verità”. Oltre ai post, condivisi e commentati centinaia di volte, ci sono anche i commenti a riscuotere like e approvazioni. Uno dei record appartiene ad Alberto M. (104 “mi piace”) che sul post “La prescrizione senza fine? È come un ospedale con liste d’attesa interminabili”, commenta: “È la soluzione più facile, che procura più consensi elettorali e perché è l’unica di cui è capace chi attualmente ci governa. L’altra. quella più corretta, ma anche più difficile da attuare, sarebbe quella di fare in modo che tutti (o quasi) i procedimenti terminassero in tempi “umani”, in modo da non oltrepassare gli attuali termini di prescrizione. Così facendo. il problema si sarebbe risolto senza necessità di modificare la norma sulla prescrizione”. Ci sono comunque voci che si pongono a favore della nuova legge, come dice Francesco F.: “La legge sulla prescrizione finalmente eviterà che molti processi finiscano senza colpevoli! È successo tantissime volte e stranamente a salvarsi dalle condanne sono stati i nostri politici”. Ma sono in molti a rispondergli, come Enrico C.: “Togliere la prescrizione senza stabilire una data certa per chiedere un processo vuole dire imputare a vita... con tutti i costi che ci vanno dietro”. Il piazzale degli eroi di Giuseppe Sottile Il Foglio, 28 dicembre 2019 Chi è il magistrato più brillante e coraggioso del reame? Davanti a quale eccellentissima toga dovrà inchinarsi la balbettante politica che non riesce più a risolvere i problemi o quella, ancora più nefasta, che ostenta le manette come rimedio contro ogni male e contro ogni ingiustizia? Sul piazzale degli eroi si è affacciato l’altro ieri Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, che non ha fatto mistero della sua ambizione: pretende un piedistallo come quello che toccò in vita a Giovanni Falcone, il giudice che portò alla sbarra i sanguinari corleonesi di Totò Riina; e chiede una protezione straordinaria, comunque non inferiore a quella che il ministero dell’Interno assicura ad Antonino Di Matteo, il pubblico ministero che nell’aula bunker di Palermo ha svelato il mysterium iniquitatis della trattativa tra i boss di Cosa nostra e alcuni organi deviati dello Stato, che ha sfidato il Quirinale di Giorgio Napolitano, che ha scavato nel doppiofondo delle verità ufficiali, che per cinque anni ha martellato col suo estremismo la Corte d’Assise, che ha difeso finché ha potuto le patacche di Massimo Ciancimino, che ha scritto libri, tanti libri, uno sui collusi e un altro sul patto sporco, che non s’è persa una intervista né un talkshow e che oggi, manco a dirlo, sente di essere il bersaglio preferito delle cosche, l’uomo più minacciato d’Italia. Ma anche Gratteri sente sul collo il fiato selvaggio della minaccia mafiosa. Ha sostenuto che i boss della ‘ndrangheta gli hanno lanciato non pochi avvertimenti e che le sue paure - tutte legittime, tutte sacrosante - non potranno non toccare livelli estremi ora che, in un colpo solo, ha trascinato in galera oltre trecento boss della Calabria e ha chiuso la sua mastodontica inchiesta con numeri da capogiro: 416 indagati, un’ordinanza di custodia cautelare lunga 13.500 pagine, cinque milioni di fotocopie, da consegnare agli arrestati, stampate in gran segreto in un’altra città del mondo e fatte arrivare con camion blindati per evitare fughe di notizie: perché si sa che non c’è boss che non abbia i suoi confidenti tra le forze dell’ordine e non c’è picciotto che non sia in grado di corrompere uno sbirro, un appuntato, un maresciallo. Bisognava sentire, nel giorno della conferenza stampa, con quanto orgoglio e quanto compiacimento il procuratore capo Gratteri ha illustrato al Paese - sì, al Paese: perché la ‘ndrangheta da tempo non è più un fenomeno regionale - i grandi numeri della retata. C’erano, nel suo linguaggio furori che a tratti richiamavano il poliziotto di Graham Greene e il suo inno spocchioso all’onnipotenza della legge: “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare”, urlava. Ma il punto di riferimento restava Falcone, il magistrato antimafia per eccellenza, l’uomo che nel febbraio del 1986 consegnò alla giustizia i mammasantissimi di cui Palermo, regia e conventuale, non osava nemmeno pronunciare i nomi: da Michele Greco, detto “il papa”, a Luciano Liggio, col suo sigaro storto; da Totò Riina, il capo dei capi, a Pippo Calò, che era stato il mestolo di ogni pentolone di sangue e violenza. E poi c’erano i pentiti, quelli che sbriciolavano nelle udienze ogni presunzione degli avvocati di difesa: c’era Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile e arrivato in Italia col piglio di un angelo sterminatore, e c’era Totuccio Contorno, un killer che altri killer hanno tentato a tutti i costi di ammazzare prima della sua deposizione davanti alla Corte presieduta da Alfonso Giordano. Certo, nella retata di Catanzaro non c’erano nomi che potessero raffrontarsi, per calibro e ferocia, ai 475 imputati che Falcone aveva costretto a recitare sul palcoscenico della disfatta, in un’aula bunker fatta costruire apposta dentro le mura dell’Ucciardone. Ma i numeri sì, quelli c’erano. E Gratteri li ha calati tutti sul tavolo a suggello della sua personalissima epopea: “Questa indagine - ha detto - è la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”. I numeri e nulla più, comunque. Falcone non cedeva a suggestioni simili a quelle che attraversano “Il potere e la gloria” di Graham Greene. Non dava credito a metafisiche banali e perdenti, come quella del cosiddetto terzo livello che ipotizzava un tavolo ovale nel quale sedevano e complottavano uomini di Cosa nostra e ras della politica. Non amava scorciatoie facili e giudiziariamente sterili: quando Giuseppe Pellegriti, un pentiticchio di terz’ordine, gli propose chissà quali rivelazioni per incastrare Salvo Lima, pro console di Giulio Andreotti in Sicilia, il magistrato palermitano capì che era una polpetta avvelenata e incriminò Pellegriti per calunnia. Poteva uscirne con la testa cinta da alloro e avrebbe fatto felice Leoluca Orlando, il sindaco populista che tiranneggiava allora su un’antimafia chiodata, quella che sputacchiava pure sulla ragionevolezza mite di Leonardo Sciascia. Invece Falcone preferì la via della verità. E, stoicamente, accettò addirittura gli sfregi di Orlando che, con la tracotanza di un predicatore gesuita, lo accusò persino - roba da pazzi - di tenere le prove nascoste nei cassetti. Ma Falcone non aveva la mistica della toga. Non credeva nella missione salvifica della magistratura. Sosteneva semplicemente che la mafia, come tutte le cose del mondo, ha un inizio e una fine e che per combatterla basta raccogliere prove e testimonianze capaci di reggere in dibattimento: perché un mafioso che la fa franca dopo essere stato inquisito è una sconfitta non solo per il magistrato che ha istruito l’inchiesta ma anche e soprattutto per lo Stato. Il procuratore Gratteri, a differenza del giudice simbolo dell’antimafia, crede che un’inchiesta giudiziaria, indubbiamente portentosa come quella che lui ha firmato, possa contribuire a salvare il mondo; o, quantomeno la sua regione: “Il giorno del mio insediamento - ha tenuto a precisare nel giorno della conferenza stampa - ho pensato di smontare la Calabria come un treno Lego e poi rimontarla, piano piano”. Era la sottolineatura che, a suo avviso, avrebbe dovuto accendere, attorno alla retata, il consenso del mondo politico, gli applausi della società civile e i titoloni sulle prime pagine dei giornali. Tutte cose che non sono arrivate; o sono arrivate in maniera ridotta, sbiadita: non con i colori lucenti e smerigliati che abitualmente accompagnano un’impresa eroica e straordinaria, ma con quelli smunti e appannati dell’ordinaria amministrazione. Gratteri c’è rimasto male. Non solo se l’è presa con la stampa e la sua scarsa sensibilità, ma ha anche lanciato sospetti pesanti, pesantissimi contro il potere che da sempre, vada da sé, isola e perseguita chi, come lui, rischia ogni giorno la vita per ripulire la propria terra da ogni nefandezza, da ogni collusione, da ogni intrigo, da ogni corruzione. È la teoria della trama oscura. All’interno della quale ha trovato degna collocazione anche il veto con il quale Giorgio Napolitano bloccò, dal Quirinale, proprio la nomina di Gratteri a ministro Guardasigilli del governo Renzi. È il vittimismo di Stato. Un vittimismo che per un capriccio del destino si ingrotta, serpigno, nella mente di molti magistrati coraggiosi. Ricordate quando Antonio Ingroia dall’alto del suo strapotere alla procura di Palermo credette non solo di intercettare Napolitano nel suo ruolo, costituzionalmente protetto, di presidente della Repubblica; ma spacciò poi come un complotto di palazzo la sentenza inappellabile della Consulta che imponeva al capo della procura palermitana di distruggere immediatamente le bobine? Anche Di Matteo ha ostentato - come Gratteri, come Ingroia - il suo vittimismo di Stato. Anche lui era accucciato dietro la porta di via Arenula, sicuro del fatto che Beppe Grillo avrebbe aperto da lì a poco il lucchetto per nominarlo ministro della Giustizia. Ma le cose sono andate poi diversamente ed è difficile, ora che il successo della Trattativa si sfarina sempre più nei processi d’appello, mantenere alto il livello delle ambizioni. Tuttavia, piaccia o no, è lui il magistrato coraggioso che ancora troneggia nel piazzale degli eroi. Lo hanno elevato sul piedistallo più ardito i cento comuni che gli hanno conferito la cittadinanza ordinaria, le associazioni - dalle Agende rosse alla Scorta Civica - che lo accompagnano nei pellegrinaggi del fervore anti-mafioso, il suo giornaletto di riferimento che ogni giorno lo osanna con otto titoli in homepage, i colleghi che due mesi fa lo hanno eletto al Consiglio superiore della magistratura come interprete fedele della linea dettata da Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite che la tv ha trasformato in un Sommo Sacerdote di Giustizia. Gratteri ne ha ancora strada da fare. La Trattativa era una boiata pazzesca ma la Corte, con i suoi giudici popolari, ci ha creduto; e dopo un processo durato cinque anni ha emesso una sentenza che condanna a 12 anni di carcere non solo due boss sopravvissuti al 41bis come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, ma pure due alti ufficiali dei carabinieri, che tentarono, al tempo delle stragi, di arginare il fiume di sangue: Mario Mori e Antonio Subranni. Il trenino Lego che il procuratore di Catanzaro ha tenacemente e meritoriamente smontato ha ancora da toccare parecchie stazioni: deve affrontare il tribunale del riesame, il rinvio a giudizio, il processo di primo grado. Quanti saranno i colpevoli e quanti gli innocenti? Il piazzale degli eroi non è proprio dietro l’angolo. Sicilia. Nella Regione 28 carceri, 6mila detenuti, 4mila agenti. Un sistema da ripensare di Melania Tanteri livesicilia.it, 28 dicembre 2019 E da riorganizzare, per rendere più efficace l’istituzione stessa, la detenzione, in Italia immaginata per riabilitare. Una funzione che al momento è quasi smarrita, stando alle parole di Domenico Nicotra, segretario generale aggiunto dell’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, animatore di tante proteste per accendere i riflettori su ciò che avviene, veramente, dietro gli alti muri di cinta di carceri e case di reclusione. È lui ad appellarsi al presidente Musumeci e a descrivere una realtà come quella catanese con alcune luci e molte ombre. “La provincia di Catania è importante ma talvolta viene sottovalutata - afferma. C’è, ad esempio, a Giarre, l’istituto nato per le misure che sembra lì, quasi morente. È una casa circondariale per tossicodipendenti, potrebbe essere un fiore all’occhiello e invece lo stanno facendo morire. All’interno si svolgono poche attività e poi è sottodimensionata: avrebbe bisogno di 40 agenti e ce ne sono appena 20. La situazione è gravissima e non ci sono quasi detenuti. Ma la struttura va comunque gestita”. Un altro istituto da ripensare, secondo Nicotra, è Bicocca, dove c’è anche una sezione per minori (l’altro istituto minorile è ad Acireale). “Una vecchia proposta voleva accorpare la sezione minorile di Bicocca a quella di Giarre per fare una grande sezione per minori, mentre a Bicocca si sarebbe potuta aprire la sezione femminile che c’è solo a Piazza Lanza, ma è piccolina, e non c’è per la semilibertà, per le misure alternative. Invece non se n’è fatto più nulla. Ad Acireale ci sono pochi detenuti, massimo dieci, e la struttura è in affitto - prosegue - insomma, lo Stato paga”. Tutti istituti che secondo il sindacalista andrebbero accorpati in un’unica struttura. “Il tema più importante è la riorganizzazione delle strutture - sottolinea. Nella regione abbiamo 28 strutture: ho richiesto di riorganizzarle e chiuderne alcune, come Favignana o Piazza Armerina. E nel frattempo riorganizzare quelle di Catania. Con risorse meno dispese si dà un servizio migliore”. E i numeri confermerebbero le parole di Domenico Nicotra. “Nell’amministrazione penitenziaria abbiamo le stesse risorse, lo steso organico che c’è in Lombardia - afferma: 5.000 agenti, 6.000 detenuti ma ci sono 19 istituti. In Sicilia abbiamo 6.000 detenuti, 4 mila agenti ma 28 istituti. Alla fine, al Nord sono più efficienti perché hanno accorpato alcune strutture”. Nello specifico, ogni carcere o casa circondariale soffre di sovraffollamento della popolazione detenuta e, al contrario, di mancanza di personale. Tutto questo si traduce in assenza di attività che vadano oltre la normale vita detentiva. “Piazza Lanza è affollata - continua Nicotra: in questo momento ha circa cento detenuti in più. È una struttura che però, in questo momento, è la migliore in Italia perché, pur essendo sottodimensionata nell’organico e affollata, è ben organizzata grazie a un direttore e a un comandante del personale capaci. Per questo, attualmente, non è alle cronache. C’è una grave carenza di personale che speriamo il ministero colmi, ma al momento si mantiene in buon equilibrio. Qui c’è il 70 per cento del personale previsto. Abbiamo 230 persone di cui 80 sono fuori, distaccate in altri posti. Sono previsti 330. E il personale lavora con grande spirito di sacrificio, ma sono motivati molto”. Diversa la situazione di Bicocca. “La struttura è fuori da ogni regola - tuona: sono previste 200 unità compreso il nucleo traduzioni, ed è un istituto ad alta sicurezza. Ci sono 200 detenuti circa, su una capienza di 300 ma mezzo istituto è chiuso per manutenzione. E ci vorrebbero altri cento agenti, come a piazza Lanza. La Costituzione, all’art 27, prevede il reinserimento e la riabilitazione per i carcerati - continua - ma l’attuale situazione si traduce in assenza di tuto questo. Tutto diventa più difficile. Un istituto come Piazza Lanza ha numerose attività lavorative: dentro fanno tantissime cose, fanno lavori veri. A Bicocca fanno piccole manutenzioni, non ci sono grandi attività”. Un sistema che andrebbe ripensato anche per mitigare le ricadute negative di una situazione talvolta critica. “Molto di quello che c’è di buono non si legge mai sul giornale. Non si parla di quello che c’è in carcere, del lavoro per esempio, ma soprattutto non si parla di quello che non c’è. Si finisce sul giornale solo se viene scoperto un telefonino, se c’è un’aggressione. E invece, la popolazione detenuta deve cominciare a poter pensare che in carcere può fare attività sociali vere. Fuori. E creare dentro alternative lavorative che possano creare un mestiere. In gran parte degli istituti non si fa, quando si fa, vedi piazza Lanza, è poco. Questo sarebbe riabilitazione”. In un quadro come questo, a tinte fosche, è l’agente penitenziario, spesso, a rischiare di più. “Un detenuto chiuso in gabbia per 24 ore, quando esce per l’ora d’aria può avere delle reazioni pericolose - evidenzia Nicotra. Ci sono pochi educatori e pochi assistenti sociali. Il vero educatore a volte è il poliziotto. Quello che sta più vicino ma che spesso rischia la vita perché non è preparato a svolgere determinati compiti. Quando qualcosa va storto finiamo sul giornale. Per il caso Cucchi, ci hanno massacrato per dieci anni e poi si è scoperto che la polizia penitenziaria non c’entrava nulla. Paradossalmente, chi parla bene della polizia penitenziaria, sono i detenuti che hanno avuto ed effettivamente partecipato a un percorso rieducativo. Questo personale è costretto poi a fare turni estenuati per uno stipendio che arriva a 1.800 euro con tutti gli straordinari e i notturni”. Da qui la richiesta alla Regione. “Il presidente Musumeci deve farsi portavoce della riorganizzazione delle carceri presso lo Stato e riorganizzare il sistema per spendere meglio le nostre energie. E poi dividere carcere di massima sicurezza da quelli dove fare attività lavorative”. Campania. “Cure negate ai minori in comunità” La Repubblica, 28 dicembre 2019 L’allarme di Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti. Cure sanitarie gratuite negate ai minori collocati nelle comunità: è scontro sui tetti di spesa. Se ne parlerà lunedì 30 dicembre, alle 11 nella sede del Garante regionale dei detenuti (isola F8 al Centro direzionale), durante la conferenza organizzata sulla necessità di garantire il diritto alla salute per i minori dell’area penale collocati in comunità, attraverso l’accesso gratuito al servizio sanitario pubblico, come avviene per i minori ospiti degli istituti per minori di Nisida e Airola. Un diritto costituzionale che continua a essere negato, come hanno denunciato su “Repubblica” Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera della Onlus Jonathan. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello osserva: “Il non poter accedere gratuitamente al servizio sanitario nazionale, come avviene per i minori in custodia cautelare, produce un danno con conseguenze a volte irreparabili nella vita futura di questi ragazzi. Oltre agli esami di routine nella maggior parte dei casi i minori necessitano di visite specialistiche, le più frequenti sono quelle neuropsichiatriche o quelle dermatologiche”. Firenze. “Due ore di nido per i bambini di Sollicciano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 dicembre 2019 Il direttore del carcere, Prestopino: cerchiamo un’associazione che li faccia vivere almeno un po’ lontani da qui. “In questi anni a Sollicciano ho visto tanti bambini piccoli vivere dentro il carcere. Ogni volta che li guardo negli occhi, da uomo e da padre provo un sentimento di pena e di pietà, sono bambini che non hanno alcuna colpa, pagano invece le colpe dei loro genitori e questo non è giusto. Questi bambini non dovrebbero crescere con forti limitazioni alla loro libertà”. Il direttore di Sollicciano, Fabio Prestopino, ne ha visti passare tanti di bambini all’interno del penitenziario che dirige da tre anni, tutti figli di madri detenute, arrestate perché hanno commesso reati. Attualmente sono quattro i bambini reclusi nel penitenziario fiorentino, come denunciato dalla visita in carcere dell’associazione Progetto Firenze il 24 dicembre. “Raramente, durante il mio mandato, sono stati così tanti” afferma Prestopino. La legge dice che fino al terzo anno di vita i bambini possono restare in carcere assieme alla madre, ma questo significa privarli di un pezzo importante della loro libertà. “Questi bambini svolgono attività ludiche ed educative grazie all’associazione Telefono Azzurro, i cui operatori vengono quasi quotidianamente a Sollicciano fornendo un importante supporto alla genitorialità. Ma ovviamente crescono con profonde limitazioni: non possono andare al parco come gli altri bambini, non possono socializzare con i loro coetanei, non possono vedere i parenti”. Però una potenziale soluzione ci sarebbe, secondo il direttore del penitenziario. “Questi bambini vivono in carcere ma, a differenza delle loro madri detenute, possono uscire come e quando vogliono, ovviamente con il consenso della madre e accompagnati da persone esterne al carcere. Ecco perché sarebbe importante trovare qualcuno, penso magari a un’associazione, in grado di portare i bambini ogni mattina all’asilo nido, per poi riprenderli all’ora di pranzo o nel pomeriggio. In questo modo, questi bambini potrebbero vivere metà giornata, o anche più, lontano dal carcere, giocare coi loro coetanei, crescere in ambienti certamente più sani di quelli penitenziari”. Quello di Prestopino, suona come un appello: “Come direzione del carcere, ci mettiamo a disposizione per supportare volontari o associazioni serie che possano aiutarci a portare i bambini all’asilo nido, o magari semplicemente al parco, al fine di rendere meno difficoltosa e traumatica la loro crescita nei primi anni di vita”. Compito certamente non semplice, come spiega Sylke Stegemann di Telefono Azzurro: “Negli ultimi anni a Sollicciano la presenza dei bambini si è fatta più frammentata e flessibile, spesso le madri restano in carcere per pochi mesi e non è semplice inserire i piccoli all’asilo nido in così poco tempo, i bambini hanno prima bisogno di ambientarsi. Nel breve periodo, è più facile portarli fuori al parco, piuttosto che all’asilo”. Per migliorare la situazione dei bambini in carcere, dieci anni fa venne firmato l’accordo per la realizzazione dell’Icam, l’istituto a custodia attenuata per detenute madri a Rifredi, all’interno di una palazzina messa a disposizione gratuitamente dalla Madonnina del Grappa. Ma ancora oggi, a dieci anni dall’intesa, i lavori di messa in sicurezza e ristrutturazione non sono mai partiti. Dovrebbero partire però il prossimo anno per essere terminati entro due anni, assicurano dalla Società della Salute, che ha avuto l’incarico di gestire i lavori di ristrutturazione. Una buona notizia, anche se quello dell’Icam è un progetto su cui sembra non esserci convergenza politica nelle istituzioni locali, ma sul quale la Regione ha già investito oltre 500mila euro. Un progetto su cui il direttore di Sollicciano si esprime con qualche remora: “Sarebbe un luogo probabilmente meno traumatico del carcere, ma l’Icam è comunque un luogo detentivo dove c’è il personale di polizia penitenziaria che sorveglia le detenute. Ho visitato personalmente l’Icam di Venezia e non l’ho trovato così molto differente dal carcere”. Agrigento. Carcere senza riscaldamento e acqua calda grandangoloagrigento.it, 28 dicembre 2019 La protesta dei detenuti: “Vogliamo parlare con il Prefetto”. È stata questa la richiesta di alcuni detenuti del carcere Petrusa di Agrigento che, a cavallo tra Natale e Santo Stefano, hanno dato vita ad una protesta civile lamentando condizioni ormai davvero pesanti e, in particolare, l’assenza dei riscaldamenti e addirittura dell’acqua calda per potersi lavare. I detenuti alla fine hanno incontrato il capo della polizia penitenziaria che ha provato a trovare una soluzione nell’immediato. Una situazione che sta degenerando - quella all’interno del carcere Petrusa di Agrigento - testimoniata anche dai recenti sopralluoghi prima da parte di una delegazione dei Radicali e in seguito anche del Prefetto, del Procuratore Capo di Agrigento e, infine, del governatore Musumeci che ha definito “una vergogna” la struttura agrigentina. La Procura di Agrigento, in seguito ad alcune segnalazioni di detenuti ma anche della delegazione radicale, ha aperto un fascicolo d’inchiesta negli scorsi mesi. Napoli. Radicali nel carcere femminile di Pozzuoli: ecco cosa è emerso dalla visita di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 28 dicembre 2019 Ieri pomeriggio, 27 dicembre, i Radicali per il Mezzogiorno Europeo hanno inviato una delegazione a svolgere una visita nel carcere femminile di Pozzuoli. Ad accompagnare i Radicali, guidati dall’avvocato Raffaele Minieri, segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, la direttrice del penitenziario, Carlotta Giaquinto (già direttrice a Santa Maria Capua Vetere e Aversa) in carica dallo scorso febbraio, l’assistente capo coordinatore Di Falco e il commissario capo Salvati. I numeri della struttura parlano di 154 detenute in 109 posti di capienza regolamentare. Di queste una settantina sono definitive, vi sono poi numerose posizioni miste e detenute in attesa di giudizio oltre a sette detenute protette che sono in carcere per reati di particolare gravità come ad esempio contro bambini o minori. Il 15% delle ristrette a Pozzuoli sono di nazionalità straniera. Il carcere è composto da tre sezioni, tutte visitate dalla delegazione radicale oltre all’articolazione salute mentale che conta sette ristrette in otto posti. Anche l’articolazione salute mentale è stata oggetto della visita. La prima sezione è occupata da 20 detenute più le sette protette e contiene sia definitive che ricorrenti; la seconda sezione ospita 68 detenute quasi tutte in attesa di giudizio mentre la terza contiene 46 detenute, tutte in via definitiva. Le celle ospitano da un minimo di quattro a un massimo di dieci detenute e dalla struttura assicurano il rispetto della sentenza Torreggiani, coi tre metri quadri calpestabili garantiti a ogni ristretta. Questo, tuttavia, non è apparso sempre lampante alla delegazione in particolare nella seconda sezione, quella più affollata. In tutte le celle sono presenti bagni in buone condizioni con docce in camera. Ogni reparto è fornito, nei corridoi, di un frigorifero nuovo e vi sono stanze per la socialità dotate di TV, divanetti, libri e calcio balilla. In tutto il carcere vige il regime delle celle aperte dalle ore 7 alle ore 18 ad eccezione delle detenute protette la cui cella è aperta in momenti diversi. Ci sono inoltre circa 20 detenute tossicodipendenti nei vari reparti (oltre ad alcune sieropositive) e sono prese in carico dal Sert, presente in struttura, anche se al momento non vi sono ristrette in trattamento col metadone. Dal Sert passano poi alla psicologa e alla psichiatra, anch’esse presenti nel carcere di Pozzuoli. Se le detenute sono in sovrannumero rispetto alla capienza regolamentare, vi sono invece carenze di organico per quanto riguarda sia la polizia penitenziaria che gli educatori: la pianta organica degli agenti prevede infatti 135 presenze ma al momento ve ne sono in struttura 119. In particolare mancano ispettori e sovrintendenti. Dei primi ce ne sono tre laddove ne sarebbero previsti 15 mentre dei secondi se ne contano al momento cinque su 18. I commissari sono invece tre su altrettanti previsti dalla pianta organica. Quattro sarebbero gli educatori previsti ma al momento ce ne sono soltanto due. Sul versante della sanità, grande attenzione all’articolazione salute mentale dove sono presenti due Oss, un riabilitatore psichiatrico, un infermiere e due psichiatri. Le sette detenute nell’articolazione sono impegnate altresì in progetti (denominati “amo il verde”) legati all’orto e alla floricoltura. Presenti in struttura, inoltre, altre figure mediche fra le quali una ginecologa, un radiologo, un dentista e un oculista. Il rapporto con l’Asl Napoli 2 è buono. Per quanto riguarda l’istruzione, sono 40 le detenute che vanno a scuola. Sono forniti corsi di alfabetizzazione, scuola media e biennio delle superiori mentre grazie a una convenzione con l’Università Federico II di Napoli, due detenute frequentano rispettivamente la facoltà di scienze erboristiche e quella di economia e commercio. Altre detenute, alla luce di una convenzione con la Vanvitelli, hanno seguito un corso di diritto penitenziario. Sul fronte lavoro, cinque detenute sono in articolo 21 (lavoro esterno). Due lavorano presso la cooperativa Le lazzarelle, impegnate nella produzione di caffè. Altre due seguono un corso di cucina da 600 ore presso la Mostra d’Oltremare, dalle ore 9 alle ore 17 mentre per far ripartire la sartoria, alla luce della fine della collaborazione con Marinella per la produzione di cravatte in uso alla polizia penitenziaria, è sul punto di nascere una start up con la creazione di un marchio per il quale alcune commesse saranno assegnate al carcere. Commesse sono inoltre già arrivate da un coro gospel per la creazione di alcune tuniche. Da gennaio, invece, quattro detenute saranno assunte dalla ditta Izzo per la rigenerazione di macchine per il caffè. Numerose sono le attività che vengono offerte alle detenute nonostante una carenza di spazi all’interno dell’istituto. A gennaio sarà pronto un nuovo centro estetico per corsi di estetista e parrucchiera, c’è inoltre una biblioteca utilizzata sia per la lettura che per consentire alle detenute di studiare. Si tengono altresì corsi di musica, di teatro, di scrittura, di danza, di pilates, di decoupage, di sartoria, di ricostruzione delle unghie e altri ancora. Anche le detenute in articolazione mentale svolgono corsi di musica e solfeggio mentre nel periodo natalizio è stato allestito un presepe vivente che è stato anche aperto al pubblico. Vi è inoltre la chiesa e una boutique gestita dalla Caritas dove le detenute indigenti possono avere gratuitamente generi di prima necessità e vestiti. Un altro problema della struttura, oltre alla carenza di spazi, è quello dell’umidità che in alcune zone del carcere danneggia le pareti. Si registra inoltre una pressoché totale assenza del comune di Pozzuoli che non mostra interesse verso il carcere, al contrario invece di quanto fa il comune di Bacoli grazie al sindaco Giosi Della Ragione che si dimostra disponibile e presente. In programma ci sono alcuni protocolli d’intesa per progetti futuri. Un altro problema, comune anche ad altre carceri, è quello del sopravvitto gestito dalla ditta Saep. I prezzi sono infatti piuttosto alti e anche se il carcere cerca di tenerli sotto controllo non su tutto si riesce a ottenere il ribasso dei prezzi. Per quanto riguarda i colloqui, questi si svolgono su prenotazione tutti i giorni, la mattina dal martedì al sabato mentre il lunedì si svolgono di pomeriggio perché solitamente entrano in carcere i bambini dopo essere stati a scuola. La domenica mattina, invece, si organizzano altri colloqui coi bambini che vanno a trascorrere del tempo con le madri nell’area verde. In generale, l’impressione che la delegazione radicale ha tratto dalla visita e parlando con le detenute è che la gestione della direttrice Giaquinto sia volta al massimo impegno e ad offrire tante opportunità alle donne ospiti della struttura. Cosa che, hanno detto alcune detenute, non avveniva in passato. Come già riscontrato in precedenti visite in altre carceri guidate da Carlotta Giaquinto, insomma, si evidenzia ancora una volta l’ottimo lavoro e l’impegno messo in campo dall’attuale direttrice della casa circondariale femminile di Pozzuoli. Ferrara. “Impedite le cure a un arrestato”: la Cgil denuncia ufficiale dei carabinieri La Repubblica, 28 dicembre 2019 Il fatto segnalato anche da ambienti sanitari. Avvertiti i ministri di Difesa, Giustizia e Salute. Conferenza stampa con Ilaria Cucchi. Avrebbe “impedito al personale sanitario del 118” di dare le cure necessarie ad une persona in stato di arresto in una caserma del Ferrarese. Per questo motivo la Cgil di Ferrara, secondo quanto riferito dal segretario ferrarese Cristiano Zagatti, ha denunciato un ufficiale dei carabinieri in servizio nella provincia di Ferrara. Secondo la denuncia il militare avrebbe impedito ai sanitari “di prestare le dovute cure ad una persona in stato di arresto trattenuta in caserma a Copparo”. Il sindacato ha sottoposto l’episodio anche all’attenzione dei ministri della Difesa, della Giustizia e della Salute, al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e al Garante nazionale dei detenuti. Il fatto risale a settembre e riguarda un cittadino italiano che era in custodia nella caserma della cittadina della provincia di Ferrara. L’uomo, secondo la denuncia, era bisognoso di cure e i sanitari del 118, una volta arrivati, non sarebbero stati messi nelle condizioni di operare. La persona interessata non avrebbe riportato gravi conseguenze. Prima della denuncia presentata dalla Cgil, una segnalazione del fatto sarebbe partita anche da ambienti sanitari. Ulteriori dettagli della vicenda saranno illustrati domani, in una conferenza stampa convocata alle 11 alla Camera del lavoro di Ferrara, alla quale parteciperà Ilaria Cucchi. Massa Marittima (Gr). “Reati di gola”, in carcere un laboratorio per produrre marmellate La Nazione, 28 dicembre 2019 In carcere si producono “Reati di gola” per “una buona formazione da potere spendere all’esterno”. Lo afferma la direttrice Maria Cristina Morrone. Marmellate, verdure sottolio e succhi di frutta: questa la produzione del nuovo laboratorio di trasformazione alimentare inaugurato nella casa circondariale di Massa Marittima (Grosseto). Dodici i detenuti coinvolti, su circa sessanta persone recluse nell’istituto penitenziario, in un percorso formativo di alta specializzazione. A fornire le materie prime le aziende agricole locali della realtà associativa Pulmino Contadino. Tutti i prodotti avranno l’etichetta “Reati di gola”, brand creato dagli stessi detenuti che hanno già lavorato in aula con più esperti, sia per la comunicazione e grafica che per la parte alimentare, nutrizionale e biologica oltre che di cucina. L’obiettivo è dare ai detenuti una “una buona formazione da potere spendere all’esterno”, ha spiegato la direttrice del carcere, Maria Cristina Morrone, che ha anche ringraziato Carlo Mazzerbo da cui ha ereditato il progetto insieme al passaggio di consegne alla direzione del carcere. Coinvolti nel progetto anche “Slow Food” condotta Monteregio, attiva nel carcere dal 2006, e la sede di Follonica del Cpia 1 Grosseto, il Centro per l’istruzione degli adulti che ha aggiunto nel programma formativo scolastico il progetto che collega l’istruzione alla formazione e quindi al lavoro. L’iniziativa ha avuto anche il contributo del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali insieme alla Regione Toscana, poiché vincitrice del bando regionale per il terzo settore del 2018. Perugia. Un laboratorio di cucito per detenuti nel carcere di Capanne Corriere dell’Umbria, 28 dicembre 2019 Partirà nel 2020 nel carcere di Capanne il laboratorio di cucito: ci sono tutte le volontà e le aspettative. Il corso che interesserà 60 detenuti e detenute porta la firma e il sostegno di Brunello Cucinelli. Nei prossimi mesi nella casa circondariale di Perugia si realizzeranno anche i capi in maglieria delle divise degli agenti della polizia penitenziaria di tutta Italia. Una sfida che ha il sapore della vittoria personale e di una comunità che vuole offrire una seconda opportunità. “Ci è stato chiesto un supporto per il settore della maglieria e noi abbiamo accettato con molto piacere - spiega il progetto Carolina Cucinelli, figlia del re del cachemire - abbiamo fornito tutto il know how, il nostro saper fare, a partire dall’aiuto logistico: pensiamo soltanto al tipo di macchinari da scegliere e impiegare nel laboratorio ma anche al numero di postazioni in base allo spazio e al numero di lavoratori”. “Il giudice e il camorrista”, di Francesco Cascini recensione di Andrea Moser La Regione, 28 dicembre 2019 Nei vicoli di Napoli. “L’odore di cipolla di una tavola calda di scarsa qualità, quello del sudore, delle scarpe, di uno spogliatoio di una palestra, la puzza di fumo che impregna i tessuti, il respiro nei dormitori per gli studenti, il pungente profumo di detergenti e dei saponi a basso costo, sommati a chissà cos’altro, producono un risultato unico, irripetibile eppure così uguale. È l’odore del carcere. Da San Vittore all’Ucciardone può essere più o meno intenso, ma è sempre uguale”. Si apre con queste parole il romanzo-testimonianza di Francesco Cascini intitolato “Il giudice e il camorrista”, edito da Tipografia Helvetica e accompagnato da una prefazione di Carla Del Ponte. La storia prende avvio con i ricordi di un magistrato (diciamo sin d’ora che l’io narrate coincide con l’autore stesso vista la forte impronta autobiografica che caratterizza la storia) che nella sua funzione di direttore dell’Ufficio ispettivo presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si occupava di verificare lo stato delle carceri italiane. L’autore ci conduce nei luoghi in cui i detenuti - in gergo i camosci (termine che ha origine dal fatto che un tempo i detenuti indossavano una divisa color giallo-marrone) - devono espiare le loro pene. Il carcere ha un odore inconfondibile, è “l’odore della sofferenza, della cattività, della colpa, della rabbia o della rassegnazione”. Cascini - oggi tornato a svolgere la funzione di procuratore pubblico - si interroga su quale senso possa avere rinchiudere sei persone in una cella di nove metri quadrati e, soprattutto, che valore possa avere la pena dopo tre o quattro anni trascorsi lì dentro: sono interrogativi laceranti ai quali si possono dare forse delle risposte solo tentando di distanziarsi emotivamente da quegli individui e ricordarsi sempre che essi rimangono dei criminali che spesso hanno compiuto dei reati gravissimi, specie quelli del reparto del 41bis, ossia coloro che sono stati condannati per reati di tipo mafioso. Anche attraverso questa prospettiva le cose non sono così limpide come si vorrebbe: accade così che un giorno come tanti, mentre si guardano negli occhi i camosci, riaffiorino con forza dirompente i ricordi della propria infanzia: essi conducono lo scrittore a confrontarsi con sé stesso, la sua professione e più in generale sulle possibili cause che portano molti giovani dei quartieri più poveri di Napoli ad abbracciare la strada della criminalità. Varcare il confine - Cascini accompagna così il lettore a seguire le avventure di un timido ragazzino che dai quartieri alti decide un bel giorno di varcare il “confine” e scendere nei vicoli dove vivevano “loro”, quelli che i genitori di Francesco definivano diversi “da noi”. Cosa cercava il ragazzino in quei luoghi? Semplicemente qualcuno con cui giocare a pallone, con cui condividere la propria infanzia. In quel quartiere era tutto un fremito di vita: le stradine pullulavano di gente, i venditori urlavano le loro offerte, dappertutto vi erano sedie, tavolini, bambini che correvano e su ogni balcone era uno sventolio di bandiere del Napoli. Bastò poco allora per fare amicizia: “Uè ce sta stu guaglione ca ten o’ pallone”. Attraverso il gioco Francesco conosce Gennaro “recchia e puorco”, Pasquale “a banana”, Antonio “o’ sicc”, Giggin “o’ zuopp” e soprattutto il capo del gruppo Tonin “o’ cinese” (figlio di un delinquente rinchiuso nel carcere di Poggioreale) che per ragioni non del tutto chiare - e che per Cascini rimarranno per sempre avvolte nel mistero - aveva una simpatia per il nuovo venuto, e, soprattutto, lo teneva sotto la sua ala protettrice. Le partite di calcio diventavano spesso terreno di scontro, l’occasione per ribadire la propria forza e in tutto ciò “o’ cinese” si dimostrava il più violento, l’indiscusso capo. Francesco appena poteva frequentava il gruppo, quei bambini che sembravano già degli uomini: ben presto si rese conto che non andavano a scuola ed erano già avviati a una vita d’illegalità e, soprattutto, erano già pedine nelle mani della camorra. Tutto però in quegli anni appariva diverso agli occhi di Francesco: grazie alle sue conoscenze calcistiche permise al gruppo di vincere una bella somma al totonero. Alla riscossione però nacquero dei problemi: Tore “o’ animale” non volle pagare. Inevitabilmente la disputa ebbe un epilogo violento e, soprattutto, coinvolse il vero capo del totonero; tutti lo chiamavano Ciù Ciù. Un destino segnato - Ormai per Francesco era anche chiaro che tutta la zona era un grande supermercato della droga e il sabato sera centinaia di “figli di papà” vi si recavano per comperare la “roba”. La famiglia del cinese “spacciava il fumo e aveva mantenuto, anche se ridotto, l’attività, dopo l’arresto del padre. Dopo aver visitato casa sua diverse volte avevo capito cosa fossero quelle stecchette argentate sull’asse da stiro. La madre, mentre faceva il ragù e guardava la televisione, le stirava rendendole leggermente più sottili, spesso aggiungeva del lucido da scarpe e da tre stecchette ne ricavava quattro o cinque. Avevo sentito il cinese che spiegava come riuscivano a campare solo allungando il fumo, altrimenti con quello che gli davano loro avrebbero fatto la fame”. Inevitabilmente i ragazzini dei vicoli crebbero velocemente e per Francesco lì non c’era più posto per un “figlio di papà”: il destino del cinese era segnato, così come di tutti gli altri. A Francesco non rimase che un senso di colpa per aver abbandonato senza spiegazioni i suoi amici; rimase, però, la consapevolezza che in fondo “lui avrebbe capito, che sapesse perfettamente chi ero e dove abitavo. Forse anche lui in fondo sapeva che la nostra amicizia sarebbe stata impossibile”. Gli occhi erano i suoi - Il destino aveva però in serbo un’ultima sorpresa: Cascini molti anni dopo rivide il cinese in un carcere di massima sicurezza. Ci mise un po’ a riconoscerlo, il nastro dei ricordi doveva essere riavvolto, ma gli occhi, gli occhi erano i suoi! Il magistrato andò a rileggersi gli incarti del processo che lo aveva condannato all’ergastolo, voleva sapere…; si chiedeva se l’amico di un tempo lontanissimo fosse diventato quello che temeva. “Avevo sperato in una ragione per giustificare quella sensazione così netta d’ingiustizia che avvertivo, ma era tale solo nella mia testa”. Sì, il cinese era diventato un camorrista e un assassino. Forse tutto era già scritto in quelle parole che trent’anni prima gli disse l’amico: “Per campare nei vicoli devi tenere la cazzimma. Se ti fai mettere e pier in capa dal primo stronzo che arriva non tieni futuro. Nun te pensa nisciun, si nu scemo qualunque. In miez a via nun ci sta nient a fa’, si te miett paura nu riesc a campà”. L’ultima volta che Cascini lo vide dietro le sbarre gli disse, quasi a conclusione di quel discorso iniziato tantissimi anni prima: “Tutte le persone possono scegliere. Non esiste solo un mondo, né un solo modo di vivere”. E a noi che chiudiamo il libro non rimane che l’amarezza e la tristezza di una storia di violenza e solitudine. Prigionieri”, di Valerio Bispuri. Scene di vita quotidiana dietro le sbarre, in bianco e nero recensione di Marco Belpoliti Robinson - La Repubblica, 28 dicembre 2019 Sono immagini prese al volo, frammenti estratti dal flusso dell’esistenza di un’umanità con la speranza di remissione. Cristo tra i ladroni? Un uomo sta appeso a una sbarra, le braccia divaricate e gli occhi chiusi; altri due l’osservano, piedi poggiati a terra e braccia abbandonate sui fianchi. Non siamo sul Golgota, ma in un altro similare luogo di pena e di dolore, ovvero nel cortile di una prigione italiana: Regina Coeli. Gli uomini ritratti nell’immagine di Valerio Bispuri sono tre tra le migliaia di detenuti rinchiusi nelle nostre carceri. Il fotografo romano ha compiuto un viaggio in questi istituti, tra coloro che vi sono rinchiusi. Più che ai luoghi, in gran parte degradati e squallidi, Bispuri ha dedicato la sua attenzione alle persone. L’uomo che compie l’esercizio di sollevamento e di sospensione in questo scatto, alla pari degli altri due che lo guardano, è tutto ricoperto di tatuaggi, una scrittura che l’identifica per le storie che la sua pelle racconta: un revolver, una stella, un viso, frasi, una ragnatela; la stessa arma è incisa sulla pelle dell’uomo di sinistra e un’altra ragnatela copre la parte alta del suo braccio. Ai piedi scarpe da ginnastica. Dietro di loro sbarre alle finestre, i mattoni consunti del muro, un tubo di scolo: sono in un cortile in un momento d’aria, una pausa fuori dalle loro celle. Bispuri nel libro che raccoglie le sue istantanee ha ritratto momenti della vita quotidiana in bianco e nero. Sono immagini spesso prese al volo, colpi d’occhio, frammenti estratti dal flusso dell’esistenza di uomini e donne. Vi si colgono gesti, espressioni, posture, atteggiamenti. Un patimento connota ogni cosa, ogni movimento, ogni attesa. Un’umanità con la speranza di remissione, o anche solo di un po’ di libertà, affolla le pagine di questo straordinario libro, “Prigionieri” (Contrasto), fratelli e sorelle di chi la libertà la sperimenta ogni giorno senza pensare a quale dono eccezionale sia in un mondo di schiavi, prigionieri ed esiliati. L’autore - Un fotoreporter in dieci carceri. Dall’Ucciardone di Palermo a Poggioreale a Napoli, da Regina Coeli e Rebibbia a Roma al Carcere della Giudecca di Venezia, passando per San Vittore a Milano e tanti altri: la fotografia pubblicata in questa pagina fa parte del progetto Prigionieri di Valerio Bispuri, edito da Contrasto. Un reportage rigorosamente in bianco e nero che racconta dall’interno dieci delle principali strutture carcerarie italiane e testimonia i problemi maggiori che affliggono i detenuti: dal sovraffollamento alla precarietà dei fabbricati, dalla mancanza di personale ai drammi che hanno segnato la vita degli uomini e delle donne sospesi in questi non luoghi. Il libro raccoglie tre anni di lavoro e completa il viaggio fotografico cominciato da Bispuri (Roma, 1971) nelle prigioni sudamericane con il progetto Encerrados. “Mars room”, di Rachel Kushner recensione di Cecilia Pagella sistemapenale.it, 28 dicembre 2019 Un potente e triste ritratto del sistema penale americano, in un romanzo dal successo internazionale. Einaudi Editore, 2019. Romy Hall fa la spogliarellista al “Mars Room”, un night scalcagnato in cui “se non sei incinta di cinque o sei mesi, sei la reginetta della serata”; ha un figlio, Jackson, di cinque anni, e, alle spalle, un’infanzia mancata, una giovinezza prematura di indigenza, droga e abbandono, accanto a una madre burbera e depressa, in una San Francisco nebbiosa, sordida e punteggiata di lunghe file di case tutte uguali, “senza bandiere arcobaleno, poesia Beat o strade ripide e tortuose”. Kurt Kennedy è un veterano di guerra disabile, cliente del Mars Room e ossessionato persecutore di Romy; lei fugge a Los Angeles per allontanarsi da lui ma, proprio quando crede di esserci riuscita, se lo ritrova seduto nel portico della sua nuova casa. Arrabbiata ed esausta, Romy aggredisce l’uomo che, paralizzato dalla propria disabilità, non è nemmeno in grado di reggersi in piedi, e lo massacra a sprangate. Romy non può permettersi un avvocato di fiducia, perciò gliene viene assegnato uno d’ufficio, disperatamente incompetente e oberato di lavoro, che la incontra per la prima volta in udienza; l’accusa insiste sull’irrilevanza degli atti persecutori e sulla totale inoffensività di Kennedy dovuta al suo handicap, e la giudice non ammette le prove dello stalking: l’imputata viene condannata a due ergastoli, che sconterà nella prigione di Stanville. Finisce così la vita libera di Romy, e ne inizia una nuova, che della prima non conserva che la nostalgia, di Jackson, in primo luogo, rimasto completamente solo in un mondo ostile; una vita da trascorrere tra le mura del carcere: un edificio circondato da una recinzione elettrica, dotato di un quadratino di cemento circondato da filo spinato in cui le detenute trascorrono la loro ora d’aria, un luogo disciplinato da assurdi divieti, popolato da persone spesso analfabete e segnate da un passato da incubo, che si fingono dislessiche per poter godere delle poche tutele assicurate agli americani disabili, in cui pochissimo spazio è concesso alla solidarietà e all’amicizia. Unico bagliore di speranza nella vita di Romy è Gordon Hauser, un benintenzionato insegnante di lettere che le passa libri e le regala l’illusione di poter essere per lei un ponte verso il mondo esterno. Incapace di accettare l’esistenza che le è stata inflitta, Romy decide di tentare un’impresa mai riuscita a nessuna delle detenute di Stanville: l’evasione. Mars Room è un atto d’accusa a tutti gli attori della tragedia del processo penale: gli avvocati della difesa che, animati esclusivamente dalla logica del profitto, rifiutano ai poveri il diritto a difendersi; i sostenitori dell’accusa a tutti i costi, che trascurano la giustizia in favore di un’interpretazione formalistica delle norme; i giudici inermi di fronte alla manifesta disparità delle armi nei casi di processi a carico di appartenenti alle fasce più svantaggiate della popolazione. È un potente, tristissimo ritratto del carcere, come luogo di isolamento, annientamento dell’identità e privazione della speranza, albergo di persone quasi sempre poverissime, per nulla istruite, tossicodipendenti, vittime, a loro volta, di un’esistenza di abusi e privazioni, adatto, forse, a rimuovere dalla vista delle “persone per bene” i prodotti delle diseguaglianze economiche e sociali, ma, evidentemente, non a svolgere quel compito che le Costituzioni gli assegnano: restituire alla società persone migliori. Le cose da fare (semplici) per tutelare la privacy di Gustavo Ghidini e Daniele Manca Corriere della Sera, 28 dicembre 2019 La leggerezza con la quale “doniamo” dati personali a chi ci alletta dandoci servizi ci si rivolta contro. È noto che la Germania “c’e l’abbia su” con le grandi piattaforme digitali. E le stia “lavorando ai fianchi”, a cominciare da quello delle fake news, troppo poco combattute. Poiché le notizie che più attraggono curiosità e “like” sono proprio quelle più roboanti sta forse per aggiungersi un altro punto di attacco: quello della proprietà esclusiva dei dati dei cittadini raccolti e custoditi, e sfruttati commercialmente dalle piattaforme dell’e-commerce, tipo Amazon, dei social media, tipo Facebook, nonché dai motori di ricerca, tipo Google. Sta meditando l’idea di introdurre un regime di Open Data, essenzialmente basato sulla rimozione del potere esclusivo e la sua sostituzione con il libero accesso da parte dei cittadini. Un nuovo regime che sostituirebbe, è lecito pensare, quello europeo vigente in materia di banche dati (Direttiva 9/96, dell’11 marzo 1996), che vieta la “estrazione” non autorizzata dei dati (ovviamente organizzati) ammettendo la possibilità di deroghe, da parte dei singoli Stati membri dell’Unione, per l’uso dei dati stessi a scopi non commerciali (ricerca, insegnamento). La ricetta non è nuova: “modestamente” il Comune di Piacenza ha già avviato il percorso per rendere disponibili online alcune sue banche dati in forma gratuita con una licenza (Italian Open Data License) che ne permetta l’utilizzo da parte di comunque (www.comune.piacenza.it/opendata). Comunque, quale che sia il tipo di soluzione che eventualmente si adotterà, è innegabile che la cessione dei dati da parte di cittadini alle grandi piattaforme sta producendo - ha già prodotto - la costituzione e il consolidamento di monopoli sempre più potenti. La leggerezza con il quale “doniamo” dati personali a chi ci alletta dandoci servizi per i quali ci è difficile fare a meno (dalle mail al contatto con i nostri amici lontani e vicini), ci si sta rivoltando man mano contro. A livello personale con pericolose incursioni nella nostra privacy. A livello di sistema con il fatto che sta crescendo il potere economico dei titani del web (che va ricordato non sono solo quelli americani ma anche colossi cinesi, addirittura meno controllabili). Sta inoltre tracimando dal piano strettamente economico a quello socio-culturale, e politico tout court. Per limitarci qui al profilo del diritto alla privacy del cittadino - il “diritto a esser lasciato solo”, secondo una celebre definizione di era predigitale(ora fa sorridere), che baluardo effettivo pone il celebre regolamento sulla privacy europeo? Il General data protection regulation (Gdpr) tutela da violazioni della privacy i cittadini europei, dovunque si trovi chi raccoglie e “tratta” i dati. E questo è un netto progresso rispetto alla precedente regolazione. Ma c’è un “ma”. I maggiori padroni dei dati sono americani e cinesi - quindi di Paesi che non adottano il Gdpr. E chi controlla quei giganti mentre a casa loro raccolgono dati, li profilano e li commerciano? Lo stesso Gdpr, peraltro, non è a tenuta stagna. Ammette deroghe ampiamente discrezionali (per “un interesse pubblico” - quale? - “o di terzi” - chi? -. E ancora, quale interesse?). Soprattutto, per comune interpretazione, non impedisce che sulla base di dati personali di per sé non “sensibili”, quindi legittimamente acquisibili, chi li raccoglie possa ricavare, per “inferenza”, un profilo personale tipico (anonimo) che pur indirettamente ne sveli anche caratteristiche viceversa “sensibili”. Da dati su consumi alimentari, età, abbonamenti a certe riviste mediche - dati in sé non sensibili - si potrebbe inferire che un certo tipo di soggetti X ha una propensione al diabete. Una probabilità che rischia di essere sfruttata direttamente, attraverso offerte mirate di integratori alimentari o farmaci, o, peggio, rivenduta a compagnie di assicurazione malattie. Non solo. Le avvertenze e informazioni sui diritti dell’utente a difesa della privacy sono quasi sempre comunicate in modo prolisso e con linguaggio da legulei: cioè con modalità opposte a quelle tipiche della comunicazione digitale, e comunque della comunicazione moderna, anche in formato analogico. Un po’, anzi un po’ molto, come le informazioni che le banche mandano ai clienti, fatte per annoiarli ed essere gettate nel cestino. Anche per questo, ma non solo per questo, moltissimi utenti sono disattenti, e sostanzialmente indifferenti ai loro diritti di privacy: ai quali rinunciano con tanti immediati “accetto” quante sono le app: proprio per poter più rapidamente usare le stesse. Senza contare i tanti utenti, specie giovani e giovanissimi, ma non solo, che coscientemente rinunciano alla loro privacy “postando” in rete foto e commenti di carattere intimo. Per contrastare questa cosciente incoscienza, occorrerebbero istituzionali “campagne di consapevolezza” sui rischi che si corrono con cessioni, “automatiche” o volontarie, dei propri dati. E al contempo, occorrerebbe prescrivere l’adozione di standard di comunicazione ispirate alla massima semplicità e facilità di percezione - dunque anche con poche essenziali informazioni. In attesa di Godot, perché non stabilire, con un po’ di buon senso, un duplice principio, possibilmente da inserire in una revisione del Gdpr: controllo “all’altro capo” della filiera commerciale dei dati - cioè al capo dove stiamo noi utenti. E “compenso” dell’utente cui vengano indirizzate offerte commerciali da lui non richieste: e quindi evidentemente frutto del traffico di suoi dati. Se, ad esempio, abbiamo soggiornato qualche mese fa nell’albergo X in una zona delle Dolomiti, e poco dopo arrivino offerte degli alberghi Y, Z, W, mai da noi interpellati, sarebbe giusto che: a) avessimo il diritto di chiedere a quegli alberghi da che fonte hanno avuto il nostro indirizzo (onde potere eventualmente reclamare al Garante dei dati personali). b) Ove quelle offerte accettassimo, potessimo pretendere uno sconto sulla tariffa. In fondo, noi forniamo i dati della nostra vita che diventano merce di scambio. Perché non reclamare un compenso? C’è un’altra forma di potere commerciale dei padroni dei dati, che si manifesta rispetto alle imprese di produzione e distribuzione d beni e servizi. La situazione di collo di bottiglia rappresentata dai pochi grandi big detentori delle informazioni, consente sia di imporre condizioni gravose di accesso, sia di negare tout court quest’ultimo alle imprese che ne debbano far uso per la loro attività industriale o commerciale. Non sarebbe più lineare, giusto, efficiente e pro-concorrenziale, modificare la normativa sulle banche dati introducendo il principio dell’accesso libero pagante (a condizioni eque e non discriminatorie) ai dati necessari all’attività d’impresa? La normativa attuale, europea ed italiana, ha ben avviato, ma non compiuto, il percorso per una piena tutela della privacy. E forse non lo potrà fare, sino a che i big data siano raccolti e custoditi in esclusiva da poche grandi gelosissime mani. Farglieli condividere, pur a pagamento, in assenza di un grande coraggio politico, sembra una “mission impossible”. Al momento. Fine vita. I giudici sgridano il Parlamento: giacciono tredici proposte di legge ma nulla si muove di Carlo Valentini Italia Oggi, 28 dicembre 2019 Marco Cappato è stato assolto dalla Corte d’Assise si Milano ma la sentenza ha di fatto sanzionato un vuoto legislativo e cercato di scrollare la politica. I partiti farebbero bene a mettere da parte la contrapposizione e a trovare un punto d’equilibrio in modo da evitare quello che, nei fatti, è diventato legale: accompagnare in Svizzera chi decide di mettere fine alla propria vita, senza griglie se non quelle, assai labili, previste dalla normativa svizzera, che in pratica consente in ogni caso il suicidio assistito, previo un colloquio con uno psicologo: Lucio Magri (tra i fondatori del manifesto) si recò in Svizzera e ottenne il fine vita non per gravi problemi fisici ma per una depressione che lo stava lacerando. La medicina contribuisce ad allungare la vita ma a volte non riesce ad assicurare condizioni fisiche accettabili e dignità a chi supera taluni confini d’età e così finisce per proporre il cosiddetto accanimento terapeutico. C’è chi lo accetta e chi no: è giusto coartarne in un caso o nell’altro la volontà? Ed è giusto che non ci siano regole e che, di fatto, ora sia possibile a tutti prendere il treno per la Svizzera? Ancora una volta (come per la sentenza della Cassazione che ha stabilito che coltivare cannabis non è reato) sono le aule di giustizia e non il parlamento a intervenire. Sarebbe ora che la politica, sul fine vita, si desse una mossa. È dal 1984 (progetto di legge firmato dal deputato socialista Loris Fortuna) che se ne discute, l’unico sussulto c’è stato nel 2017 con la legge sul testamento biologico, per altro tuttora poco attiva. Essa prevede che il paziente possa richiedere, compilando un apposito modulo, l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedazione profonda continua nel caso si ritrovasse in determinate situazioni. Ma il Comitato nazionale per la bioetica, ha denunciato la presenza di “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del servizio sanitario nazionale oltre alla mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie”. Il testamento biologico consente l’interruzione dei trattamenti di cura ma non la possibilità di porre fine alla propria esistenza in un modo più rapido, cioè con un suicidio assistito. Dall’inizio della legislatura sono arrivate a camera e senato ben 13 proposte di legge. Tra di esse quella che ha Monica Cirinnà come prima firmataria e alla quale hanno aderito esponenti di M5s, Leu, Psi, gruppo Misto: acconsente a staccare la spina quando risulta compromessa la dignità della fase finale della vita. Al senato vi è la proposta del capogruppo Pd, Andrea Marcucci, che amplia il ricorso alla sedazione profonda. L’associazione della galassia radicale Luca Coscioni, supporta i due disegni di legge (uno alla camera e l’altro al senato) depositati da alcuni pentastellati per la legalizzazione dell’eutanasia. Il leghista Alessandro Pagano nel suo provvedimento non prevede la depenalizzazione del suicidio assistito ma una pena ridotta per il convivente (dai 6 mesi ai 2 anni invece che dagli attuali 5-12 anni) mentre la forzista Paola Binetti (firmataria insieme alla collega Maria Rizzotti) concorda sulla pena ridotta per il convivente ma punta a rimettere mano alla legge sul testamento biologico. Ci vorrebbe una sorta di Conclave: tutti in clausura finché non si trova un testo equilibrato da portare all’approvazione del Parlamento. Anche perché tutte le 13 proposte riconoscono il diritto a decidere sulla propria sorte nel caso non ci siano più speranze, quindi vi è una comune base di partenza. Lo scorso anno il parlamento era stato anche richiamato, invano, al proprio dovere di legiferare dalla Consulta, che si era pronunciata sempre a proposito di Marco Cappato e del suicidio assistito di Fabiano Antoniani, più conosciuto come Dj Fabo, il quale non poteva camminare né usare le braccia né alimentarsi da solo e provava dolore fisico. Non riusciva a recarsi in Svizzera da solo e quindi ha chiesto aiuto a Cappato. Nel rimettere il procedimento alla Corte d’assise di Milano i giudici costituzionali hanno ammonito il parlamento, rilevando che in queste condizioni da un lato dichiarando legittimo il reato si finisce per punire severamente anche il semplice aiuto materiale alla ferma e autonoma volontà altrui, dall’altro il supporto, morale o materiale al suicidio è una condotta incriminabile per garantire tutela alle persone vulnerabili che potrebbero essere indotte a porre fine alla propria esistenza senza un’effettiva volontà. Tra l’altro, la Corte ha pure indicato i binari sui quali può instradarsi la politica, dichiarando l’illegittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio per i casi di persone affette da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche intollerabili e tenute in vita con trattamento di sostegno vitale e incapaci di prendere decisioni, quindi bisognose di qualcuno che ne agevoli il fine vita ma, avvertono i giudici, “le condizioni e modalità di esecuzione debbono essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del Comitato etico territorialmente competente”. Chi rimane fortemente contrario è il fronte religioso. La Pontificia Accademia per la vita, guidata da monsignor Vincenzo Paglia, ha promosso una dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche, cioè cattolici, ebrei e musulmani: “L’eutanasia e il suicidio assistito sono moralmente e intrinsecamente sbagliati e dovrebbero essere vietati senza eccezioni. Qualsiasi pressione e azione sui pazienti per indurli a metter fine alla propria vita è categoricamente rigettata”. Migranti. “Chi aveva protezione umanitaria prima del decreto sicurezza ha diritto all’accoglienza” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 dicembre 2019 Importante sentenza del Tar del Veneto sulla non retroattività della norma varata nell’ottobre 2018 dal governo gialloverde. I giudici hanno accolto il ricorso di un uomo che si era visto negare l’accesso in una struttura Sprar. I migranti che hanno ottenuto la protezione umanitaria prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza che - come è noto - abolisce questo tipo di permesso di soggiorno, hanno diritto a mantenere l’accoglienza nelle strutture abilitate. È un’importante sentenza quella emessa alla vigilia di Natale dal Tar del Veneto, che dunque stabilisce la non retroattività del decreto sicurezza non solo per l’abolizione della protezione umanitaria ma anche per il diritto all’accoglienza. I giudici amministrativi del Veneto hanno infatti accolto il ricorso di un migrante, che aveva ottenuto la protezione umanitaria prima del 5 ottobre 2018 e che si era visto negare l’accesso all’accoglienza in una struttura Sprar (oggi Siproimi). Il Tar si rifà alla sentenza della Cassazione, che ha sancito l’irretroattività del decreto sicurezza e sottolinea come “nel caso in cui la protezione umanitaria è già stata riconosciuta al richiedente asilo non può essere eliso un beneficio - la prestazione delle misure di accoglienza - collegato a detto riconoscimento”. La sentenza del Tar arriva proprio nei giorni in cui dovrebbe cessare (al 31 dicembre) l’accoglienza per migliaia di migranti titolari di protezione umanitaria. Nei giorni scorsi, rispondendo alla richiesta del Tavolo Asilo, il ministero dell’Interno ha annunciato l’avvio di nuovi progetti con i fondi FAMI a cui i Comuni dovrebbero poter accedere per procrastinare l’accoglienza, ma intanto questa sentenza bolla come illegittima qualsiasi esclusione dal sistema di accoglienza di chi ha il titolo di protezione umanitaria. Fumus legislationis: se a legiferare sulla cannabis è la Cassazione, qualcosa non torna di Maurizio Crippa Il Foglio, 28 dicembre 2019 Gli hippy avevano la loro erba, i punk le loro anfetamine e i loro beveroni, i pochi beatnik che venivano dai sobborghi di periferia preferivano l’eroina, i raver le loro chicche, gli yuppie la coca, i poveracci il crack, e il resto si ubriacava. Ora che invece sono tutti consumatori, ognuno sceglie quello che gli serve”, diceva qualche mese fa in una conferenza Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting, notando che “la cultura del consumismo ha inghiottito tutte le culture”, comprese quelle tossiche, e ora tutto dipende dagli stili di vita e “dall’immagine che ognuno ha di sé, e anche questa è flessibile”. Già vent’anni fa Big Lebowsky che con una mano beveva e con l’altra fumava uno spinello (in macchina) era la citazione di una generazione che non c’era più. Ma prima (e soprattutto dopo) il Drugo è notevole constatare di quanto si sia allungato l’elenco di film (quasi tutte commedie giovaniliste) in cui la cannabis è un’allegra boccata d’aria. Mentre sparivano le sigarette. Non più un calcio ai proibizionisti, ma la normalità di uno stile di vita. Poco dopo arrivò L’erba di Grace ad aprire le praterie della valorizzazione economica, a prescindere dalla legalizzazione come antidoto al mercato criminale. La cannabis - di cui la sentenza della Cassazione del 19 dicembre per la prima volta ritiene lecita la coltivazione per uso privato, separandola dalla coltivazione per vendita - come altre droghe più o meno naturali o leggere è divenuta da un paio di decenni uno stile di vita dentro la molteplicità di consumi e diritti acquisiti. Mentre il discorso degli effetti sulla salute è stato ridotto ad argomento retrivo o confinato esclusivamente al discorso sulle devianze. Forse non è colpa soltanto del consumismo, come pensa Welsh. Ma fintantoché erano il cinema o la pop culture a sdoganare la cannabis, si poteva ragionare sulla evidenza (benvenuta o ineluttabile) di un costume sociale ormai modificato. (Anche la percezione sociale del rischio è molto modificata: oggi fa malissimo l’acqua nelle bottiglie di plastica). Servirebbe qualche domanda in più, se però l’effetto libertario alla Big Lebowsky o il consumismo palliativo vengono assunti come principio di giurisprudenza dalle sezioni riunite della Corte di Cassazione (che finora aveva interpretato la materia con logica proibizionista). Ovviamente è normale che l’interpretazione delle leggi tenga conto anche della modificata percezione sociale. Si cominciò dal comune senso del pudore, del resto. Ma nemmeno il più relativista dei distratti potrebbe negare che quando sono i giudici di Cassazione a determinare, dettare o abolire le leggi, e non il Parlamento, qualcosa non torna. Soprattutto perché in Italia sono ormai troppe le materie sensibili, che riguardano comportamenti e salute, su cui i giudici di fatto si sovrappongono, o fanno supplenza, alla mancata capacità della politica di decidere e di dare un indirizzo condiviso ma univoco. L’ultimo caso, forse il più estremo, è il suicidio assistito. Ma lo stesso si può dire delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. Coltivare due vasi di cannabis da balcone non modificherà, dicono in molti, né il mercato né le abitudini dei consumatori. Ma è innegabile che sia anche un’ulteriore normalizzazione del suo consumo e un passo in più verso la legalizzazione. Senza però che il popolo sovrano si sia espresso in materia. Nemmeno i più puri proibizionisti possono negare che la legislazione attuale sulle droghe sia criminogena e inadeguata. E del resto la nozione di uso personale è uno di quei diritti, come direbbe Raphaél Enthoven, da cui le nostre società non faranno marcia indietro. Ma discuterne, almeno? Prendersi la responsabilità di decidere e deliberare, anziché delegare alla magistratura il compito di trasformare l’opinione sociale più diffusa, non sempre prevalente, in legge? Qualcuno, molto pochi per la verità, si è posto il problema delle ricadute educative di questa sentenza: sarà più difficile, se non impossibile, spiegare a un preadolescente che una certa sostanza può o potrebbe fare male, visto che si coltiva in terrazzo. Il tema della responsabilità sociale verso le nuove generazioni - che intralcia quello dei diritti individuali, ma non può esserne fagocitato - dovrebbe essere cruciale, in queste materie. Invece è il più assente. Non è inspiegabile. Marijuana, quanto è legale? La sentenza da sola non basta di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2019 La Cassazione pone molti paletti, anche al proibizionismo. Ma il fenomeno non è regolato. Bonino: “È il frutto di 40 anni di lotte” Ma la legge per la legalizzazione ancora attende. “È il risultato di 40 anni di impegno, in particolare del mio impegno”, dice senza falsa modestia Emma Bonino mentre presenta la lista di +Europa a Bologna. Però c’è del vero: la decisione “storica” delle Sezioni penali unite della Cassazione che sdogana la coltivazione domestica di piante stupefacenti ad uso personale è sicuramente anche frutto di decine di anni di battaglie dei Radicali e non solo. Di militanti come lei o come Rita Bernardini, che dell’autoproduzione di cannabis al fine di smantellarne il mercato illegale ne ha fatto un impegno tale da riempire il suo terrazzo di piante e mostrarne le foto urbi et orbi nel tentativo di farsi arrestare (“ma non ci sono mai riuscita - racconta lei stessa - né quella volta che avevo 56 piante ma il procuratore Pignatone decise di archiviare tutto, né nel febbraio scorso quando venni indagata dal pm Prestipino a piede libero, malgrado le giuste proteste del carabiniere che aveva trovato le mie 32 piantine”). Ma Emma Bonino ha completamente ragione quando dice che con questo pronunciamento della Cassazione “si è rotto un tabù”, e che “è un primo passo per poter ragionare oltre cliché e stereotipi”. Destre permettendo, quelle destre che da ieri, digerita la notizia insieme agli eccessi del Natale, hanno sollevato un bailamme di reazioni scandalizzate. Ma cosa dice esattamente l’organo supremo della Corte di Cassazione rispondendo all’ordinanza di rimessione 35436 posta dalla Terza sezione penale? Nella massima di diritto emessa il 19 dicembre dalle Sezioni penali unite, in attesa della sentenza vera e propria, i giudici spiegano che affinché la coltivazione di piante stupefacenti - non solo marijuana - sia configurata come reato non serve sapere la quantità di principio attivo ricavabile, perché è sufficiente che la pianta, “anche per le modalità di coltivazione”, sia predisposta “a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. Un preambolo necessario alla Suprema corte per seguire il solco fin qui tracciato negli anni con numerose altre sentenze, tutte di stampo proibizionista. Questa volta però la Cassazione pone un freno anche all’ideologia più condivisa in parlamento (tanto da aver portato alla bocciatura di un emendamento alla manovra che avrebbe regolamentato la vendita di cannabis light, colmando un vuoto come richiesto dalla Consulta) e spiega che non è da ritenersi reato penale la coltivazione in casa, utilizzando “rudimentali tecniche”, di uno “scarso numero di piante” che comportino un “modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile” e che “appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. I paletti ci sono però: innanzitutto deve apparire subito chiaro che le piante non siano destinate al “mercato degli stupefacenti”, intendendo per esso anche la condivisione tra elementi della stessa famiglia, anche a titolo gratuito. Detto altrimenti: solo chi coltiva le piante può farne uso. Sono poi assolutamente vietati bilancini in casa ma anche strumenti che possano far pensare ad una coltivazione massiva, come l’impianto di irrigazione a goccia. Tanti i commenti pro e contro il principio così sancito dalla Corte, ma quello che importa è che “questa sentenza si interessa solo di un fenomeno marginale (anche se in crescita)” e soprattutto lascia molta libera interpretazione, come spiega Marco Perduca, consigliere dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatore della campagna “Legalizziamo!”. “L’unica modifica che potrà fare chiarezza su cosa possa esser fatto, da chi, come, dove e in quali quantità sarà una modifica radicale della normativa vigente”, aggiunge l’ex senatore radicale che ricorda come “l’Associazione Coscioni e altre associazioni ormai quattro anni fa elaborarono una proposta di regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis che è stata presentata assieme a Radicali Italiani alla Camera nel novembre del 2016 e da lì non s’è mossa”. “Se non ci si confronta su un’idea di governo del fenomeno, il resto è solo commento. E dopo 30 anni di commenti - conclude Perduca - il fenomeno da governare è arrivato a far segnalare oltre un milione di persone dai prefetti, a far fermare e/o arrestare centinaia di migliaia di consumatori, far girare decine di miliardi di dollari e, soprattutto, a intasare le Procure della Repubblica”. Cannabis domestica, la Cassazione: può fumarla soltanto il produttore di Claudia Guasco Il Messaggero, 28 dicembre 2019 Le Sezioni unite penali della Cassazione, l’organo supremo della Corte, hanno stabilito che non sarà più reato coltivare cannabis in casa, purché in minima quantità e solo per uso personale. Ma questa depenalizzazione di orticelli domestici di piante stupefacenti in generale, e non soltanto di cannabis, dovrà rispettare paletti precisi: potranno essere fumate solo dal produttore. Un via libera condizionato, con la definizione di un perimetro di regole che, in un’aula di tribunale, saranno determinanti per l’assoluzione o la condanna. Le sezioni unite penali della Cassazione, l’organo supremo della Corte, hanno stabilito che non sarà più reato coltivare cannabis in casa, purché in minima quantità e solo per uso personale. Ma questa depenalizzazione di orticelli domestici di piante stupefacenti in generale, e non soltanto di cannabis, dovrà rispettare paletti precisi, come si evince dalla massima di diritto depositata due giorni fa dagli ermellini in attesa della sentenza. Le proteste del centrodestra e di parte dell’associazionismo sociale contro la decisione dei giudici sono compatte, per la prima volta viene deliberato che “non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica”. La Corte tuttavia è andata oltre e ha circoscritto l’ambito. Prima norma: l’utilizzatore del prodotto casalingo può essere solo la persona che materialmente si dedica alla cura delle piante e non è ammessa la destinazione anche a eventuali componenti del nucleo familiare, né il consumo di gruppo con amici. Altra condizione essenziale: le piante devono essere coltivale solo con “tecniche rudimentali”, che significa il tradizionale innaffiatoio. La presenza di un impianto di irrigazione a goccia o di lampade riscaldanti configurerebbero il reato di coltivazione ai fini di spaccio. Vietatissimo, naturalmente, il possesso di bilancini o strumenti di precisione per pesare in grammi. Particolare rilevante della decisione della Cassazione è la mancanza di riferimenti alla quantità di thc (il principio attivo) contenuta nella pianta. Per la cannabis legale la norma prevede un tetto dello 0,6% contro il 5-8% di quella illegale e di quella coltivata dallo Stato per scopi terapeutici. Secondo i giudici invece chi la fa crescere in casa per uso personale non è perseguibile, a prescindere dal livello di thc. “Il reato di coltivazione di stupefacenti - avvertono nel preambolo - è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nella immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. Nonostante il binario tracciato, sono forti le critiche di chi ritiene che la sentenza faccia deragliare la legalità e anni di lavoro di prevenzione. “Inciderà negativamente sull’educazione dei minori che cresceranno, sempre di più, nella convinzione che l’utilizzo di cannabis sia innocuo e socialmente condiviso”, ammonisce la comunità di San Patrignano. Sulla stessa scia il Family day: “Così si inventa un diritto a drogarsi che alimenta una cultura dello sballo tra le maggiori cause di incidenti stradali mortali”. Come rileva il segretario Matteo Salvini, “anche le due ragazze morte a Roma ne sono la drammatica conferma. La Lega combatterà lo spaccio e la diffusione della droga sempre e ovunque”. Giorgia Meloni, leader di FdI, si dice “allibita, il messaggio lanciato, soprattutto ai più giovani, è devastante”. Ma sul versante opposto riprende slancio il fronte della liberalizzazione: “E il risultato di quarant’anni di impegno, in particolare del mio impegno”, rivendica Emma Bonino. “Si è rotto un tabù, è un primo passo per poter ragionare oltre gli stereotipi”. Ed esulta il senatore M5S Lello Ciampolillo: “Vittoria! Da anni mi batto in Parlamento per il mio disegno di legge che prevede la coltivazione domestica quattro piante per tutti i maggiorenni”. Terrorismo. I programmi di de-radicalizzazione in Europa di Giulio Meotti* L’Opinione, 28 dicembre 2019 È stata una tragedia delle buone intenzioni. “Jack Merritt è morto nell’attacco sul London Bridge. Non dimentichiamo quello per cui si batteva”, ha scritto Emma Goldberg sul New York Times. Merritt è una delle due vittime di Usman Khan, il terrorista islamico che il 29 novembre ha colpito sul London Bridge. L’altra vittima era Saskia Jones, studentessa presente alla conferenza presa di mira dall’attentatore. Entrambi sognavano di lavorare per salvare e proteggere il loro assassino. Londra ha ospitato il quinto anniversario dell’organizzazione Learning Together, un evento in cui ex detenuti, membri dello staff, studenti ed esperti di criminologia erano arrivati da ogni parte del Paese per celebrare il successo della loro iniziativa di de-radicalizzare i jihadisti. Khan era lì presente, in quanto modello del programma di riabilitazione. Nel 2012, l’uomo era finito in carcere per aver cercato di far saltare in aria la Borsa di Londra, l’allora sindaco di Londra Boris Johnson e la ruota panoramica London Eye. Secondo il Daily Telegraph, Learning Together aveva indicato in Khan un “case study” su come funziona il programma di reinserimento nella società. Aveva perfino scritto una poesia e una nota di ringraziamento agli organizzatori, su un computer messogli a disposizione dai suoi tutor. Merritt, una delle due vittime dell’attentato, aveva lavorato con Khan quando lui era ancora dietro le sbarre nel Cambridgeshire. Le immagini della Fishmongers’ Hall, pochi minuti prima dell’attacco terroristico, testimoniano le buone intenzioni del programma riabilitativo. Merritt è stato il primo ad aver cercato di fermare Khan durante la sua follia omicida. Poco prima dell’attacco, in una foto lo si vede tranquillamente seduto alla conferenza. Molti lo consideravano una specie di “allievo migliore” del programma di de-radicalizzazione. In una delle newsletter della Learning Togerher, l’uomo avrebbe anche affermato che il gruppo “ha un posto speciale nel suo cuore”: “È più di una semplice organizzazione, che favorisce l’apprendimento delle singole materie accademiche. A mio avviso, il vantaggio principale è quello di riunire le persone, attraverso i mezzi di apprendimento. Learning Together significa aprire la mente, aprire le porte e dare voce a coloro che sono chiusi, isolati dal resto di noi. Aiuta a includere coloro che in genere sono esclusi. Questo è ciò che Learning Together significa per me”. Khan ha anche rilasciato un’intervista alla Bbc, in cui ha condannato la stigmatizzazione a cui era sottoposto: “Sono nato e cresciuto in Inghilterra, a Stoke-On-Trent, a Cobridge, l’intera comunità mi conosce e tutti sono al corrente, se glielo chiedete, di queste etichette che ci stanno mettendo, come terrorista, etc. etc., sapranno che non sono un terrorista”. L’ultimo attacco a Londra è stato un misto letale di dissimulazione religiosa e di naïveté occidentale. Inoltre, si spera che questo attentato seppellisca tutte le illusioni britanniche di de-radicalizzare i jihadisti. Come riportato dal Times, il Behavioural Insights Team (Bit), la cosiddetta “nudge unit” che in origine faceva parte dell’Ufficio di Gabinetto del Governo, aveva esaminato 33 programmi di de-radicalizzazione in tutto il Regno Unito e aveva scoperto che solo due erano teoricamente efficaci. Il criminologo inglese Simon Cottee ha incolpato le illusioni fatali nutrite dai professori progressisti in merito all’idea di curare i terroristi”. La Francia l’ha già provato. Un rapporto bipartisan presentato al Senato francese aveva stigmatizzato il programma di de-radicalizzazione francese come un “fiasco totale”, nelle parole di Philippe Bas, senatore dei Repubblicani, partito di centro-destra. Quando le senatrici Esther Benbassa e Catherine Troendlé, entrambe alla guida della task force, si recarono in visita al centro di de-radicalizzazione nel Castello di Pontourny, trovarono un solo ospite nella struttura. La Francia ha anche sofferto a causa del fallimento del meccanismo di monitoraggio. Negli ultimi anni sono stati condotti dai jihadisti numerosi attacchi terroristici che sono stato inseriti nello speciale database francese antiterrorismo: l’attentato al mercatino di Natale di Strasburgo, l’attacco alla chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray, in Normandia e l’attentato al supermercato di Trèbes, per ricordarne solo alcuni. Di recente, un attacco jihadista ha avuto luogo all’interno del quartier generale della polizia di Parigi. Il terrorista, Mickaël Harpon, lavorava infatti nell’unità preposta a rintracciare i terroristi. In tutta Europa, nessuno dei programmi di de-radicalizzazione si è dimostrato efficace. “Non ci sono abbastanza dati affidabili per giungere a conclusioni definitive in merito all’efficacia a breve termine, per non parlare di quella a lungo termine, della maggior parte dei programmi di de-radicalizzazione esistenti”, ha concluso un report della Rand. Potrebbe non essere alla portata dei Paesi occidentali de-radicalizzare le persone che, come il terrorista del London Bridge, indossavano un finto giubbotto suicida per farsi uccidere dalla polizia e diventare dei “martiri”. E allora cosa si fa con questi jihadisti? Fidarsi di loro può essere letale, come a Londra. Lasciarli in prigione potrebbe significare dare loro un posto in “uno dei più importanti luoghi di radicalizzazione”. L’Europa non ha una Guantanamo Bay, un limbo legale che, dopo l’11 settembre, è stato utile per la guerra americana al terrore. Gitmo potrebbe anche essere utile ora, quando l’Europa sta fronteggiando il ritorno in massa dei foreign fighters dell’Isis. Secondo il rapporto annuale di Europol, il 45 per cento dei britannici che si sono recati in Siria e in Iraq per unirsi all’Isis, sono già tornati nel loro Paese di origine. Su 714 ex detenuti di Guantanamo Bay, 124 (il 16,9 per cento) hanno ripreso a svolgere attività di tipo terroristico, mentre 94 sono sospettati dalla Defense Intelligence Agency di essere recidivi. Estradare questi estremisti dall’Europa è una questione assai controversa per molti politici europei. Il leader del Partito Laburista britannico Jeremy Corbyn è stato filmato mentre protestava per l’estradizione di sospetti terroristi della Gran Bretagna, tra cui due collaboratori di Osama bin Laden. Il Regno Unito ha litigato per anni con l’Europa per l’estradizione in Giordania dell’imam radicale Abu Qatada. Pertanto, qual è la soluzione europea? Chiudere gli occhi e sperare nel meglio probabilmente è irragionevole. Troppe persone hanno già perso la vita nelle strade del Vecchio Continente. “Ora sono molto più maturo e voglio vivere la mia vita da buon musulmano e anche da buon cittadino della Gran Bretagna”, aveva scritto Khan prima di uccidere due giovani britannici. Un recente rapporto del governo britannico ha messo in guardia dal fatto che gli imam del Regno Unito in 48 scuole islamiche promuovono la violenza e l’intolleranza. È la società britannica che deve essere de-radicalizzata, e non i jihadisti. Il predicatore di odio più famoso della Gran Bretagna, Anjem Choudary, è da poco tornato in libertà e ora cammina per le strade di Londra da uomo libero. Di recente, è emersa una foto del terrorista del London Bridge, Usman Khan, che lo ritrae insieme al suo “amico personale”, Anjem Choudary. L’imam che avrebbe radicalizzato il terrorista che ha attaccato il quartier generale della polizia di Parigi vive a Gonesse ed è ancora libero di predicare. La de-radicalizzazione funziona solo se sfida questa correttezza politica suicida dell’Occidente affrontando le reali cause di questo tipo di terrorismo, e che si trovano nei testi islamici. “Uccidete questi miscredenti ovunque li incontriate”, recita il Corano (Sura 9:5). A quanto pare, Usman Khan ha visto Jack Merritt e Saskia Jones come “miscredenti” e non come “riabilitatori”. Se non cambiamo le nostre regole di ingaggio, ce ne saranno altri di episodi come questo. *Gatestone Institute Siria. “We Are” e la missione di Natale presso il confine turco-siriano di Domenico Letizia L’Opinione, 28 dicembre 2019 Anche quest’anno, dal 23 al 26 dicembre, si è svolta la Missione di Natale organizzata dalla Onlus “We Are” di Bologna, presso la città di Kilis, lungo il confine turco-siriano. La missione è stata occasione per inaugurare un laboratorio di aiuto psicologico per i bambini siriani vittime del conflitto, che da anni attanaglia la Siria. I volontari hanno donato alla comunità locale numerosi giocattoli, capi di abbigliamento e hanno osservato il lavoro che la Fondazione Fatih Sultan Demegi, diretta dal siriano Abdulgani Alchawakh, sta svolgendo attraverso la creazione di alcuni laboratori di cucito, avviando verso l’occupazione numerose donne e ragazze ospitate presso i locali della Fondazione. I lavori sono stati utili anche per poter monitorare e approfondire come i rifugiati siriani e i mutilati di guerra vivono in Turchia. Numerose le storie dei mutilati siriani che chiedono la fine del conflitto e condizioni più dignitose per le loro vite e per quelle delle loro famiglie. Per gli invalidi di guerra siriani, presenti in Turchia, è importante ottenere il “libretto rosso” che permette alcune agevolazioni sociali e contributi economici, ma tale aiuto si ottiene solo dopo il riconoscimento da parte delle istituzioni turche del 50 per cento di invalidità e molti dei mutilati lamentano regole troppe restrittive e anche nel caso dell’ottenimento, contributi economici non sufficienti per il benessere delle famiglie. Hanno partecipato alla missione, il presidente di “We Are” Enrico Vandini, la vicepresidente Lorella Morandi, il fisioterapista Firas Mourad, le volontarie Carolina Lucchese e Alice Bandini. Grazie al lavoro di “We Are” sono previsti due progetti nel corso del prossimo 2020. Il presidente della Onlus, Vandini ha dichiarato: “Stiamo creando un ambulatorio psicologico presidiato da due medici specializzati che avranno il compito di trattare circa 360 pazienti all’anno. Il progetto avrà una durata di 24 mesi. La durata di ogni seduta sarà di 30 minuti e l’età dei bambini coinvolti andrà dai 5 ai 18 anni, mentre per le donne andrà dai 18 ai 60. Inoltre, durante la nostra missione di Natale abbiamo inaugurato una palestra e una ludoteca, presso i locali della Fondazione, grazie ad un finanziamento del Rotary di Bologna”. I volontari di “We Are” hanno potuto comprendere l’attualità del conflitto e le novità provenienti dal rapporto tra Turchia e Siria. Il direttore della Fondazione di Kilis, Abdulgani Alchawakh, già “ospite” delle carceri di Assad, ha descritto tutte le problematiche che la comunità siriana vive. Kilis nel corso degli ultimi anni è stata oggetto di bombardamenti sia da parte dei terroristi dello Stato Islamico, che da alcune fazioni del Pkk. La comunità locale siriana, pur lamentando tutte le difficoltà per la situazione da rifugiati in terra straniera, ringrazia le autorità turche e le politiche di Recep Tayyip Erdoğan che sostiene tali famiglie e denuncia l’azione repressiva di Bashar al-Assad. Il direttore Alchawakh chiede all’Europa un vero sostegno per il ripristino dei diritti fondamentali e una campagna di informazione seria per i cittadini europei: “L’Europa deve capire che la tragedia siriana è una tragedia di tutto il mondo civile e dell’intero occidente. Chiediamo alle autorità europee di non sostenere il dispotismo di Assad. È inaccettabile che in molti paesi democratici vi siano ambasciate del governo siriano riconosciute e tollerate. Noi vogliamo semplicemente tornare nei nostri territori, ritornare alle nostre vite e riuscire a ricostruire una Siria democratica, laica, vicina al mondo arabo e alla Comunità europea”, ha dichiarato il direttore della Fondazione Fatih Sultan Demegi. Nella città di Kilis, come in tutta la Siria, in questa guerra che sembra non avere fine, sono sempre i civili, soprattutto donne e bambini, a pagare il prezzo più alto. Per molti di loro la Turchia è il futuro ma sono tantissimi coloro che vorrebbero semplicemente ritornare nella propria amata patria. Ricordiamo che nel 2016 l’Unione europea e la Turchia stipularono un accordo che vincolava la Turchia a fermare le partenze dei migranti in cambio di aiuti economici per 6 miliardi di euro. L’integrazione dei siriani in Turchia, soprattutto lungo il confine e nella città di Kilis, non è stata affatto scontata e semplice. Nel corso degli ultimi anni, numerose inchieste giornalistiche hanno raccontato le pessime condizioni in cui vivono i siriani nei campi profughi turchi, la discriminazione e lo sfruttamento sistematico, soprattutto nei confronti di molti bambini lavoratori, che ricevono nelle città e aziende turche. In occasione delle festività natalizie, “We Are” ha tentato di comprendere la situazione avviando nuove progettualità per i bambini e le donne siriane presenti lungo il confine. Venezuela. Sorvegliare per redimere, reportage dalle carceri di Geraldina Colotti lantidiplomatico.it, 28 dicembre 2019 Il panottico bolivariano. Davanti a uno schermo gigante, la ministra delle politiche penitenziarie, Iris Varela, mostra il sistema di controllo, altamente automatizzato, che consente il monitoraggio in tempo reale delle carceri venezuelane, dove chi vi alberga non viene chiamato detenuto, ma “privata e privato di libertà”. Spiega Varela: “Ho disegnato io lo schema, che ho poi sottoposto a un ingegnere venezuelano. Il software è cinese, ma l’hardware è nostro. Hai presente il concetto di panottico espresso da Foucault in Sorvegliare e punire? L’idea di fondo è quella. Se il privato di libertà si sente sorvegliato, limiterà le azioni violente”. Le telecamere funzionano anche nelle celle? “No, certo che no - risponde Varela - rispettiamo la privacy, i diritti umani e l’integrità della persona. Si tratta di sorvegliare per prevenire e reinserire”. E sorride, scuotendo la cascata di riccioli scuri, mentre impartisce disposizioni, efficace e diretta. Una grande organizzatrice, Iris Varela, capace di agire alla velocità della luce per realizzare un’idea, aggirando lentezze e burocrazie. In questi anni ha rivoluzionato il sistema penitenziario, mettendo in riga sia gli incerti che i detrattori. All’opposizione che le rimproverava di “indottrinare” i detenuti, ha risposto: “Certo, gli sto dando gli strumenti per combattervi, schivando le vostre trappole”. Di trappole, Varela, ha dovuto evitarne parecchie. Durante le violenze dell’estrema destra, il ministero è stato attaccato più volte. “Però con questo sistema - dice - se anche si verificasse un sabotaggio all’edificio, in poco tempo la sala operativa potrebbe essere ripristinata altrove. I dati vengono conservati per cinque anni e consentono di avere una retrospettiva. Attualmente vi sono quattro centri regionali attivi, a Caracas, nel Lara, nel Merida, nel Tachira, altri tre sono in costruzione”. Ci colleghiamo con alcune delle sale operative regionali. Tutto pulito, calmo, funzionante, distante anni luce dalle bolge di violenza che avevamo visitato fino a qualche anno fa, e dagli allarmi che sistematicamente rimbalzano sui media occidentali. Gran parte delle immagini che servono a suffragare quegli allarmi corrispondono a penitenziari che sono già stati chiusi, demoliti o trasformati in luoghi di cultura. “Oggi - afferma Varela - possiamo dire che il 100% dei centri di reclusione è sotto il controllo dello Stato. Oltre il 98% degli stabilimenti è retto dal nuovo regime penitenziario, un progetto di attenzione integrale nel quale ogni privato di libertà deve osservare la disciplina, acquisire valori e dedicarsi allo studio e al lavoro”. Le cifre ufficiali del ministero dicono che in Venezuela vi sono 108 centri detti di formazione più che di detenzione. Lì “vivono persone che hanno problemi e conflitti con la legge; 76 di questi funzionano come penitenziari per i privati di libertà che stanno scontando una pena definitiva, 59 sono per uomini e 17 per donne, e 32 dedicati alla custodia degli adolescenti”. Attualmente, la popolazione detenuta oscilla tra 48.000 e 53.000 persone, ma la capienza complessiva degli stabilimenti è di oltre 80.000 persone. Direttori e direttore salutano con un “Chavez vive, la patria sigue”. Mostrano le diverse attività svolte con l’impegno degli agenti per costruire un regime penitenziario “umanista, che metta al primo posto il recupero dei privati di libertà attraverso lo studio e il lavoro”. Un gran progresso, che abbiamo potuto constatare recandoci diverse volte nelle carceri nel corso degli anni. Un cambiamento che avanza al ritmo della rivoluzione bolivariana e che, oltre la cortina di fumo di chi si limita a trascrivere i dati delle Ong di opposizione, viene riconosciuto dagli organismi internazionali preposti, i cui rappresentanti visitano periodicamente il circuito penitenziario. Abbiamo constatato la loro presenza anche in questa occasione. Varela ci mette a disposizione diversi video, che mostrano il prima e il dopo delle prigioni venezuelane. Il prima era un inferno di violenza e sopraffazione, nell’assenza totale di uno stato per cui gli ultimi erano solo scarti. “Nel 1994 - racconta - durante il governo di Caldera - nel carcere di Sabaneta si è verificato un incendio di grandi proporzioni, la più grande tragedia carceraria del paese. Morirono ufficialmente 108 persone, ma in realtà si parla di 500”. Il ‘94 fu l’anno in cui, per un’amnistia richiesta a furor di popolo, venne liberato dal carcere l’allora tenente colonnello Hugo Chavez Frias insieme agli ufficiali che avevano organizzato la ribellione civico-militare del ‘92. Allora - racconta ancora la ministra - “tutti cospiravamo contro lo Stato borghese. Nel 1989 il popolo si era ribellato contro il pacchetto di misure neoliberiste nella rivolta del Caracazo. Fino al cambio di marcia innescato dalla rivoluzione bolivariana, le carceri erano una vera e propria discarica sociale. Una terra di nessuno che pullulava di armi di grosso calibro, usata dalle bande criminali come retroterra. Si usciva nel fine settimana per compiere delitti e poi si rientrava, avendo un alibi di ferro”. Tra i video più sconvolgenti, c’è quello girato da un gruppo rap di Portorico, i Catedraticos, contrattato dalle mafie carcerarie per un concerto molto pubblicizzato all’estero, nel quale si fa spettacolo della violenza. Si vedono detenuti obbligati a tagliarsi le dita da soli e altre efferatezze compiute dai “leader negativi” ai danni dei più deboli. Violenze comprovate dalla montagna di cadaveri mutilati rinvenuti ogni volta che, dopo un lungo lavoro, la rivoluzione bolivariana è riuscita a smantellare quel sistema di potere e connivenze. Ricorda la ministra: “Durante la campagna elettorale, Chavez non fa promesse a vanvera. Si propone il compito di rifondare la repubblica con un processo costituente, che ha effettivamente luogo nel 1999. Io ho avuto l’onore di essere eletta come costituente per il Tachira, mia zona di origine. Tra tutti i mali che la rivoluzione si è apprestata ad affrontare, c’era il sistema penitenziario. Sono avvocata, me ne rendevo conto benissimo. I detenuti ci chiedevano aiuto in ogni modo, cucendosi la bocca o compiendo altri gesti di autolesionismo, solo che quando provavamo a entrare, venivamo accolti dai proiettili di quei leader negativi che l’opposizione aveva cominciato a chiamare “pranes” e che, all’interno, erano in possesso persino di lanciagranate. Ovviamente, questo indicava un sistema di corruttele con cui pure abbiamo dovuto fare i conti. Impossibile fare un lavoro costruttivo in quelle condizioni”. Non molto diversa era la situazione nei minorili o nelle carceri femminili. “Chavez - dice ancora Iris - ha saputo interpretare l’anima del nostro popolo, occupandosi degli esclusi fin dal primo momento. La nuova carta magna, una delle più garantiste al mondo in tema di diritti umani, definisce le norme per la ridistribuzione del potere economico, politico, sociale. Su questa base, in Venezuela la casa (ne abbiamo già costruite 3 milioni), la salute, l’educazione, non saranno mai ridotte a merce, non verranno mai privatizzate. Anche le norme che riguardano il sistema penitenziario, che ho contribuito a redigere, sono molto avanzate, non fosse che per una piccola insidia nella quale siamo caduti e che poteva creare ambiguità in merito all’istituzione di carceri private, ma che si è appianata in seguito e che si tratterà di risolvere definitivamente nel prossimo testo costituzionale”. Fino a qualche anno fa, uno dei problemi più drammatici denunciati dai detenuti era quello del ritardo processuale. Com’è la situazione ora? Afferma Varela: “Quando Chavez ha creato il ministero del Potere popolare per gli affari penitenziari, ho messo insieme una squadra scelta tra deputati e personale che lavorava nell’Assemblea nazionale, e ci siamo recati nelle carceri. Abbiamo fatto assemblee con i detenuti e le detenute, raccolto le loro denunce, la prima delle quali era la situazione di abbandono giuridico in cui versavano. Abbiamo creato allora il piano Cayapa giudiziaria con il quale abbiamo portato direttamente in carcere il potere giudiziario, per rivedere tutte le situazioni. Quando c’erano palesi ingiustizie, il ministero si faceva carico di sanarle, assumendo le responsabilità in prima persone. Poi, sono arrivate norme specifiche che hanno istituito il regime alternativo attraverso l’approvazione del Codice organico penitenziario. Intanto, mentre abilitavamo nuovi stabilimenti, chiudevamo quelli vecchi e trasferivamo i detenuti a nuova sede. Il presidente Maduro sta continuando sulla via di Chavez, nelle carceri si costruisce cultura e dignità”. Scorrono altri video con le testimonianze dei detenuti. La ministra illustra i piani di recupero che li hanno via via coinvolti nelle unità socio-produttive, nella costruzione di case popolari, nell’orchestra sinfonica nazionale. “Spesso - dice - mi porto gruppi di adolescenti al Cuartel de la Montaña, in spiaggia, lavoriamo con le famiglie. Una volta abbiamo visitato la base navale di Puerto Cabello, i ragazzi hanno fatto immersione insieme ai sub della Forza Armata Nazionale Bolivariana e poi tutti volevano diventare militari. Ai giovani bisogna dare opportunità e modelli positivi, soprattutto se provengono da famiglie disfunzionali o da situazioni di degrado dove l’azione politica e sociale dello Stato non è ancora arrivata”. Varela si commuove raccontando la storia di una sedicenne incontrata in carcere per una vicenda di droga: “Aveva ferite da taglio in diverse parti del corpo - ricorda - viveva per strada con un padre alcolizzato e un uomo che l’obbligava a chiedere l’elemosina per procurarsi la droga, e che se non portava abbastanza soldi, si scatenava su di lei. Aveva già due bambini. Quando era incinta del secondo, era finita all’ospedale in fin di vita, e lì un poliziotto l’aveva violentata. Com’era possibile che una ragazzina avesse già sopportato il peso di così tanta violenza?” Le parole della ministra e le immagini raccolte nei video ci accompagnano mentre visitiamo l’Istituto nazionale di orientamento femminile (Inof), un penale a regime chiuso che alberga un totale di 629 detenute. Ci accompagna la viceministra Mirelys Contreras. Il tabellone affisso all’entrata elenca in dettaglio nazionalità, situazione giuridica e regime carcerario delle detenute. In un’ala a parte dell’Istituto, si trovano le madri con bambini. Per legge possono rimanere lì fino a tre anni, “ma nei fatti, quando la situazione lo richiede, li teniamo lì fino ai cinque anni - ci ha detto Varela - e poi ci sono i piani di accompagnamento delle famiglie all’esterno, attraverso il lavoro o lo studio”. La giovane agente all’entrata indica che oggi è giorno di visita. Nello spiazzo antistante, le detenute chiacchierano con i loro parenti. Una volta al mese, hanno diritto anche a un colloquio intimo. Parliamo con diverse di loro. I reati principali sono quelli del traffico di droga, ma anche sequestro e omicidio. Visitiamo i laboratori in cui si cuce, si tesse, ci si taglia i capelli o si continua a studiare attraverso le varie misiones educative e nell’università aperta. Vi sono 11 laboratori socio-produttivi. Ogni volta che entriamo, veniamo accolte dal seguente saluto: “Umanizzazione, rispetto, ordine e disciplina. Verso la costruzione della donna e dell’uomo nuovo. Buongiorno autorità”. Chiediamo a Yamileth cosa significhi per lei quel saluto: “All’inizio - dice - non capivo, mi avevano detto che faceva parte delle regole, e lo ripetevo. Poi, imparando il rispetto, imparando a conoscere altre parti di me attraverso il lavoro e lo studio, mi è risultato chiaro”. Yamileth, che sta scontando 15 anni per traffico di droga, è una delle donne che, dopo aver imparato il mestiere, è stata abilitata per diventare insegnante del corso, e dovrà formare altre formatrici. Veniamo attirate da un irresistibile odore di dolci appena fatti. Entriamo nella panetteria, dove lavorano 20 donne, 10 alla mattina e 10 al pomeriggio. Per Dyana, che sta aspettando di uscire in misura alternativa dopo una condanna per sequestro, il carcere ha significato “sofferenza, ma anche una rinascita”. Qui ha approfittato degli studi, quando uscirà vuole aprire una panetteria, ma anche continuare a esercitarsi con gli strumenti che ha imparato - clarinetto e contrabbasso - e che ha suonato per anni nell’orchestra sinfonica bolivariana. Al piano di sopra, ci accoglie Flor Ramirez, professora di musica che anima il primo laboratorio penitenziario di liuteria di tutta l’America Latina. Alle pareti vi sono pezzi di legno pregiato, violini, chitarre e cuatros, e strumenti per costruirli. Una sfida alla guerra economica: “I materiali sono molto costosi - dice la docente - ma ci vengono forniti grazie a un convegno realizzato dal ministero con un’impresa cinese e Fundamusical”. Le detenute staccano alcuni strumenti e ci dedicano un piccolo concerto. Insieme alla viceministra assistiamo poi a uno spettacolo di danza offerto dalle “private di libertà”. Segue una piccola assemblea durante la quale le donne fanno richieste e proposte. Le difficoltà ci sono. Dato il perdurare della guerra economica, già mantenere questo livello di assistenza è quasi un miracolo. Manca il personale specializzato, medici, psicologi, magistrati, molti se ne sono andati, ma restano i più motivati. Marelys Contrera risponde in modo franco e si vede che per questo le detenute l’apprezzano. C’è un gruppo arrivato da poco da un carcere che è stato chiuso, quello di Coro. Fra loro spicca una giovane donna carismatica e esuberante, che fa proposte e critiche propositive. Si chiama Amanda: “Prima - ci racconta - ero una leader negativa, ho sempre vissuto per strada, ho trascorso 14 anni nei penali quasi tutti in punizione. Da un anno sono qui, faccio cose che non avrei mai pensato di fare, voglio uscire per buona condotta, studiare”. Ci stringiamo le mani, ci abbracciamo. “Auguri di libertà”. “Amèn, amèn”, rispondono in coro. La viceministra risponde a tutte, prende nota. Un’anziana balla reggendosi al bastone: “Ho imparato a danzare in prigione - dice - presto torno in Olanda, sono a fine pena”. Passiamo all’ala dove ci sono le mamme con i bambini. Una struttura aperta, con un grande giardino e parco giochi. “Quando la ministra ha formato la sua squadra e mi ha chiesto di farne parte - racconta Contreras - per capire cosa fare, entravamo in un carcere alle 9 di sera e ne uscivamo il mattino dopo, facendo inchieste e assemblee. Le condizioni, qui, erano orribili, non c’erano spazi per le madri e per i bambini. C’era una specie di fossa per le punizioni, chiamata el Tigrito, c’erano corruzione, armi, droga. E guarda, invece, adesso. Le carceri stanno diventando scuole di formazione e unità socio-produttive autonome. A dirigere il ministero siamo tutte donne, oltre alla ministra Iris, vi sono tre viceministre. Lavoriamo tutte a tempo pieno, soprattutto a costruire le condizioni affinché le donne possano riacquistare la propria libertà, che ovviamente è la cosa che più desiderano”. Ci sediamo all’ombra di un albero. Visitare una prigione lascia sempre il segno, un segno in chiaro-scuro. Pensiamo al video diffuso dall’europarlamentare di centro-destra Antonio Tajani. Proveniva dallo Stato Anzoategui. Mostrava detenuti nudi stesi a terra, tormentati da uomini in divisa. Che ne pensa la viceministra? Contreras spiega: “Nel sistema penitenziario, tutto il personale riceve una formazione permanente, basata sul rispetto dei diritti umani e con attenzione al tema di genere. Cose del genere non potrebbero succedere. I Centri di detenzione preventiva non competono al nostro ministero. Dipendono dalla polizia municipale, e lì possono verificarsi violazioni dei diritti. In molti casi, la situazione di questi centri è simile a quella che abbiamo incontrato all’inizio del nostro lavoro, nel 2011. In questo caso, in primo luogo si agisce con tutto il peso della legge. Il nostro Pubblico Ministero, Tareck William Saab, che è stato Difensore del Popolo, considera che uno stato senza giustizia non possa funzionare. Ma, intanto, stiamo cercando di affrontare il problema in termini generali. La ministra Varela ha chiesto che il nostro ministero assuma anche altre competenze al riguardo. Abbiamo già ottenuto la direzione generale di otto Stati, dove stiamo applicando gli stessi piani di attenzione giuridica e amministrativa sperimentati nel circuito penitenziario. Ma è un lavoro da formica e i problemi sono ancora tanti, ci vuole tempo”.