Il regalo al Papa degli ergastolani: "Ecco le nostre mani, hanno fatto del male" di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 25 dicembre 2019 Scultura lignea consegnata in Vaticano da don Pozza In un video la gioia del Pontefice: "Sarà proiettato a messa". Due mani che emergono da un blocco di legno, con una forza che sembra rendere vivo quel cubo inanimato. "Con queste mani abbiamo ucciso, queste mani doniamo a te Santo Padre". Ecco il regalo degli ergastolani del carcere di Padova a Papa Francesco. Un dono di chi è destinato a vivere per sempre tra sbarre d’acciaio e muri di cemento. La scultura è il frutto di un progetto attivo nel carcere, in cui il direttore Claudio Mazzeo crede molto: si chiama ScolpiAmo. "Nel suo nome c’è tutto. Ci sono i verbi colpire e amare. La sillaba “s” che a me suggerisce sempre la sottrazione: sottrarre l’inutile per far brillare il necessario. Nella “o”, poi, sono scritti i cinque nomi delle persone detenute coinvolte nel progetto (Ignazio, Lillo, Salvo, Vito Ernesto), tutte in regime di massima sicurezza" racconta don Marco Pozza, cappellano del Due Palazzi. Scuola di scultura - Roberto Tonon e Claudia Chiggio, scultori dell’Associazione Culturale “Area 48”, sono i docenti. Tengono le loro lezioni ogni settimana. "Vederli al lavoro, tutti insieme, mi ricorda una frase di Papa Francesco" ragiona ancora don Pozza. "Finché hai in tasca un pezzo di storia e una persona a cui raccontarla, non sei perduto del tutto". Don Marco Pozza è una persona molto vicina al Papa, con cui ha già scritto due libri e fatto altrettante trasmissioni televisive per l’emittente del Vaticano. Il papa in un video - "Ho ancora in mente il suo sorriso quando ha aperto il regalo: c’era lo stupore di chi è ancora capace di sorprendersi per un gesto inatteso, di quelli che nascono dal cuore. Mentre accarezzava quelle mani ho pensato agli uomini che le hanno scolpite. Nessuno nasce cattivo: risvegliare il bene nascosto è la grande impresa di tutti coloro che continuano, in carcere, a scommettere che l’uomo possa tornare a far parlare di sé per il bene di cui è capace". Lo stupore di Papa Francesco è stato ripreso in un video che è stato trasmesso durante la messa nella cappella del penitenziario. Ergastolani - Al Due Palazzi di Padova gli ergastolani sono una settantina, gli “ostativi”, cioè quelli del “fine pena mai” , dei “permessi-premio mai” , della semilibertà negata per legge, sono una decina. Le sentenze che hanno spalancato loro le porte del carcere fanno riferimento a crimini tremendi, omicidi, spesso legati alla criminalità organizzata. Solo citandone alcuni: Carmelo Musumeci, boss della Versilia, dietro le sbarre dal 1991 e solo l’anno scorso “graziato” dall’ergastolo ostativo; Angelo Meneghetti, uno dei luogotenenti di Felice Maniero al tempo degli assalti ai portavalori; il pluriomicida Donato Bilancia; Giuseppe Avignone, 75 anni, calabrese, nome legato alla ’ndrangheta. Redenzione - Don Pozza riguarda la scultura lignea nelle foto del suo telefonino e gli occhi gli brillano ancora. "Quelle sono le mani di chi, perduta una guerra, non si rassegna a restare per terra ma vuole tentare di risorgere. Ho pensato che fosse il regalo più bello da fare al Papa per il suo compleanno e per Natale, da parte della nostra comunità del carcere di Padova". Chi frequenta o lavora in carcere, qualunque esso sia, lo sa bene: Natale è il giorno più triste dell’anno. Mancano gli affetti di casa, il calore, le tradizioni. I ricordi di ciò che era un tempo diventano macigni. "Mi sento un privilegiato celebrare il Natale qui. Contemplare la storia dalla parte dei perdenti è un’occasione unica per innamorarsi di più della vita. Quando prego assieme a loro, sogno sempre che quelle mani, un giorno, possano stringere altre mani. Prego perché nasca un incontro di mani salvifico: quello tra chi il male l’ha fatto e chi il male l’ha subito. Quel giorno, da qualche parte, sarà Natale. Anche se non avverrà di 25 dicembre", conclude don Pozza. Il destino delle carceri di Marta Spanò artribune.com, 25 dicembre 2019 Da sempre ritenute architetture destinate al margine e alla periferia, le carceri sono luoghi che meritano una riqualificazione. Come è capitato ad alcuni ex stabilimenti di pena. La storia dell’architettura è più lunga di quella di ogni altra espressione artistica: secondo Walter Benjamin, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, “le costruzioni vengono accolte in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, per meglio dire: in modo tattile e in modo ottico […]. La fruizione tattile non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti dell’architettura quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, ha luogo molto meno in un’attenta osservazione che non in sguardi occasionali”. Se solo la ricezione ottica e la percezione avessero luogo in un’attenta osservazione della realtà e degli edifici che ne definiscono lo spazio, sarebbe possibile notare come in ogni città siano presenti architetture che non possono mancare nel tessuto urbano, edifici simbolo sui quali la città stessa nasce e si sviluppa: piazze, municipi, tribunali, chiese, prigioni. Queste ultime, in particolare, vengono viste come simbolo della parte “malata” della società e, di conseguenza, subiscono una progressiva periferizzazione. In controtendenza a chi vorrebbe cancellare dal paesaggio urbano la presenza degli storici stabilimenti di pena, se ne propone la riconversione in strutture di vita associata, cosicché si offrirebbe la condizione più idonea di reinserimento e occupazione delle strutture dismesse, proponendo nuove percezioni e letture dell’esistente. Tuttavia, è importante evitare drastiche trasformazioni causate da un (ri)utilizzo non adeguato o poco rispettoso del bene: occorrerà riflettere sulle potenzialità delle fabbriche storiche tramite un progetto che miri alla ricomposizione delle forme nella forma, a una coerente e adeguata riscrittura degli usi in risposta alle esigenze contemporanee e a un ripensamento del rapporto architettura-spazio pubblico-città; il tutto nel rispetto dei valori (materiali e non) di ogni struttura e del suo contesto. Rifunzionalizzare e restaurare carceri dismesse è necessario soprattutto per l’interesse delle suddette fabbriche (in termini storico-monumentali, di grandezza spaziale e di centralità urbana): ex carceri come nuove architetture urbane in grado di disegnare nuove geografie (im)materiali che restituiscono e riattivano un luogo della città alla città; un’architettura, anche se carceraria, è testimonianza concreta del tempo storico in cui nasce. Una delle risposte possibili al quesito architettonico posto da una struttura dismessa, diversa dalla demolizione, è costituita dalla riqualificazione delle ex carceri in musei o ambienti a destinazione culturale. In tal modo si attiva quella trasformazione d’uso ipotizzata da Alois Riegl per mantenere in vita il significato dei monumenti e quella verifica del diritto di esistenza di altri valori di un’architettura, diversi rispetto a quelli espressi dall’originaria funzione d’uso. Fermo restando che un carcere sarà sempre allontanato a causa del suo passato, non è detto che non racchiuda in sé la possibilità (anche sul piano strutturale) di scardinare la sua vecchia funzione e subire una metamorfosi da carcere a museo; a questo punto si può ipotizzare che tanto l’istituzione carceraria quanto l’istituzione museale vogliano riscattarsi dalla loro funzione storica, metafora di sofferenza e coercizione nel caso del carcere, e di luogo “morto”, cristallizzato nel caso del museo. Pertanto un ex carcere riqualificato e funzionalmente riconvertito si configura come un luogo in cui due istituzioni diverse, se non opposte, convivono in un’antitesi coerente, in cui funzioni vecchie e nuove si incontrano e integrano rivelandosi a vicenda. Da un punto di vista architettonico, invece, vuol dire contrapposizione dei segni di un nuovo intervento sulla preesistenza architettonica, utilizzando a vantaggio del nuovo progetto le valenze spaziali e formali della vecchia struttura. È bene che in questo processo di inserimento di nuovi segni si tenga conto del concetto di flessibilità: nonostante la rigidità architettonica imposta dalla struttura preesistente in cui il museo è destinato a inserirsi, questo deve essere in grado di adattarsi e al contempo di creare spazi flessibili entro uno scheletro predeterminato. Esempi concreti di riqualificazione e rifunzionalizzazione di ex stabilimenti di pena sono, in Italia, i casi delle Murate - Progetti Arte Contemporanea a Firenze, delle Gallerie delle Prigioni a Treviso, del Museo dell’Ebraismo e della Shoah a Ferrara, dello Steri di Palermo (sede del Rettorato dell’Università e di un polo museale), della Rocca Albornoziana di Spoleto o, ancora, del Museo della Memoria carceraria di Saluzzo e del Museo del Carcere di Torino. Nei primi due casi si tratta di architetture restaurate e riqualificate in effettivi musei-centri di produzione di arte contemporanea; gli altri, invece, si delineano come musei di se stessi, del territorio di cui sono parte integrante e caratterizzante. Si tratta di casi che dimostrano come la riqualificazione, il recupero e la salvaguardia portano un ex carcere e il museo come istituzione ad avere la possibilità di raccontare e raccontarsi nuovamente. Per il prossimo che dice: “Le sentenze non si commentano” di Iuri Maria Prado Il Riformista, 25 dicembre 2019 Tra le tante sciocchezze che si ripetono in materia di giustizia la più ricorrente è questa: che ci si deve difendere “nel” processo e non “dal” processo. E che chi fa il contrario si rende responsabile di una specie di mascalzonata. A quelli, e sono purtroppo tanti, che come pappagalli ripropongono la canti-lena, qualcuno potrebbe spiegare che difendersi anche “dal” processo, se non è proprio un diritto, almeno può costituire un comportamento comprensibile. Per esempio: se il processo fosse fatto con la tortura, o se fosse celebrato per infliggerla, daremmo ancora di mascalzone al poveretto che tenta di sottrarvisi? L’obiezione è prevedibilissima: “Ma qui da noi la tortura non c’è!”. E invece c’è. C’è nelle nostre leggi e c’è nella realtà della nostra situazione carceraria: quelle e questa inaderenti alla nostra Costituzione; quelle e questa oggetto delle censure della giustizia europea. E allora si capisce che dovrebbe risuonare un po’ meno indiscutibile il monito a difendersi “nel” processo e non “dal” processo. Dovrebbe apparirne l’essenza vera, d’una rimasticatura buona da propinare in televisione e adatta a ricevere l’applauso cretino. Come nel caso dell’altro motivetto, altrettanto inascoltabile, secondo cui “le sentenze non si commentano” (e dove sta scritto?), si tratta di luoghi comuni balordi, cui ci si abbandona per pigrizia o disonestà intellettuale. Ma in realtà questi modi di dire secondo formule stereotipate costituiscono modi di intendere, modi di concepire la giustizia e il diritto. Nella banalità della reiterazione denunciano l’idea di fondo che li produce: e cioè l’idea che gli amministratori di giustizia appartengano a un rango incontaminato e sacro, di modo che chi ne contesta l’azione non si rende più solo colpevole di sfuggire a una norma, ma di sacrilegio. Si può immaginare che queste considerazioni possano prendersi come un invito alla latitanza, come la rivendicazione del diritto di chiunque di proteggersi dalla pretesa punitiva dello Stato, rinnegandola. Chiaramente non è così. Ma il diritto dello Stato di pretendere dai cittadini che essi non si difendano “dal” processo può essere fatto valere a patto che il processo sia di diritto, e a condizione che non infligga ingiustizia e illegalità. E in questo Paese i processi non sempre si svolgono sulla rotaia del diritto, e molto spesso condannano chi ne è vittima a subire ingiustizie inammissibili. Con questo di peggio: che quando pure l’ingiustizia del processo emerge e si manifesta in faccia al pubblico; quando pure risulta che un cittadino è stato sottoposto senza motivo fondato alle attenzioni di giustizia; quando pure, insomma, il processo e la pena lacerano palesemente l’ordinamento civile, ebbene lo Stato fa spallucce e chi ne amministra la giustizia non trova il tempo non si dice di chiedere scusa, ma nemmeno di rammaricarsene. E a chi decide, nonostante tutto, di difendersi solo “nel” processo e non “dal” processo, questo bel Paese non riconosce nemmeno il bel coraggio che ci vuole. Lucca. Baccelli e Marcucci in visita al carcere: “Situazione migliorata ma restano criticità” di Luca Dal Poggetto luccaindiretta.it, 25 dicembre 2019 Gli esponenti dem ribadiscono la necessità di trovare una sede esterna alle Mura. Una situazione non più critica come qualche anno fa ma che non per questo deve essere posta in secondo piano. Si è tenuta questa mattina (24 dicembre) l’ormai tradizionale visita di alcuni esponenti istituzionali al carcere di San Giorgio. Ad incontrare detenuti e lavoratori sono stati il senatore Andrea Marcucci, il consigliere regionale Stefano Baccelli e il consigliere comunale Silvia Del Greco. Gli esponenti Dem hanno descritto una situazione che non è più da bollino rosso come qualche anno fa: sono infatti solamente 110 i detenuti attualmente presenti in San Giorgio (contro i picchi di anche 240 “ospiti” raggiunti negli anni passati, ndr). Cionondimeno, permangono comunque delle difficoltà di carattere strutturale. “Oggettivamente ci sono ancora dei problemi dovuti alla struttura - ha detto il senatore Marcucci -. Secondo me in futuro un ragionamento su un carcere nuovo fuori dalle Mura andrà fatto. Anche per quanto riguarda gli organici, qualche piccolo problema andrà risolto”. “Detto questo - prosegue Marcucci - i numeri non sono più quelli di una volta: la situazione è decisamente migliorata e riusciamo finalmente a garantire i diritti sanciti a livello italiano ed europeo. Fa impressione pensare che circa la metà dei detenuti sia in attesa di giudizio, quindi in realtà, secondo la nostra Costituzione, non sappiamo ancora se sono colpevoli o innocenti”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Stefano Baccelli che sottolinea l’urgenza di aumentare l’organico dei dipendenti del carcere cittadino: “Sicuramente si è fatto molto per quanto riguarda la tutela dei diritti dei detenuti - afferma il consigliere regionale - ma non bisogna dimenticare le esigenze del personale di polizia penitenziaria che deve essere messo nelle condizioni di poter lavorare al meglio. Occorre quindi rafforzare la progettualità, coinvolgendo ulteriormente anche le associazioni esterne per fare in modo che, anche nelle oggettive difficoltà di questa convivenza, il carcere sia anche un luogo il più possibile sicuro e vivibile”. I due esponenti Dem sono concordi nel ritenere che la soluzione ideale per risolvere i problemi della casa circondariale sia quella di spostarlo in una struttura esterna alla cerchia muraria: “Intanto sicuramente è necessario fare degli investimenti sull’esistente per mantenere degli standard minimi accettabili sia per chi ci lavora sia per chi ci deve scontare la propria pena - osserva Marcucci. Sicuramente però, in prospettiva, dovremo riprendere una riflessione seria sull’opportunità di mantenere un carcere all’interno del centro storico, in un palazzo così complicato come questo”. “Anche perché - aggiunge Baccelli - il palazzo, una volta liberato dal carcere potrebbe essere recuperato e valorizzato in un’altra maniera. Firenze. Il carcere a Natale aduc.it, 25 dicembre 2019 All’uscita dalla visita nell’istituto penitenziario di Sollicciano il presidente dell’associazione Progetto Firenze, Massimo Lensi ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Scegliere di esserci nel giorno della vigilia di Natale non ha in questo caso nulla a che fare con la luce dell’Avvento, ma con la grigia penombra che in un istituto penitenziario nelle festività s’infittisce. La si percepisce con chiarezza immedesimandosi nei detenuti che trascorrono queste feste in attesa di una visita dei familiari, della durata di un’ora, o di una telefonata di auguri di appena dieci minuti. O mettendosi nei panni di agenti e operatori, che questa penombra condividono senza poterla mitigare. Il dipanarsi del giorno all’interno di un’istituzione totale è dettato dal regolamento interno, una sorta di Costituzione immateriale in vigore solo dentro un carcere, e che tutto regola, attività, riposo, svago, igiene e alimentazione. Dalla sveglia al riposo notturno, il regolamento vede e provvede, mantenendo un distacco asettico dalle necessità del quotidiano. Un registro di azione che, di fatto, nega al ristretto anche la presa di coscienza dell’atto colpevole attraverso le risorse dell’educazione e del lavoro sociale. Lo stesso corpo di Polizia Penitenziaria è di riflesso condizionato dal potere senza appello del regolamento carcerario. Deve farlo applicare, ma allo stesso tempo ne è vittima inconsapevole perché a esso sono subordinate anche le condizioni del lavoro in carcere. Il quadro che ne esce è desolante: detenuti deresponsabilizzati, affidati alle scansioni regolamentari, e operatori e agenti non in grado (non per loro colpa) di ottemperare ai principi costituzionali riguardanti la funzione della pena. Se, poi, mettessimo in conto anche i deficit strutturali, avvolti nel degrado ambientale più livoroso, e le tante problematiche del carcere di Sollicciano, capiremmo meglio il fallimento della giustizia penale in Italia. Un fallimento che, è bene ricordarlo, grava come un macigno sulle spalle dell’intera società”. Trani (Bat). Nel carcere inaugurato il nuovo spazio ludico “Magikambusa 2.0” radiobombo.com, 25 dicembre 2019 Il 14 dicembre 2019, presso la Casa Circondariali di Trani e? stato inaugurato il nuovo spazio ludico “Magikambusa 2.0”, progetto vincitore del bando Orizzonti Solidali dell’anno 2018, promosso dalla fondazione Megamark. Il progetto “Magikambusa 2.0”, gestito dall’associazione “Paideia” fin dal 2013, e? protagonista di una nuova rinascita, grazie ai fondi stanziati dalla fondazione Megamark e dal cofinanziamento ricevuto da parte dell’ufficio del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà? personale. Il progetto nasce nel 2013, grazie alla vincita del bando regionale “Principi attivi”; negli anni successivi l’associazione ha incontrato molte difficolta? per autofinanziarsi ma, grazie a piccole donazioni da parte dei privati, all’aiuto da parte dell’ufficio del garante dei diritti dei detenuti e dei minori e alle campagne di crowdfunding ha potuto continuare la sua importante attività. La vincita del suddetto bando ha permesso all’associazione di allestire un nuovo spazio ludico consono, dignitoso e confortevole, all’interno del quale i bambini che afferiscono alla realtà? del carcere possono trascorrere parte del loro tempo: lo spazio Magikambusa si interpone durante le attese, spesso lunghe, che precedono il colloquio con il parente detenuto e all’interno dello spazio i bambini possono trascorrere serenamente del tempo facendo attività? ludico-ricreative e laboratori manuali, guidati solamente da personale formato e qualificato quali educatrici e psicologhe. Durante la conferenza stampa moderata da Tania Sotero sono intervenuti diversi rappresentanti delle autorità? territoriali, ognuno con un contributo prezioso ed importante. In primis il consigliere regionale Domenico Santorsola che ha salutato l’assemblea a nome del nostro presidente Michele Emiliano, ricordando gli anni in cui le idee dei giovani pugliesi prendevano forma grazie ai bandi “Bollenti spiriti”; successivamente l’assessore Cecilia di Lernia ha portato i saluti istituzionali a nome del sindaco lodando le eccellenze locali come “Magikambusa 2.0”, infine l’assessore ai servizi sociali, Patrizia Cormio, ha espresso la sua piena disponibilità? a ricercare modalità? di collaborazione con il progetto. Era presente anche la vicesindaca del comune di San Ferdinando Arianna Camporeale, l’amministrazione del suddetto comune ha donando i giochi da esterni in modo da creare uno spazio all’aperto dove poter giocare in estate. Prezioso e? stato l’intervento dei detenuti facenti parte della squadra della M.O.F. del carcere, che si occupano in modo rapido ed eccellente del restauro delle giostrine oltre che della manutenzione e collaborazione attiva nel montaggio, allestimento e pulizia dello spazio ludico. Durante l’intervento della responsabile del progetto Annarita Amoruso e? stato chiaramente spiegato l’elevato valore sociale e morale del progetto e quanto sia importante che le istituzioni siano sempre presenti nel valorizzare progetti indispensabili come questo, poiché? l’infanzia va sempre e comunque tutelata in ogni contesto e situazione sociale. È proprio questo l’ideale condiviso con il direttore della Casa Circondariale Giuseppe Altomare, il quale ha sottolineato l’importanza di avere uno spazio attrezzato all’interno di un carcere, poiche? in queste attese, spesso, si generano conflitti e ansie che compromettono l’efficacia del colloquio stesso. Tra le azioni che l’associazione Paideia svolge all’interno del carcere, ci sono anche quelle a favore della tutela e supporto alla genitorialita?. Difatti in estate con la collaborazione preziosa dell’illustratore tranese Massimiliano Di Lauro, si e? proposto un percorso di illustrazione all’interno del carcere la cui traccia era ispirata al cambiamento personale, sociale e ambientale. Al termine della presentazione una giuria ha scelto il disegno da raffigurare sulle shoppers di Magikambusa: un baco che si trasforma in farfalla e vola verso il sole attraversando le sbarre. Le shoppers sono in vendita e servono per finanziare le attività che verranno svolte all’interno dello spazio di Magikambusa: scegliere questo regalo sostenibile per il Natale è un importante gesto di responsabilità civile verso un’utenza tanto delicata e sensibile che usufruisce di questi spazi. Chiunque voglia acquistare le shoppers o sostenere il progetto potrà farlo attraverso la pagina Facebook o il contatto Instagram dell’associazione. Foggia. Il Natale nel carcere con zampognari e panettoni per allietare la vigilia dei detenuti. immediato.net, 25 dicembre 2019 Gli organizzatori: “Questa giornata può diventare l’occasione per costruire ponti fra il mondo di fuori e i luoghi della reclusione”. L’atmosfera natalizia ha raggiunto, nel giorno della vigilia, anche l’istituto penitenziario di Foggia. In via delle Casermette il pomeriggio è stato animato dal cappellano fra Eduardo Giglia con il volontario Fabio Soldi, da Luigi Talienti, dai volontari dell’associazione Genoveffa De Troia, Flora Pistacchio ed Emanuele Pio e da Annalisa Graziano del CSV Foggia. L’accompagnamento musicale è stato curato dagli “Zampognari del Monte Gargano” Michele Campanile, Felice Ricucci e Libero Potenza che hanno intrattenuto i ristretti nelle sezioni con musiche natalizie a suon di zampogna e ciaramelle. “Ringraziamo - sottolineano gli organizzatori - la direzione, l’area trattamentale e la polizia penitenziaria per averci concesso anche quest’anno l’opportunità di ricreare l’atmosfera natalizia in giorni in cui la popolazione detenuta avverte maggiormente la distanza dai propri cari. È stato bello toccare con mano l’emozione dei musicisti che, con grande esperienza alle spalle, per la prima volta si sono esibiti all’interno di una casa circondariale. Fondamentali sono stati il supporto dei ristretti lavoranti, che ci hanno aiutato nella distribuzione di panettoni e caramelle, e il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, a cui va la nostra gratitudine per la sensibilità mostrata anche in questa occasione. Il giorno della vigilia di Natale può diventare così l’occasione per costruire ponti fra il mondo di fuori e i luoghi della reclusione”. Salerno. Natale in carcere con Eduardo e voglia di riscatto di Veronica Rodia salernosera.it, 25 dicembre 2019 Spettacolo dei detenuti di alta sicurezza nella Casa circondariale di Salerno. Tanta solidarietà e tensione verso la libertà. Il gran lavoro della direttrice Rita Romano. Un fine settimana intenso quello appena trascorso nella Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Fuorni, iniziato sabato con un incontro impegnato, sulla giustizia riparativa insieme al Garante dei detenuti per la Regione Campania, Samuele Ciambriello; c’è stato spazio anche per le emozioni: tra gli ospiti la mamma di Ciro Esposito, il tifoso del Napoli ucciso da un ultras romanista e Carmela, la vedova Veropalumbo, moglie del carrozziere ucciso da un proiettile vagante. “Nell’immaginario di tutti la pena è quella afflittiva, si riduce alla punizione di chi ha sbagliato, ma affinché la detenzione svolga la sua funzione adempiendo al compito indicato dalla costituzione la pena deve essere riparativa”, così la direttrice Rita Romano introduce il fitto programma di attività con questo preciso scopo, andando subito al punto. Ci accoglie nel suo ufficio, è intenta a redigere un documento, è domenica, sono le 9.30 e le attività già fervono. Riceve telefonate, dà disposizioni, “Noi qui facciamo miracoli” spiega. Nonostante il sovraffollamento e il personale di Polizia Giudiziaria sottodimensionato, ormai un leitmotiv sottolineato ad ogni visita dal Garante negli ultimi anni, i progetti non si fermano e senza rassegnazione aggiunge: “Purtroppo però si parla di noi solo per le risse, per il rinvenimento di telefonini”. Infatti, da poco insediata (febbraio 2019 ndr) la direttrice fu protagonista delle cronache perché coinvolta in una rissa tra detenuti. Le chiediamo subito, senza tema di sfociare in sterili discorsi di genere in un luogo in cui la separazione degli uomini e le donne è una prescrizione considerata necessaria, se essere donna e ricoprire questo ruolo rappresenti uno svantaggio. “Il carcere è un ambiente maschile e maschilista, ma il rispetto per la figura femminile è un valore qui largamente condiviso, è un punto a favore; quando per prima arrivai sul luogo degli scontri, “fermatevi fermatevi! che facciamo male alla direttrice!” furono le prime parole che sentii, poi però ci sono anche i contro”, ma non specifica e passa a parlare delle detenute femmine, quasi un collegamento consequenziale. Percepisco che con la sezione femminile è diverso, più complicato, e le sue parole lo confermano. “Le problematiche sono più complesse ma c’è empatia, siamo donne e sento dentro le loro sofferenze, molte sono mamme lontane dai figli”. Una professoressa dell’Istituto Alberghiero interno al carcere è più diretta: “Il reparto femminile è meno gestibile, è per questo che le attività sono minori, loro sono più promiscue e disinibite, fanno squadra ed hanno un forte temperamento. Qui ad esempio l’istruzione di grado superiore è prevista solo per gli uomini, le donne si fermano alle medie. Però prima non facevano proprio niente, adesso con la nuova direttrice fanno più cose”. Considerando superate le teorie biologiche del 19esimo secolo, la questione qui sollevata supera anche il diritto poiché molte delle differenze tra uomo e donna promanano dai modelli socio-culturali, dall’educazione, dall’apprendimento, dalla famiglia di origine. Non ha paura di cadere nei luoghi comuni di genere la direttrice Romano e dà alcune anticipazioni sulle attività future rivolte alle donne: un laboratorio di cucina, un corso di yoga, un corso per costumiste che “si concluderà con una sfilata e la creazione di due boutique una rosa per le donne e una celeste per gli uomini, perché c’è anche una povertà notevole e vogliamo mettere a disposizione abiti nuovi non sempre i soliti abiti usati ma” - continua - “il teatro è la massima espressione della valenza pedagogica di questi laboratori” e inizia a parlare dello spettacolo al quale stiamo per assistere. I detenuti in regime di Alta Sicurezza, quelli ad elevato spessore delinquenziale i cui rapporti con gli altri e con l’esterno sono limitati proprio per la natura organizzativa delle loro attività, da settembre stanno preparando uno spettacolo teatrale “Omaggio ai tre fratelli De Filippo”, e stanno per andare in scena. Il regista è Francesco Granozi, che ormai da 24 anni lavora in questo carcere con la sua scuola “Teatranimando”. È la prima volta che lavoro con i detenuti di Alta Sicurezza, ho sempre lavorato con i detenuti comuni e devo dire che questo non dice nulla sulla loro condotta, ho trovato grande educazione e rispetto per la mia figura e questo mi ha permesso di fare cose più difficili come Eduardo, coi comuni potevo fare solo cabaret, con qualche sketch” a sottolineare che la pericolosità dei reati, spesso ingiustamente, si estende alla pericolosità della persona che li ha commessi. Erano partiti numerosi poi sono arrivati a circa undici elementi a causa di trasferimenti e dimissioni, così hanno deciso di darsi il nome di “Compagnia In…stabile”. Appaiono impazienti ed emozionati quando sbucano dalle quinte per chiedere cose e incalzare mentre ascoltiamo Granozi che cerca di spiegare: “Hanno l’adrenalina giusta, si sono immedesimati, la prima fase è togliere quella pelle di serpente, come la chiamo io, la fase in cui hai paura di essere preso in giro dai compagni, di fare la figura dello scemo, ma da quando è uscito Gomorra è più facile, si scimmiotta quell’atteggiamento”. Una serie Tv che ha sdoganato la performance attoriale, giustificandola quasi ai loro occhi, ma una volta sul palco i volti non sono così intimidatori e risoluti, sono tutti molto giovani tranne qualcuno sulla cinquantina che sta scontando una lunga pena, le parole sono incerte ma c’è intenzione, alcuni sembrano avere una naturale predisposizione, si aggirano tra il pubblico con sicurezza. Il pubblico ride, coinvolto e mi volto a guardarlo. Dietro di noi a destra un gruppo della sezione femminile e a sinistra uno di quella maschile divisi dal corridoio centrale. I più battono le mani e incitano compiaciuti nelle scene ad elevata immedesimazione: una singolar tenzone, una battuta maschilista, una canzone tradizionale; una donna non ride, si sfrega le mani convulsiva, è quella che ci aveva agganciati prima dell’inizio dicendo: “A noi ci devono dare il lavoro, dobbiamo vedere gente diversa, qua dentro si parla solo di droga, so’ trent’anni che sto qua dentro, te lo dico da tossicodipendente…”. Poi l’ispettrice della Polizia Penitenziaria l’ha messa a tacere, l’ha fatta tornare al posto redarguendola con voce ferma per raggiungerci: “Il fatto di stare qua dentro da trent’anni le fa credere di essere il capo, di poter fare quello che vuole ma non è così”. Sono apostoli di un dio che non li vuole, sono le parole di Sabato che è qui da trent’anni e mette in poesia la sua testimonianza. Un dramma nel dramma che non muove il pubblico a commozione, che non coinvolge quanto il riso. In fondo traspare già dalle parole dello stesso Peppino De Filippo: “Sono sicuro che il dramma della nostra vita, di solito, si nasconde nel convulso di una risata provocata da una qualunque azione che a noi è sembrata comica. Sono fermamente convinto che, spesso, nelle lacrime di una gioia si celino quelle del dolore. Allora la tragedia nasce e la farsa, la bella farsa si compie!”. L’ovazione finale, un omaggio floreale, il commiato ad un luogo che fatica a riscattarsi dalla definizione turatiana di “cimitero dei vivi” e un ultimo scambio prima che le sbarre si chiudano alle nostre spalle. “Voi siete la giornalista? Potete mettere pure i nostri nomi nell’articolo, non vi preoccupate: sui giornali ci siamo già stati. Grazie signorì”. Crotone. Concluso il laboratorio di poesia nel carcere crotoneinforma.it, 25 dicembre 2019 I detenuti danno il benvenuto a Mons. Panzetta con una lettera ed una poesia. Dai tempi di Cesare Beccaria - e ancor di più nell’Italia democratica - il concetto di pena carceraria non va inteso come una “punizione”, ma anche e soprattutto come una “riabilitazione”, al fine di recuperare l’individuo, non solo nell’interessa dell’individuo stesso, ma anche di quello della società, che vede così diminuire il rischio di reiterazione del reato. In quest’ottica il Garante dei detenuti, avvocato Federico Ferraro ha patrocinato l’iniziativa di un gruppo di poeti e scrittori crotonesi che si è proposto per svolgere un corso di lettura e scrittura poetiche all’interno della casa circondariale di Crotone. I volontari (Pasquale D’Emanuele, Paola Deplano, Susy Savarese, Raffaella Trusciglio, Francesco Vignis e Davide Zizza) hanno letto e commentato con un gruppo di detenuti sia le proprie poesie che quelle di autori famosi, dando poi ai loro interlocutori la possibilità di esprimere per iscritto, anche in forma non necessariamente poetica, le loro emozioni e il loro vissuto. Il corso, svoltosi fra novembre e dicembre di quest’anno, è stato svolto con commozione e partecipazione, sia da parte dei docenti che da quella dei discenti. Imprescindibile l’appoggio e il sostegno del Direttore del carcere, dottoressa Caterina Arrotta, del Comandante dottoressa Manon Giannelli, dell’Educatrice dottoressa Concetta Froio e del personale di polizia penitenziaria tutto che hanno reso possibile, con la loro fattiva disponibilità, lo svolgimento del corso stesso. Vista l’entusiastica partecipazione dei detenuti il gruppo di poeti, sempre tramite l’Avvocato Ferraro, ha nuovamente richiesto alla Direzione della Casa Circondariale l’autorizzazione a ripetere l’iniziativa da gennaio in poi. Al termine del corso i detenuti della casa circondariale di Crotone hanno scritto una lettera di benvenuto al nuovo arcivescovo Mons Angelo Raffaele Panzetta, nell’attesa di poterlo incontrare e pregare insieme a lui, ed una poesia dal titolo Gesù e Dio, a tema religioso. Ivrea (To). Pranzo di Natale in carcere, con i detenuti gli allievi dell’Istituto Alberghiero di Sandro Ronchetti La Sentinella del Canavese, 25 dicembre 2019 La Casa circondariale di Ivrea è stata una delle 14 strutture penitenziarie italiane a ospitare la giornata di festa e il pranzo d’amore” nuovamente promosso quest’anno nell’ambito della Prison Fellowship Italia, in collaborazione tra l’associazione di volontariato Itaca di Biella e i volontari della decina di gruppi ecclesiali di Rinnovamento nello Spirito Santo della diocesi di Ivrea. La giornata è iniziata con la celebrazione della messa da parte del vescovo Edoardo Aldo Cerrato, che ha annunciato ai partecipanti - detenuti, polizia penitenziaria e volontari - che tornerà in carcere il 24 dicembre a celebrare l’eucarestia di Natale. Prima del pranzo d’amore preparato, e servito eccezionalmente per l’occasione nelle lunghe tavolate allestite nei corridoi dei quattro piani dell’istituto carcerario, dagli allievi delle classi terza, quarta e quinta della scuola Alberghiera Gae Aulenti di Cavaglià, i giornalisti sono stati accompagnati per l’occasione a visitare la cucina ed anche alcuni dei reparti della Casa Circondariale, dove sono stati organizzati dei laboratori da parte dei volontari dell’associazione Itaca. Gli studenti si sono impegnati molto nella preparazione del pranzo: risotto allo zafferano, fesa di tacchino con salsa di senape, fagiolini al burro e patate al forno, panettone con crema inglese. Durante il pranzo d’amore, detenuti e ospiti hanno ricevuto la visita della direttrice del carcere Assuntina Di Rienzo. Prima del pranzo, invece, giornalisti e volontari, accompagnati dai garanti dei diritti dei detenuti regionale, Bruno Mellano, ed eporediese, Paola Perinetto, hanno potuto vedere dei manufatti di cucito e non solo, realizzati nel laboratorio creativo Penelope da alcuni detenuti ai quali sono stati riconosciuti anche parte dei ricavi dalla loro vendita all’interno ed anche in iniziative fuori dal carcere, curate da Caterina Miracola dell’associazione Itaca. Altra importante iniziativa, rivolta come ha spiegato la responsabile Susanna Peraldo “alla speranza del futuro”, è stata quella del recupero della serra, che era nata ai tempi del direttore Enzo Testa, negli anni Novanta, poi abbandonata e rimasta inutilizzata per molti anni. “Abbiamo già lavorato molto per il recupero delle due serre interne prima abbandonate insieme ad alcuni detenuti volontari che hanno prodotto anche degli ortaggi come pomodori e cavoli -ha spiegato Susanna Peraldo - che abbiamo venduto all’amministrazione penitenziaria ed anche all’esterno della casa circondariale. Anche in questo caso, come in quello del laboratorio manifatturiero Penelope, abbiamo riconosciuto parte dei ricavi ai detenuti impegnati nel lavoro nelle serre”. Il progetto proseguirà nel 2020 e sarà ampliato. “Da gennaio - ha concluso Peraldo - attraverso la nostra cooperativa La Pecora Nera potremmo occupare due o tre detenuti che verranno regolarmente remunerati per il loro lavoro di produzione degli ortaggi nelle serre della casa circondariale di Ivrea”. Comunità di Sant’Egidio. A Natale aggiungi un posto a tavola di Laura Bellomi Famiglia Cristiana, 25 dicembre 2019 Il 25 dicembre la Comunità di Sant’Egidio offre pranzo e compagnia a chi passerebbe la festa da solo. 60 mila pasti e centinaia di volontari in tutta Italia: fra loro anche Antonino, che fino a poco fa sedeva fra gli ospiti. Un tempo sedeva fra gli invitati, oggi aiuta i volontari. Anche quest’anno passerà tra i tavoli a portare lasagne, polpettone e un po’ di quel calore che a chi attraversa un periodo difficile manca come il pane. Il 25 dicembre Antonino sarà volontario per “Aggiungi un posto a tavola”, l’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio per offrire pranzo e compagnia a chi passerebbe la festa da solo. E lo sarà proprio nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, dove anni fa sedeva tra gli invitati. “Che differenza c’è? Noi di Sant’Egidio diciamo che chi aiuta si confonde con chi è aiutato!”, dice Antonino, 60 anni, originario di Palermo. Arrivato a Roma in cerca di lavoro, Antonino è stato costretto alla vita di strada dai problemi di salute e dalla lontananza dalla famiglia. Si arrangiava con piccoli lavoretti - l’ultimo è stato vendere popcorn al cinema - e viveva in macchina. Un giorno ha incontrato i volontari di Sant’Egidio: “Ero alla stazione Tuscolana, Marco mi ha offerto un panino ed è nata un’amicizia”, ricorda. Così ha iniziato a dare una mano nelle attività della Comunità, portando pasti caldi alle persone senza fissa dimora: “Lo faccio anche oggi, per restituire un po’ del calore ricevuto quando stavo al freddo”, dice mentre ricorda orgoglioso che dieci anni sedette a tavola accanto a Benedetto XVI e al fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. Il prossimo 25 dicembre le tavolate imbandite dai volontari non saranno solo quelle di Trastevere. Dal primo pranzo del 1982 con una ventina di invitati, oggi l’iniziativa si svolge in centinaia di città italiane, istituti per anziani e carceri, coinvolgendo migliaia di persone tra le più povere del nostro Paese. E non è finita qui: solo nello scorso 2018 ai 60 mila invitati in Italia si sono aggiunti 240 mila ospiti in tutto il mondo, tra Europa, Africa, Asia e America. In Italia il menù prevede antipasto, lasagne, polpettone con verdure, frutta fresca, panettone e spumante, caffè e cioccolatini. Inoltre tutti gli ospiti che sono conosciuti dai volontari riceveranno regali pensati apposta per loro: oggetti utili come coperte e sacchi a pelo, radio, indumenti, prodotti per l’igiene personale, zainetti, borsoni, ma anche alimenti e dolci. Per sostenere “Aggiungi un posto a tavola” e permettere a Sant’Egidio di accogliere un numero sempre maggiore di persone, fino al 25 dicembre si può contribuire con un sms o chiamata da rete fissa al numero solidale 45586 per donare da 2 a 5 o 10 euro. Dj Fabo, Cappato assolto: tutti più liberi di Marco Perduca Il Riformista, 25 dicembre 2019 A quasi due anni dai fatti, ieri si è concluso il procedimento a carico di Marco Cappato per aver accompagnato Fabiano Antoniani, meglio noto come DJ Fabo, a ottenere il suicidio assistito in una clinica Svizzera. La Corte di Assise di Milano ha assolto il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni perché il fatto non sussiste. A seguito di un incidente stradale che lo aveva costretto a letto e alla progressiva perdita della vista, DJ Fabo aveva manifestato pubblicamente il proprio desiderio di non voler più soffrire nelle condizioni in cui era costretto e da cui non sarebbe mai più potuto tornare indietro. “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione”, aveva scritto al Presidente delle Repubblica Mattarella nel 2017 confessando di non trovar più alcun senso in quella sua vita, “ritengo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”. Una lettera simile, nella determinazione, a quella inviata da Piergiorgio Welby nel 2006 e indirizzata all’allora presidente Giorgio Napolitano. Nel febbraio del 2017 Marco Cappato, che da anni assieme alla vedova di Welby, Mina, e a Gustavo Fraticelli aveva creato un’associazione per aiutare chi voleva guadagnare una morte opportuna e porre fine a una vita considerata non più degna di essere vissuta, come diceva Welby, decise di accompagnare personalmente Antoniani in Svizzera per vedere le sue volontà rispettate. Una decisione in contrasto con il nostro codice penale presa nella convinzione che norme che limitano le libertà individuali debbano esser disobbedite per creare regole che consentano libere scelte che non recano danno ad altri. Appena rientrato a Milano si presentò ai carabinieri raccontando quanto fatto e il perché. Il processo Cappato dovrà esser studiato, e non solo per il suo epilogo. Le decine di incontri e convegni promossi dall’Associazione Luca Coscioni ne hanno messo, e continuano a mettere, in evidenza la complessità procedurale e le implicazioni etico-morali della vicenda - oltre che naturalmente i profili di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Nella primavera del 2017 il Giudice per le indagini preliminari aveva infatti chiesto l’imputazione coatta dell’ex eurodeputato perché l’accusa si era schierata dalla parte del gesto di Cappato rendendo difficile la presa di una decisione da parte del Tribunale di Milano. Del caso fu interessata la Corte costituzionale perché la vicenda aveva fatto emergere un potenziale vuoto normativo relativo ai diritti umani nella fase finale della vita in presenza di circostanze impensabili al tempo in cui fu scritto il Codice Rocco. Nel settembre del 2018 i giudici costituzionali, pur rilevando la necessità di definire alcune delle tutele necessarie al rispetto di una decisione da prendersi in ossequio all’articolo 32 della Costituzione, anche alla luce dell’entrata in vigore del cosiddetto “testamento biologico”, decisero di attendere per 11 mesi il legislatore per le opportune modifiche normative. La mancanza di accordo tra Lega e Movimento 5 Stelle ha bloccato l’iter legislativo incardinato a partire da una proposta di legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia presentata alla Camera dall’Associazione Luca Coscioni nel 2013. Nella sua arringa finale l’avvocato Francesco De Paola, difensore di Cappato assieme a Massimo Rossi, ha precisato che “la Corte Costituzionale ha aperto la strade delle scriminanti procedurali che fanno venire meno la illegittimità del fatto nel momento stesso in cui si compie” chiedendo che il suo assistito venisse assolto “perché il fatto non costituisce reato”. L’avvocato Rossi, in linea con la Procura, l’aveva invece chiesta “perché il fatto non sussiste”. “L’assoluzione di Cappato ha dato libertà alla libertà”, ha commentato Filomena Gallo, avvocato e Segretario dell’Associazione Luca Coscioni che ha coordinato il collegio di difesa. Si tratta di una conquista giunta nelle ore in cui la madre di Cappato s’è spenta per una grave malattia. A lui i ringraziamenti perché sarà possibile finalmente scegliere della propria vita senza rischiare penalmente e a tutta la sua famiglia il cordoglio di chi ha avuto la fortuna di conoscere Alberta. Modou, cui hanno sterminato la famiglia a picconate, e quei mondi così lontani a due passi da noi di Antonio Scurati Corriere della Sera, 25 dicembre 2019 Un trasloco di libri con l’aiuto di un ragazzo del Gambia: generosità senza calcoli, ricordi di una famiglia che non c’è più. E un asilo che potrebbe non arrivare: per due ragioni entrambe assurde. “Mandingo!”. Io sono in cima a una scala con dei libri in mano. Modou, che me li estrae da uno scatolone, è inginocchiato a terra. Eppure, in questo momento, lui è in alto e io in basso. L’inestirpabile fierezza delle radici con cui pronuncia quella parola - Mandingo - lo eleva. Per quanto bassa possa essere la sua attuale condizione, l’araldica di padri ignoti e scomparsi lo anima di giusto orgoglio. Io mi sono limitato a chiedere che lingua si parli nel suo Paese d’origine, il Gambia. Eppure, per Modou, umile uomo di fatica, quella semplice domanda è valsa un riconoscimento onorifico. Allora, io inizio a nominargli gli scrittori centroafricani presenti nella mia libreria: Senghor, Achebe, Soyinka... Per ognuno di quei nomi, lo sguardo di Modou s’illumina, il sorriso si allarga: li conosce tutti. Da quel momento in avanti, il suo lavoro, già coscienzioso e accurato, diventa addirittura meticoloso. Le sue grandi mani sembrano accarezzare ogni singolo libro prima di riporlo sullo scaffale. Ho incontrato Modou (il nome è fittizio) in occasione del trasloco del mio studio. Se ne è occupato insieme a Mario (chiamiamolo così). Modou, sorriso smagliante, originario dell’Africa occidentale, è alto, robusto, fiero nel portamento ma gentile nei modi, serafico, mussulmano osservante, giovane e nero come l’ebano; Mario, invece, milanese nato in via Gola, storica sacca di malavita, è minuto, nervoso, magrissimo, cattolico senza Dio, un po’ curvo come chi si senta perennemente minacciato, non più giovane, bianco e con un passato di rapinatore di banche. Eppure, lavorando di buona lena fianco a fianco, Modou e Mario mi hanno inscatolato trent’anni di libri in mezza giornata. Sono entrambi alle dipendenze di Loris (altro nome fittizio), un ex delinquente redento grazie a una cooperativa di sgomberi che da decenni - con discrezione e senza aiuti pubblici - in collaborazione con il carcere di Opera, ha reinserito nella società centinaia di detenuti (si chiama Di Mano In Mano e ora gestisce bellissimi negozi di vintage). Loris, nato a Mesagne (culla della Sacra Corona Unita), ha vissuto tra la strada, il riformatorio e il carcere per metà della sua vita (“Che facevi Loris?”; “Truffe, clonazioni, un po’ di tutto, quel che c’era da fare”). Nella seconda metà della sua esistenza, però, Loris ha deciso di riscattare la prima. È riuscito ad avviare una sua piccola ditta di traslochi e, assumendo ex-detenuti come lui, sta ampiamente ripagando il dono che ha ricevuto. Il cellulare infilato dentro il casco da motociclista, il ventre prominente sotto la tuta da ginnastica, rigorosamente del Milan, Loris organizza con slancio il duro e onesto lavoro dei suoi “ragazzi” come un tempo organizzò le loro truffe. Magari fanno un po’ di caciara ma di una cosa puoi star certo: Loris e la sua banda, anche quando hanno espletato tutte le mansioni previste dal contratto, non si tirano certo indietro. Ti aiutano finché non è tutto a posto, anche al di là dei loro obblighi, finché sentono di aver fatto le cose per bene, senza risparmiarsi e senza addebitarti gli extra. Mettono nel lavoro quella generosità priva di calcoli di cui sono capaci gli uomini che hanno condotto vite dissipate. Terminato il lavoro, si va a pranzo insieme. La curiosità mi morde. Prendo Loris in disparte. “Scusa Loris... ma cosa ha combinato Modou?”. “Modou?!”, esclama lui come rinculando. “Assolutamente niente! Modou non beve, non fuma, non va a donne perché fedele alla sua promessa sposa e prega secondo i precetti. Ovunque si trovi, s’inginocchia anche in mezzo ai calcinacci e prega. Avessimo noi i suoi valori morali!”. Abbozzo un sorriso cautelativo: “Ma, allora, perché sta in mezzo a voi farabutti?”. Loris s’incupisce, e non a causa del mio bonario sfottò. Nel suo tipico borbottio ai confini dell’incomprensibile, lo sento dire: “Quando era bambino, gli hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi”. Poi, dopo una breve pausa di costernazione, aggiunge: “A colpi di piccone”. Dopo aver saputo, mentre osservo quel ragazzone gioviale, serio e laborioso divorare il suo piatto di maccheroni, mi maledico per la mia arrogante stupidità: ho creduto che bastasse sciorinare qualche nome di scrittore per saltare l’abisso che separa la pigra esistenza di noi privilegiati dall’odissea dei dannati della terra. Ogni giorno, mi dico, in questa modernità porosa, dentro la quale convivono epoche lontane tra loro secoli e millenni, sfioriamo, con noncuranza o dispetto, esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle esperienze cui noi non riusciremmo nemmeno ad assistere se proiettate su uno schermo cinematografico. Con discrezione, mi sono informato. Modou dorme da anni in una camerata di un centro di accoglienza e, sebbene lavori da anni per Loris con regolare contratto, non gli è concesso un futuro in Italia perché il ragazzo cui hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi a colpi di piccone è ancora in attesa di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Non solo: c’è un alto rischio che il nostro misericordioso Paese non glie lo conceda. Impossibile, direte voi. E, invece, purtroppo, è addirittura probabile. Per due ragioni, entrambe assurde. La prima è che un giudice ha ritenuto dubbia la sua testimonianza allorché, richiesto di rivivere la scena del suo trauma infantile, Modou ha restituito lo sguardo del bambino, e quello dei suo codici culturali, narrando di “demoni che aggredirono il villaggio uscendo dalla foresta armati di machete e di picconi”. La seconda è che Yahya Jammeh, il dittatore che ordinò i massacri in Gambia, è stato finalmente deposto. E tanto basta perché, come è accaduto sistematicamente negli ultimi mesi con i rifugiati del Gambia, un giudice possa, ritenendo che sia per lui cessato ogni pericolo, rispedire a casa un ragazzo che non ha più casa, negandogli quella vita che sta laboriosamente, coraggiosamente cercando di ricostruirsi in mezzo a una turba di fantasmi di padri, madri e fratelli massacrati. La celebre “Christmas Carol” di Dickens comincia con un morto (“Marley era morto, tanto per cominciare”). Anche questo nostro piccolo racconto di Natale comincia con la morte. Modou, però, è vivo. Vivo della vita flebile ma tenace dei superstiti, della promessa struggente di un mondo prossimo alla propria apocalisse. Ora sta a noi mantenere quella promessa. Dall’antisemitismo di Corbyn a quello nostrano “di maniera” pieno di ambiguità di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio, 25 dicembre 2019 Secondo il rabbino della Rocca dalla persecuzione degli ebrei è derivato un senso di colpa che è una chiave per comprendere le spinte antisemite di oggi Con due editoriali, documentati e argomentati, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli hanno affrontato sul Corriere della Sera il tema dell’antisemitismo in Italia e Gran Bretagna. Mieli dimostra che il leader del partito laburista Jeremy Corbyn che ha perso rovinosamente le elezioni anche per ambiguità su questo tema - merita appieno le accuse e le censure di antisemitismo che svariate parti, anche autorevolissime, della società britannica gli muovono da tempo. E si stupisce che “la sinistra politica e culturale del nostro Paese (con alcune, purtroppo poche, lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury”. Mieli dunque stigmatizza non solo “l’ambigua sinistra inglese” ma anche la sinistra italiana che evidentemente, Mieli non lo dice ma lo lascia supporre, fa prevalere a riguardo la scelta dell’affinità politica sul dovere della condanna morale. E qui soccorre Galli della Loggia, che investigando “la realtà profonda dell’antisemitismo” ne pone in luce la peculiarità italiana, definita una sorta di antisemitismo “indiretto” o “di risulta”. Sicché la variante italiana della peste antisemita (espressione nostra, questa) sarebbe alimentata anche “da un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei, cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei - solo loro, solo e sempre esponenti della politica e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati - fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo”. Antisemitismo “di rivalsa” e “d’invidia”, “vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”, come si esprime Galli della Loggia, il quale pare considerarlo anche il risvolto dell’attestazione di un preteso “impeccabile status etico- ideologico”, non proprio “la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei” ma una forma strumentale, occasionale ed enfatica, di adesione (“vicinanza/ solidarietà/ amicizia/stima ecc. ecc.”) all’Ebraismo. Il rabbino Roberto Della Rocca ha scritto sulla stessa testata che Galli della Loggia “ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo.” A nostro modo di vedere, esiste un’altra linea di demarcazione che si diparte dalle considerazioni di Galli della Loggia. Troppi ambigui personaggi, anche non screditati, affollano la rumorosa categoria degli anti- antisemiti, come vorremmo definirla a nostra volta. Costoro sfoggiano un anti-antisemitismo cerimoniale, di maniera, ad uso e consumo di telecamere, talk show, “social” e consigli comunali. Nelle aporie dell’esibita contrarietà all’antisemitismo, tipica di un certo strato politico- culturale della società italiana, è riscontrabile invece un latente cripto antisemitismo. Gl’Italiani anti- antisemiti, infatti, non sempre sono filo- israeliti, per non dire filo- israeliani. Dell’antisemitismo avversano il mallo anziché il gheriglio. Non si vive meglio negli Stati più ricchi, ma in quelli più egualitari di Fabio Ambrosino sentichiparla.it, 25 dicembre 2019 Qualche settimana fa ha destato una certa preoccupazione la decisione della Commissione Europea di dimezzare la stima di crescita del prodotto interno lordo (Pil) italiano per l’anno 2020, portandola dallo 0,7 per cento previsto in estate allo 0,4 per cento. Il Pil è infatti il parametro più utilizzato per definire il grado di sviluppo e di ricchezza di uno Stato e molte delle politiche messe in atto dai governi dei Paesi economicamente avanzati sono finalizzate a favorirne la crescita. Ma se il Pil non fosse la misura giusta da tenere in considerazione per stabilire il benessere di uno stato? Se esistesse un parametro migliore? È di questa opinione l’accademico e saggista inglese Richard Wilkinson, impegnato da oltre quarant’anni nello studio degli effetti delle disuguaglianze sociali. Come spiega all’inizio di una famosa Ted talk di qualche anno fa, infatti, prendendo in considerazione diverse misure relative ad aspetti sociali e sanitari di una popolazione (aspettativa di vita, mortalità infantile, mobilità sociale, alfabetizzazione, obesità e altre) si vede chiaramente come queste non siano correlate al reddito interno lordo, un derivato del Pil. Esiste invece una stretta relazione tra queste misure e un altro fattore: il livello di disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Guardando i risultati delle analisi di Wilkinson e colleghi - dove questo aspetto viene rappresentato mediante il rapporto tra il reddito medio del 20 per cento più ricco della popolazione e quello del 20 per cento più povero - si nota infatti come nei Paesi caratterizzati da una maggiore disuguaglianza i problemi sociali siano più diffusi e rilevanti. “Il benessere medio delle nostre Società non dipende più dal reddito nazionale o dalla crescita economica”, spiega Wilkinson, “sono fattori molto importanti nei Paesi poveri: non nel mondo ricco e sviluppato. Qui contano le differenze esistenti tra noi e dove ci posizioniamo l’uno rispetto all’altro”. Facciamo degli esempi. Prendendo in considerazione il livello di fiducia di una popolazione - ovvero “la percentuale di cittadini che concorda con il fatto che gli altri siano degni di fiducia” - si nota che nei Paesi con una maggiore disuguaglianza nella distribuzione del reddito, come Portogallo e Stati Uniti, questa può essere addirittura inferiore al 15 per cento, mentre nei contesti più egualitari, come Giappone, Svezia e Norvegia, arriva a raggiungere il 60-65 per cento. Un altro esempio: il tasso di omicidi. Analizzando i dati relativi agli Stati americani e le province canadesi si vede che in quelli meno egualitari questo parametro può arrivare a oltre 150 uccisioni per milione di abitanti, mentre in quelli con meno differenze di reddito si aggira intorno ai 15. Lo stesso rapporto di 1:10 emerge poi in merito al numero di detenuti: 400 ogni 100.000 abitanti nei contesti meno egualitari, 40 in quelli più egualitari. “I Paesi con maggiori differenze di reddito sono anche quelli con una maggiore tendenza a mantenere la pena di morte”, aggiunge Wilkinson. Qui contano le differenze esistenti tra noi e dove ci posizioniamo l’uno rispetto all’altro. Molto significativi sono poi i dati relativi alla salute mentale, al centro dell’ultimo lavoro del ricercatore inglese - “The Inner Level” - scritto insieme a un’altra protagonista della ricerca mondiale sulle disuguaglianze: Kate Pickett. Prendendo come riferimento la percentuale di cittadini che ha avuto problemi di natura psichiatrica (compresi quelli legati alle dipendenze), infatti, si nota come questa arrivi al 20-25 per cento nei Paesi meno egualitari, mentre in quelli con differenze di reddito minori scende fino all’8 per cento. Fa eccezione l’Italia, con una percentuale di abitanti con problemi psichiatrici molto bassa (8 per cento) a fronte di un alto livello di disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Un dato che secondo gli autori potrebbe essere legato alla presenza, nel nostro Paese, di “strette relazioni familiari”. Wilkinson e Pickett ipotizzano anche dei possibili meccanismi psicosociali sottostanti la relazione tra salute mentale e distribuzione del reddito. Rifacendosi ai lavori di Oliver James, Alain de Botton, Robert Frank e Richard Layard, i due ricercatori sottolineano come nei contesti meno egualitari il concetto di classe sociale acquisti maggiore importanza, favorendo lo sviluppo di disturbi d’ansia legata a fattori come la competizione, l’insicurezza e la preoccupazione del giudizio altrui. Una relazione, questa, che trova riscontro anche a livello fisiologico. Nel 2004, una metanalisi in cui sono stati integrati i risultati di 208 studi ha messo in evidenza come le minacce di tipo socio-valutativo siano quelle che determinano la maggiore produzione di cortisolo, l’ormone dello stress. Non importa molto come si arriva a una maggiore equità, purché ci si arrivi in qualche modo. Inevitabilmente, tutti questi risultati hanno delle implicazioni di natura politica. Prendendo in considerazione i due Paesi più egualitari del mondo - Svezia e Giappone -, ad esempio, Wilkinson sottolinea come nonostante entrambi raggiungano ottimi risultati in termini socio-sanitari si tratti in realtà di due contesti estremamente diversi. “Non importa molto come si arriva a una maggiore equità, purché ci si arrivi in qualche modo”, spiega. Infatti, mentre in Giappone la differenza tra i redditi più alti e quelli più bassi è semplicemente molto ridotta e lo Stato si limita a tassare poco tutta la popolazione, in Svezia questo gap è invece molto elevato ma viene bilanciato con una tassazione fortemente progressiva e uno stato sociale molto forte. Uno degli aspetti più interessanti di questo tipo di politiche, infine, è che nei Paesi più egualitari non sono soltanto i poveri a stare meglio, ma anche i ricchi. Wilkinson lo dimostra portando ad esempio uno studio che aveva messo a confronto i tassi di mortalità infantile della Svezia con quelli di Inghilterra e Galles. Mentre nel Regno Unito esiste una forte disuguaglianza nella distribuzione del reddito e la mortalità infantile è nettamente superiore nelle classi sociali più povere, in Svezia l’incidenza di decessi infantili è relativamente costante. A dimostrazione dell’universalità dei benefici di una società più egualitaria, tuttavia, in qualsiasi punto della scala gerarchica della società svedese il tasso di mortalità infantile è inferiore rispetto a quello relativo alla fascia di popolazione inglese e gallese più ricca. Com’è facile sentirsi buoni a Natale sfruttando gli schiavi cinesi di Leone Grotti Tempi, 25 dicembre 2019 Una bambina ha scoperto che il suo bigliettino di auguri, venduto dalla Tesco per finanziare la ricerca sul cancro, è prodotto in Cina dai detenuti ai lavori forzati. Risparmiateci almeno l’ipocrisia. C’è solo una cosa più odiosa, ingiusta e insopportabile dei miliardi guadagnati dal regime comunista cinese attraverso lo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti. Ed è la retorica delle ricche aziende occidentali, che su quel lavoro costruiscono una fortuna e che ogniqualvolta viene squarciato il velo della verità, danno alle stampe comunicati ipocriti pieni di ideali molto natalizi, per poi tornare al business as usual. Il caso Tesco, in questo senso, è solo l’ultimo di una lunga serie. La notizia, pubblicata in origine dal Sunday Times e poi ripresa da tutti i giornali del mondo, in particolare dalla Bbc, è ormai nota: Florence Widdicombe, bambina inglese di 6 anni di Tooting, quartiere a sud di Londra, ha comprato un pacchetto di bigliettini natalizi della Tesco da una sterlina e cinquanta per fare gli auguri alle sue amiche. I bigliettini, oltre ad avere un costo irrisorio, vengono venduti per raccogliere 300 mila sterline per la ricerca sul cancro e il diabete della British Heart Foundation. Non c’è niente insomma di più natalizio, secondo la vulgata che vuole il Natale come il periodo per eccellenza per “sentirsi” buoni. Dentro una delle cartoline, però, la piccola Florence ha trovato un messaggio molto poco natalizio: “Siamo prigionieri stranieri nella prigione cinese di Qingpu, Shanghai. Siamo costretti a lavorare contro il nostro volere. Ti prego aiutaci, informa le organizzazioni dei diritti umani e contatta il signor Peter Humphrey”, cittadino britannico che aveva passato due anni in quella stessa prigione, denunciandone le orribili condizioni e gli abusi da parte dei secondini. I bigliettini venivano prodotti e confezionati per la Tesco dalla Zhejiang Yunguang Printing, che era stata monitorata a detta del colosso britannico solo un mese fa, senza che nessun problema fosse riscontrato. Ora la Tesco ha tolto dal commercio i bigliettini provenienti da questa azienda, mantenendo sugli scaffali invece quelli prodotti da altre aziende cinesi coinvolte. Un portavoce della catena di supermarket ha anche dichiarato: “Noi aborriamo l’uso del lavoro forzato carcerario e non permettiamo che venga usato nella nostra filiera. Siamo scioccati da queste accuse e abbiamo sospeso immediatamente la fabbrica che ha prodotto questi bigliettini e avviato un’indagine”. Non c’è niente di meglio che una bella dichiarazione di intenti e una indagine inefficace per lavarsi la coscienza. La verità è che il lavoro forzato viene utilizzato regolarmente nelle prigioni cinesi, tutti lo sanno ma a nessuno interessa cambiare il sistema che garantisce costi di produzioni bassissimi, né al governo né alle ipocrite aziende occidentali. Nel 2012 Julie Keith, residente a Portland, Oregon, ha trovato un messaggio simile nelle sue decorazioni di Halloween, fabbricate nel centro di rieducazione attraverso il lavoro di Masanjia, dove vengono torturati i membri del Falun Gong. Nel 2014 Karen Wisinska, Irlanda del Nord, ha scoperto che i suoi jeans venivano prodotti con il lavoro forzato dal messaggio scritto sull’etichetta. Nel 2015, Shahkiel Akbar, ha trovato un messaggio simile all’interno delle calze del marchio low cost Primark acquistate in un Metrocentre di Newcastle: “Sono soggetto a torture estreme”, diceva l’autore. Nel 2017 Jessica Rigby, dell’Essex, ha scoperto che il suo bigliettino di auguri comprato in un supermercato di una delle catene più grandi del Regno Unito, Sainsbury’s, era stato prodotto con il lavoro forzato in una prigione di Guangzhou. Di quanti altri esempi abbiamo bisogno per capire che c’è un motivo se in Cina la produzione ha un costo così basso e conveniente? E chi può dire quanti messaggi di questo tipo siano stati scritti da prigionieri, abusati e torturati, ma scoperti prima che i prodotti fossero venduti? Davanti a così tante testimonianze, come può il portavoce della Tesco parlare di prodotti “verificati in modo indipendente”? Come fa a essere sicuro che le altre aziende che fabbricano i bigliettini natalizi non ricorrano al lavoro forzato? Per sua stessa ammissione la Zhejiang Yunguang Printing era stata controllata e giudicata senza macchia appena un mese fa. Come può dire allo stesso tempo che la Tesco “aborrisce il lavoro forzato” e poi lasciare in vendita i bigliettini fabbricati da altre aziende cinesi? Che il regime comunista utilizzi il lavoro forzato carcerario non è una novità e nessuno, nel 2019, può scandalizzarsi: è un sistema che va avanti dal 1949, da quando è stata fondata la Repubblica popolare cinese. Che le aziende occidentali facciano la fila per produrre in Cina e così aumentare i profitti sfruttando gli irrisori costi di produzione non può scandalizzare nessuno: è all’alba dei tempi che i soldi sono più importanti dei diritti umani. Sarebbe bello però se la Tesco ci risparmiasse almeno l’ipocrisia di chi fa finta di essere all’oscuro di tutto e sembra considerare la Cina come il nuovo Bengodi del capitalismo etico. Il colosso della distribuzione continui pure a fare profitti, devolvendone una parte per scopi benefici e natalizi per far sentire tutti più “buoni”, utilizzando i nuovi schiavi cinesi. Non ci venga però a parlare di “shock”, “indagini indipendenti”, “buone pratiche” e ciarpame assortito. Se la catena Tesco vuole davvero essere etica, non ha che da interrompere la produzione in Cina e finanziare con le sue tasche la lodevole ricerca sul cancro. Ma questo non accadrà, perché sentirsi buoni è molto più facile e vantaggioso che esserlo. Sudan. Inchiesta per crimini in Darfur: Omar Al Bashir indagato di Cornelia Toelgyes africa-express.info, 25 dicembre 2019 Il procuratore generale del Sudan, Tagelsir el-Heber, ha aperto un’inchiesta sui crimini commessi nel Darfur da una cinquantina di vecchi dirigenti del regime ormai crollato, già indagato dalla Corte Penale Internazionale. Tra gli indagati spiccano i nomi dell’ex presidente, Omar Al Bashir, quello dell’ex ministro alla Difesa, Abdel-Rahim Mohamed Hussein, e del governatore del Kordofan, Ahmad Haroun, tutti e tre attualmente detenuti a Khartoum. Mentre altri due personaggi, Abdallah Banda (uno dei leader del gruppo di opposizione Justice and Equality Movement) e Ali Kushayb (ex capo delle feroci milizie tribali janjaweed), sono tutt’ora ricercati. Nel marzo 2009 la CPI aveva spiccato un mandato d’arresto nei confronti del vecchio despota per crimini contro l’umanità (compresi gli stupri di massa) e genocidio proprio per le violenze commesse in Darfur. Malgrado ciò, mentre era al potere, è riuscito a spostarsi dal Paese senza che nessuno lo consegnasse alla giustizia. Questo perchè il CPI non ha una forza di polizia propria, ma delega gli Stati membri il compito di fermare le persone sospette o colpite da un mandato di cattura. L’anziano dittatore sarà davvero processato per i crimini che gli sono attribuiti? Vedremo. Intanto le indagini sono in corso, come ha annunciato domenica el-Heber, che ha precisato: “Abbiamo iniziato a indagare già nel 2003”. Durante il sanguinoso conflitto nel Darfur sono state uccise oltre 300.000 persone, altre 2.5 milioni hanno lasciato le loro case, per non parlare delle violenze che hanno dovuto subire le donne di quella regione, in particolare dai sanguinari janjaweed, diavoli a cavallo” (come li chiamava la popolazione): bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi. Omar al-Bashir, ex presidente del Sudan - Durante la conferenza stampa di domenica, il procuratore sudanese ha spiegato che è stato spiccato un mandato d’arresto internazionale dall’Interpol nei confronti di Salah Gosh, ex capo dei servizi segreti. L’ufficio della procura generale sta anche investigando su autorità e persone che avrebbero ricevuto denaro dall’ex presidente. In altre parole sono alla ricerca di coloro che si sono lasciati corrompere dall’ex dittatore. Tra l’altro Al Bashir è sotto inchiesta, insieme ad altri islamici, per il colpo di Stato del 1989, quando, come colonnello dell’esercito sudanese, ha guidato un gruppo di ufficiali in un incruento colpo di Stato militare che rovesciò il governo civile del primo ministro Sadiq al-Mahdi. Supercoppa in Arabia Saudita: le donne sugli spalti ma le attiviste in carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 25 dicembre 2019 Il match tra Juventus e Lazio in Arabia Saudita ha di nuovo riacceso le polemiche sul rispetto dei diritti umani del Paese, che ha ospitato l’evento per la seconda volta. La partita della Supercoppa italiana tra Juventus e Lazio in Arabia Saudita (vinta dalla squadra romana per 3 a 2) ha di nuovo riacceso le polemiche sul rispetto dei diritti umani del Paese, che ha ospitato l’evento per la seconda volta. Prima del match, Hatice Cengiz, fidanzata del giornalista saudita Jamal Khashoggi (ucciso nell’ottobre 2018 nell’ambasciata saudita di Istanbul, dove era entrato per ottenere i documenti necessari per sposare la donna, che stava aspettando fuori dall’edificio) era stata a Roma per parlare alla Foreign Press Association, dopo essersi rivolta al comitato per i diritti umani del Senato italiano. “Di solito non seguo il calcio, ma so cosa ne pensate voi italiani”, ha spiegato. “Sono davvero confusa all’idea di due squadre italiane che giocano in Arabia Saudita. Capisco che ci sia stato un invito e ci sia un aspetto economico da considerare. Capisco anche che non è possibile boicottare la partita, dato che tutto è già programmato, ma non vedete che il calcio, che amate veramente, viene utilizzato politicamente, per promuovere il Paese? Ho il cuore spezzato da quello che sta accadendo”. Anche come Amnesty International e Usgrai chiedevano che la partita non fosse disputata in Arabia Saudita, oltre che per l’omicidio di Khashoggi (in cui è coinvolto, per sua ammissione, il principe erede al trono, Mohammad Bin Salman), anche per il mancato rispetto dei diritti delle donne nel regno. Durante la partita, alle donne è stato permesso l’accesso sugli spalti allo stadio di Riad: una dimostrazione delle riforme da esibire di fronte a tutto il mondo. Eppure proprio le attiviste che si sono battute per i diritti delle donne sono ancora in carcere. Pensiamo a Loujain Al-Hathloul, fra le più impegnate per l’eliminazione del divieto di guida alle donne: è stata torturata in prigione ed è ancora detenuta. A fine novembre sono finiti in carcere molti giornalisti, tra cui anche Zana Al-Shahri, che scrive per il magazine Al Asr, e Maha Al-Rafidi, firma del quotidiano Al Watan. Nassima Al-Sada, scrittrice, membro della minoranza sciita, è sottoposta a regime di isolamento. Di Samar Badawi era stata annunciata, via social network, l’esecuzione, ma Amnesty International ha confermato che è viva ma detenuta in carcere, per scontare una condanna a vent’anni. L’attivista lottava contro il “sistema del guardiano”, la figura maschile, un familiare, che controlla la vita delle donne.