Un ragazzo suicida a Siracusa nel giorno di Natale: siamo a 52 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2019 In questi giorni la condizione psicologica peggiora per non poter essere con i propri cari. Nel giorno di Natale un giovane detenuto di 26 anni, si è ucciso nella casa circondariale di Siracusa. A darne la triste notizia è Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà. La sentenza del ragazzo era ancora in attesa di appello. Così siamo giunti al cinquantaduesimo suicidio in questo 2019 che volge al termine. La galera diventa più insopportabile soprattutto nei giorni festivi. Il Natale in primis. Alla frustrazione di essere chiusi in una cella si aggiunge il dolore causato dal non poter essere vicino ai propri cari, in una serata di festa per stare con loro. Le feste in carcere amplificano le lontananze. Questo dolore si affievolisce un po’, grazie ai volontari che operano nelle carceri e alle varie associazioni che vi operano. Diverse sono state le iniziative per non abbandonare a sé stesse le persone recluse. Alcuni hanno anche anticipato le feste. Canti, risate, divertimento, qualche lacrima di commozione e mangiare “stellato” alla sesta edizione de “L’altra cucina… per un pranzo d’amore”, che il Rinnovamento nello Spirito Santo, assieme a Prison Fellowship Italia Onlus e al ministero della Giustizia, ha promosso il 18 dicembre scorso a favore di circa 2mila detenuti e detenute in 12 carceri in tutta Italia. A Massa Carrara, Salerno, Siracusa, Trani, Aversa, Eboli, Castelfranco Emilia, Ivrea, Milano, Torino, Palermo e Roma, i circa 600 volontari sono entrati nelle case circondariali per servire un pasto da leccarsi i baffi a chi sta scontando una pena dentro quelle mura. Nel carcere di Rebibbia, a Roma, la tavola è stata imbandita per 370 detenute che hanno potuto gustare i piatti preparati dallo chef Francesco Apreda. A servirli, farli cantare e ridere ci hanno pensato Nino Taranto, Sebastiano Somma, Francesco Castiglione, Maria Soave, Graziano Scarabicchi, Simona Di Bella, Anna Maria Palma, Teresa De Sio, Loredana Errore, Arianna Ciampoli, oltre che Pupi Avati che ha confessato a tutti i presenti di aver avuto l’idea di lanciare proprio dalla casa circondariale romana, un laboratorio di cinema. “Sicuramente in mezzo a voi c’è qualcuno che ha un talento per la recitazione”, ha dichiarato il regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e scrittore italiano che ha fatto eco alle parole di Somma: “Questo pranzo è solo un punto di inizio”, ha annunciato l’attore spiegando come siano già state buttate le basi per realizzare un triangolare di calcio tra le mura di Rebibbia, invitando a partecipare la Nazionale italiana attori. Il giorno di Natale non sono mancate iniziative di grande sensibilità come il caso dei professionisti sanitari della Usl che operano nel carcere di Pistoia: è stato chiesto ai detenuti di scrivere in modo anonimo un pensiero di Natale da riporre poi in una ‘ cassetta dei pensieri’ posta all’ingresso dell’ambulatorio del carcere. A questa iniziativa hanno poi aderito spontaneamente tutti i professionisti che operano all’interno del carcere di Pistoia, agenti della polizia penitenziaria, educatori, personale amministrativo che hanno anch’essi scritto un pensiero che hanno riposto nella stessa cassetta: il Natale ha coinvolto tutti abbattendo anche le barriere più impensabili e questo anche grazie alla sensibilità della Direttrice e del Comandante della polizia penitenziaria. Alcune di queste lettere sono state lette durante la Messa di Natale che il Vescovo di Pistoia ha celebrato in Carcere e tutte saranno raccolte in una pubblicazione. Per due giorni - natale e santo Stefano - la maggior parte dei reclusi delle patrie galere sono però inevitabilmente rimasti soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Si capisce che la vera aria del Natale carcerario, l’aria triste, si insedi nelle celle dopo la santa messa. Proprio quando inevitabilmente volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne vanno, ciascuno a fare Natale con i suoi. Nel 2020 si potrà potenziare l’esecuzione penale esterna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 dicembre 2019 Previsto un concorso per diciotto dirigenti e 100 funzionari. La novità introdotta nella legge di bilancio 2020 che autorizza il ministero della giustizia a derogare ai vincoli per le assunzioni. Il ministero della Giustizia potrà bandire il concorso per 18 dirigenti negli uffici di esecuzione penale esterna e assumere altri 100 nuovi funzionari. Questa è la novità importante introdotta nella legge di bilancio 2020, specificatamente i commi 419-421, articolo uno. Più nel dettaglio, il comma 419 autorizza il ministero, nel triennio 2020-2022, a derogare ai vigenti vincoli assunzionali e ad assumere a tempo indeterminato, tramite procedure concorsuali pubbliche, fino a 18 unità di personale di livello dirigenziale non generale della carriera penitenziaria, destinati agli Uffici di esecuzione penale esterna. Si ricorda che il Regolamento di organizzazione del ministero della Giustizia attribuisce la competenza in materia di esecuzione delle pene nella comunità alla Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. La Direzione generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova provvede all’organizzazione ed al coordinamento degli uffici territoriali per l’esecuzione penale esterna (Uepe). Gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) provvedono all’attuazione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria e intervengono sull’esecuzione delle sanzioni penali non detentive e delle misure alternative alla detenzione rivolte agli adulti; propongono alla magistratura il programma di trattamento da applicare e ne verificano la corretta esecuzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare, sanzioni sostitutive, messa alla prova, misure di sicurezza). Svolgono attività di sostegno dei detenuti domiciliari e attività di consulenza agli istituti penitenziari per favorire il buon esito del trattamento penitenziario. La determinazione delle modalità e dei criteri per le assunzioni sono demandate ad un decreto del ministro della Giustizia di concerto con quello per la Pubblica amministrazione (comma 420). Per l’attuazione delle assunzioni, il comma 421 autorizza la spesa di: 1.890.256 euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021; 1.933.524 per ciascuno degli anni 2022 e 2023; 1.976.793 per ciascuno degli anni 2024 e 2025; 2.020.060 per ciascuno degli anni 2026 e 2027; 2.063.329 per ciascuno degli anni 2028 e 2029 e 2.106.597 euro a decorrere dall’anno 2030. Introdotti anche i commi 424-425 che prevedono l’assunzione straordinaria, in deroga ai vigenti limiti, di 100 unità di personale per gli uffici territoriali del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, destinato ai ruoli di funzionario della professionalità pedagogica e di funzionario della professionalità di servizio sociale. Più in dettaglio, il comma 424, con la finalità di migliorare i trattamenti legati all’esecuzione penale esterna e di comunità, autorizza l’assunzione straordinaria, in deroga ai vigenti limiti, di 100 unità da inquadrare nella III area del personale non dirigenziale. Le suddette unità di personale sono destinate ai ruoli di funzionario della professionalità pedagogica e di funzionario della professionalità di servizio sociale degli uffici territoriali del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia. Per l’attuazione del programma di assunzioni è autorizzata la spesa: di 1.009.136 euro per l’anno 2020; di 4.036.545 euro a decorrere dall’anno 2021. Per l’anno 2020 inoltre, è autorizzata la spesa di 500.000 euro per l’espletamento delle procedure concorsuali (comma 425). Prescrizione, il Pd prova a smontare la legge Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 27 dicembre 2019 I dem presentano una proposta alternativa che reintroduce la prescrizione dopo il primo grado. Maggioranza in affanno sulla prescrizione del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il Pd, sulla linea di Andrea Orlando, oggi presenta al Nazareno la sua proposta di legge in materia di prescrizione, la sua “assicurazione sulla vita” (come ha detto a Repubblica l’ex Guardasigilli Dem), che ripropone la norma in vigore dello stesso ex ministro. Ma con una modifica non da poco. Restano i tempi di prescrizione per ogni reato, ma sia nel processo di appello che in quello in Cassazione l’orologio si fermerà per un anno in più, da 18 si passa a 30 mesi, quindi per 5 anni complessivamente. Ovviamente, in questo caso, cade la prescrizione dell’attuale ministro Bonafede che invece si ferma definitivamente dopo il primo grado. All’idea del Pd, che sarà ufficializzata venerdì 27 con una conferenza stampa, Bonafede reagisce con freddezza: “Valuteremo tutte le proposte il 7 gennaio (quando si terrà un nuovo vertice di maggioranza sulla giustizia, ndr), ma l’importante è non far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta”. E in realtà la proposta del Pd è proprio una norma che cambia profondamente il funzionamento della prescrizione e la rimette dentro la fase calda del processo. Alla Camera, durante la maratona sulla manovra del 23 dicembre, si sono accavallate le voci di una possibile spaccatura per via di un voto “in difformità” dei renziani di Italia viva su un ordine del giorno trabocchetto del forzista Enrico Costa. Che ha presentato un emendamento in cui chiedeva lo slittamento di un anno della Bonafede per dare il tempo agli uffici di monitorare i processi con delle task force. Il testo, poiché comportava un capitolo di spesa ad hoc, è stato ammesso, senza rendersi conto che un voto a favore avrebbe comportato l’impegno di rinviare di un anno la legge di Bonafede. Per tutto il pomeriggio la capogruppo di Iv Maria Elena Boschi ha tranquillizzato il Pd assicurandogli che si sarebbero solo astenuti, mentre altri esponenti renziani garantivano a Costa un voto favorevole. È la terza volta che Iv piglia le distanze dal governo sulla prescrizione. Una prima volta non ha partecipato al voto su un’esplicita richiesta di rinvio di Costa, una seconda volta si è astenuta su un ordine del giorno al decreto fiscale. Ieri il terzo episodio. L’ex premier Matteo Renzi è un nemico giurato della prescrizione di Bonafede, che con Repubblica ha definito “uno scandalo”. Contro cui si scatenano sia Costa che le Camere penali di Gian Domenico Caiazza, pronte a lanciare un referendum abrogativo, che trova subito Matteo Salvini come sponsor. Il Pd sfida i 5Stelle e presenta la sua prescrizione di Giulia Merlo Il Dubbio, 27 dicembre 2019 Il testo preparato dall’ex Guardasigilli Orlando. Il Partito Democratico getta il cuore oltre l’ostacolo e presenta oggi la sua proposta di legge per modificare la legge sulla prescrizione targata Alfonso Bonafede. Il testo, blindato, è stato redatto dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando e dal responsabile Giustizia, Walter Verini e punta ad arginare - se non proprio ad archiviare - lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La norma, approvata durante il governo gialloverde nonostante le perplessità degli stessi leghisti (e in particolare dell’allora ministra Giulia Bongiorno, che la aveva vincolata all’approvazione della riforma del processo penale per ridurre la durata dei processi), da allora è baluardo del ministro Bonafede su cui il Movimento 5 Stelle si è sempre detto irremovibile. A pochi giorni dalla sua entrata in vigore, nel primo giorno del 2020, i nuovi alleati di maggioranza hanno scelto di giocare in pressing su Bonafede. Del testo trapela poco o nulla, se non che la proposta “rappresenta la posizione del Pd per evitare le conseguenze negative dell’entrata in vigore della legge voluta del precedente Governo” e che l’auspicio sia che l’iter “possa al più presto chiudersi con una sintesi ragionevole, da portare al confronto di Governo e Parlamento”, dicono Walter Verini, responsabile Giustizia del partito, Alfredo Bazoli, capogruppo in Commissione alla Camera e Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione al Senato. Nella rosa delle ipotesi per la proposta del Pd, c’è l’allungamento la sospensione della prescrizione dopo il processo di primo grado, portando l’attuale sospensione di 18 mesi prevista dalla riforma Orlando a due o tre anni. In alternativa, il ripristino della prescrizione per gli assolti in primo grado, che dunque avrebbero un tempo certo di conclusione del giudizio. Infine, una parte dei dem si è teorizzata anche la possibilità di introdurre la cosiddetta prescrizione processuale, ovvero una durata fissa per i diversi gradi di giudizio. Tutte soluzioni che, però, non avevano mai trovato alcuno spiraglio di apertura da parte dei pentastellati. Oggi, inoltre, i dem presenteranno anche le loro proposte di riforma della Giustizia, in particolare per ridurre i tempi dei processi, sulle quali Bonafede si è detto pronto all’ascolto. Intanto, rimane fissato per il 7 gennaio il vertice di maggioranza con il ministro Bonafede proprio sulla prescrizione. Per quel giorno, però, i grillini potrebbero trovarsi irrimediabilmente isolati rispetto ai dem e ai renziani. Questi ultimi, infatti, hanno preso parte in delegazione alla maratona oratoria dell’Unione camere penali italiane contro la legge Bonafede, norma definita “inutile” e dannosa, e hanno sempre lasciato intendere di essere pronti a fare le barricate contro la sua entrata in vigore, anche disertando il vertice. Non solo, durante i voti notturni sulla manovra di Bilancio, Italia Viva ha dato ulteriore prova di fare sul serio, votando a favore dell’ordine del giorno del forzista Enrico Costa contro la prescrizione, di fatto spaccando la maggioranza. Proprio Costa, firmatario di una proposta di legge che abroga la norma per la quale i termini per gli emendamenti scadono l’8 gennaio, ha commentato come “Se solo il Pd avesse votato le nostre proposte sulla prescrizione, oltre a Fioramonti ci sarebbe oggi un altro ministro dimissionario: Bonafede. Invece, a guardare le spalle al Guardasigilli ci hanno pensato Zingaretti e compagni, che hanno predicato bene, ma razzolato male. Noi continueremo la nostra battaglia, e siamo convinti che a gennaio possano esserci sorprese che portino Bonafede a seguire Fioramonti”. E, se la proposta di legge del Pd fosse ritenuta troppo morbida, proprio il testo di Forza Italia potrebbe diventare il grimaldello per scardinare la prescrizione targata 5 Stelle. La norma, infatti, è ormai difesa dai soli grillini mentre, pur con diversa intensità, tutte le altre forze parlamentari di maggioranza e opposizione sono contrarie. Nessuna mediazione sulla prescrizione di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 dicembre 2019 Il Pd presenta una norma che “aggiusta” il giustizialismo a Cinque stelle. Non basta. Il Partito democratico ha annunciato per oggi la presentazione di una legge sulla durata dei processi. La norma dovrebbe “correggere” l’abolizione della prescrizione dopo il processo di primo grado che entrerà in vigore la settimana prossima. Il fatto è che qualsiasi legge che davvero riduca la durata dei processi deve necessariamente prevedere che, una volta scaduti quei termini, riprenda il periodo necessario per la prescrizione, che quindi dovrà essere nuovamente introdotta. L’ex ministro Andrea Orlando, peraltro, è perfettamente consapevole di questo dato oggettivo. A quanto pare presenterà un progetto che, anche se allunga i tempi di sospensione della prescrizione di un anno in appello e di un altro in Cassazione, comunque reintroduce quell’istituto di cui i Cinque stelle, sotto l’impulso del ministro Alfonso Bonafede, hanno celebrato l’abolizione. Qualsiasi “mediazione” che non ne imponga la resurrezione sarebbe un cedimento - sul piano politico e dei principi - assolutamente impossibile e inaccettabile. I dirigenti del Partito democratico parlano di una disponibilità dei Cinque stelle a “discutere”, ma è assai difficile che questa disponibilità generica si trasformi alla fine nell’accettazione di una visione che restaurando lo stato di diritto riaffermi il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi, che può essere garantita soltanto da termini precisi di prescrizione dei reati, come accade in tutti i paesi del mondo occidentale. Il Pd sa che se presentata in Parlamento la sua proposta con ogni probabilità otterrebbe il consenso di tutte le forze politiche esclusi i Cinque stelle, superando largamente la maggioranza. Sa anche, però, che una votazione di questo tipo segnerebbe la fine dell’attuale maggioranza. Si tratta di un problema politico serio che non va sottovalutato, ma se il Pd procederà in modo lineare, saranno i Cinque stelle a dover spiegare perché per impuntarsi a sostenere una scelta sbagliata, improntata a una forma talmente estrema di giustizialismo che ha suscitato critiche anche nella magistratura, vogliono arrivare a una rottura che con ogni probabilità segnerebbe la fine della legislatura in cui detengono, per la prima (e ultima) volta, la maggioranza relativa. La riforma della prescrizione non convince di Francesco Marzoli latinaoggi.eu, 27 dicembre 2019 C’è una norma, inserita nella legge “spazza-corrotti” che entrerà in vigore il primo gennaio prossimo, all’interno della quale si prevede lo stop alla prescrizione dei reati dopo la sentenza pronunciata al termine del processo di primo grado. Una condizione, questa, che secondo tre professionisti di Pomezia ascoltati da Latina Oggi potrebbe aprire uno scenario quasi apocalittico: fine processo mai. Abbiamo intervistato, a mo’ di tavola rotonda, gli avvocati Francesco Falco e Antonio Aquino, insieme al professore di Filosofia Pasqualino Del Grosso. Tutti e tre, in qualche modo, non sono d’accordo con la decisione, fortemente voluta dal MoVimento 5 Stelle e dal “suo” ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di “abolire” la prescrizione. Le riflessioni degli avvocati - “Non vi sarà una durata ragionevole del processo penale - esordisce Falco -. La logica che potremmo definire ‘fine del processo mai’ appartiene a una civiltà giuridica che vede i cittadini ‘prigionieri’ di un sistema processuale che ha, come evidente realtà di tutti i giorni, una irragionevole durata che viola il diritto costituzionale al processo giusto e ragionevole nel tempo. Ma vi è di più. La legge Bonafede attua un paradosso: anche nei casi di assoluzione, il cittadino, in caso di appello del pubblico ministero, si vedrebbe avvolto nelle ‘spire della giustizia’ per decenni. Per non parlare delle parti offese che vedrebbero procrastinarsi il loro diritto al risarcimento per molti anni”. E Falco fa un chiaro esempio di come la Giustizia rischi di “intasarsi” ancora di più rispetto allo stato attuale: “Occorre in questo tempo storico avversare l’idea del populismo penale, che tende a trasformare molti comportamenti sociali ed individuali processabili. Vi è un esempio eclatante di quanto affermato: il reato di abuso edilizio. I processi per abusi edilizi tendono a intasare le procure e a fronte di circa 32.424 ordinanze di demolizione solo 3.651 sono state eseguite”. Anche l’avvocato Aquino è chiaro: “Oggi ci viene propinato che tutto quello che hanno scritto e studiato i migliori giuristi è un fake: si può essere imputati per sempre, in barba a quei princìpi giusnaturalistici che hanno fino ad ora sostenuto le ragioni della prescrizione”. Non solo: “Una norma che abolisca la prescrizione non apporterà alcun beneficio in termini di riduzione del numero dei processi, anzi farà aumentare il numero dei procedimenti non definiti - conclude Aquino -. Invero, per avere una sicura e certa definizione dei processi in un tempo normale, occorre aumentare l’organico dei giudici e degli amministrativi, nonché le risorse economiche alla Giustizia. Questa è l’unica strada, non ce ne sono altre”. L’altro punto di vista - Infine, ecco il ragionamento del professor Del Grosso: “I dati più recenti parlano solo del 13% di processi finiti l’anno scorso in prescrizione e soprattutto del 57% di questi ultimi prescritti nella fase delle indagini preliminari, dove i tempi sono dettati dal giudice e non dagli avvocati, additati spesso come subdolamente portati a servirsi della prescrizione a vantaggio del proprio cliente”. E nel distinguere leggi che hanno impattato positivamente o meno sulla vita dei cittadini, il docente è molto chiaro: “Dal prossimo primo gennaio tutti i reati che saranno consumati in Italia, dopo la sentenza di primo grado, non potranno più essere prescritti, sia nel caso di condanna e sia nel caso di assoluzione, col conseguente paradosso che il cittadino, innocente o colpevole, potrà trovarsi per anni o addirittura per la vita intera appeso a un processo senza fine”. Intervista a Vincenzo Musacchio: “Tutti i nodi della riforma della giustizia” ilsudonline.it, 27 dicembre 2019 Musacchio, giurista e docente di diritto penale in varie Università italiane ed estere, ha insegnato di diritto penale presso l’Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma (2011-2012), dal 2018 è associato della School of Public Affairs and Administration (Spaa) presso la Reuters University di Newark (Usa), presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise e direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise. È davvero così grave lo stato della giustizia in Italia? “Per rendersene conto basta entrare in un tribunale e si evidenzia immediatamente il decadimento della giustizia italiana. Pensi che la lotta ai roditori è diventato il simbolo delle richieste, sempre più urgenti, di condizioni di lavoro più salubri e della risoluzione del problema dell’edilizia giudiziaria in quasi tutti i palazzi di giustizia d’Italia. Di pochi giorni fa la notizia di un tribunale che emette sentenza di condanna senza ascoltare la difesa. Non basta la giustizia senza tempo dovuta alla riforma epocale dell’istituto della prescrizione. Adesso si esperimenta anche la giustizia senza avvocato della difesa. Io che vivo l’ambiente giudiziario da oltre venticinque anni devo dire che questo è il clima che quotidianamente serpeggia nei palazzi di giustizia. Questa è la fotografia dello stato della giustizia nel nostro Paese”. La riforma del ministro Bonafede fissa in sei mesi il termine perentorio per la conclusione delle indagini preliminari, che ne pensa? “Concordo con l’assunto del prof. Franco Coppi: “nella vita non ci s’improvvisa”. Sei mesi per chiudere le indagini preliminari con lo stato in cui versa la giustizia italiana è pura fantascienza! Esistono in materia penale perizie che impegnano i consulenti anche fino a tre, quattro mesi proprio per necessità tecnico-scientifiche, mi chiedo allora come si faccia a stare nei sei mesi? Una materia così importante e multiforme deve essere affidata a persone dotate della competenza necessaria. Ricordo solo che riforme storiche in materia penale portano i nomi di Giuliano Vassalli, Giandomenico Pisapia, e ancora Vincenzo Manzini, Arturo Rocco. Anziché fissare termini drastici, bisognerebbe depenalizzare e velocizzare le varie fasi del processo penale. Oggi si pretende che un testimone si rechi in aula, a distanza di anni, per riferire se l’assassino ha sparato con la mano sinistra o con la destra, fatto certamente già agli atti. Siamo di fronte a un meccanismo disorganico, fonte di perdite di tempo indicibili. A volte rimpiango il vecchio codice di procedura penale con il quale i processi si risolvevano in un paio di udienze perché il giudice era nelle condizioni di poter acquisire, mediante la lettura degli atti, una conoscenza approfondita del caso”. Cosa ne pensa della nuova figura del “magistrato coordinatore”? “Non la condivido perché nominato direttamente dal procuratore capo, al posto del procuratore aggiunto, fino a oggi individuato dal Csm. La ritengo lesiva delle prerogative del Csm e al limite della costituzionalità”. E sulla prescrizione che si blocca dopo il primo grado? “In primis, ritengo violi il principio di eguaglianza tra i cittadini poiché mette sullo stesso piano chi commette un delitto e chi una contravvenzione. Da penalista dico che siamo di fronte è un’abnormità! Non è tuttavia il solo principio a essere violato, poiché è oltraggiato anche il principio di ragionevolezza, giacché si concepisce l’idea di un passato che non passa mai, di un tempo che non è più tale perché a un certo punto si ferma inesorabilmente. Non si può concepire l’idea di un giusto processo, dove il tempo non abbia una funzione nella vita di una persona. Non si possono mettere sullo stesso piano il condannato e l’imputato. Con questa riforma a me pare che questo rischio ci sia”. Della riforma del Csm, che Bonafede propone cosa ne pensa? “Assolutamente contrario al sorteggio indiscriminato poiché rischia di far eleggere un magistrato non adeguato a quel ruolo (es. di prima nomina). Sarebbero auspicabili nomine fatte con la rigorosa osservanza del criterio meritocratico, curriculare e con opportuni approfondimenti istruttori e motivazioni adeguate, accertando le competenze tecniche dei candidati. Vorrei un Csm dove Giovanni Falcone sarebbe stato senza se e senza ma Procuratore nazionale antimafia e non umiliato e escluso. Il compito di nominare procuratori, aggiunti e presidenti potrebbe essere assegnato alla Corte Costituzionale con una sezione ad hoc”. In conclusione, la domanda più scomoda: qual è la sua opinione sulla questione della separazione delle carriere? “Sono tra quelli favorevoli a che i due percorsi siano nettamente separati, Pm e giudice non più “consanguinei”. Un grande giurista del nostro tempo, Giovanni Conso, Presidente emerito della Corte Costituzionale, affermò con forza che la separazione delle carriere tra giudici e Pm fosse ormai un’esigenza “ineluttabile”. Giuliano Vassalli e Giandomenico Pisapia (autori dell’attuale codice di procedura penale) ritenevano che parità tra accusa e difesa e giudice terzo e imparziale fossero elementi “presupposto” della loro riforma. Un’esigenza che trae forza e legittimazione anche da quanto affermato con estrema chiarezza all’articolo 111 della Costituzione, articolo nel quale si prevede esplicitamente che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Va aggiunto che in nessun altro Paese con un processo penale di tipo accusatorio, giudici e pubblici ministeri sono reclutati congiuntamente, hanno lo stesso status, possono trasferirsi da una funzione all’altra senza specifiche valutazioni. Non nei paesi a tradizione giuridica anglosassone, come ad esempio Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. Non nei paesi dell’Unione europea come Germania, Austria e Olanda. In tutti questi paesi sarebbe inimmaginabile che il processo penale potesse celebrarsi, non nel pieno rispetto dei diritti della difesa e del cittadino imputato, di fronte ad un giudice che appartiene allo stesso corpo del pubblico ministero, a un giudice che per legami istituzionali è a tutti gli effetti “collega” di una delle parti in causa”. È vero che anche Giovanni Falcone fosse favorevole alla separazione delle carriere? “Il giudice - scriveva Falcone - si staglia come figura neutrale, non coinvolta, sopra le parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’esecutivo. Sempre Giovanni Falcone affermava: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi… su questa direttrice bisogna muoversi. … Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura”. Quante anime belle si litigavano le Procure. Tutti i silenzi sul caso Palamara di Giovanni Altoprati Il Riformista, 27 dicembre 2019 Ferri e Palamara, tra le toghe “per bene” sono nomi impronunciabili. Eppure se vai a vedere le carte scopri che nel balletto per dividersi il malloppo c’erano fior di magistrati moralistissimi. “Mai più personaggi come Ferri e Palamara”, ha tuonato Marcello Basilico, consigliere dell’Anm, dal palco del congresso nazionale del sindacato delle toghe, svoltosi all’inizio di questo mese a Genova. “Servono scelte trasparenti: non deve più accadere che ci siano personaggi come loro che, senza avere ruoli formali, partecipano a riunioni per decidere incarichi nelle Procure più prestigiose”, ha aggiunto la toga di Area, il raggruppamento di sinistra della magistratura, ribadendo la necessità di prendere le distanze dai due colleghi che per anni avevano fortemente inciso nelle scelte per i vertici degli uffici giudiziari. Luca Palamara e Cosimo Ferri, che adesso quasi tutti i magistrati dicono non aver mai conosciuto e frequentato, erano infatti delle toghe molto influenti. Almeno fino a quando non sono apparse sui giornali le intercettazioni dei loro colloqui con alcuni consiglieri del Csm per discutere delle nomine di varie Procure, a partire da quella di Roma. È stato spesso ricordato, a tal proposito, come Palamara e Ferri riuscirono nell’impresa di far eleggere l’ex responsabile giustizia dei dem David Ermini alla vicepresidenza del Csm. Nomina che suscitò gli strali dei grillini. “È incredibile! Avete letto? Questo renzianissimo deputato fiorentino del Pd è appena stato eletto presidente del Csm. Lo hanno votato magistrati di ruolo e membri espressi dal Parlamento. Ma dov’è l’indipendenza?”, disse l’allora vice premier Luigi Di Maio. I pentastellati. forti dell’asse Davigo- Area. avevano invece puntato sul laico M5s Alberto Maria Benedetti. Tornando, però, alle intercettazioni telefoniche effettuate dalla Procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm, indagato nel capoluogo umbro per corruzione, il filo conduttore di tutte le conversazioni riguarda le nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una vera ossessione che dovrebbe far molto riflettere circa le “energie” dedicate dalle toghe alla propria carriera. Ad emergere nitidamente nelle migliaia di telefonate intercettate di Perugia è, soprattutto, il futuro degli ex consiglieri del Csm. Il “vento dell’antipolitica” soffia anche su Palazzo dei Marescialli. Per la prima volta i consiglieri uscenti rischiano di essere penalizzati. Normalmente, appena terminato il mandato, l’ex consigliere veniva “ricompensato” con un incarico di vertice: la presidenza di un Tribunale o la responsabilità di una Procura. Questa volta è diverso. Palamara, e i suoi colleghi, rischiano di restare a bocca asciutta. I colleghi lontano dal Palazzo vogliono un cambio di rotta. ‘Basta con il “trampolino di lancio” per incarichi di prestigio rappresentato dall’aver fatto parte del Csm. Ecco la necessità allora di trovare un accordo comune, superando le rivalità fra correnti. Roma è il banco di prova di questo patto. La scelta del capo di Piazzale Clodio condizionerà a cascata tutte le altre nomine. Da qui, dunque, l’importanza di scegliere il procuratore “giusto”. Non è dato sapere se Palamara fosse a conoscenza o meno di essere intercettato dalla Procura di Perugia. Il linguaggio “criptico”. evidenziato fin dall’inizio delle operazioni dagli investigatori della Guardia di Finanza, e le precauzioni poste in essere, fanno venire più di qualche sospetto. La telefonata delle ore 14.30 del 6 marzo scorso tra Palamara e Luigi Spina, anch’egli togato di Unicost. e punto di riferimento del pm romano all’interno del Csm, è ritenuta importante dai finanzieri. I due si sentono spessissimo. Spina, quando scoppierà lo scandalo, sarà il primo a dimettersi. Fra i cinque consiglieri che hanno lasciato piazza Indipendenza, è l’unico ad essere indagato. L’accusa è di rivelazione del segreto: avrebbe informato Palamara del deposito di un esposto al Csm da parte del pm romano Stefano Rocco Fava contro il suo capo. Giuseppe Pignatone, e l’aggiunto Paolo Ielo. L’argomento deve essere importante perché Spina ha urgente necessità di parlare “a voce” con Palamara. Quest’ultimo però è impegnato. Spina gli mette fretta perché poi dovrà andare a cena con Francesco Basentini. I due si risentono alle 20.35 successive e fissano di vedersi dietro un’edicola di largo Messico. Spina deve parlargli di due cose “importanti”. prima di andare a cena. Basentini è un magistrato di assoluta fiducia del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Fra i primi atti del Guardasigilli grillino vi è stato quello di promuoverlo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) al posto di Santi Consolo. Spina è anche colui che dovrà “agganciare” i laici del M5s al Csm, iniziando dal professore calabrese Fulvio Gigliotti, come dirà in un’altra telefonata Massimo Forciniti, ex togato del Csm. a Luca Palamara. I laici pentastellati a Palazzo dei Marescialli sono tre. I loro voti possono rivelarsi fondamentali in questo piano. Per essere certi che non ci siano sorprese, Palamara organizza per la settimana successiva una maxi cena di corrente con tutto lo stato maggiore di Unicost. Saranno presenti, oltre a Spina. i consiglieri Gianluigi Morlini e Cochita Grillo. insieme a Mariano Sciacca, futuro n. 1 della corrente di centro, e altri i cui nomi sono stati però omissati dai finanzieri del Gico. Di quella cena non esistono trascrizioni in quanto il trojan sarà attivato solo due mesi più tardi. In carcere chi non presenta Unico di Stefano Loconte e Giulia Mentasti Italia Oggi, 27 dicembre 2019 Scatta la custodia cautelare in carcere per l’omessa dichiarazione fiscale. Il decreto fiscale collegato alla manovra prevede anche per questo reato tributario sanzioni più severe, salvando solo dalla confisca per sproporzione. Custodia cautelare in carcere per l’omessa dichiarazione: è legge il decreto fiscale 124/19 (legge 157, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 301 del 24 dicembre 2019), che anche per questo reato tributario prevede pene più severe, salvando solo dalla confisca per sproporzione. Precisamente la riforma innalza la pena, portando il minimo da 1 anno e sei mesi a 2 anni e il massimo da 4 a 5 anni di reclusione: ma è proprio quest’ultima modifica del massimo edittale ad avere risvolti pratici di non poco rilievo, se si considera che il codice di rito, all’art. 280 cpp., per i delitti per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni ammette la custodia cautelare in carcere. E se l’inasprimento del trattamento sanzionatorio comporterà conseguenze pratiche particolarmente gravose per i contribuenti che non presentano la dichiarazione, da non sottovalutare anche gli effetti della mutata pena per la dichiarazione infedele dei redditi o dell’Iva. Il divieto di espatrio, l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria, fino agli arresti domiciliari, sinora preclusi per gli indagati di tale reato, potranno trovare applicazione: infatti, tenuto conto che il suddetto art. 80 cp ne limita l’operatività a quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni, significativa è la scelta del legislatore di innalzare la pena, sinora ricompresa tra l’uno e i tre anni di reclusione, portando il quadro sanzionatorio tra i 2 anni e i 4 anni e 6 mesi di reclusione. Per l’infedele dichiarazione si assiste anche a un abbassamento delle soglie di punibilità, intervenendo tanto sul valore dell’imposta evasa (da 150 mila a 100 mila euro) quanto su quello degli elementi attivi sottratti a imposizione (da 3 a 2 milioni di euro): si inverte così la rotta intrapresa dalla riforma del 2015, che invece aveva ridotto l’area di rilevanza penale. No, invece, alla confisca per sproporzione per tali fattispecie: mentre il dl 124/2019 ne aveva ipotizzato, anche per l’infedele e omessa dichiarazione, l’applicabilità, gli emendamenti, approvati dalla camera e confermati dal senato, hanno preferito limitare questa misura ai reati caratterizzati dalla fraudolenza, quali l’uso di fatture false. Ciò detto, gli aumenti comporteranno anche ulteriore lavoro per la magistratura: infatti, fino a oggi, tanto alla dichiarazione infedele quanto a quella omessa si applica sul piano procedurale quanto previsto per i reati il cui massimo edittale non superi i 4 anni di reclusione, ovvero il pubblico ministero che non intenda chiedere l’archiviazione cita direttamente l’imputato a giudizio, e quindi all’udienza dibattimentale. Ora l’iter si allunga, e il pm dovrà chiedere il rinvio a giudizio al gup, che solo all’esito dell’udienza preliminare, salvo non prosciolga con sentenza di non luogo a procedere, accoglierà la richiesta del pm e darà l’avvio al dibattimento. Per evitare il procedimento penale e tutti i suddetti effetti che potrebbero derivarne, il legislatore dà una chance: l’art. 13 dlgs 74/2000 prevede infatti la non punibilità di tali reati se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti con il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo. Unico avvertimento, la regolarizzazione deve essere spontanea, e cioè intervenuta prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. Ostaggi della presunzione di colpevolezza di Claudio Cerasa Il Foglio, 27 dicembre 2019 L’attacco al nostro giornale ci ricorda che in Italia ha preso il sopravvento la cultura del sospetto. Gli indizi diventano fatti, l’onere della prova è invertito, il diritto alla difesa è un simulacro. Dalla prescrizione ai sequestri preventivi. Il simpatico attacco sferzato contro il nostro giornale alla vigilia di Natale - con la scelta cautelativa di sospendere a titolo di garanzia l’erogazione dei finanziamenti pubblici a causa di una vecchia inchiesta della Guardia di finanza piena zeppa di falsità rimasta in giacenza per sette anni e riesumata tra il 2018 e il 2019 all’epoca in cui il dipartimento dell’Editoria a guida grillina prometteva un giorno sì e l’altro pure di far chiudere il Foglio - può essere studiato utilizzando due chiavi di lettura diverse anche se probabilmente simmetriche. Una prima chiave di lettura è quella che può riguardare l’indifferenza complice di chi sceglie di restare neutrale di fronte al tentativo di aggredire una testata giornalistica per via politico-giudiziaria. Una seconda chiave di lettura è quella che ha a che fare con un altro aspetto non meno importante e che riguarda un tema legato a un altro tipo di indifferenza nociva che esiste nel nostro paese: l’incapacità di combattere con forza una cultura politico-giudiziaria che tende costantemente a trasformare ogni minimo sospetto in una sentenza di condanna. In questo caso il tema, che ci riguarda, non è tanto la trasformazione teorica della cultura del sospetto nell’anticamera della verità ma è la codificazione di un sistema all’interno del quale gli indizi vengono trasformati in un fatto e in cui si registra, nell’ordine: (a) lo slittamento del diritto dalla centralità del fatto alla centralità del sospetto; (b) la progressiva inversione dell’onere della prova; (c) la scelta di fare alla lunga delle garanzie della difesa un semplice simulacro. In ambito penale, ma non solo in questo ambito, esistono e cominciano a essere molto diffuse misure di prevenzione che prescindono dall’accertamento dei reati e che si applicano a soggetti ritenuti, in base a una semplice serie di indizi, socialmente pericolosi e potenzialmente criminali, per i quali la garanzia costituzionale dell’essere innocenti fino a prova contraria semplicemente non esiste più. In questo senso, la decisione del dipartimento dell’Editoria di bloccare l’erogazione dei finanziamenti pubblici del 2018 al Foglio sulla base di un semplice sospetto è in qualche modo figlia di una consuetudine alla quale buona parte del paese, e non solo la parte grillina che lo rappresenta, sembra essersi abituata. L’Italia è il paese in cui, in attesa di chiarire la fondatezza di molti capi d’imputazione, può succedere che un’impresa possa subire, per ragioni legate a scelte cautelative, danni economici irreversibili, capaci di precludere la sopravvivenza stessa di un’attività. L’Italia è il paese in cui gli imprenditori possono anche fallire e chiudere bottega per avere subìto sequestri preventivi anche in assenza di una sentenza definitiva (chiedere a Matteo Brusola, imprenditore della Brianza, che nel giugno 2014 ricevette dalla prefettura di Milano un’interdittiva antimafia che portò alla chiusura della sua azienda salvo poi quattro anni dopo vedersi scagionato da ogni accusa con l’impresa andata nel frattempo fallita). L’Italia è il paese in cui grazie a una legge scellerata approvata nella precedente legislatura - legge 17 ottobre 2017, n. 171 - viene consentito sulla base di meri indizi di colpevolezza l’applicazione di misure di prevenzione personali (sequestro o confisca) anche per reati contro la Pubblica amministrazione, rendendo così forte il rischio che in attesa di chiarire la fondatezza dei capi di imputazione un’impresa possa subire un danno economico irreversibile. L’Italia, poi, è anche il paese che ha scelto di avere numerosi protocolli di legalità che prevedono l’impossibilità per un operatore economico rinviato a giudizio (come se il rinvio a giudizio fosse una sentenza di condanna) di continuare a partecipare alle gare o di continuare a eseguire un contratto in essere. L’Italia, grazie alla legge “spazza-corrotti” introdotta in questa legislatura dalla maggioranza gialloverde, è lo stesso paese che, abolendo la prescrizione, ha trasformato ogni processo in una pena potenzialmente eterna ed è lo stesso paese che ha introdotto la possibilità di mantenere la confisca di un’impresa anche quando dopo il giudizio di primo grado sia intervenuto un proscioglimento del reato per prescrizione o per amnistia. L’Italia, infine, è il paese in cui i detenuti presenti in custodia cautelare nell’arco degli ultimi 11 anni sono pari al 40,77 per cento del totale, il che significa che su cinque persone “custodite” dallo stato nelle nostre prigioni almeno due si trovano oggi rinchiuse senza che la loro responsabilità penale sia stata accertata in via definitiva. L’Italia, per concludere, è il paese in cui sono più di 1.000 le persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno e che ricevono - dopo una lunghissima e mortificante procedura - denaro quale retribuzione per la sottratta libertà (l’Italia ha speso, nel 2017, circa 35 milioni di euro per indagini sbagliate che hanno costretto persone a privarsi del diritto fondamentale in un paese civile). “Questo - ci dice il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - è un paese slegato dai suoi fondamentali e dalla realtà della vita quotidiana, che non ha alcuna sensibilità della realtà e di come la questione reputazionale impatti sulla vita delle imprese, delle imprenditrici e degli imprenditori e di come si possano distruggere imprese. E di quale ansia generi nel nostro mondo l’assoluta sottovalutazione degli impatti di questi provvedimenti, con il combinato disposto della questione della prescrizione, che invece di risolvere i problemi a monte, ossia la durata dei processi, parte dalla direzione opposta”. L’eccessiva lentezza del sistema giudiziario, in altre parole, ha fatto sì che negli ultimi vent’anni siano stati introdotti provvedimenti così detti anticipatori che il giudice può emettere all’inizio o durante il giudizio senza che sia presente una sentenza definitiva. Lo schema di gioco è chiaro: poiché il sistema non riesce a essere celere, si è scelto di sacrificare alcune prerogative indispensabili per un giudizio equilibrato pur di arrivare velocemente a una decisione (con il rischio che questa possa anche essere ingiusta). Un paese normale, e sano, dovrebbe scommettere su processi più rapidi e dovrebbe punire chi ha responsabilità solo alla fine di un iter giudiziario. Un paese non normale, e malato, sceglie invece di scommettere sui processi lenti, per esempio abolendo la prescrizione, e sceglie di limitare la libertà di imprese e individui solo sulla base di indizi e di sospetti. L’Italia, almeno fino a oggi, ha deciso di puntare sul secondo modello e la politica, pur potendosi ribellare, almeno finora ha scelto di essere complice di un sistema osceno che trasforma il sospetto nell’anticamera della verità. Non sarebbe ora di finirla? Il giudizio senza la difesa camerepenali.it, 27 dicembre 2019 Riportano alcune poche cronache ed il puntuale intervento della Camera Penale Piemontese che il tribunale di Asti, alla ripresa dell’udienza di un delicato dibattimento dedicata alla discussione del difensore, sia entrato in aula ed abbia letto il dispositivo della sentenza. Il documento della Giunta Ucpi. Pensavamo ed abbiamo sperato che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto, complice qualche brindisi di troppo in attesa del Natale ed invece Asti non si è riproposta per il suo spumante di fama internazionale, ma per una vergogna tutta nazionale. Riportano alcune poche cronache ed il puntuale intervento della Camera Penale Piemontese che il tribunale di Asti, alla ripresa dell’udienza di un delicato dibattimento dedicata alla discussione del difensore, sia entrato in aula ed abbia letto il dispositivo della sentenza (una condanna ad anni 11 di reclusione). Si può immaginare lo sconcerto dei presenti, aggravato dal presidente, il quale, sempre secondo le cronache, con incredibile noncuranza avrebbe strappato o accartocciato il dispositivo (un atto pubblico), invitando l’avvocato a concludere come se nulla fosse accaduto; solo a fronte delle proteste della collega, unico difensore dell’imputato, il collegio ha dichiarato di astenersi, ma pare che la presidenza del tribunale non abbia ancora deliberato su tale dichiarazione e stia svolgendo degli approfondimenti, ritenendo la questione delicata. Dobbiamo ammettere che non c’è limite al peggio: ci eravamo già imbattuti in ordinanze di custodia cautelare emesse dal giudice suggerendo al pubblico ministero la motivazione della richiesta ed addirittura in sentenze già pronte con tanto di motivazione prima del giudizio di appello (e ne ricordiamo gli illustri autori), ma ora siamo di fronte al giudizio senza la difesa. Una “dimenticanza” che ha coinvolto l’intero collegio e quindi ancora più triste. Il nostro pensiero va innanzi tutto all’imputato, che aspettava speranzoso l’intervento del suo difensore e che ora attenderà la nuova decisione con comprensibile angoscia. La nostra solidarietà va alla collega che ha dovuto subire nella pubblica aula di udienza una tale sfacciata violazione della sua funzione istituzionale e dignità professionale. Ma non possiamo non pensare anche al sostanziale silenzio che su di una vicenda così grave e significativa si è registrato sui media nazionali, alla mancanza di commenti da parte dei consueti difensori dei magistrati in servizio permanente effettivo, all’assenza di prese di posizione da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati, alla distrazione del Ministro, impegnato a tenere ferma l’abolizione della prescrizione, pare ora per difendere il suo onore. Speriamo che il Consiglio Superiore della Magistratura ci risparmi l’apertura di una pratica a tutela di questi magistrati (anziché dell’imputato e del suo difensore), su sollecitazione delle correnti di appartenenza (perché, sia chiaro, dopo il caso Palamara nulla è cambiato) e soprattutto che nessuno proponga di “salvare” il giudizio conclusosi in assenza (del difensore) mandando in camera di consiglio tre nuovi magistrati a leggersi i verbali del dibattimento celebrato dai distratti condannatori. Ma siamo ormai pronti a tutto, anche se rassegnati a nulla. Ed allora denunciamo che solo una concezione proprietaria del processo ed una convinzione di inutilità dell’apporto difensivo alla formazione della decisione possono produrre uno stato mentale che consenta di dimenticare di dare la parola alla difesa. Nulla succede per caso ed un evento così grave non può che essere il riflesso ed il sintomo della progressiva involuzione giustizialista in atto, evidenziando l’espansione ad ogni livello di un concetto del processo penale come macchina amministrativa di condanna piuttosto che di accertamento garantito. In attesa che chi ha il dovere di intervenire lo faccia, noi assicuriamo alla collega piemontese, a tutta l’avvocatura e soprattutto ai cittadini, che non consentiremo che il diritto di difesa perda la sua sacralità ed effettività costituzionale e si affievolisca nella mera eventualità ed inessenzialità del suo esercizio. La Giunta Ucpi Non è reato coltivare marijuana per uso personale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2019 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, informazione provvisoria n. 27 del 2019. La coltivazione di marijuana, ma in generale di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, è depenalizzata se indirizzata al solo consumo personale. È questa la conclusione cui sono approdate le Sezioni unite penali della Cassazione, con una decisione nota per ora solo nel dispositivo, anticipato dall’informazione provvisoria n. 27 del 2019. In attesa delle motivazioni, le Sezioni unite scrivono che devono essere considerate escluse dall’area del penalmente rilevante “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Nell’informazione provvisoria resa dopo l’udienza del 19 dicembre si precisa poi anche che il reato di coltivazione di stupefacente è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, “essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. La decisione delle Sezioni unite, intervenuta su un caso di coltivazione di 2 piante di marijuana (una alta 1 metro con 18 rami, l’altra alta 1,15 metri con 20 rami) pone fine a un contrasto interno alla stessa Cassazione e alle Sezioni semplici. Secondo un primo orientamento per potere fare scattare il reato previsto dall’articolo 28 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990) non è sufficiente la semplice coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, ha raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è necessario verificare se questa attività è in concreto idonea a compromettere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato. Secondo un altro orientamento, invece, la capacità offensiva della condotta di coltivazione consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo. Secondo questa linea interpretativa, non ha importanza la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la semplice conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza drogante. Nel caso approdato alle Sezioni unite, la Corte d’appello aveva in realtà seguito quest’ultimo e più severo orientamento, visto che la coltivazione delle 2 piante era costata all’imputato una condanna a un anno di carcere e una multa di 3.000 euro. A venire valorizzata era stata l’offensività in concreto della condotta per effetto del grado di maturazione delle piantine; mentre era stata trascurata una valutazione dell’idoneità in concreto a produrre effetti droganti. Spazza-corrotti a rischio incostituzionalità, ma non “decide” la Cassazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2019 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 24 dicembre 2019, n. 51905. Sulla legge “spazza-corrotti” i dubbi di legittimità sono fondati. E tuttavia la Cassazione non può intervenire per sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale. Sono queste le conclusioni cui approda la stessa Cassazione con la sentenza n. 51905 della Sesta sezione penale depositata il 23 dicembre. La pronuncia si è trovata ad affrontare un caso di corruzione aggravata che ha coinvolto un funzionario dell’Agenzia delle entrate e un dottore commercialista. Ai due, sia in primo grado sia in appello, era stata inflitta una sanzione detentiva che, in sede di ricorso in Cassazione, la difesa ha contestato, chiedendo la sospensione del procedimento in attesa del verdetto della Corte costituzionale. A non convincere gli avvocati c’era soprattutto l’inserimento, da parte della legge n. 3 del 2019, dei reati contro la pubblica amministrazione tra quelli che impediscono la concessione di alcuni benefici penitenziari, senza neppure prevedere una disciplina transitoria per gestire il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina. Inoltre, il rigore della “spazza-corrotti” sarebbe in contrasto, secondo i legali, anche con il principio di ragionevolezza e la funzione rieducativa della pena. La Cassazione, nell’affrontare la questione, sottolinea che, sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non è manifestamente infondata la tesi della difesa perché il legislatore ha cambiato le “carte in tavola” in corso d’opera, senza prevedere una norma transitoria, linea di politica legislativa che, afferma la Cassazione, presenta “tratti di dubbia conformità con l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, articolo che stabilisce come nessun trattamento punitivo può essere inflitto senza una norma antecedente che lo preveda e disciplini. Però la Corte non può procedere oltre, prosegue la sentenza, perché i profili di legittimità costituzionale in discussione riguardano la l’esecuzione della condanna, dal momento che incidono sulla sospensione dell’ordine di esecuzione. E allora va richiamata la disposizione per cui la Cassazione non può mai essere considerata giudice dell’esecuzione del provvedimento oggetto di impugnazione. In latri termini, la questione di costituzionalità delineata riguarda non la sentenza oggetto del ricorso, ma l’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza e, dunque, a uno snodo processuale successivo. Potrà però essere proposta, ricorda infine la Cassazione, in sede di incidente di esecuzione. Gratuito patrocinio, la falsa autocertificazione non basta per la revoca del beneficio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2019 La falsità o l’incompletezza dell’autocertificazione allegata alla domanda di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non fa scattare la sua inammissibilità e dunque la revoca del beneficio, se i redditi effettivi non superano il limite fissato. La revoca può, infatti, essere disposta, solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Questa la decisione delle Sezioni unite della cassazione, anticipata con l’informazione provvisoria n.29. La decisione del Supremo consesso prende le mosse da un’ordinanza di rinvio della quarta sezione penale (29284/2019). La sezione remittente, si era trovata a giudicare il caso del ricorrente che aveva rappresentato una situazione dei redditi non veritiera, alla quale era seguita la revoca del beneficio, benché l’uomo avesse dei redditi inferiore ai limiti previsti. Il provvedimento impugnato era stato emesso ritenendo la veridicità dell’autocertificazione una condizione di ammissibilità della domanda. Secondo la giurisprudenza recente, infatti, pesa la lealtà nei confronti delle istituzioni del soggetto che aspira ad usufruire dell’istituto solidaristico, strumentale a realizzare il diritto di difesa. La revoca sarebbe dunque coerente con la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’omessa comunicazione, anche parziale, di variazioni di reddito comporta la revoca dell’ammissione al “gratuito” patrocinio, anche quando le variazioni siano occasionali e non comportino il venire meno delle condizioni di reddito per l’ammissione. Un orientamento che la sezione remittente non ha condiviso, considerandolo non in linea con il diritto di difesa garantito dalla Carta, e in contrasto con il dato letterale della legge. Da qui la remissione alle Sezioni unite, per evitare il sorgere di contrasti in una materia particolarmente delicata. E il verdetto delle Sezioni unite ha dato ragione ai giudici del rinvio. Il Supremo consesso ha affermato, infatti, che la revoca può essere disposta solo nei casi espressamente previsti dalla legge e la falsità o la parzialità delle dichiarazioni non bastano se il richiedente rientra comunque nel tesso prefissato per il beneficio. Revisione auto, in caso di falso tagliando il nuovo proprietario non è responsabile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2019 Tribunale di Ferrara - Sezione penale - Sentenza 3 maggio 2019 n. 690. L’applicazione sul libretto di circolazione di un veicolo di un falso tagliando attestante la regolarità della revisione, in realtà mai avvenuta, e la sua esibizione agli organi accertatori integrano i reati di falso commesso dal privato in certificazioni amministrative e di uso di atto falso. Se, però, l’autovettura è stata acquistata usata in data successiva a quella della presunta revisione, allora non c’è responsabilità penale per l’assenza di consapevolezza da parte del nuovo proprietario della falsità del documento. Questo è quanto afferma il Tribunale di Ferrara con la sentenza 690/2019. Il caso - La vicenda trae origine da un ordinario controllo della circolazione stradale eseguito dalla Polizia Municipale, in occasione del quale gli agenti si rendevano conto che sulla carta di circolazione esibita dal conducente fermato era stato applicato un falso tagliando certificante la positiva revisione della vettura. In seguito, il conducente dell’auto veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di uso di atto falso, ex articolo 489 cod. pen., mentre il proprietario della macchina, non presente al momento del controllo della Polizia Municipale, veniva imputato per il reato di falso commesso dal privato in certificazioni amministrative, ex articoli 477e 482 cod. pen.. Il primo si difendeva sostenendo di non essere mai stato a conoscenza della irregolarità del libretto di circolazione; il secondo dichiarava di non saper nulla a riguardo, in quanto aveva comprato di seconda mano l’automobile in data successiva a quella della presunta eseguita revisione. La decisione - Le argomentazioni difensive colgono nel segno e inducono il Tribunale ad assolvere entrambi gli imputati. Il giudice, infatti, dopo aver preso atto della falsificazione della certificazione, risultando tra l’altro come mai eseguita anche dalla banca dati della motorizzazione, non ritiene possibile una responsabilità penale per gli imputati. Quanto all’imputazione di uso di atto falso per il conducente, nella fattispecie è da ritenersi integrato l’elemento oggettivo del reato ex articolo 489 cod. pen., bastando a tal proposito “la semplice esibizione del documento falso”; ma non integrato, invece, l’elemento soggettivo, in quanto al momento del controllo e dell’esibizione della carta di circolazione, non vi era la coscienza e volontà da parte del conducente di far uso di un documento falso. Quanto all’incriminazione di falso commesso dal privato in certificazioni amministrative per il proprietario, nella fattispecie non si configura nemmeno l’elemento materiale del reato, “non essendovi prova certa della riferibilità al predetto della formazione ovvero del commissionamento della formazione del falso”. In particolare, sottolinea il Tribunale, l’aver acquistato la vettura in data successiva rispetto a quella riportata sul tagliando della falsa revisione scagiona del tutto l’attuale proprietario del mezzo. Calabria. La ricetta di Callipo: basta con la politica e la mafia di Piero Sansonetti Il Riformista, 27 dicembre 2019 Ma partiti e cosche non sono la stessa cosa. In una intervista rilasciata alla giornalista Alessia Candito, del quotidiano Repubblica, Pippo Callipo ha detto queste esatte parole: “I cittadini non dovranno più bussare alla porta del politico e del burocrate e del boss mafioso”. Pippo Callipo è il candidato di centrosinistra alle elezioni regionali calabresi che si svolgeranno alla fine del prossimo mese. È una persona seria, un imprenditore molto prestigioso, il tonno in scatola che produce è famoso in tutto il mondo ed è considerato forse il miglior tonno in scatola prodotto in Italia. Callipo ha un passato di impegno civile, sia come Presidente della Confindustria calabrese sia come candidato di una lista civica alle regionali del 2009, quelle vinte da Peppe Scopelliti. Nessuna obiezione sulla sua persona. Molte obiezioni sulle sue parole disastrose. Callipo promette, a chi lo voterà, che lui, se vince le elezioni, spazzerà il male dalla Calabria. E per impersonare il male cita tra categorie di persone: i mafiosi, i burocrati, i politici. Nella sostanza dice che politico, burocrate e mafioso sono la stessa cosa: sono i nemici della gente. Naturalmente Callipo può sostenere che lui voleva dire politici-mafiosi. O burocrati-mafiosi. Ed è da dimostrare, comunque, che ci siano, e che siano molti. Callipo però non ha detto “politici-mafiosi”; ha detto: politici, burocrati e mafiosi. Forse si sarebbe offeso se qualcuno avesse detto che per salvare la Calabria bisogna spazzare via i mafiosi e gli imprenditori. Eppure non c’è nessuna differenza tra le due affermazioni. Ammesso che esistano in Calabria dei politici mafiosi va anche ammesso che esistano degli imprenditori mafiosi. Capite cosa vuol dire questa affermazione? Vuol dire mettere Prodi o Berlusconi sullo stesso piano di Totò Riina, mettere Berlinguer o Moro o De Gasperi sul piano di Luciano Liggio. E vuol dire paragonare la politica con l’azione criminale della mafia. Può darsi che Callipo abbia semplicemente commesso un errore di linguaggio, perché non è esperto. Oppure, e non è molto improbabile, che abbia voluto cavalcare una spinta di opinione pubblica giustizialista, sostenuta di solito dai giornali, da una parte consistente della magistratura, da settori politici. Pensando - probabilmente a ragione - di poter drenare voti. Callipo vuole presentarsi come il cavaliere puro, nemico della mala e della corruzione, e dunque nemico della politica. Non gli interessa spiegare che la politica è la struttura fondamentale della democrazia. Probabilmente non ha una passione sfrenata per la democrazia. Questo è il problema. Queste elezioni calabresi si svolgono in un clima fetido. Lotte furiose dentro i partiti e paurose interferenze della magistratura. I due candidati naturali a contendersi la nomina a governatore erano il governatore uscente di centrosinistra, Mario Oliverio, e il sindaco uscente di Cosenza Mario Occhiuto, di centrodestra. Sono stati tutti e due colpiti dalla magistratura. Che li ha coperti di avvisi di garanzia, in vista delle elezioni. Al Presidente della Regione, Oliverio, addirittura per diversi mesi è stato assegnato il domicilio coatto. Cioè gli è stato impedito di muoversi dalla cittadina di montagna dove ha la residenza. Poi è intervenuta la Cassazione che ha annullato il provvedimento sostenendo che chi lo aveva chiesto e ottenuto lo aveva fatto per ragioni viziate da pregiudizio. Capite bene che è un parere molto pesante: viziato da pregiudizio, riferito a un atto di un magistrato contro un politico. Intanto molti altri esponenti politici sono stati colpiti da provvedimenti giudiziari. Il capogruppo del Pd in Regione addirittura arrestato e poi messo ai domiciliari, e ci sono voluti mesi perché, anche lì, accorresse la Cassazione a ripristinare la legalità e a scarcerarlo. Un altro importante dirigente del Pd, Nicola Adamo, cosentino, è stato giorni fa cacciato dalla Calabria, cioè mandato in esilio fino alla fine della campagna elettorale. Accusa molto molto generica: traffico di influenze. Adamo era l’elemento più importante della campagna elettorale di Oliverio. È stato a quel punto che Oliverio ha deciso di rinunciare alla candidatura e di lasciar via libero a Callipo, più gradito ai magistrati. Occhiuto invece ancora non ha deciso, ma tutto lascia credere che anche lui si ritirerà. Possiamo dire che a parte i Cinque Stelle, che però non hanno possibilità di vincere, è stata la magistratura a decidere la griglia di partenza per la corsa alla conquista della regione. Jole Santelli, del centrodestra sfiderà Pippo Callipo, sostenuto dal Pd. E possiamo anche dire che i partiti, di sinistra e di destra, sono stati abbastanza mansueti in questa circostanza. Hanno subito in silenzio l’attacco della magistratura, gli arresti, le misure di confino, le condanne preventive all’esilio. In un clima che ricorda molto quello degli anni trenta. I partiti non si sono ribellati ai Pm. Possiamo anche dire che queste elezioni regionali si svolgeranno al di fuori di qualunque meccanismo democratico (oltretutto i partiti hanno evitato le primarie) e probabilmente anche di qualunque quadro di legalità. Per questo ci piacerebbe molto se il dottor Callipo si convincesse che se va a fare il governatore della Calabria pensando che la politica è come la mafia - qualcosa da radere al suolo, da sconfiggere - non farà un buon servizio alla Calabria. Speriamo che si accorga di avere detto una cosa molto sbagliata, e che si corregga. Calabria. “Liberi di scegliere”, una legge per riaffermare il progetto corrieredellacalabria.it, 27 dicembre 2019 Appello di Libera e Agape. “Necessario dare continuità anche dopo il trasferimento del presidente Di Bella”. “Dopo la grande manifestazione di Vibo di gratitudine alla magistratura ed alle forze dell’ordine per l’azione di bonifica avviata nel territorio calabrese oggi più che mai per non vanificare questo lavoro servono scelte politiche ed educative per contrastare il ricambio generazionale nelle file delle mafie”. Lo chiedono con forza Libera e il Centro Comunitario Agape che hanno organizzato un incontro per chiedere che sia rilanciato il programma Liberi di scegliere che il presidente del Tribunale per i minorenni Roberto Di Bella ha voluto raccontare in un libro che ripercorre i suoi vent’anni di servizio nella comunità reggina. Per l’associazione Libera e per il Centro Comunitario Agape, che hanno condiviso il lavoro che ha dato l’opportunità a tanti minori che vivevano in contesti familiari di ‘ndrangheta di rompere con i clan di appartenenza e fare delle esperienze significative di crescita e di responsabilizzazione, sarà questa l’occasione per ribadire “quanto sia importante che questa sperimentazione non si interrompa a seguito del prossimo trasferimento per fine mandato del presidente Di Bella”. “Una continuità - chiedono Libera e Agape - che dovrà essere assicurata sia da chi succederà nella titolarità di questo importante ufficio giudiziario, sia dalla rete sociale che a livello locale e nazionale è stata di supporto al programma Liberi di Scegliere. Accanto a questo servirà soprattutto una normativa che dia una cornice legislativa ed una sistematizzazione a questo modello innovativo d’intervento sui minori ritenuto anche dal Csm esemplare e che il presidente di Libera don Luigi Ciotti da anni chiede. Una legge che si auspica possa avere l’adesione di tutti i gruppi politici e che preveda linee guida omogenei per tutto il territorio nazionale e soprattutto investimenti adeguati in termini di risorse professionali ed economiche”. Su questi temi si confronteranno: Mimmo Nasone per l’associazione Libera, Giuseppe Marino per le camere Minorile della Calabria, Patrizia Surace Giudice Onorario e Roberto di Bella Presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria. Concluderà l’incontro Dalila Nesci, firmataria del disegno di legge Liberi di scegliere. Coordinerà i lavori Mario Nasone presidente del Centro Comunitario Agape. L’appuntamento è per lunedì 30 dicembre alle 15.30 nel salone delle udienze del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Siracusa. Detenuto suicida in cella alla vigilia di Natale, aveva 26 anni di Gaetano Scariolo blogsicilia.it, 27 dicembre 2019 Si è tolto la vita nella sua cella, nel carcere di Cavadonna, Dmytro Steblovskyi, un ventiseienne ucraino. Secondo alcune fonti, il giovane era stato arresto per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In particolare, sarebbe stato al timone di una barca salpata da un porto della Turchia per raggiungere le coste della Sicilia. Il suicidio si è verificato la vigilia di Natale ed a darne notizia è stato Pino Appren­di presidente di Ant­igone Sicilia. “Pare fosse in attesa della sentenza di appello. É? la 52esima persona che si suicida in carcere in Italia. Il carcere rimane un posto dove invece di pensare al recupero umano si persevera ad applicare pratiche punitive”. “Strutture fatiscenti e inesistenti percorsi di reinserimento”, ha affermato il Garante Nazionale dei detenuti Mauro Palma, a seguito della visita alle carceri siciliane. “La salute mentale - dice Pino Apprendi - rimane uno dei più grandi problemi irrisolti. Finché? non si abbatte il muro di omertà, che vige sulle condizioni carcerarie, assiste­remo impotenti a continui atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Gli osservatori delle carceri di Antigone continueranno? il proprio lavoro di visite nelle carceri,? denunciando le “anomalie” tutte le volte che ne verranno? a conoscenza”. Sulla vicenda è intervenuta il dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni. “Si tratta di una tragedia - dice Bongiovanni - che scuote tutti noi. Qui non c’entra la carenza di personale, purtroppo quando una persona subisce un crollo nervoso e decide di farla finita è difficile fermarla, specie quando non si avvertono sintomi”. Dalle informazioni in possesso al Sippe, il giovane ucraino partecipava alla attività del carcere ma evidentemente è accaduto qualcosa, forse la sua permanenza in carcere in un periodo di festa gli avrebbe provocati gravi scompensi. Firenze. “Sollicciano sovraffollata, troppi detenuti in poco spazio” La Repubblica, 27 dicembre 2019 La denuncia di Massimo Lensi, presidente di “Progetto Firenze”: “Siamo al 158 per cento della capienza e oltre 6 reclusi su 10 sono stranieri”. Di nuovo un allarme per il sovraffollamento del carcere fiorentino di Sollicciano. Molte delle celle, o “camere di pernottamento” che in agosto erano inagibili sono state ripristinate, così la capienza regolamentare è salita a 494 (in condizioni ottimali sarebbe di 500). L’indice di sovraffollamento riscontrato nell’istituto è pari a 155% nel settore maschile e a 195% in quello femminile, dato che il carcere di Sollicciano è l’unico istituto toscano con una sezione femminile in funzione. “Il problema del sovraffollamento di Sollicciano continua a essere ignorato”, denuncia Massimo Lensi, presidente di Progetto Firenze, “nonostante ciò renda afflittiva la pena per chi vi è ristretto e appesantisca enormemente il lavoro di quanti, a partire dalla direzione e dal corpo di polizia penitenziaria, si trovano costretti a fare l’impossibile per gestire una situazione sempre al limite dell’emergenza”. “La presenza di ben quattro bambini nel nido interno del carcere con le loro madri detenute è il sintomo evidente di un malessere generale che ancora una volta dobbiamo segnalare”, sottolinea Lensi. “A Firenze si attende ormai da tempo l’apertura dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) o di una casa famiglia protetta. Le procedure sono partite dieci anni fa, e tra alterne vicende sembravano arrivate a conclusione l’anno scorso. Invece, ancora oggi tutto tace”. E proprio oggi, 26 dicembre, la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato pranzi nelle carceri di tutta Italia, comprese quelle di Firenze. La delegazione di Progetto Firenze che, insieme ai consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune, ha visitato il 24 dicembre il carcere fiorentino di Sollicciano vi ha riscontrato una popolazione ristretta di 787 persone, di cui 680 uomini e 107 donne. Anche quattro bimbi, di cui tre di pochi mesi, erano nel nido del carcere insieme alle mamme detenute. L’indice di sovraffollamento nell’istituto è pari al 158% (155% nel settore maschile, 195% nel settore femminile). Tra i 680 detenuti maschi, 414 (60,9%) scontavano una condanna definitiva, mentre tra i 266 (39,1%) detenuti che ancora non avevano una condanna definitiva il 45,1% (120) era in attesa del giudizio di primo grado. Tra le 107 donne detenute, 78 (65%) scontavano una condanna definitiva, 3 risultavano internate, 26 (24%) erano in attesa di condanna definitiva e di queste il 46% (12) in attesa del giudizio di primo grado. Firenze. Le feste a Sollicciano di quattro bambini (con le madri detenute) di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 27 dicembre 2019 Il progetto della casa per le madri detenute, la palazzina donata. E poi più niente. Natale in carcere per quattro bambini, tre di pochi mesi, uno di due anni e mezzo. E tutto questo perché la promessa di una casa per le madri detenute non si è mai realizzata, nonostante dieci anni di annunci e una palazzina già a disposizione. Lo denuncia “Progetto Firenze”, l’associazione che ha visitato Sollicciano il 24. Quattro bambini stanno passando le feste dentro il carcere di Sollicciano, insieme alle loro madri detenute. Tre di loro hanno pochi mesi di vita. Un altro ha due anni e mezzo. Trascorrono il tempo tra l’asilo nido, la ludoteca e il letto, sempre circondati dalle sbarre del penitenziario fiorentino. A denunciare la situazione dei piccoli reclusi è l’associazione Progetto Firenze che, insieme ai consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune, ha visitato Sollicciano il 24 dicembre. “A Firenze - ha detto Massimo Lensi, presidente di Progetto Firenze - si attende ormai da tempo l’apertura dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam). Le procedure sono partite dieci anni fa, e sembravano arrivate a conclusione l’anno scorso. Invece ancora oggi tutto tace”. Risale al 2010 la firma di un protocollo d’intesa per la realizzazione dell’Icam, nella palazzina di Rifredi che la Madonnina del Grappa donò a titolo gratuito alla Società della Salute. Al tavolo dell’intesa c’erano anche Ministero della Giustizia, Tribunale di Sorveglianza, Istituto degli Innocenti e Regione Toscana, che stanziò quasi 700mila euro per i lavori edilizi. Da allora sono passati dieci anni. E dell’Icam nemmeno l’ombra. “Abbiamo concesso la struttura per un progetto umanitario che non si è mai concretizzato” dice con amarezza don Vincenzo Russo, direttore della Madonnina del Grappa e cappellano a Sollicciano. Tra i tanti cavilli che hanno bloccato l’inizio dei lavori, sembra esserci quello di un errore tecnico nella gara d’appalto, che si è dovuta ripetere. Per accelerare, poche settimane fa, dalla Madonnina del Grappa sono partite lettere ufficiali alle istituzioni coinvolte nel progetto: “Nessuno ha risposto, tranne la Società della Salute” ha detto don Russo. Tanti, nel corso degli anni, i politici che hanno rivendicato l’utilità dell’Icam. Nel 2013 fu l’ex ministro della giustizia Annamaria Cancellieri, in visita a Sollicciano, a garantire, entro un anno, l’inaugurazione della struttura. “L’Icam è ormai in fase di realizzazione”. Parole d’orgoglio arrivarono anche dall’ex sindaco Matteo Renzi: “Noi siamo stati i primi in Italia ad aver fatto l’Icam”. Nel corso della visita a Sollicciano di Progetto Firenze, è stato inoltre rilevato il sovraffollamento del carcere, pari al 158%. Attualmente sono recluse 787 persone, di cui 680 uomini e 107 donne. Bologna. L’allarme di Camera penale e Osservatorio: solo 30 scarcerati con i dispositivi di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 27 dicembre 2019 Circa 300 detenuti potrebbero lasciare il carcere grazie al braccialetto elettronico. I penalisti: “C’è un educatore ogni 150 detenuti, il ministero dovrebbe intervenire altrimenti parlare di rieducazione è pura ipocrisia. Situazione allarmante in infermeria” Ausl e Dap. La situazione è “allarmante soprattutto nelle sezioni Infermeria e Nuovi giunti”, spiega Ettore Grenci, segretario della Camera penale di Bologna. Qui i detenuti rischiano di restare anche fino a 6 mesi in attesa dell’assegnazione a una sezione. “In Infermeria ci sono stanze da 6 letti, non c’è alcuna socialità né attività e le celle restano chiuse per molte ore al giorno perché appunto non è una sezione comune, molti fumano, l’aria è irrespirabile”. Solo 14 detenuti su 41 presenti al momento della visita avevano bisogno di cure. Ancora una volta parlano i numeri: al 9 dicembre alla Dozza erano presenti, a fronte di una capienza di 500 posti, 870 di cui 604 definitivi, cioè con sentenza passata in giudicato, e 266 in misura cautelare o con una sentenza di primo grado. Questi ultimi potrebbero accedere ai domiciliari se vi fosse disponibilità sufficiente di braccialetti, tra i definitivi potrebbe accedervi chi ha una pena residua uguale o inferiore ai 2 anni. L’appalto affidato dal Viminale nel 2017 per un totale di 19 milioni 152mila euro, vinto da Fastweb (mandataria) e Vitrociest, prevedeva la fornitura di un migliaio di apparecchi al mese con 36 mesi di manutenzione. “Abbiamo inviato una mail a Fastweb per conoscere le dotazioni per distretto - spiega l’avvocato Rosa Ugolini - ma non abbiamo ricevuto risposta”. Poi c’è la cronica scarsità di educatori: 4 su una pianta organica di 12, vuol dire 150 detenuti per ogni educatore. “Questo dato è gravissimo - denuncia Grenci - è su questo che il Ministero dovrebbe intervenire perché allora parlare di rieducazione della pena è pura ipocrisia”. E i mali non finiscono qui: nel primo piano giudiziario (187 detenuti comuni, più del doppio della capienza del braccio con una proporzione di 3 italiani ogni 50), la maggior parte dei presenti sono tossicodipendenti, “i detenuti si sono ingegnati mettendo delle bottiglie di plastica sotto i materassi per avere un po’ di spessore”. La situazione è tale che, scrivono ancora gli avvocati, l’ispettore che accompagnava la delegazione nella visita ha sconsigliato di accedere al braccio per “la pericolosità”. Nonostante ciò, sottolinea l’avvocato Grenci, “la polizia penitenziaria e la direzione del carcere fanno quello che possono per tendere a bada una situazione esplosiva”. Torino. “Gruppo di lavoro” sulla giustizia di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 27 dicembre 2019 Giudici e pm: “Ragioniamo su parametri uniformi” per convalide degli arresti e direttissime. Da qualche mese, un gruppo di magistrati di palazzo di giustizia - pubblici ministeri, giudici del dibattimento e della sezione Gip - hanno dato vita a un “gruppo di lavoro” per discutere e confrontarsi sulle modalità delle convalide degli arresti in flagranza, sulle direttissime e su tutti quei problemi che assediano la prima linea della giustizia penale. Al 30 novembre - i dati di dicembre sono in via di elaborazione - sono state fatte 1.432 direttissime; e 1.823 convalide davanti al gip. In confronto al 2014, cioè cinque anni fa, significa un’impennata, rispettivamente del 25,5 e del 23,3 per cento. Basta questo dato per capire quanto la situazione sia delicata. Da qualche mese, un gruppo di magistrati di palazzo di giustizia - pubblici ministeri, giudici del dibattimento e della sezione gip - hanno dato vita a un “gruppo di lavoro” per discutere e confrontarsi sulle modalità delle convalide degli arresti in flagranza, sulle direttissime e su tutti quei problemi che assediano la prima linea della giustizia penale. Vista l’assenza recidiva di un indirizzo legislativo, figurarsi di credibili riforme, chi si occupa del settore tenta insomma di migliorare la situazione. Ormai delicata, da anni, come testimoniato dai numeri dell’ufficio arresti della Procura: al 30 novembre - i dati di dicembre sono in via di elaborazione - sono state fatte 1.432 direttissime; e 1.823 convalide davanti al gip. Confronto a cinque anni fa (2014), significa un’impennata, rispettivamente del 25,5 e del 23,3 per cento. Va da sé, è un trend già di per sé complicato da gestire, e che sempre più lo sarà. “Vogliamo cercare di fare un ragionamento collettivo - spiega uno dei magistrati che partecipa al gruppo - per identificare parametri comuni con cui lavorare”. L’obiettivo è anche quello di “una riflessione sulle esigenze reali di sicurezza, sugli strumenti e sulle difficoltà, esaminando i punti di vista di chi gestisce la giustizia e chi deve invece garantire la sicurezza, come le forze di polizia”. Per questo, l’intenzione del “gruppo di lavoro” sarebbe, in un futuro, di allargare il confronto con i rappresentati della polizia giudiziaria e gli avvocati: “Perché questo è un tema che riguarda tutti”. Del resto, in caso di arresti in flagranza, obbligatori o facoltativi, può capitare di tutto. Qualche giorno fa, per esempio, erano finiti in manette due stranieri, bloccati mentre cercavano di sfondare la porta di un appartamento. Dunque, arrestati con l’accusa di tentato furto. Solo che, in sede di convalida, e direttissima, si erano difesi dicendo che erano due senzatetto, che quella casa non era abituata da un anno, e che loro cercavano solo un posto dove poter dormire. Fosse così, l’episodio sarebbe una tentata violazione di domicilio, che non consente l’arresto, come invece il tentato furto in appartamento. E al giudice tocca decidere, senza quegli elementi che sarebbero potuti essere acquisiti facilmente: chiedendo ai vicini, o rintracciando l’amministratore. Succede anche di ritrovare in direttissima persone con problemi psichici, per reati come il danneggiamento o la resistenza: così rischiano di finiscono in carcere per settimane, in attesa della perizia. Un problema ancora più grave tra gli stranieri, privi di qualsiasi cartella clinica. Ragionare s su questi casi non significa “tutti fuori”, ma solo fare meglio il proprio lavoro. Torino. Dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi cuneodice.it, 27 dicembre 2019 Con il garante dei detenuti Bruno Mellano interverrà una rappresentanza dei dodici Garanti comunali piemontesi: il Piemonte è l’unica regione ad averne designato uno per ciascuna città sede di penitenziario. Cogliere l’occasione dei classici bilanci di fine anno per segnalare le principali criticità dei tredici Istituti penitenziari piemontesi e dell’Istituto penale minorile e lanciare proposte per il nuovo anno, ormai alle porte. È quanto si propone la conferenza stampa di presentazione del Quarto dossier delle criticità strutturali e logistiche, elaborato dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti, che si tiene lunedì 30 dicembre alle 11 nella Sala delle bandiere di Palazzo Lascaris, in via Alfieri 15, a Torino. Il documento verrà poi indirizzato al capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte Pietro Buffa e ai referenti politici del Ministero di Giustizia. Con Mellano interviene una rappresentanza dei dodici garanti comunali piemontesi: il Piemonte, infatti, è l’unica regione italiana ad averne designato uno per ciascuna città sede di carcere. Torino. Donazioni a favore del Fondo Musy per parlare di carcere nelle scuole diocesi.torino.it, 27 dicembre 2019 Il Fondo Alberto e Angelica Musy lancia una raccolta fondi per proseguire il tour teatrale “Game Over: per un nuovo inizio” nelle scuole e parlare di carcere a 1.500 ragazzi. E in questo modo parlare agli adulti di domani di seconde opportunità, riscatto, ma anche di errori, speranze, voglia di partecipare. Il Fondo Alberto e Angelica Musy crede nel reinserimento sociale delle persone detenute grazie allo studio e al lavoro e coltiva un grande sogno: dimostrare che nella vita vale sempre la pena dare e darsi una seconda opportunità. Dalla sua istituzione nel 2014 il Fondo sostiene 14 borse lavoro per altrettanti detenuti studenti del Carcere di Torino, ha scritto e prodotto lo spettacolo teatrale “Game Over: per un nuovo inizio”, ha realizzato 18 repliche di “Game Over” incontrando circa 2.500 studenti, organizza eventi di raccolta fondi e porta a conoscere la realtà del carcere artisti di primissimo piano (Paolo Conte nel 2016, Stefano Bollani nel 2018, Neri Marcorè nel 2019). Con i fondi raccolti il Fondo porterà in tour lo spettacolo teatrale “Game Over: per un nuovo inizio” scritto e interpretato da Elisabetta Baro e Franco Carapelle dell’Associazione Teatro e Società, con intermezzi di improvvisazione rap a cura di Alp King. In Game Over, le storie del carcere, degli errori commessi e la forza di chi si impegna per ripartire guidano i giovani spettatori in una riflessione dentro sé stessi, sul futuro e sui sogni da realizzare. Ai donatori (è possibile donare qualsiasi importo) verrà fatto un dono. Tutte le informazioni su http://sostieni.link/23520 Trento. Cooperazione internazionale, via le barriere di M. Pilati e altre 53 persone Corriere del Trentino, 27 dicembre 2019 L’intervento Centro per la cooperazione internazionale. Siamo un gruppo di persone che in questi anni ha usufruito dei servizi del Centro di cooperazione internazionale. Un’esperienza che non va chiusa. Siamo un gruppo di persone rappresentanti di associazioni e organizzazioni che in questi anni a vario titolo hanno partecipato, collaborato e usufruito dei servizi del Centro per la Cooperazione Internazionale (Cci) di Trento. Siamo fortemente preoccupati per la complessa situazione in cui si trova il Centro a seguito della decisione della giunta provinciale di tagliare i fondi a esso destinati. La Provincia, socio e principale finanziatore del Cci, si è infatti dimostrata indisponibile a cercare un accordo per la rinegoziazione dei radicali tagli di budget decisi per il prossimo triennio. Questo ha portato alle dimissioni del presidente Mario Raffaelli e alla decisione da parte del direttivo del Centro di avviare una procedura di licenziamento collettivo di 12 persone. Esprimiamo la nostra più completa solidarietà alle collaboratrici e ai collaboratori del Cci che vedono messo in forse il loro lavoro. È soprattutto grazie al loro lavoro se in questi anni il Centro è potuto diventare un riferimento importante a livello internazionale su tematiche come cooperazione allo sviluppo, l’educazione alla cittadinanza globale, il sistema Europa e i diritti e la libertà di stampa in essa. Lavoro che ha portato lustro e fatto crescere anche il nostro territorio. E proprio per l’importanza che ha il Cci siamo estremamente preoccupati perché, oltre alla vicinanza “umana” e professionale per la perdita di posti di lavoro, si apre la via a un inesorabile smantellamento del Centro stesso. Il Cci rappresenta un concreto spazio di incontro e di lavoro per vari soggetti interessati alla cooperazione internazionale e alle forme di sviluppo capaci di far crescere sia il nostro territorio che quelli in cui si sceglie di agire. Uno sviluppo capace di valorizzare le specificità della nostra terra, le esperienze delle nostre variegate comunità e di contribuire a una loro apertura al mondo. Un luogo di riferimento provinciale, nazionale e internazionale per la formazione, l’analisi la promozione e la produzione della conoscenza su temi come diritti umani, pace, economia solidale e cooperazione internazionale, integrazione europea e della promozione dello sviluppo umano sostenibile. Un luogo di promozione del lavorare in rete tra soggetti trentini, nazionali e internazionali. Un luogo di analisi, informazione, formazione, sensibilizzazione e conoscenza dei complessi scenari internazionali con un’attenzione particolare alle aree di interesse per il nostro territorio cercando al contempo di rafforzare le capacità di studenti, cittadini e attori territoriali nel misurarsi tra dinamiche locali e globali. In questi anni il Centro ha contribuito notevolmente a migliorare la qualità del sistema di cooperazione internazionale del Trentino e la sua professionalizzazione con attività di consulenza, valutazione e monitoraggio iniziando anche a coinvolgere imprese interessate a investire nello sviluppo economico in ambito di cooperazione internazionale. Ed è da queste riflessioni che continuiamo a essere convinti che il Cci possa dare ancora molto al nostro territorio, diventando sempre più un valido strumento di supporto per le politiche trentine e per contribuire a dare prestigio al nostro territorio garantendogli al contempo “l’apertura al Mondo”, certamente non ingenua, di cui c’è necessità in questi tempi. Come continuiamo a essere certi che vada salvaguardato quel patrimonio importante che si costruisce sulle organizzazioni che si occupano di cooperazione internazionale, di aiuti concreti qui e lì e che nel Centro trovano uno spazio di sostegno, riflessione, crescita. Ci associamo quindi all’appello rivolto in questi giorni da dipendenti del Cci e sindacati ai soci del Centro stesso: Provincia, Università, Comuni di Trento e Rovereto, Fondazione Campana dei Caduti “affinché si assumano un impegno concreto rispetto al futuro del Cci e delle sue lavoratrici e lavoratori”. Preoccupati ci rendiamo però sempre più conto che il Cci è solo una parte di un modello di territorio “aperto all’altro” che evidentemente non ha ancora trovato interesse nel nostro governo, in questo momento. Siamo preoccupati perché questo clima di muro contro muro non aiuta nessuno, non sono tecnicismi le persone che possono perdere il posto di lavoro, non possiamo esserne indifferenti e purtroppo qui non ci sono infatti solo in ballo i posti di lavoro del Centro, a breve varie nostre associazioni saranno costrette a ridimensionare le proprie strutture e azioni a causa dei tagli al sistema di cooperazione allo sviluppo. Ma molto ancora si può fare assieme, se prevale la buona volontà e la voglia di un ascolto reciproco tra Provincia e mondo della cooperazione, che ribadiamo a gran voce cresce e opera per sostenere la nostra terra trentina che da sempre è stata solidale e capace di farsi carico anche delle sofferenze lontane. Auspichiamo quindi una riflessione generale sul “Trentino che vogliamo” partendo proprio dal fondamentale contributo che l’apertura al mondo può dare al nostro stesso territorio. Chiediamo a gran voce anche al nuovo assessore alla cooperazione allo sviluppo Gottardi di sedersi insieme a noi, alle donne e uomini del Centro per trovare insieme una nuova soluzione. Facciamolo insieme anche ad altre istituzioni, chiesa, università, imprese e tutti i soggetti disposti a dialogare sul nostro futuro, per individuare le preziose specificità e i punti di forza dell’esperienza trentina e, nel contempo, individuare assieme elementi di innovazione da studiare e sviluppare, capaci di rendere più efficace il settore e di capitalizzare il suo contributo allo sviluppo del territorio. Possiamo dire che il mondo della cooperazione saprà responsabilmente fare la propria parte per quel bene comune che chiamiamo Trentino capace di aprirsi a uno sguardo attivo al mondo nel solco della giustizia sociale e della solidarietà. Roma. Comunità di Sant’Egidio, il pranzo di Santo Stefano con i detenuti di Regina Coeli La Repubblica, 27 dicembre 2019 Dopo il tradizionale appuntamento natalizio con i poveri dentro Santa Maria in Trastevere, feste e distribuzioni di regali in oltre di 30 istituti penitenziari in tutta Italia. Oggi a Regina Coeli la Comunità di Sant’Egidio ha accolto a pranzo un centinaio di detenuti, mentre lasagne, polpettone e regali sono stati offerti in tutte le sezioni del carcere. Giunto alla decima edizione, il “pranzo di Santo Stefano” nel carcere romano è divenuto oramai una tradizione che dà il via a una serie di iniziative di solidarietà nelle carceri di tutta Italia. Fino all’Epifania feste e distribuzioni di regali si svolgeranno in più di 30 istituti penitenziari e raggiungeranno migliaia di detenuti. Ieri oltre 60 mila persone in Italia e 240 mila in tutto il mondo hanno partecipato ai Pranzi di Natale con i poveri, amici della Comunità di Sant’Egidio. A ritrovarsi insieme, seduti alla stessa tavola, a partire dalla Basilica di Santa Maria in Trastevere - dove iniziò questa tradizione nel Natale del 1982 - tante persone diverse tra loro: dai senza fissa dimora ai rifugiati venuti con i corridoi umanitari in Europa, dagli anziani soli alle famiglie in difficoltà, fino ai bambini di strada e ai poveri che vivono nelle grandi bidonville dell’Africa e dell’America Latina. In Italia sono state coinvolte oltre cento tra grandi e piccole città, tra cui Roma, Napoli, Genova, Messina, Milano, Bari, Firenze, Torino, Novara, Padova, Catania, Palermo, Trieste: “Qui viviamo la gioia di tante solitudini che diventano famiglia - ha commentato il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo. Perché nessuno deve essere messo da parte in questo giorno di Natale e ognuno, chi serve e chi è servito, può guardare con speranza al suo futuro: chi serve e chi è servito”. A Santa Maria in Trastevere, dove in rispetto dell’ambiente l’apparecchiatura era completamente plastic free, hanno contribuito in tanti alla realizzazione del pranzo, compresa la Comunità Ebraica che ha offerto piatti di lasagne kosher. Oltre al parroco don Marco Gnavi, erano presenti tra gli altri, anche i cardinali Walter Kasper e Michael Czerny, il vescovo ausiliare di Roma Est, monsignor Gianpiero Palmieri, l’assessore a Persona, Scuola e Comunità Solidale del Campidoglio, Veronica Mammì, e il nunzio della Santa Sede in Italia, monsignor Emil Paul Tscherrig, che ha portato gli auguri di Papa Francesco. Hanno partecipato al pranzo anche i rifugiati giunti dall’isola greca di Lesbo lo scorso 4 dicembre, grazie ad uno speciale corridoio umanitario dell’Elemosineria Apostolica e della Comunità di Sant’Egidio. Roma. La Consigliera regionale Marta Bonafoni in visita all’Ipm di Casal del Marmo di Alessio Vallerga terzobinario.it, 27 dicembre 2019 “Far visita a un carcere minorile è un’esperienza tutta diversa dal far visita a un carcere qualsiasi. Ieri, nel giorno di Santo Stefano, con Alessandro Capriccioli sono stata al minorile di Casal del Marmo: la visita ai laboratori, la palestra, il campo da calcio in erba sintetica, il teatro, le aule dove i ragazzi e le ragazze frequentano le elementari e le medie e poi l’alberghiero e l’agrario, la biblioteca, la sala col ping-pong e il biliardino. I tre caseggiati dove dormono rispettivamente i ragazzi dai 14 ai 18 anni, quelli dai 18 ai 25. E quello dove stanno tutte insieme le ragazze”. Così Marta Bonafoni, consigliera regionale, in un post su Facebook. “Stanze con scritte su muri che parlano, almeno tanto quanto i cognomi dei ragazzi: figli delle grandi famiglie criminali di Ostia, Tor Bella Monaca, Primavalle, giovani romani che qui stringono legami con i loro coetanei nordafricani o addirittura improvvisano amori da una sbarra all’altra delle finestre da cui li guardano le ragazze rom. Sarebbero tantissime le cose da raccontare - ha continuato - dal centralino che va rinnovato altrimenti salta e non permette loro di telefonare a casa quanto vorrebbero, alle palazzine delle stanze fredde e umide che richiederebbero lavori di ristrutturazioni urgenti, al personale che è troppo poco e questo comporta più stress per gli agenti e meno possibilità di fare attività sorvegliata per i minori”. “Mi limito qui invece a dirvi della “possibilità” che ho intravisto a Casal del Marmo, quella del recupero vero del detenuto, obiettivo tanto più importante visto che si tratta di giovani che si stanno formando in mezzo al bivio dell’adolescenza - ha proseguito - questa possibilità ieri per me ha preso la forma di un suono, che non avevo mai sentito prima entrando nelle altre carceri: il suono delle risate dei ragazzi e delle ragazze, che parlando con noi hanno indugiato in racconti i primi e frivolezze le seconde. Esattamente come avrebbero fatto dei loro coetanei fuori da lì. E questa possibilità ieri per me ha preso anche la forma di un odore, anzi degli odori. Non succede nelle altre carceri di sentire un odore, c’è una sospensione di tutto anche di quello: ieri invece in palestra c’era odore di palestra, in biblioteca un buonissimo odore di libri, nelle stanze addirittura un odore di pulito”. “A Casal del Marmo ho intravisto insomma una traccia di “umanità”, esattamente quella su cui dovrebbe scommettere il sistema della giustizia di un Paese civile. Uno degli ospiti l’ha anche scritto sul graffio di un muro: “Sono un ragazzo, non soltanto un detenuto”. Criminale - ha terminato - è chi non investe fino fondo su questo”. Pavia. Pranzo cucinato dai detenuti per 400 persone povere o sole di Manuela Marziani Il Giorno, 27 dicembre 2019 Servito a Pavia nelle cripte di San Michele e San Luca dalla comunità di Sant’Egidio. Quattro portate d’antipasto, un primo, due secondi con contorno, dolci, spumante e caffè. È stato un pranzo quasi stellato quello che i detenuti della Sezione protetti di Torre del Gallo hanno preparato a Natale per le 400 persone povere o sole della città. Dopo aver frequentato un corso di cucina, si sono cimentati nella preparazione di un pasto molto speciale servito nelle cripte di San Michele e San Luca dalla comunità di Sant’Egidio. “Mia figlia, mio genero e mia nipote servono ai tavoli - ha raccontato un’anziana - per stare con loro ho deciso di pranzare in chiesa così ho potuto chiacchierare con persone che arrivano da Paesi diversi”. Una donna marocchina, madre di 6 figli che vive a Pavia da 24 anni, infatti, ha voluto essere presente per festeggiare insieme ai suoi amici della scuola di pace. Un ex studente dell’Ateneo pavese che oggi lavora a Sondrio ha deciso di tornare per riabbracciare gli amici proprio nel giorno di Natale e seduti ai tavoli non mancavano persone che indossavano gli abiti tradizionali della loro terra, come si è soliti fare in un’occasione importante. Alla fine ogni ospite se ne è andato con un regalo personalizzato e nel cuore il calore del Natale. Cagliari. La messa di Arrigo Miglio, il 25 dicembre nel carcere di Uta L’Unione Sarda, 27 dicembre 2019 L’atmosfera natalizia entra anche in carcere. Un po’ di mestizia è inevitabile, per chi magari vorrebbe passare il 25 dicembre in compagnia dei familiari, ma l’area del Natale riesce a penetrare anche le mura di un penitenziario. Come quello di Uta, dove la messa celebrata dall’amministratore apostolico di Cagliari Arrigo Miglio è stato un momento toccante di comunione, anche per i carcerati. Prevale anche qui l’atmosfera di gioia del Natale. “Chi è in carcere vive la festa più o meno come viene vissuta fuori: può sembrare strano, paradossale, ma l’atmosfera natalizia arriva anche qui. Attraverso i colloqui con i familiari, l’osmosi che si crea con il personale, così il Natale diventa un momento di gioia e speranza”, spiega Marco Porcu, direttore del carcere di Uta. Nel periodo delle festività vengono incentivati e aumentati i colloqui con la famiglia. “Il fatto che il familiare venga a fare il colloquio il 23, il 24, per dar loro gli auguri fa sentire i detenuti meno lontani dal nucleo”, spiega la vicecomandante degli agenti di polizia penitenziaria del carcere, Barbara Caria. Si cerca inoltre, ove possibile, di permettere ai carcerati di trascorrere parte delle festività con le loro famiglie. Oggi, ad esempio, su 570 detenuti una quarantina sono in permesso premio. E altri ci andranno nel giorno di Capodanno. Poi ci sono i preparativi, e non è detto che i detenuti ne siano esenti. Il Natale 2019 nel carcere di Uta, ad esempio, è stato caratterizzato anche dalla realizzazione di un bellissimo e originale presepe posto all’ingresso della cappella. Fatto solo di mollica di pane, ci hanno lavorato una decina di detenuti per 4 o 5 mesi. “Una mia idea - spiega l’agente Giampiero Murtas - anche per tenere occupati il più possibile i detenuti”. La (vera) “Libia”, di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini recensione di Simona Di Rosa arteonline.biz, 27 dicembre 2019 Tra i vari generi di fumetto non di finzione, il graphic journalism è una delle forme più interessanti, e viene utilizzato da diversi fumettisti italiani e stranieri per raccontare la realtà attraverso le immagini, creando dei reportage che invitano a riflettere e a guardare oltre i classici frame dei sistemi dell’informazione. Libia, uscito alla fine dell’anno per Mondadori nella collana Oscar Ink, è una delle opere più argute del 2019 nel suo genere, soprattutto perché realizzata da due autori che hanno scelto modi e luoghi scomodi per cercare la verità. Francesca Mannocchi, giornalista freelance di grande bravura ed esperienza, ha realizzato reportage, oltre che in Libia, anche in Iraq, Libano, Siria, Tunisia, Egitto, Afghanistan e Yemen. Gianluca Costantini, artista e attivista che qui porge letteralmente la sua mano alla realizzazione del volume, è egli stesso un giornalista a tutto tondo con molti reportage all’attivo (alcuni dei quali raccolti nel libro Fedele alla linea). In Italia la questione libica è argomento dibattuto da più parti, ma da destra a sinistra c’è la scelta abbastanza chiara di non dare profondità storica alla situazione attuale nel Paese, diventato meta di moltissimi africani costretti ad abbandonare le proprie terre in cerca di un futuro migliore. Per capire la Libia bisogna tornare indietro alla Primavera Araba e, ancora prima, al regime di Mu’ammar Gheddafi e ai patti sottoscritti proprio con i Paesi occidentali. Il libro parte dal massacro di Abu Salim (una carneficina avvenuta all’interno di un carcere per oppositori del regime poco prima dello scoppio della rivolta) e passa attraverso interviste, ricerche e ricostruzioni per raccontare cosa stia succedendo all’interno della Libia e quali siano le speranze a molti anni dalla fine della rivoluzione. Anche chi ha contribuito alla liberazione del Paese dalla dittatura è oggi disilluso, afflitto dell’aver accompagnato la Libia nel baratro: un Paese con una moneta che non vale niente, senza acqua e corrente elettrica, dove le prospettive per il futuro sembrano inesistenti e la situazione politica è costantemente appesa a un filo. All’interno del governo - quello delle Nazioni Unite e delle milizie armate che gestiscono il territorio in modo simil-tribale - non esiste giustizia se non quella del più forte, o quella del denaro. Le carceri libiche, retaggio dei patti sottoscritti da Gheddafi con i Paesi occidentali per arginare gli inarrestabili flussi migratori, sono attualmente quanto di più lesivo dei diritti personali possa esistere; esce solo chi può pagare. Quando si parla di scafisti in Italia si tende spesso a sovrapporre questa figura a quella del trafficante di uomini: all’interno del libro si spiega con chiarezza che gli scafisti altro non sono che migranti un po’ più svegli - o che non hanno abbastanza soldi per pagare il viaggio - a cui viene insegnato a guidare il gommone, dotati esclusivamente di un GPS. Quasi mandati a morire. Sono i trafficanti di uomini a guadagnare dal business dei migranti, ma non sono gli unici, né quelli che guadagnano di più. Il reportage, infatti, restituisce chiaramente l’immagine di un Paese che ha fatto degli esseri umani la sua principale leva produttiva, in una sorta di catena alimentare che a cascata dà di che vivere a tutti gli strati della società. I personaggi che l’autrice incontra nel suo percorso rappresentano delle tipologie nella popolazione libica, delle voci che si fanno coro di situazioni comuni. Il lavoro visivo di Gianluca Costantini, insieme alle considerazioni di tipo macro-politico, avvicinano il lettore all’ottimo lavoro d’inchiesta di Francesca Mannocchi, dotandolo di una sensibilità emotiva che è frutto di un utilizzo sapiente della tavola e delle tecniche, ma anche di una vita spesa al fianco degli ultimi e in prima linea per la verità. “Libia”, di Gianluca Costantini e Francesca Mannocchi - Mondadori, Milano 2019 - Pagg. 144, € 18 - ISBN 9788804705536. www.oscarmondadori.it. Italia 2020, dalla giustizia all’immigrazione: che Paese sarà di Diodato Pirone Il Messaggero, 27 dicembre 2019 Per gli italiani il 2019 è stato un anno di passaggio. Il Paese entra nel nuovo anno con un umore depresso, senza passione ma anche senza le punte di cattiveria degli anni scorsi: c’è un po’ meno paura del futuro, un po’ meno attesa per eventi clamorosi ma crescono anche sentimenti amari come la disillusione e la tristezza accompagnati da un leggero aumento della rabbia. Fotografia figli di due diverse spinte: minor preoccupazione per l’invasione degli immigrati ma pochissima speranza che l’Italia esca dalla stagnazione nella quale si è cacciata ormai tanti anni fa. Questo in sintesi il senso di un sondaggio SWG effettuato per il Messaggero nei giorni scorsi messo a confronto con l’analoga ricerca del gennaio 2019. Che l’encefalogramma emotivo degli italiani sia più piatto oggi di quello di inizio anno è dimostrato da voci significative. L’attesa per una svolta (positiva o negativa, non importa) a gennaio era il primo sentimento italiani. A dicembre mantiene la stessa posizione in classifica ma con il 25% in meno di preferenze. Giù del 12,5% anche il sentimento di paura mentre sale di qualcosa la tristezza. Si dimezzano le già esigue risposte a favore della passione. Profilo scialbo. Un profilo sociale così scialbo deriva dalla sensazione che non ci siano segnali seri di ripresa economica alla quale crede solo il 26% del campione degli intervistati contro il 37% di un anno fa e il 43% del dicembre 2017. Gli italiani continuano a segnalare la propria sensazione di scivolamento verso i segmenti meno fortunati della società. Solo l’11% dice di aver migliorato la propria posizione sociale nell’ultimo anno, il 47% si auto-fotografa nella stessa posizione ma il 42% sostiene che la sua condizione sociale è peggiorata. Come accennato, una delle novità più interessanti è il grosso calo della tensione sul fronte dell’immigrazione tornata ai livelli del 2011 dopo il picco del 2017 quando oltre la metà degli italiani rispose che avvertiva tensione fra italiani ed extracomunitari. Insomma l’allarme rientra ma i livelli di attenzione (i preoccupati sono sopra il 40%) restano alti. Secondo gli analisti SWG, inoltre, sale di 4 punti la fiducia nelle forze dell’ordine e a sorpresa (+7 punti anche se si partiva da livelli bassi) nei sindacati. Scende invece il livello di confidenza per la magistratura (per il 64% serve una riforma radicale della giustizia) e per i partiti verso i quali solo il 9% della popolazione mostra stima. Molta delusione si avverte verso il mondo della scuola. Modesta è giudicata la preparazione degli insegnanti poiché su questa voce solo il 54% degli intervistati dà voti superiori al 6. La capacità del sistema scolastico di orientare gli studenti alla vita e al mondo del lavoro ottiene solo il 43% di risposte positive. Addirittura si scende al 30% di giudici superiori alla sufficienza sulla capacità di insegnamento delle lingue. Sulla scuola italiana, insomma, emerge la drammatica necessità di una netta raddrizzata. L’indagine, infine, svela anche una curiosità: il 37% degli intervistati sostiene che la propria vita soffre di ritmi troppo stressanti. Cannabis. La Cassazione: “Coltivazione in casa non è reato” di Anna Maria Liguori Il Messaggero, 27 dicembre 2019 La sentenza epocale è del 19 dicembre scorso. Le Sezioni Unite hanno deliberato che chi produce per uso domestico non commette un atto illegale. Non costituirà più reato coltivare, in minima quantità e solo per uso personale, la cannabis in casa: è la pronuncia epocale delle sezioni unite penali della Cassazione, il massimo organo della Corte. Il 19 dicembre scorso, infatti, è stato deliberato per la prima volta che “non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica. Attività di coltivazione che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante ed il modesto quantitativo di prodotto ricavabile appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Viene propugnata così la tesi per cui il bene giuridico della salute pubblica non viene in alcun modo pregiudicato o messo in pericolo dal singolo che decide di coltivare per sé qualche piantina di marijuana. I kit per la coltivazione dei semi di cannabis sul balcone di casa sono ormai assai diffusi (in alcuni casi si vendono anche su internet) ma fino al 19 dicembre scorso la pratica era del tutto illegale: prima di questa sentenza non c’era mai stata un’apertura vera in questa direzione. La Corte costituzionale in passato è intervenuta più volte sul tema, sposando una linea rigorosa, e così la giurisprudenza ha assunto - dopo alcune isolate sentenze controverse sul tema - una posizione netta. Il principio stabilito era semplice: la coltivazione di cannabis è sempre reato, a prescindere dal numero di piantine e dal principio attivo ritrovato dalle autorità, anche se la coltivazione era per uso personale. Si affermava che “la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti” potesse “valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga”. La Cassazione, adattandosi a quanto chiarito dalla Consulta, ha finora sostenuto che la coltivazione di marijuana, anche se per piccolissime dosi (una o due piantine) è sempre reato, a prescindere dallo stato in cui si trovi la pianta al momento dell’arrivo del controllo. Ora, anche si attendono le motivazioni della pronuncia del 19 dicembre, c’è stato un ribaltamento del principio fin qui stabilito. Sono le sezioni unite penali a mettere un punto fermo dettando un’unica linea e uniformando il trattamento per i coltivatori di “erba” in casa. “Il reato di coltivazione di stupefacente - si legge nella massima provvisoria emessa dalla Corte dopo l’udienza del 19 dicembre - è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”. “Devono però ritenersi escluse - ed è qui il punto di svolta - in quanto non riconducibile all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate i via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Non è reato coltivare cannabis, la svolta della Cassazione di Rita Bernardini* Il Riformista, 27 dicembre 2019 Una sentenza storica da dedicare a Marco Pannella e all’impegno dei Radicali. Ma attenti: non stiamo ancora parlando di legalizzazione. La notizia, bellissima, ci giunge nelle ore in cui in casa radicale abbiamo il cuore straziato per la scomparsa di un militante storico come Lucio Bertè. Proprio stamattina ricordavo la disobbedienza civile (cessione gratuita di hashish) che insieme facemmo in Piazza della Scala a Milano ben 22 anni fa. Fummo assolti a distanza di due anni, insieme a Marco Pannella, “per non aver commesso il fatto”. Decine di disobbedienze civili per le cessioni di hashish o per le coltivazioni di cannabis finite in modo diverso a seconda della città in cui venivano organizzate o, addirittura, a seconda del collegio giudicante del medesimo tribunale a cui venivano assegnate: stesse condotte, ma sentenze diverse; insomma, il caos giurisprudenziale. Oggi. finalmente, le sezioni unite della Cassazione mettono un po’ d’ordine e, ancora una volta, questa ragionevolezza non giunge dal Governo o dal Parlamento, ma dalle giurisdizioni superiori. E, ancora una volta, Marco Pannella ha avuto ragione quando ha suggerito, già molti anni fa. di adire alla Corte Edu, alla Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione tino al Comitato dei diritti Umani dell’Onu per battere l’inerzia del legislatore, laddove siano violati diritti umani fondamentali. Ricordo quando in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ho cercato di far comprendere ai miei colleghi parlamentari l’incongruenza della legge che punisce penalmente chi coltiva marijuana per uso personale, mentre esclude dalla sanzione penale chi - sempre per uso personale - si rifornisce al mercato illegale, cioè quello gestito dalla criminalità più o meno organizzata. Non ci fu niente da fare! La proposta di legge fu accantonata. Del resto, nemmeno i ripetuti pronunciamenti a favore della legalizzazione della cannabis da parte della Direzione Nazionale Antimafia sono serviti a smuovere le diverse maggioranze che si sono succedute nelle ultime legislature: tutti a riempirsi la bocca di “lotta alla mafia”, ma nessuno capace di fare la cosa che veramente darebbe un colpo micidiale alle cosche mafiose e ai cartelli dei narcotrafficanti: la regolamentazione della produzione, della commercializzazione e dell’uso delle sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis. La sentenza della Cassazione è storica perché abbatte un muro che sembrava impossibile scalfire: quello per il quale chi coltivava per sé qualche piantina di marijuana metteva in pericolo il bene giuridico della salute pubblica perché aumentava la provvista in circolazione di materia prima e quindi si creavano potenzialmente più occasioni di spaccio di droga. Questo tabù è caduto, ma attenzione, non stiamo parlando ancora di legalizzazione: per arrivarci, occorre che il legislatore prenda coscienza e allontani da sé quelle ipocrisie che lo hanno paralizzato fino ad oggi lasciando colpevolmente in balia del mercato criminale almeno 5 milioni di consumatori solo in Italia, intasando tribunali e galere, distogliendo le forze dell’ordine da interventi più significativi che quelli di dare la caccia alle piantine coltivate sul terrazzo. Le riviste scientifiche più importanti del mondo ci dicono che l’alcol è molto più pericoloso della cannabis se prendiamo come parametri danno fisico, dipendenza e danno sociale. Uno studio condotto nel 2018 da David Nutt dell’Università di Bristol, pubblicato sulla prestigiosa rivista “The Lancet” ha stilato la classifica della 20 droghe più pericolose mettendo ai primi due posti Eroina e Cocaina, al quinto posto l’alcol e all’undicesimo la cannabis. Pur essendo molto più dannoso della cannabis, in Italia è possibile coltivare la vite e produrre vino “senza autorizzazione”, l’importante è che si tratti di uso proprio, dei propri familiari e dei propri ospiti e a condizione che i prodotti non siano oggetto di alcuna attività di vendita. Io mi auguro che questa sentenza abbia abbattuto un altro tabù, quello dell’ignoranza generata dell’ostracismo dei media nei confronti di qualsiasi ipotesi di legalizzazione: “Il proibizionismo - diceva Pannella più di vent’anni fa - ha necessità vitale del flagello dell’ignoranza”. Questo spiraglio di luce che si intravede lo dedico a lui, a Lucio Bertè, a Laura Arconti (anche lei ci ha lasciato in questo 2019). e a tutti i nonviolenti disobbedienti del Partito Radicale, a cominciare dai malati come Andrea Trisciuoglio, che devono ancora “sbattersi” per consentire a tutti coloro che ne traggono beneficio per la loro patologia di potersi curare con la cannabis. *Partito Radicale Grecia. Natale a Lesbo, tra i ventimila rifugiati del campo di Moria di Massimo Sormonta* Il Manifesto, 27 dicembre 2019 È l’icona di una catastrofe umanitaria, la città di invisibili nata attorno all’hotspot governativo e dove si moltiplicano le tendopoli. Nell’isola dell’Egeo regna l’ingiustizia, e a gennaio la nuova legge si abbatterà sui diritti dei migranti. La Turchia si vede all’orizzonte: un braccio di mare che i gommoni continuano ad attraversare quotidianamente. L’Europa resta un miraggio, perché chi fugge da guerre e fame diventa prigioniero del campo di Moria. Alla vigilia di Natale, mentre il cielo regalava sferzate di vento e la pioggia di notte, i migranti nell’isola del Mar Egeo hanno raggiunto le 20 mila unità. Intorno alla struttura originaria dell’hotspot governativo si sono moltiplicate le tendopoli fra le colline di ulivi. L’ultima zona è nata dopo l’autunno con le migliaia di nuovi sbarchi di singoli, famiglie, minori non accompagnati. E nella settimana fra il 9 e il 15 dicembre - lungo la costa di Skala Sikamineas - erano stati avvistati e poi soccorsi da Light House Relief e Refugee Rescue oltre mille profughi. Una catastrofe umanitaria che sfoglia il calendario, inchioda da sempre i governi di Atene o Bruxelles, scandalizza Papa Francesco. Cristos Christiou, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere (che fuori dal campo ha la clinica), ha gridato recentemente: “Quello che ho visto sulle isole greche è comparabile a ciò che si vede in zone di guerra o colpite da catastrofi naturali. È scandaloso. Frutto della politica deliberata di punizione collettiva inflitta a persone che cercano solo la salvezza in Europa”. Anche dall’Italia arriva la solidarietà attiva. Dal 3 all’8 gennaio tornano a Lesbo gli attivisti della campagna Lesvos Calling che nel Nord Est hanno raccolto indumenti e materiale sanitario. E grazie al crowdfunding con la rete di Banca Etica potranno distribuire un kit con assorbenti igienici biodegradabili, detergenti intimi e biancheria alle donne che rappresentano più di un terzo della popolazione del campo. Dall’alba al tramonto, la vita di questa città invisibile è scandita dalle code davanti ai bagni chimici, alla “gabbia” in cui si distribuiscono i pasti, all’ambulatorio medico o al compound della burocrazia biblica che dovrebbe garantire protezione, permessi e diritti umani. Il paese di Moria, con un migliaio di residenti, sopravvive in quest’eterno disastro. Mitilene, la capitale di Lesbo, dista una decina di chilometri: il bus stracolmo di migranti fa la spola come può; gli altri vanno a piedi. L’intera isola (90 mila abitanti) non può prescindere, nel bene e nel male, dagli “invisibili”, compresi i circa 1.500 all’interno della struttura di Kara Tepe, creata dalla municipalità che ne controlla la gestione. Per i 20 mila “ospiti” di Moria l’immediato futuro si profila ancora più catastrofico. È di pochi giorni fa la rivolta scoppiata all’interno del campo nell’isola di Samos: 8 mila persone, per lo più africane, a fronte di una capienza di 650. Decongestionare le presenze si traduce in trasferimenti (magari proprio a Lesbo), deportazioni nelle caserme di detenzione o addirittura nel rimpatrio dei profughi, anche se “restituirli” a Erdogan rappresenta già una soluzione prevista dall’Unione europea con l’ignobile accordo firmato nel 2016. Ma da gennaio sarà operativa anche la nuova legge greca. Nell’ufficio del Lesvos Legal Center sono più che preoccupati dalla scure che si abbatterà sui diritti di profughi, volontari e ong. A Moria, segnali inequivocabili: la polizia pretende il pass anche da giornalisti e fotografi; le pettorine bianche di alcune ong diventano la security dell’area che si affaccia sulla strada principale; i militari greci rafforzano la loro presenza; i “turisti turchi” stilano rapporti sempre più dettagliati per Ankara. Dal 10 dicembre è detenuto Salam Kamal Aldeen, con passaporto della Danimarca e fondatore di Team Humanity, una ong che fino dal 2015 si preoccupa di salvare chi sbarca e offrire spazi sicuri a donne e bambini. Aldeen era già stato condannato a 10 anni (insieme a tre vigili del fuoco spagnoli) per aver soccorso i profughi; e poi assolto nel 2018. Ora è accusato di rappresentare “un pericolo per la pubblica sicurezza” con l’obiettivo di far scattare l’espulsione dalla Grecia. “Finire in prigione perché soccorritore in un Paese europeo è una delle situazioni più folli che si possa immaginare”, dichiara Helle Blak, presidente di Team Humanity. Intanto nel campo di Moria l’ingiustizia regna sovrana. Un curdo fuma davanti al container dove “abita” da due anni, mentre moglie e figlia sono in un’altra isola. L’anziana palestinese di Gaza è rassegnata a una condizione europea identica all’occupazione della sua terra natale. Il ragazzino siriano maledice la paura del buio, quanto le donne che nel campo non girano quasi mai da sole. Il somalo indica sconsolato a tutti le discariche a cielo aperto, mentre chi attraversa - con o senza scarpe - il rigagnolo tiene in mano una confezione di sei bottiglie d’acqua. Gli afgani si riconoscono grazie al dari o al farsi, dimostrano a volte un inglese più che scolastico, sanno imparare in fretta la lingua della sopravvivenza. Nonostante tutto, non mancano le occasioni di “riconoscimento”. Mosaik Center, aperto dagli attivisti di Lesvos Solidarity, sforna borse, oggetti e creazioni in un laboratorio che trasforma i salvagente della traversata. E gestisce il Pikpa Camp, centro di accoglienza occupato e auto-organizzato da volontari e rifugiati. Il Ristorante Nan ha uno staff di volontari locali e migranti. The Hope Project, associazione inglese, offre la sede come “warehouse” in cui centinaia di persone ogni giorno possono trovare indumenti e beni di prima necessità. E si trasforma in atelier in cui i rifugiati mettono su tela il racconto della loro esperienza. Altre ong - grandi e piccole - garantiscono almeno in parte ciò che la gestione istituzionale del campo non sa assicurare: assistenza medica, psicologica, legale, scolarizzazione per i minori. Ma a Lesbo anche il clima natalizio (in versione greco-ortodossa) non può rimuovere l’ombra inquietante di un lager del Duemila, dove il “popolo dei migranti” che non ha proprio niente da festeggiare. *Progetto senza confini Libia. Conte sente Putin e Al Sisi per una mediazione Onu di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 27 dicembre 2019 Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia un possibile intervento militare in Libia si infittiscono i contatti diplomatici italiani. Giovedì il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ne ha parlato in due colloqui telefonici. Prima una chiamata con il Presidente della Repubblica Araba d’Egitto, Abdel Fattah Al Sisi, poi una lunga telefonata con il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. Erdogan: “A gennaio voto su truppe in Libia” - L’escalation della crisi libica è ormai alle porte. Erdogan ha anticipato un voto in Parlamento a inizio gennaio sull’invio di truppe a sostegno di Tripoli contro le forze del generale Khalifa Haftar. E ha compiuto una visita non annunciata in Tunisia scatenando polemiche. Al punto che la presidenza della Repubblica tunisina, giovedì, ha diramato un comunicato, per precisare che la “Tunisia non accetterà di essere parte di alcuna alleanza o schieramento. Putin: “Risolvere in maniera pacifica” - “La necessità di risolvere la crisi (libica) in maniera pacifica” è stata ribadita nel colloquio Putin-Conte. Almeno secondo quanto riferito dal Cremlino. Il leader russo ha denunciato “interferenze esterne in affari interni” di Tripoli. I due hanno “espresso il loro sostegno nei confronti degli sforzi della comunità internazionale per facilitare il processo intra-libico attraverso la mediazione Onu”. E si sono ripromessi “un aggiornamento costante in considerazione della importanza strategica che la Libia riveste per gli interessi anche italiani”, si fa sapere da Palazzo Chigi. Già alla vigilia di Natale, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, con il quale era già in contatto nelle settimane scorse, per fare il punto sulla situazione libica. Mercoledì mattina Di Maio ne aveva parlato anche con il suo omologo russo, Sergei Lavrov. Secondo indiscrezioni, i ministri avevano discusso dei prossimi passi in vista della conferenza di Berlino, che dovrebbe tenersi nella seconda metà di gennaio. Caso Regeni: “Urgente ripresa della collaborazione” - Secondo quanto precisa in una nota la presidenza egiziana, al premier Conte Al Sisi ha ribadito che l’Egitto sostiene la stabilità e la sicurezza della Libia, e supporta l’esercito libico nella lotta al terrorismo. E anche lui, come Putin, ha stigmatizzato interferenze straniere negli affari interni libici. Ma ha assicurato una “ripresa dei contatti per l’urgente rilancio della collaborazione giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni”. Intanto in Libia si continua a morire. Ieri in tre raid aerei di forze legate ad Haftar su Zawiya tre civili sono stati uccisi e dieci feriti. Tra loro anche donne e bambini inermi. Iran. La lotta di Fariba Adelkhah nel carcere degli ayatollah di Sara Volandri Il Dubbio, 27 dicembre 2019 La ricercatrice accusata di spionaggio. Antropologa di fama mondiale ha passaporto francese. Da ieri è in sciopero della fame e della sete. Rischia la pena di morte. Macron: “liberatela”. Ma il regime non molla. Fariba Adelkhah è un’antropologa franco- iraniana specialista della cultura e religione sciita e direttrice del Centro di ricerca internazionale dei Sciences-Po di Parigi; dallo scorso giugno assieme alla collega australiana Kylie Moore- Gilbert, marcisce nel celebre carcere di Evin, situato a pochi chilometri dalla capitale Teheran. È stata arrestata dai Guardiani della Rivoluzione con la grottesca accusa di “spionaggio” e “attentato alla sicurezza dello Stato”. Se verrà condannata rischia fino alla pena di morte. Da ieri Fariba è scesa in sciopero della fame e della sete per protestare contro una detenzione “ingiusta” e un trattamento totalmente al di fuori del diritto internazionale. “Siamo costantemente sottoposte a tortura psicologica e subiamo ogni giorno delle flagranti violazioni dei diritti umani”, si legge in una lettera inviata al Center for Human Rights in Iran, una Ong che a base a New York. “Fariba ha deciso di non alimentarsi e di non bere più per difendere la sua libertà e la sua dignità” spiega il ricercatore Jean- François Bayart, collega e amico della 60enne. All’inizio di dicembre il presidente francese Macron era intervenuto in prima persona e aveva chiesto la liberazione “immediata” della ricercatrice, definendo “intollerabile” la sua detenzione. Dal canto suo la Repubblica sciita non riconosce la doppia nazionalità ai suoi cittadini e quindi ha liquidato come “un’ingerenza inaccettabile” le richieste dell’Eliseo. Gli acvvocati di Fariba Adelkhah avevano provato a ottenere la libertà provvisoria sotto il pagamento di una cauzione poi regolarmente rifiutata dal tribunale. Sono circa una ventina gli universitari e i ricercatori iraniani con doppia nazionalità attualmente detenuti nelle carceri del paese, tutti con l’accusa di spionaggio e cospirazione contro l’integrità e la sicurezza dello Stato. “La nostra lotta è anche quella di tutti gli studiosi ingiustamente imprigionati in Iran con accuse campate in aria”, conclude la lettera di Adelkhah e Moore- Gilbert. Giappone. Eseguita la condanna a morte di un cittadino cinese ilpost.it, 27 dicembre 2019 La prima di uno straniero negli ultimi 10 anni. In Giappone è stata eseguita la condanna a morte di un cittadino cinese, la prima di uno straniero avvenuta nel paese negli ultimi dieci anni. L’uomo, Wei Wei, 40 anni, era colpevole di aver ucciso nel 2003 durante una rapina una famiglia composta da quattro persone a Fukuoka, città sull’isola di Kyushu. Wei Wei si era dichiarato colpevole, ma aveva detto di aver avuto un ruolo secondario nel crimine. I suoi due complici erano scappati in Cina, dove erano stati arrestati: uno di loro fu ucciso a seguito dell’esecuzione della sua condanna a morte nel 2005, l’altro fu condannato all’ergastolo. La ministra della Giustizia giapponese, Masako Mori, ha detto di aver firmato l’esecuzione di Wei Wei “dopo un’attenta valutazione”: “È un caso estremamente crudele e brutale in cui i membri di una famiglia che viveva felicemente, tra cui un bambino di otto e un bambino di undici anni, sono stati assassinati a causa di ragioni veramente egoistiche”. In Giappone ci sono ancora 110 detenuti in attesa dell’esecuzione capitale: quindici sono stati giustiziati l’anno scorso. Nel paese, ai detenuti in attesa nel braccio della morte viene data la notizia della loro imminente esecuzione il giorno stesso in cui viene eseguita. Mali. A rischio le fondamenta della sicurezza statale di Margherita Liverani losservatorio.org, 27 dicembre 2019 Attacchi terroristici, rapimenti, violenze sessuali, una secessione territoriale: la situazione è critica e i diritti umani non sono garantiti. La problematica situazione odierna del Mali affonda le sue radici nel 2012, quando un gruppo di ribelli ha dichiarato l’indipendenza dell’Azawad, una regione del nord-est del paese, che comprende circa il 60 per cento del territorio nazionale. A causa della cattiva gestione della crisi, due mesi dopo il Presidente ha subito un colpo di stato. L’accordo di pace e riconciliazione in Mali è stato firmato nel giugno 2015 dal gruppo armato Coordination des Mouvements de l’Azawad, ma molti lamentano la lenta attuazione delle sue disposizioni. In effetti, la stabilità politica si è deteriorata, il governo è sempre più debole e ha crescenti difficoltà a garantire la sicurezza della popolazione e i diritti umani fondamentali. Nel periodo agosto 2017 - settembre 2019, l’Onu ha documentato 101 incidenti legati alla sicurezza, in cui sono morte 94 persone; inoltre, nel 2019 si sono verificati quasi 1. 000 episodi di violenza sessuale, circa la metà dei quali attribuibili a gruppi armati. Nella zona meridionale della regione auto-dichiaratasi indipendente Azawad, numerose scuole sono state costrette a chiudere a causa di attacchi terroristici diretti contro edifici e insegnanti. Secondo Alioune Tine, esperto indipendente delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Mali,”la situazione generale ha raggiunto una soglia critica: è tempo di riconoscere l’inadeguatezza delle attuali misure di sicurezza in modo che il Mali possa passare il prima possibile ad alternative più appropriate”. L’Ong Refugees International ha pubblicato un rapporto sulla crisi umanitaria del Mali. Il numero di sfollati interni ha ora raggiunto la cifra allarmante di 200,00, la maggior parte dei quali sono bambini e donne. Inoltre, il numero di persone che devono affrontare l’emergenza alimentare è di 650. 000 e le proiezioni suggeriscono che potrebbe superare il milione entro il prossimo anno. Sabato 14 dicembre, il presidente Ibrahim Boubacar Keita ha ospitato colloqui con 3. 000 rappresentanti di gruppi politici e armati, della società civile, delle associazioni, nel tentativo di trovare un accordo ed eventualmente stabilire una road map comune. Tuttavia, il principale leader dell’opposizione non si è presentato, etichettando il tentativo di Keita come “pura comunicazione politica”.