La riforma contiene tanti buoni propositi. Peccato non risolva i problemi di Marcello Adriano Mazzola* Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2019 Si farà la riforma della giustizia proposta da Alfonso Bonafede? La riforma della giustizia è una priorità per il nostro Paese? Come scrissi ancora mesi fa, tra i principi del cosiddetto “giusto processo” (art. 2, 3, 24 e 111 della Costituzione) vi è quello prezioso della ragionevole durata del processo. Ogni persona ha diritto di avere una risposta in tempi ragionevoli dalla giustizia, tanto nel settore civile quanto, a maggior ragione, nel settore penale, investendo spesso la libertà. Le impietose classifiche internazionali stilate ogni anno pongono l’Italia, quanto alla durata dei processi, negli ultimi posti. Ciò determina inevitabilmente un’instabilità socio-economica e anche culturale, poiché chi chiede giustizia l’avrà tardivamente e i furbi e disonesti ne trarranno beneficio. Oltre a scoraggiare investitori esteri a rischiare in un Paese così tellurico e incerto. Da troppi anni si discute di una riforma della giustizia e finalmente l’attuale Guardasigilli, che insiste anche sulla riforma della prescrizione (entrerà in vigore nel 2020, anche se “censurata” dai penalisti che osservano come proprio l’attuale prescrizione sia il motivo che induce i magistrati a celebrare i processi penali - e che ha pure la contrarietà del Pd), l’ha esibita. Il codice di rito attuale già consentirebbe di definire una causa media anche in soli 6 mesi, ma questo non avviene mai per vari motivi: il carico annuo, anche eccessivo, dei procedimenti in capo al magistrato; l’applicazione consolidata e datata dei magistrati di prassi che ne allunga i tempi dei processi (come quella di fissare un’udienza ad hoc per la precisazione delle conclusioni, invero non prevista, se si legge bene l’art. 189 del codice procedura civile); l’indifferenza a strumenti processuali che consentirebbero di definire rapidamente il processo (conciliazione; art. 281 sexies del codice procedura civile; possibilità di diminuire i termini in generale). Ciò non avviene quasi mai perché imporrebbe una gestione molto accorta del singolo processo, con lo studio approfondito di ogni singolo fascicolo. Il paradosso che si consuma è che la causa viene diluita nel tempo e spesso il magistrato ne prende piena cognizione (con lo studio accorto dell’intero fascicolo e dei verbali) solo quando è chiamato a pronunciarsi. Il ministro Bonafede ha annunciato che “dimezzeremo i tempi dei processi” con una riforma (in particolare) del processo civile che: a. vuole rafforzare i sistemi alternativi di mediazione (già fallimentari, ma in questo caso riducendone i casi di obbligatorietà ai “patti di famiglia, i diritti reali, l’affitto d’azienda, le controversie in materia successoria”) e della negoziazione assistita (altrettanto fallimentare, questo anche a causa dell’avvocatura che non ne ha colto appieno l’opportunità o si rifiuta di coglierla, ma per la quale “si prevede che la relativa convenzione possa comprendere lo svolgimento di attività istruttoria stra-giudiziaria, con l’obiettivo di favorire una soluzione conciliativa della lite e, in caso contrario, di precostituire materiale probatorio, soggetto alla libera valutazione del giudice della successiva causa, con possibili ricadute positive sulla durata di quest’ultime”); b. con lo snellimento dei riti (con un rito unico semplificato che andrà introdotto con il ricorso, che dunque andrà prima depositato presso l’organo giudiziario competente; poi il Presidente assegnerà il giudice, il quale dovrà fissare la prima udienza ma che in assenza di termini ben potrà fissarla pure a 8-12 mesi se non oltre, invece degli attuali 3 che l’attore può fissare già attraverso l’atto introduttivo, ergo l’atto di citazione) e con la previsione della riduzione delle pendenze. Nel settore penale si vuole “migliorare l’efficacia della lotta contro la corruzione, riformando le norme procedurali al fine di ridurre la durata dei processi penali”, anche a mezzo dell’introduzione dello strumento telematico per il deposito degli atti, per le comunicazioni e per le notificazioni a persona diversa dall’imputato, e mediante la revisione della disciplina riguardante le indagini e l’udienza preliminare, i riti alternativi, la celebrazione del dibattimento e le impugnazioni. Ci saranno poi modifiche all’accesso in magistratura, al sistema degli illeciti disciplinari e delle incompatibilità dei magistrati, alle loro valutazioni periodiche di professionalità e al conferimento degli incarichi. Ritenendo il Governo che “la riforma della giustizia in chiave di maggiore efficienza e trasparenza è condizionata dal buon funzionamento del Csm”. Che pensare dunque? Tale riforma cosiddetta civile contiene buoni intenti e dunque non si può certo disprezzare. Ma l’impressione è che non colga due snodi fondamentali imprescindibili: 1. l’organizzazione dei cosiddetti “Tribunali” (dal Giudice di Pace sino alla Corte di Cassazione) che è indispensabile e senza la quale l’efficienza e la celerità non saranno mai recepite; 2. l’assenza di termini perentori per i magistrati, che consentono sempre una gestione del processo ampiamente discrezionale. Abbiate dunque tanta Bonafede. Ma presumo che non basterà affatto. *Avvocato e scrittore Prescrizione, Italia Viva vota un OdG di Forza Italia, ma il testo non passa Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2019 Costa approfitta del dibattito notturno sulla manovra per preparare un “agguato” alla maggioranza che però tiene nonostante il pezzo renziano voti con le opposizioni. Orlando: “Tentativo propagandistico”. Migliore: “Abbiamo avuto pazienza fino a oggi”. Il 7 gennaio il prossimo vertice sulla giustizia, il Pd presenta una sua proposta di legge. Il voto non ha avuto alcun effetto: la maggioranza è riuscita a resistere all’agguato del centrodestra. Ma è l’ennesimo avvertimento di Italia Viva, elemento fuori sincro su molti temi del governo Conte 2. La giustizia è tra questi. Così i renziani nottetempo - dopo aver partecipato a tutti i vertici di governo sul tema, compreso l’ultimo - si sono sentiti liberi di votare un ordine del giorno del deputato di Forza Italia Enrico Costa per bloccare la riforma della prescrizione che sarà in vigore dal primo gennaio. Il parere del governo era contrario, ma il gruppo dei vivaisti ha votato comunque con il centrodestra. È andata male ai sostenitori del testo, però: i contrari sono stati 289, i favorevoli 204, con due astenuti. Alla votazione peraltro hanno partecipato nove ministri e 11 sottosegretari. Al voto si è arrivati dopo una lunghissima discussione che durante la seduta notturna della Camera sulla manovra ha coinvolto parecchi parlamentari. È stata Lucia Annibali ad annunciare il voto favorevole all’ordine del giorno di Costa, ex ministro del governo Renzi. Contrario il Pd che con Franco Vazio ha definito il testo come “una strumentale provocazione premeditata che mira a dividere la maggioranza”; “un tentativo propagandistico che respingiamo”, ha aggiunto l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Italia Viva ha tenuto il punto. “Abbiamo avuto pazienza fino al 24 dicembre”, ha ribadito Gennaro Migliore. Il prossimo vertice sulla giustizia è fissato per il 7 gennaio, quando la riforma sarà entrata in vigore. Il Pd intanto ha depositato la sua proposta di legge “per evitare le conseguenze negative dell’entrata in vigore della legge voluta del precedente Governo e per rilanciare la necessità e l’urgenza di fissare tempi certi per la durata dei processi, come la Costituzione e gli interessi del Paese richiedono” come spiegano in una nota il responsabile Giustizia del partito Walter Verini e i due capigruppo di commissione di Camera e Senato Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli. “Sono temi - concludono - sui quali è aperto un confronto tra le forze della maggioranza che il Pd auspica possa al più presto chiudersi con una sintesi ragionevole, da portare al confronto di Governo e Parlamento”. La proposta sarà illustrata in una conferenza stampa che si terrà la mattina di venerdì 27 dicembre. Posizione che in linea generale collima con quella del ministro guardasigilli Alfonso Bonafede che ieri ha precisato che la riforma del blocco della prescrizione entra in vigore a Capodanno ed “è un traguardo importante” e che il vertice del 7 è sulla riduzione dei tempi del processo. “Valuteremo tutte le proposte sui tempi del processo penale”. Anche quella del Pd? “Tutte le proposte. L’importante, come io sempre detto, è non far rientrare dalla finestra quelli che è uscito dalla porta”. Il problema principale sarà parlare con Italia Viva. Renzi, giusto due giorni fa, in un’intervista a Repubblica aveva definito la riforma “uno scandalo, entrato in vigore grazie ai voti di Salvini”. E si lamenta pure camerepenali.it, 26 dicembre 2019 L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria interviene sulle dichiarazioni del Dott. Gratteri e il parossismo del processo mediatico. Nel corso di una roboante quanto preannunciata conferenza stampa tenutasi dopo il maxi blitz di Vibo Valentia, il dott. Gratteri ha affermato che l’indagine era nata il giorno del suo insediamento e che per Lui “era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano”. Queste frasi non ci stupiscono anche perché da tempo, con tutto il rispetto, ci sembrava che il dottor Gratteri avesse una visione un po’ più articolata del proprio ruolo di inquirente. E sul punto si è già efficacemente espresso un magistrato, Ignazio Petrone, dicendo che esse disvelano una concezione del diritto e della giustizia da stato etico, da partito unico, da processo staliniano. Il tema che ci interessa riguarda invece il fatto che queste inquietanti affermazioni sembrano aver fatto poca presa sugli organi di stampa, tanto che il PM antimafia, tra l’offeso e l’adirato, tweetta e rende interviste esprimendosi in questo modo: “la mia maxi operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali… è stata boicottata, un grave errore, bisognerebbe chieder conto ai direttori delle testate più importanti di questo buco”. Siamo al parossismo del processo mediatico. Non solo si divulgano notizie sulle indagini come se le ipotesi investigative fossero sentenze passate in giudicato, ma si pretende che i giornali ne parlino in prima pagina. E perché l’avvertimento non cada nel vuoto, il dottor Gratteri cita anche le testate incriminate (La Repubblica e La Stampa), quella a rischio di incriminazione (Il Corriere della Sera che si “limita” ad un solo box) ed infine il giornale amico (Il Fatto Quotidiano) quasi fosse l’unico scolaro diligente di una classe di alunni ingrati e disubbidienti. Forse sono alunni soltanto prudenti che, dopo aver consultato Wikipedia, si sono ricordati del tempo in cui la Corte di Appello confermò le condanne per solo 8 imputati dei 125 soggetti arrestati nell’ operazione Marine con la quale il super Pm diceva di aver sgominato la mafia a Platì. Oppure dell’esito del processo denominato “Circolo Formato” dove tutta la classe politica di Gioiosa Marina fu ammanettata, la città fu commissariata, e poi al processo furono tutti assolti. O ancora, dell’operazione “Metropolis”, quella con la quale Gratteri aveva affermato di avere affossato le ‘ndrine della Locride, che si concluse con sole 3 condanne su decine di arrestati. Visti i precedenti, può darsi che, per una volta, dietro questo riserbo da seconda pagina ci sia, una volta tanto, professionalità, esigenza di controllo delle notizie e maggior attenzione a sdoganare senza filtri ipotesi accusatorie che potrebbero non reggere il vaglio di un giudizio. Insomma, tutto quello che noi penalisti in questo preciso momento storico auspichiamo, al fine di limitare le distorsioni del processo mediatico, a vantaggio della giustizia con la G maiuscola, quella vera, che deve essere raggiunta nella piena osservanza delle regole del contraddittorio, in un’aula di Tribunale. Per il resto, speriamo che Babbo Natale porti a Gratteri una scatola di lego con le istruzioni di montaggio in tutte le lingue e qualche bel libro, tipo “Lettere dal carcere di Enzo Tortora”. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria Ucpi Caserta. Record di malati per epatite, l’accordo per cure più veloci ai detenuti casertanews.it, 26 dicembre 2019 L’intesa tra Asl, ospedale ed amministrazione penitenziaria. È in agenda per venerdì 27 dicembre alle ore 9,30 presso l’Aula Magna dell’Aorn di Caserta “Sant’Anna e San Sebastiano” la firma dell’accordo operativo in tema di Hiv e Hcv tra Asl, Aorn e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. A sottoscrivere l’atto di intesa saranno il Direttore Generale dell’Asl di Caserta Ferdinando Russo, il Commissario Straordinario dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “Sant’Anna e San Sebastiano” di Caserta Carmine Mariano ed il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania Antonio Fullone. Questo accordo rientra nel progetto “Caserta senza una C - Caserta libera dalla epatite C” che porterà, nelle intenzioni dei firmatari, alla eliminazione dell’epatite C in Terra di Lavoro. La Campania è la regione con la maggiore prevalenza di malattia da Hcv non solo d’Italia, ma anche di tutta l’Europa comunitaria, cui corrisponde anche una delle maggiori mortalità europee per patologie del fegato correlate ad Hcv. La disponibilità di cure tanto efficaci quanto sicure ha reso possibile intervenire in ambiti fino ad ora impensabili. L’eliminazione del virus, nelle valutazioni dei farmaco-economisti, comporta già a cinque anni un tale risparmio di risorse da far considerare vantaggioso l’investimento nella cura universale di tutti gli stadi di malattia. Contro questo obiettivo, tuttavia, si pongono alcuni ostacoli. Da un lato la difficoltà di raggiungere con una offerta terapeutica adeguata alcune categorie di malati quali tossicodipendenti e detenuti in cui si annida la maggior parte dei soggetti infetti e diffusori del virus, dall’altro l’imminente uscita di questi farmaci salvavita dal rimborso del fondo degli innovativi che porterà di nuovo l’onere economico sul fondo generale di finanziamento con probabili futuri ritardi e rinvii nell’accesso alla cura. Nell’ottica di favorire l’accesso alla cura del maggior numero di soggetti malati nel più breve tempo possibile l’Aorn di Caserta, che in questo ambito ha recentemente visto premiate proprie iniziative con i Fellowship 2018 e 2019 e il riconoscimento quale miglior modello organizzativo tra le best practice europee, ha messo in campo, in condivisione con Asl Caserta e Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, una procedura di accesso alla cura innovativa e unica nel suo genere. L’applicazione di questo protocollo consentirà ai detenuti infetti da Hcv presenti sul territorio della Asl Caserta di accedere alla cura in tempi brevissimi evitando le pastoie burocratiche che finora ne hanno rallentato la cura. Avellino. L’altra faccia del Natale, una carezza e un dono ai figli dei detenuti di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 26 dicembre 2019 Una tradizione che si rinnova anno dopo anno e che quest’anno con grande entusiasmo ha visto una buona partecipazione di giovani. L’altra faccia del Natale, la solidarietà tangibile verso i figli dei detenuti. Un bel gesto quello messo in atto dalla Parrocchia Santa Maria dei Martiri e dalla locale Caritas, sotto la spinta di don Costantino Pratola. È accaduto ad Ariano Irpino in località Cardito all’ingresso del carcere Pasquale Campanello. È qui che un gruppo di volontari ha distribuito sacchetti di caramelle e dolciumi vestiti rigorosamente da babbo natale. Una tradizione che si rinnova anno dopo anno e che quest’anno con grande entusiasmo ha visto una buona partecipazione di giovani. Iniziativa molto apprezzata delle famiglie dei reclusi e che ha reso meno triste questa giornata di festa, nella quale si avverte maggiormente il distacco tra un papà e i propri figlioletti. Congratulazioni sono giunte alla parrocchia e alla Caritas direttamente dal direttore della casa circondariale arianese Maria Rosaria Casaburo. “Il carcere resta per noi una parrocchia come tutte le altre - ha detto Don Costantino Pratola - siamo vicini in questa giornata di festa, ma non solo, ai detenuti ma anche alle loro famiglie, nella speranza, che possano presto ricongiungersi e dopo aver scontato la pena, avviare un processo di reinserimento con l’aiuto delle varie istituzioni”. Livorno. Rugby, i detenuti protagonisti nel campionato “Old” livornotoday.it, 26 dicembre 2019 Un pareggio e una vittoria per le “Pecore nere” attese da altre quattro sfide tra cui il derby contro i Rino... cerotti. Tra le tante mete di prestigio messe a segno nell’arco del 2019, per i Lions Amaranto Livorno alcune hanno un significato particolare. L’anno solare che si sta per concludere ha visto scendere in campo non soltanto la prima squadra, ma anche quella delle “Pecore nere”, formata da detenuti delle Sughere che partecipano al torneo amatoriale toscano Old (pool B). Un traguardo reso possibile grazie ai Lions (che ha messo a disposizione i tecnici Manrico Soriani e Michele Niccolai), alla sensibilità della direzione e dei dipendenti del carcere, all’opera dell’Associazione Amatori Rugby Toscana e alla federazione di rugby che ha concesso numerose deroghe al regolamento. Una partita delle Pecore Nere - Sul piano tecnico, le prime due gare giocate in tale campionato hanno regalato importanti soddisfazioni: salomonico pareggio, 2-2, con gli Allupins e successo rotondo, 4-1, sui Sorci Verdi. È la prima volta in senso assoluto in Toscana (e tra le prime volte a livello nazionale) nella quale una formazione di atleti che stanno scontando una pena detentiva è protagonista di gare di un campionato federale. Le Pecore Nere giocheranno altre quattro partite: sabato 11 gennaio sfida con la formazione aretina dello Zoo Vasari, poi confronti con i Ribolliti Firenze (a febbraio), con i Magnaorecchi Massa (a marzo) e nell’ultimo turno (ad aprile), in un derby cittadino atteso con impazienza, con i Rino… Cerotti, la squadra degli Old dei Lions Amaranto Livorno. Migranti, sbarchi dimezzati in un anno. Meno delitti (non in famiglia) di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 dicembre 2019 I dati del Viminale per il 2019: emergenza strade, record di multe per eccesso di velocità. Nel 2019 gli sbarchi sono dimezzati rispetto all’anno scorso. Il dato emerge dal bilancio del Viminale che sarà reso noto a Capodanno. Dopo le polemiche e le inchieste avviate durante la gestione del ministero dell’Interno di Matteo Salvini, il numero degli stranieri giunti sulle nostre coste si conferma clamorosamente in calo: 11.439 a fronte dei 23.210 del 2018. Diminuzione anche per tutti i delitti: omicidi, rapine, violenze sessuali, furti. Unica eccezione i maltrattamenti in famiglia. In questo caso bisognerà capire se davvero sono aumentati gli episodi o se invece - come sostengono alcuni analisti - il numero è salito perché le donne hanno trovato il coraggio di raccontare e chiedere aiuto. In generale c’è stato infatti un incremento delle segnalazioni al commissariato di polizia online: si è passati da 18.329 al 30 novembre 2018 a 21.146 alla stessa data del 2019. Il totale delitti al 31 ottobre 2018: “1.978.731, mentre sono stati 1.847.598 alla stessa data del 2019 con un calo del 6,6%. Rapine: -17,6%, furti: - 11,8%”. L’emergenza riguarda invece le strade: c’è stato un incremento del 35 per cento delle multe per eccesso di velocità. L’accordo per i ricollocamenti - Nelle scorse settimane la Lega ha attaccato la ministra Luciana Lamorgese “perché con lei gli sbarchi sono saliti”. In realtà si è deciso di concedere il via libera all’ingresso delle navi nei porti italiani dopo aver chiuso l’intesa con altri Stati della Ue che prevede il ricollocamento dei richiedenti asilo e il trasferimento entro un mese dall’approdo. E infatti se durante la gestione Salvini la redistribuzione aveva riguardato 85 richiedenti asilo, con l’arrivo del nuovo governo sono stati inviati negli altri Paesi che hanno deciso di aderire all’accordo di Malta (siglato da Lamorgese) 196 stranieri, quasi 50 al mese. Sale anche il numero dei rimpatri forzati: al 15 dicembre 2019 sono stati 6.986, al 23 dicembre 2018 erano 6.820. In calo omicidi e violenze sessuali - Diminuiscono gli omicidi volontari - 261 nell’ultimo anno a fronte dei 289 dell’anno scorso - con un calo del 9,6%. Tra questi: le donne uccise nel 2018 sono state 113, nel 2019 sono state 90. Il calo è pari al 20,3% ma è comunque un numero ancora altissimo. Anche perché sono state 12 le vittime in ambito familiare o comunque uccise da un ex compagno. Aumentano gli episodi di maltrattamenti contro famigliari e conviventi (+ 6,85%), calano le violenze sessuali (-8,9%). Incidenti e multe - La Polizia stradale “ha impiegato 1.250 operatori nelle sale operative, 3.100 operatori di pattuglia (auto), ha controllato 94 tratte con portali Sivc/Tutor per il controllo della velocità media su 910 km di autostrade, 320 telelaser e 110 autovelox per il controllo della velocità, 1.100 etilometri. Le infrazioni al codice della strada sono aumentate del 4,5%, per eccesso di velocità segna un +35%. Papa Francesco: migranti vittime dell’ingiustizia e trovano muri di indifferenza di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 26 dicembre 2019 “Ci sono tenebre nei cuori umani, ma più grande è la luce di Cristo” ha detto il Pontefice dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro per la tradizionale benedizione “Urbi et Orbi”. “Ci sono tenebre nei cuori umani, ma più grande è la luce di Cristo. Ci sono tenebre nelle relazioni personali, familiari, sociali, ma più grande è la luce di Cristo. Ci sono tenebre nei conflitti economici, geopolitici ed ecologici, ma più grande è la luce di Cristo”. A mezzogiorno Francesco si affaccia alla loggia centrale della Basilica di San Pietro e, prima della benedizione “Urbi et Orbi”, rivolge “alla città e al mondo” il messaggio tradizionale del giorno di Natale. I bambini - A cominciare dai più piccoli, “Cristo sia luce per i tanti bambini che patiscono la guerra e i conflitti in Medio Oriente e in vari Paesi del mondo”, il Papa ripercorre i dolori del pianeta, guerre, povertà, solitudini, migrazioni: “L’Emmanuele sia luce per tutta l’umanità ferita. Sciolga il nostro cuore spesso indurito ed egoista e ci renda strumenti del suo amore. Attraverso i nostri poveri volti, doni il suo sorriso ai bambini di tutto il mondo: a quelli abbandonati e a quelli che hanno subito violenze. Attraverso le nostre deboli braccia, vesta i poveri che non hanno di che coprirsi, dia il pane agli affamati, curi gli infermi. Per la nostra fragile compagnia, sia vicino alle persone anziane e a quelle sole, ai migranti e agli emarginati. In questo giorno di festa, doni a tutti la sua tenerezza e rischiari le tenebre di questo mondo”. Le guerre in Medio Oriente - Come ogni anno, l’elenco è lungo e le situazioni di confitto ricorrenti, Medio Oriente in testa: “Cristo sia conforto per l’amato popolo siriano che ancora non vede la fine delle ostilità che hanno lacerato il Paese in questo decennio. Scuota le coscienze degli uomini di buona volontà. Ispiri i governanti e la comunità internazionale a trovare soluzioni che garantiscano la sicurezza e la convivenza pacifica dei popoli della regione e ponga fine alle loro sofferenze”, scandisce Francesco. “Sia sostegno per il popolo libanese, perché possa uscire dall’attuale crisi e riscopra la sua vocazione ad essere un messaggio di libertà e di armoniosa coesistenza per tutti. Il Signore Gesù sia luce per la Terra Santa dov’Egli è nato, Salvatore dell’uomo, e dove continua l’attesa di tanti che, pur nella fatica ma senza sfiduciarsi, aspettano giorni di pace, di sicurezza e di prosperità. Sia consolazione per l’Iraq, attraversato da tensioni sociali, e per lo Yemen, provato da una grave crisi umanitaria”. I sommovimenti in Sud America - Bergoglio ricorda poi il periodo difficile che sta attraversando il continente americano, la sua terra, “in cui diverse Nazioni stanno attraversando una stagione di sommovimenti sociali e politici”, ed in particolare prega perché “il piccolo Bambino di Betlemme rinfranchi il caro popolo venezuelano, lungamente provato da tensioni politiche e sociali e non gli faccia mancare l’aiuto di cui abbisogna. Benedica gli sforzi di quanti si stanno prodigando per favorire la giustizia e la riconciliazione e si adoperano per superare le varie crisi e le tante forme di povertà che offendono la dignità di ogni persona”. E ancora, dice, “sia luce, il Redentore del mondo, per la cara Ucraina, che ambisce a soluzioni concrete per una pace duratura”. Un passaggio è riservato al continente africano: “Il Signore che è nato sia luce per i popoli dell’Africa, dove perdurano situazioni sociali e politiche che spesso costringono le persone ad emigrare, privandole di una casa e di una famiglia. Sia pace per la popolazione che vive nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, martoriata da persistenti conflitti. Sia conforto per quanti patiscono a causa delle violenze, delle calamità naturali o delle emergenze sanitarie. Sia conforto a quanti sono perseguitati a causa della loro fede religiosa, specialmente i missionari e i fedeli rapiti, e a quanti cadono vittime di attacchi da parte di gruppi estremisti, soprattutto in Burkina Faso, Mali, Niger e Nigeria”. “I muri di indifferenza” - Nella loggia centrale della Basilica, accanto al Papa, ci sono anche i cardinali Renato Raffaele Martino, presidente emerito del pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e del pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, e Konrad Krajewski, l’Elemosiniere del pontefice. Alla fine del suo messaggio, Francesco ritorna sulla tragedia planetaria delle migrazioni forzate, con parole che richiamano ciò che ha detto pochi giorni fa nel ricevere, in Vaticano, alcuni profughi portati da Krajewski a Roma dal campo Moria dell’isola di Lesbo: “Il Figlio di Dio, disceso dal Cielo sulla terra, sia difesa e sostegno per quanti, a causa di queste ed altre ingiustizie, devono emigrare nella speranza di una vita sicura. È l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e mari, trasformati in cimiteri. È l’ingiustizia che li costringe a subire abusi indicibili, schiavitù di ogni tipo e torture in campi di detenzione disumani. È l’ingiustizia che li respinge da luoghi dove potrebbero avere la speranza di una vita degna e fa loro trovare muri di indifferenza”. Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati di Stefano Galieni Left, 26 dicembre 2019 “Centri di permanenza temporanea e assistenza” fu il nome che venne dato alle prime strutture di detenzione amministrativa per migranti sorte in Italia dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano. Correva l’anno 1998 e già da allora si diceva, nel centro sinistra, che bisognava coniugare accoglienza e sicurezza, ponendo l’accento sempre più sul secondo termine. I Cpta, acronimo delle strutture (ma la “a” di assistenza venne dimenticata), vennero realizzati in maniera improvvisata prima ancora di dare loro un quadro normativo. Per la prima volta nel nostro Paese, nel resto d’Europa era già prassi, si potevano privare le persone della libertà personale in virtù del fatto che la loro presenza non era considerata regolare. La finalità dei centri riguardava gli “stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile”. Persone che non avevano commesso reati, rinchiuse per ciò che erano. Per facilitare i rimpatri delle persone non gradite, l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano si affrettò a siglare i primi accordi bilaterali di riammissione con alcuni Paesi del Nord Africa che raramente produssero i risultati sperati. I centri, in cui si poteva restare rinchiusi fino ad un mese in attesa dell’espulsione, nacquero da un giorno all’altro e senza organicità. Nel 2006 si aprì il Cpt di Gradisca D’Isonzo, ribattezzandola “Guantánamo italiana” per l’uso di tecnologia avanzata atta a impedire fughe, rivolte, socialità eccessiva fra gli “ospiti”. Sì, perché chi vi era trattenuto non era considerato detenuto bensì ospite, al punto che se riusciva a fuggire, nonostante si scatenassero caccie all’uomo, gli addetti alla vigilanza delle strutture non potevano essere perseguiti per negligenza. A Ragusa ne aprì uno solo per donne in pieno centro città con telecamere interne alle stanze delle “ospiti” e con personale quasi esclusivamente maschile, chiuse quello di Agrigento per difficoltà di gestione e ne venne aperto uno a Caltanissetta (località Pian Del Lago), si spostò quello di Bari, per pochi mesi ne restò aperto uno a Trieste mentre nelle altre città si rese difficile la loro realizzazione. Per l’opposizione degli enti locali, o più spesso perché popolazione, movimenti sociali - insieme alle difficoltà di reperire strutture idonee - ne impedirono la realizzazione. Come nel caso di Corridonia, nel maceratese. Nel frattempo, nel 2002, era entrata in vigore la Bossi-Fini, che raddoppiava i tempi massimi di trattenimento (da 30 a 60 giorni) ma si andava rapidamente dimostrando il fallimento di tale approccio all’immigrazione. I centri sin dalla loro apertura si erano dimostrati luoghi da cui si tentava di fuggire e in cui si moriva. La notte di Natale del 1999 veniva trovato morto, nel Cpt di Ponte Galeria, Mohamed Ben Said, 39 anni, mascella rotta e forse imbottito di psicofarmaci. C’è un calcolo macabro scomparso dalla storia ufficiale, quello di coloro che hanno perso la vita a causa della detenzione in questi spazi in cui non valevano e non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari, spazi pensati esclusivamente come zoo temporanei per persone. Per parecchi anni, soprattutto fino al 2007, si sono realizzate mobilitazioni per chiedere la chiusura dei centri - la più grande a Torino nell’inverno 2002 - numerose e praticamente in ogni città in cui c’erano Cpt o dove si minacciava di aprirli. I “clandestini”, in parte rinchiusi nei centri dopo periodi di detenzione in cui non erano stati identificati, i cui provvedimenti di convalida del trattenimento erano affidati a giudici di pace (mai utilizzati fino a quel momento per autorizzare la limitazione della libertà personale), una volta non rimpatriati tornavano fuori in condizioni di irregolarità, con l’obbligo di lasciare entro pochi giorni il territorio nazionale. Solo propaganda insomma e costruzione della fortezza escludente per rinchiudere il “nemico interno” e dimostrare che lo Stato si prende cura della sicurezza dei cittadini. Nel 2006 venne istituita una Commissione indipendente per analizzare il funzionamento dei Cpt, presieduta dal diplomatico Staffan De Mistura, che presentò un suo rapporto il 1 febbraio del 2007. La conclusione era pilatesca: i Cpt non dovevano essere chiusi ma “superati”, riducendo al minimo il numero delle persone da trattenere, il tutto proprio mentre si riconosceva il fallimento di tali strutture. Nel 2009 col cambio di governo, il nuovo ministro dell’Interno, Roberto Maroni, incentivò invece l’utilizzo dei trattenimenti. I Cpt cambiarono acronimo diventando Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione), rompendo almeno una ipocrisia lessicale di fondo, e si portò a sei mesi il tempo massimo di trattenimento, trasformandoli di fatto in carceri senza neanche gli elementi propri di un sistema penitenziario e dando via così a un ciclo di rivolte e sommosse. Nel 2011 il governo arrivò a vietare a giornalisti, operatori di organizzazioni umanitarie non accreditati, amministratori locali e a tutte le altre figure esterne, l’accesso ai Cie. Da un appello di alcuni operatori dell’informazione raccolto dalla Federazione nazionale della stampa e dalla mobilitazione di settori sensibili di società nacque la campagna LasciateCIEntrare. Il successivo governo Monti, con la ministra Cancellieri, sospese l’efficacia della circolare che vietava l’accesso ai centri ma il potere di limitare le visite restò nelle mani dei prefetti. Nel frattempo furono tante le rivolte che scoppiarono e portarono a dover chiudere sezioni dei centri quando non le intere strutture. In poco tempo i Cie aperti si ridussero a quattro, ma intanto si stava entrando già nel periodo vicino ai giorni nostri. Il ministro Minniti rinominò i centri che diventarono Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). In tutti questi cambiamenti di acronimi ci sono modifiche normative che illustreremo in seguito, ma il tentativo - da anni perseguito - è quello di aprirne almeno uno in ogni regione. Infine, menzioniamo due capitoli che meriterebbero da soli ulteriori e attenti approfondimenti. Per l’autunno 2019 sono previste mobilitazioni per impedire la riapertura o la apertura di Cpr e per denunciare l’inaccettabile prolungamento a 180 giorni dei termini massimi di trattenimento in queste strutture, come previsto dal primo decreto sicurezza firmato da Salvini, mentre alcune forze politiche vorrebbero si arrivasse al tetto di 18 mesi di detenzione. Il futuro dei Cpr è incerto. Tutti i tentativi di dichiararli incostituzionali sono falliti seppure la stessa sovra-ordinante direttiva europea 115/2008 consideri il trattenimento come una estrema ratio e non la norma. Il decreto sicurezza permette ad oggi di trattenere chi risulta privo dei requisiti per restare in Italia anche in luoghi diversi dai Cpr ritenuti idonei. Quali sono? Zone aeroportuali, camere di sicurezza, sezioni riservate di penitenziari? Tutto è possibile con le nuove norme. Le strutture di detenzione amministrativa sono state pensate e potenziate per proteggere i confini europei e garantire la sicurezza interna, ma si sono rivelate enormi voragini in cui sparivano persone, soldi pubblici e moriva lo Stato di diritto. Una ragione in più per parlarne con maggior cognizione di causa e per tornare a chiederne a gran voce la definitiva abolizione, anche in quanto istituzioni totali dove neanche i più elementari diritti delle persone possono essere rispettati. Birmania. Sulla difesa dei diritti degli Rohingya il Gambia dà una lezione a tutti di Massimiliano Sfregola Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2019 Questo ultimo mese degli anni 10 del 2000 ha segnato due eventi chiave per il futuro delle relazioni internazionali: il via alla rimozione dell’ultimo ostacolo alla Brexit, e le conseguenze a valanga che potrebbe portare al multilateralismo, e l’apertura del procedimento presso la Corte di Giustizia dell’Onu che vede il Gambia opposto al Myanmar per la questione Rohingya. Quest’ultimo, anche se passato largamente inosservato, soprattutto per le implicazioni politiche, è invece un evento storico. Per diverse ragioni. In primis, utilizzando uno strumento dimenticato (e largamente ignorato) come la Corte universale dell’Onu, il Gambia e l’Organizzazione dei Paesi islamici hanno dato una lezione di democrazia alle stesse potenze mondiali che tanto tempo fa istituirono quella Corte, pur ignorandone costantemente giurisdizione e pronunciamenti. Poi hanno spinto le competenze di quel tribunale, abituato a vedere solo avvocati di studi milionari su un terreno politico inedito: non era mai successo prima d’ora che un capo di Stato si presentasse a “deporre” davanti ai giudici dell’Onu. Ed era successo, soprattutto, molto di rado che la Corte fosse chiamata a pronunciarsi su questioni politiche come il genocidio, tema - quasi sempre - lasciato a tribunali ad hoc oppure all’Icc, la Corte Penale Internazionale, che a l’Aia si trova a poche centinaia di metri dall’Icj (ma non gode del favore delle potenze). Con scaltrezza politica, il Gambia ha evitato la probabile impasse all’Icc (non riconosciuta dal Myanmar e in generale poco gradita agli Stati africani). Così presso il Peace Palace, a L’Aia, il palazzo sede dell’Icj, la più burocratica, incolore e dimenticata tra le istituzioni Onu si trova, ora, a dover giudicare San Suu Kyi, per l’Occidente a lungo simbolo dei diritti umani nel sud-est asiatico, stabilendo se la repressione contro i Rohingya sia stata una questione interna molto complessa, come ha detto nei suoi 15 minuti di intervento la ex premio nobel, oppure un’azione sistematica con obiettivo la pulizia etnica della minoranza di religione musulmana. Anche l’Icc ha un fascicolo e un’indagine aperti, ma l’efficacia di un tribunale universale come l’Icj - anche se le sue decisioni non sono vincolanti per gli Stati - potrebbe avere un significato politico molto forte. Comunque andrà - potrebbero volerci anni prima che arrivi una sentenza - il Gambia ha dato una lezione a tutti di diritti umani e di rispetto delle regole della democrazia. Brasile. Bolsonaro, indulto ai poliziotti Associated Press, 26 dicembre 2019 Il presidente brasiliano ha firmato un decreto che determina il rilascio degli agenti condannati per omicidio colposo. Jair Bolsonaro ha confermato una tradizione ormai consolidata nel Paese: quella di concedere la grazia ad alcuni detenuti sotto Natale. Come già successo in passato, questa misura ha causato forti polemiche e discussioni politiche. Quest’anno il presidente brasiliano ha pensato ad una categoria da sempre nelle sue simpatie: le forze dell’ordine. I beneficiari del decreto di indulto natalizio sono quegli agenti condannati per omicidi non intenzionali, che hanno dimostrato in carcere buona condotta. A questo si aggiungono i poliziotti condannati per atti commessi durante le operazioni speciali di ordine pubblico assieme alle forze armate, come nella lotta al narcotraffico durante i grandi eventi sportivi. Le organizzazioni a favore dei diritti umani hanno criticato l’iniziativa ricordando la grande impunità che esiste in Brasile proprio sull’operato delle forze dell’ordine. Solo a Rio de Janeiro, in dieci anni, 10.000 civili sono morti durante operazioni di polizia - molti dei quali non stavano commettendo nessun delitto - e solo il 3% dei casi è finito in tribunale. Bolsonaro ha ribadito più volte che la polizia deve avere “carta bianca contro la criminalità” in un Paese dove si commettono oltre 60.000 omicidi all’anno. Il timore è che questa carta bianca diventi sempre di più una licenza ad uccidere, con la sicurezza dell’impunità. Zambia. Condannata coppia gay, ambasciatore Usa protesta e viene cacciato La Repubblica, 26 dicembre 2019 Il presidente dello Zambia ha definito il diplomatico “persona non gradita” e gli Usa sono stati costretti a richiamarlo. L’oggetto del disaccordo è la sentenza a 15 anni di carcere di una coppia, perché omosessuale. Washington ha preso le difese di Daniel Foote dopo che il governo di Lusaka aveva definito inaccettabile la sua denuncia sull’imprigionamento di una coppia omosessuale. “È insostenibile il comportamento del governo zambiano - Gli Stati Uniti si oppongono fermamente agli abusi contro le persone Lgbi. I governi hanno l’obbligo di garantire che tutte le persone possano godere liberamente dei diritti umani universali e delle libertà fondamentali a cui hanno diritto “, ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato. L’Alta corte di Lusaka lo scorso mese ha condannato Japhet Chataba e Steven Samba a 15 anni di carcere per essere stati sorpresi, spiati, in un rapporto sessuale “contro natura”, si legge nella sentenza. La coppia aveva prenotato un breve soggiorno in un lodge. Durante la notte, un impiegato della struttura li ha sorprresi, spiandoli dalla finestra, e ha riportato quanto visto alle autorità. L’ambasciatore Usa Daniel Foote aveva denunciato la pena definendola “terrificante”. Il presidente, Edgar Lungu, mandò subito una nota di protesta a Washington e rimase in attesa di una risposta. La risposta americana è stata quella di richiamare Foote, considerato che era diventata persona non gradita nel Paese, che tra l’altro è il maggior beneficiario degli aiuti Usa: centinaia di milioni di dollari a sostegno della lotta contro l’Aids. Lo Zambia è una società profondamente conservatrice in cui l’omosessualità è illegale. “Non si può chiedere a un governo di prendere una decisione puntandogli un’arma da fuoco - poiché ti stiamo aiutando, vogliamo che tu faccia questo - non si può”, ha detto alla Bbc il ministro degli Esteri dello Joseph Malanji.