Salvini, le carceri e Gesù Cristo di Patrizio Gonnella L’Espresso, 24 dicembre 2019 Durante il 2019 Antigone ha visitato ben centosei carceri: istituti enormi come Poggioreale così come piccoli centri per detenute madri come quello di Lauro; istituti del nord - Como - e del sud - Taranto - sovraffollati il doppio rispetto alla capienza regolamentare. Istituti con celle senza acqua calda o con spazi così limitati da costringere le persone a stare sempre seduti o sempre stesi a letto. Lungo il 2019 abbiamo incontrato un centinaio di direttori, altrettanti educatori penitenziari, tantissimi poliziotti. Esiste una comunità di oltre 40 mila persone che lavorano nelle carceri italiane. Una comunità che nella sua gran parte ha uno spirito democratico ben più solido rispetto ai tentennamenti sulla pena che ha una parte dell’opinione pubblica o rispetto alle parole violente di taluni esponenti di forze politiche. Si tratta di agenti di Polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, cappellani, medici, psicologi, volontari, insegnanti, mediatori, direttori che conoscono il senso profondo dell’articolo 27 della Costituzione quando esso afferma che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. I custodi hanno nelle loro mani le vite dei custoditi. La vita è qualcosa di prezioso, unico, sacro. Va sempre rispettata, protetta. Per questo chiunque chiami i detenuti “camosci in fuga” o “bastardi” o li considerino “nemici” non dovrebbe avere spazio in questa comunità. Le parole che alcuni poliziotti fanno viaggiare sul web sono inaccettabili. Fortunatamente costituiscono una risicatissima minoranza. La maggioranza dei poliziotti è di ben altra pasta democratica. È altrettanto inaccettabile che chi riveste un ruolo politico, prima al Governo e poi all’opposizione, alimenti questa cultura minoritaria anti-costituzionale attraverso un linguaggio sgraziato. Nelle scorse settimane l’ex ministro degli Interni Matteo Salvini ha visitato varie carceri facendo assemblee con il personale. In una delle ultime pare abbia detto che chiederà la cancellazione del reato di tortura, che sarebbe, a suo dire, la fattispecie penale più invocata dai detenuti nelle carceri italiane. Al posto di elogiare tutti quei direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, cappellani, volontari, insegnanti che faticando si muovono nel solco della legalità, l’ex Ministro alimenta una visione pre-moderna della pena. Al posto di lavorare per assicurare ai poliziotti una maggiore gratificazione sociale ed economica, al posto di presentare una proposta di legge che li aiuti a conseguire obiettivi di mobilità volontaria alla luce del lavoro usurante che svolgono, al posto di lottare per assumere nuovi giovani direttori e elogiare i più vecchi, al posto di dire grazie a tutti quei lavoratori che sudano per otto ore al giorno nelle prigioni italiane strapiene, al posto di leggere le parole di Papa Francesco sulla dignità umana e contro la tortura, Salvini alimenta una visione diabolica del detenuto, giungendo ad affermare che sia giusto non proibire chi tortura. Salvini costruisce nemici inventati viaggiando con il presepe in mano. Dimentica, però, che Gesù Cristo, innocente, è stato torturato, crocifisso. Cronaca di una giornata del congresso di Nessuno Tocchi Caino nel carcere di Opera di Gioacchino Criaco Il Riformista, 24 dicembre 2019 Antonio si ricorda tutte le telefonate che ha fatto in questi 26 anni. Vito, dopo 23 anni, andrà in permesso e non dormirà, per paura di perdere le ore di libertà. Dico: deve pur esistere qualcosa di meglio del diritto penale! Caino? Qui dentro non c’è Caino. Due giorni di discussione, venerdì e sabato, al carcere di Opera: è il congresso di “Nessuno Tocchi Caino”. Si sta qui per parlare di diritto penale e di qualcosa che sia migliore del diritto penale per regolare i rapporti fra gli uomini, di una via che non annichilisca le vite di chi sbaglia, e che non disperda l’umanità buona di cui ognuno è portatore. C’è un nubifragio ostinato intorno a Milano, rancoroso di bibbia, l’acqua del cielo si unisce agli effluvi di una terra umida. La Pianura raccoglie gli scrosci, li precipita sul penitenziario di Opera e la pioggia supera la sbarra mobile, s’infila di soppiatto oltre le porte, da un cancello all’altro si fa passo silenzioso, percorre corridoi infiniti e beffarda intona la “Disamistade” di De Andrè, per dire che non c’è un altro modo di vivere senza dolore. Dentro il carcere, per chi si chiede cosa sia il carcere, il dolore è un sentimento fisico, un’acqua che informa gli uomini e uragano dopo uragano ne spazza le anime, canne umane la cui unica missione è non spezzarsi. Insieme alla pioggia nel carcere ci entra il freddo, si fissa nelle ossa e le comanda anche in piena estate. Dentro fa sempre freddo, soffia perenne il gelo del maestrale e l’umidità tanfa pure se non c’è. Cancelli e corridoi, silenzi e tempi infiniti, scarpe pulite e facce pallide sono le divise dei detenuti e uno sguardo che è per tutti uguale. I giusti hanno ricacciato il male dentro enclave di cemento e acciaio e la Ong di Nessuno Tocchi Caino è venuta a forare i muri, andando oltre la speranza di non farcela, per sperare ancora: Spes Contra Spem, nel mantra di Marco Pannella che dentro Opera risulta ancora vivo, mischiato ai presenti nella sala del teatro che porta il suo nome. Due giorni di discussione, venerdì e sabato, per parlare di diritto penale e di qualcosa che sia migliore del diritto penale per regolare i rapporti fra gli uomini, di una via che non annichilisca le vite di chi sbaglia, e che non disperda l’umanità buona di cui ognuno è portatore. Parlano Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, segretario, presidente e tesoriere, vecchi e riconfermati, di Nessuno Tocchi Caino. Parlano Gherardo Colombo, Luigi Pagano, Mauro Palma. Parlano esperti e tecnici. Parlano i detenuti. Ci si alterna fra uno di dentro e uno di fuori. Ecco, per chi vuol sapere cosa sia la galera basta ascoltarli: fuori ci si dimentica al pomeriggio di cosa si sia fatto la mattina, dentro, Antonio spacca il tempo fino al microsecondo: sa quante telefonate ha fatto in 26 anni, quante lettere ha ricevuto, quanti colloqui ha avuto, potrebbe elencare ogni suo capo d’abbigliamento dell’ultimo ventennio. Dentro, il nulla diventa essenziale, e l’essenziale è l’invisibile agli occhi del Piccolo Principe: l’affetto, il coraggio, la tenacia. La certezza di non essere il macero per la carta. Stefano Castellino è venuto da Palma di Montechiaro, dove è sindaco, per abbracciare gli ergastolani suoi compaesani. “Sono anche il vostro sindaco”, dice, celebrano insieme la memoria della vita spezzata di un grande e giovane magistrato, Rosario Livatino, e il fiato - manca a chiunque si trovi nel teatro. Per un attimo sorge un sole meridionale che mette in fuga la pioggia, che inchioda ai muri il freddo. Un’onda calda avvolge tutti e Opera, la gatta di Opera che non si è persa nemmeno una delle parole pronunciate nel teatro, si accovaccia al centro del palco, smette di rincorrere i bicchieri che ha sottratto agli oratori e fissa gli occhi sui Palmesi. Raffaele cerca orecchie per perorare la causa di un suo compagno di pena che dopo 20 anni di 41bis era riuscito ad andare in permesso e ora, arrivando da un altro carcere, deve ricominciare daccapo. Raffaele pure s’è fatto 16 anni di 41, su 34 passati dentro, non vede i figli da 15 anni. Li obbliga a non vederlo perché non vuole che le sue colpe ricadano su di loro: 5 figli laureati e sistemati, la sua impresa. Vito dopo 23 anni andrà in permesso per la vigilia di Natale, 2 giorni senza i quadretti delle sbarre a filtrare il cielo dai suoi occhi. Sa che non dormirà per la paura di tornare in carcere durante il sonno e di vedersi portata via una pausa al dolore inseguita per 23 anni. Sul palco è il turno di Sabrina, lei è di quelli di fuori, viene da Acireale, parla e piange perché prima di lei ha parlato e ha pianto Corrado, che è di quelli di dentro, che venerdì si è sentito meno solo perché c’era la sua compaesana. I detenuti dicono che Marco Pannella non è mai morto, ha scelto di rimanere dentro, si è incarnato nella gatta di Opera e svanisce e poi torna dietro le sbarre, congiunge due mondi che non si parlano se non per mezzo di creature strane e straordinarie, convinte che ci sia qualcosa di migliore rispetto al diritto penale. Che per migliorare il carcere serva migliorare quelli di fuori, dargli la possibilità di essere migliori, perché non sanno davvero quanto inutile dolore, oltre ogni necessità, venga inflitto a quelli che stanno dentro. Non potranno mai sapere quanta selvatica primordialità contengano i durissimi regimi carcerari di un Paese che si sente troppo buono. Quelli di Nessuno Tocchi Caino hanno dedicato 2 giorni di discussione nel carcere di Opera perché la speranza di chi sta dentro vada oltre la spietatezza di una società ignava, che non vuole scoprirlo che dentro il carcere Caino non c’è. Giustizia, il Pd prova a smontare la legge Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 24 dicembre 2019 I dem presentano una proposta alternativa che reintroduce la prescrizione dopo il primo grado. Maggioranza in affanno sulla prescrizione del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il Pd, sulla linea di Andrea Orlando, oggi deposita la sua “assicurazione sulla vita” (come ha detto a Repubblica l’ex Guardasigilli Dem) che ripropone la legge in vigore dello stesso ex ministro. Ma con una modifica non da poco. Restano i tempi di prescrizione per ogni reato, ma sia nel processo di appello che in quello in Cassazione l’orologio si fermerà per un anno in più, da 18 si passa a 30 mesi, quindi per 5 anni complessivamente. Ovviamente, in questo caso, cade la prescrizione dell’attuale ministro Bonafede che invece si ferma definitivamente dopo il primo grado. All’idea del Pd, che sarà ufficializzata venerdì 27 con una conferenza stampa, Bonafede reagisce con freddezza: “Valuteremo tutte le proposte il 7 gennaio (quando si terrà un nuovo vertice di maggioranza sulla giustizia, ndr), ma l’importante è non far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta”. E in realtà la proposta del Pd è proprio una norma che cambia profondamente il funzionamento della prescrizione e la rimette dentro la fase calda del processo. Per tutta la giornata alla Camera, durante la maratona sulla manovra, si sono accavallate le voci di una possibile spaccatura per via di un voto “in difformità” dei renziani di Italia viva su un ordine del giorno trabocchetto del forzista Enrico Costa. Che ha presentato un emendamento in cui chiedeva lo slittamento di un anno della Bonafede per dare il tempo agli uffici di monitorare i processi con delle task force. Il testo, poiché comportava un capitolo di spesa ad hoc, è stato ammesso, senza rendersi conto che un voto a favore avrebbe comportato l’impegno di rinviare di un anno la legge di Bonafede. Per tutto il pomeriggio la capogruppo di Iv Maria Elena Boschi ha tranquillizzato il Pd assicurandogli che si sarebbero solo astenuti, mentre altri esponenti renziani garantivano a Costa un voto favorevole. È la terza volta che Iv piglia le distanze dal governo sulla prescrizione. Una prima volta non ha partecipato al voto su un’esplicita richiesta di rinvio di Costa, una seconda volta si è astenuta su un ordine del giorno al decreto fiscale. Ieri il terzo episodio. L’ex premier Matteo Renzi è un nemico giurato della prescrizione di Bonafede, che con Repubblica ha definito “uno scandalo”. Contro cui si scatenano sia Costa che le Camere penali di Gian Domenico Caiazza, pronte a lanciare un referendum abrogativo, che trova subito Matteo Salvini come sponsor. Le Camere penali lanciano i comitati promotori per abrogare la riforma Bonafede di Antonino Ulizzi Il Riformista, 24 dicembre 2019 Salvini sosterrà l’iniziativa: “Noi ci saremo”. La mossa del Pd: “Il 27 la nostra proposta per evitare processi infiniti”. L’Unione delle Camere penali promuoverà “un confronto con tutte le forze politiche-culturali del Paese” per costituire “comitati promotori di un referendum abrogativo di questa nonna” che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, insieme a “tutti gli strumenti per rimediare a questo obbrobrio giuridico”. Lo ha annunciato il presidente dell’Uicp, Giandomenico Caiazza. nel corso di una conferenza stampa organizzata alla Camera da Forza Italia. E Matteo Salvini, si schiera subito con gli avvocati: “Ho visto che l’Unione camere penali ha lanciato un referendum per fermare questa follia. Noi ci saremo”, ha annunciato il leader leghista a margine di un incontro a Cesena. “Ditemi voi - ha proseguito l’ex ministro degli Interni - chi può investire in un Paese dove un giudice si alza e ferma l’Ilva, dove un altro si alza e blocca un’autostrada”. Le Camere penali bocciano lo stop alla prescrizione senza appello. “Una nonna introdotta in modo improprio e senza una riflessione - ha aggiunto Caiazza - nata per ragioni simboliche, che è quanto di più devastante possa esserci, perché non si riflette sulle conseguenze che la mancanza di un istituto come la prescrizione può determinare sul sistema”. Il presidente dell’Ucpi ha denunciato una “colossale opera di mistificazione politica e informativa”, perché la prescrizione è “uno degli istituti più democratici e interclassisti”, che determina i suoi effetti su “centinaia di migliaia di persone di ogni ceto sociale” e per reati di natura “quasi sempre bagatellare”. Caiazza ha sottolineato di non aver compreso “in che termini si articolerebbe il dissenso di un importante partito di maggioranza”, che ha annunciato la presentazione di “un disegno di legge di cui non conosciamo testo e contenuti”. Chiamato in causa dagli avvocati, proprio il Pd annuncia di aver depositato “la sua proposta di legge sulla prescrizione” fanno sapere Walter Venni - responsabile Giustizia del partito, Alfredo Bazoli, capogruppo in Commissione alla Camera e Franco Mirabelli capogruppo in Commissione al Senato. “La proposta - proseguono i parlamentari dem, evita le conseguenze negative dell’entrata in vigore della legge voluta del precedente Governo e per rilanciare la necessità e l’urgenza di fissare tempi certi per la durata dei processi, come la Costituzione e gli interessi del Paese richiedono. La proposta sarà illustrata in una conferenza stampa che si terrà la mattina di venerdì 27 dicembre presso la sede nazionale del partito. “Valuteremo, tutte le proposte, l’importante come ho sempre detto è non far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta”, è la reazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Riforma Bonafede della prescrizione: la battaglia continua camerepenali.it, 24 dicembre 2019 Proposte di legge abrogative e referendum. La lettera del Presidente Gian Domenico Caiazza agli iscritti. Si chiude un anno che ha visto le Camere Penali Italiane protagoniste, ancora una volta, delle più importanti battaglie civili sui temi della giustizia penale con una intensissima attività politica e mediatica. L’entrata in vigore della sciagurata riforma Bonafede della prescrizione è purtroppo imminente. Di fronte a questo quadro, non solo non ci perdiamo d’animo, ma anzi rilanciamo il nostro impegno per l’abrogazione di quella sciagurata riforma, con due obiettivi immediati. Il primo sarà quello di costruire ed allargare il consenso politico intorno ad ogni concreta proposta di legge esplicitamente abrogativa di quella norma, a partire dal disegno di legge Costa, di imminente calendarizzazione. Il secondo obiettivo sarà quello di incontrare tutte le forze politiche ed associative che si sono espresse contro la riforma Bonafede per sondare la concreta loro disponibilità a costituire con noi Comitati promotori di un referendum abrogativo. Occorrerà il coinvolgimento totale e prioritario di forze politiche di dimensione nazionale, pertanto chiederemo di incontrare nelle prossime settimane le forze politiche disponibili, nonché tutti i soggetti associativi ed istituzionali di quella Avvocatura Italiana che ha dimostrato in questi ultimi mesi grande attenzione e piena condivisione della battaglia da noi sostenuta, per comprendere se sia concretamente praticabile anche questo strumento di democrazia diretta, che ci consentirebbe un rilancio formidabile del nostro impegno civile. Il testo della lettera A tutti i presidenti, a tutti gli iscritti delle Camere Penali Italiane. Carissime, Carissimi, si chiude un anno che ha visto le Camere Penali Italiane protagoniste, ancora una volta, delle più importanti battaglie civili sui temi della giustizia penale. La forza del populismo penale, in Parlamento e nella informazione, è strabordante: occorre averne lucidamente coscienza, acquisendo consapevolezza di quanto sia lunga e dura la strada della nostra lotta politica, innanzitutto evitando di alimentare illusorie aspettative di facili vittorie con ricette tecnicamente e politicamente impraticabili, a cominciare dalle astensioni nazionali “ad oltranza”. Il nostro contrasto alla riforma Bonafede sulla prescrizione è iniziato all’indomani dell’improvvisato emendamento che la introduceva nel già allarmante contesto populista e giustizialista della “Spazza-corrotti”: era il 31 ottobre 2018. Da quel momento abbiamo prodotto un’impressionante progressione di iniziative che hanno lentamente ma inesorabilmente fatto crescere l’attenzione della pubblica opinione, delle forze politiche e dei media sui valori costituzionali e di libertà effettivamente messi in gioco con quella sciagurata riforma, introdotta in modo improvvisato e quasi furtivo. Dalla grande manifestazione del Teatro Manzoni a Roma, che ha visto la saldatura tra penalisti italiani ed Accademia, all’appello dei 150 docenti al Presidente Mattarella sulla incostituzionalità della riforma della prescrizione; dal Manifesto del diritto penale liberale e del Giusto Processo fino alla formidabile Maratona Oratoria delle scorse settimane, il nostro impegno di contrasto a quella riforma - sostenuto da ripetute astensioni dalle udienze- ci ha posto letteralmente alla guida di uno schieramento sempre più ampio di politica, cultura e media in difesa dei valori costituzionali da noi rivendicati. Uno schieramento cresciuto a vista d’occhio, sempre più forte, autorevole e riconoscibile, ma pur sempre soccombente di fronte agli assetti di ben due successive e diverse compagini governative, con le rispettive maggioranze parlamentari, all’interno delle quali la pur dichiarata avversione a quella riforma non è riuscita ad impedirne l’affermazione. Prima votandola, ma differendone l’entrata in vigore di un anno; poi avversandola nei contenuti ma di fatto ormai soccombendo alla sua entrata in vigore, a fronte di riequilibri ad oggi del tutto oscuri e, a quanto ci è dato comprendere, del tutto velleitari, se non pretestuosi. Di fronte a questo quadro, non solo non ci perdiamo d’animo, ma anzi rilanciamo il nostro impegno per l’abrogazione di quella sciagurata riforma, con due obiettivi immediati. Il primo sarà quello di costruire ed allargare il consenso politico intorno ad ogni concreta proposta di legge esplicitamente abrogativa di quella norma, a partire dal disegno di legge Costa, di imminente calendarizzazione. Il secondo obiettivo sarà quello di incontrare tutte le forze politiche ed associative che si sono espresse contro la riforma Bonafede per sondare la concreta loro disponibilità a costituire con noi Comitati promotori di un referendum abrogativo. Occorre essere chiari su questo punto: la raccolta di 500mila firme valide e certificate è un obiettivo fuori portata per le sole forze delle Camere Penali territoriali. Occorrono energie, disponibilità militanti e finanziarie, sinergie istituzionali (segreterie comunali, consiglieri comunali e regionali impegnati in modo stabile) di una tale dimensione da esigere il coinvolgimento totale e prioritario di forze politiche di dimensione nazionale. Chiederemo dunque di incontrare nelle prossime settimane le forze politiche disponibili, nonché tutti i soggetti associativi ed istituzionali di quella Avvocatura Italiana che ha dimostrato in questi ultimi mesi grande attenzione e piena condivisione della battaglia da noi sostenuta, per comprendere se sia concretamente praticabile anche questo strumento di democrazia diretta, che ci consentirebbe un rilancio formidabile del nostro impegno civile. Noi tutti siamo infatti ben consapevoli che il tema della prescrizione coinvolge questioni e tematiche ben più ampie dell’istituto in sé, che riguardano, in definitiva, l’idea stessa del processo penale e del valore non negoziabile dei principi costituzionali sui quali esso si fonda. “Abrogare la riforma Bonafede della prescrizione” sarà la parola d’ordine dei penalisti italiani, insieme a tutti gli altri fronti sui quali come sempre saremo chiamati ad impegnarci. Di qui l’augurio della Giunta che ho l’onore di presiedere, e mio personale, a tutti ed a ciascuno di Voi: perché il 2020 sia un nuovo anno di lotta e di impegno civile per quei fondamentali diritti di libertà di tutti i cittadini che il nostro Statuto ci impegna a difendere e garantire con determinazione, passione e civile consapevolezza. Prescrizione, la contro proposta Pd arriva a sei giorni dalla riforma contestata di Andrea Colombo Il Manifesto, 24 dicembre 2019 Gli avvocati penalisti lanciano il referendum per abrogare la riforma Bonafede, e rivelano: il ministro ci ha scritto ammettendo di non avere ancora dati certi sulla reale entità del problema. Nell’ultimo giorno di lavori parlamentari, quando ormai manca appena una settimana all’inizio del nuovo anno e cioè al giorno in cui comincerà ad applicarsi la contestatissima riforma Bonafede della prescrizione, il Pd ha annunciato la presentazione del suo disegno di legge per “evitare le conseguenze negative” della riforma. Rimandando però la presentazione del testo, avendo avuto bisogno di limarlo fino all’ultimo, a venerdì prossimo. La proposta, è noto, è quella della cosiddetta “prescrizione processuale”, in base alla quale malgrado i termini di estinzione del reato continuino a essere bloccati per sempre dalla sentenza di primo grado, tuttavia se i gradi di giudizio dovessero allungarsi oltre una certa misura è il processo ad estinguersi. Con effetti identici a quelli della prescrizione. La riforma Bonafede, ricorda il Pd, è stata “voluta dal precedente governo”, e rende urgente “la necessità di fissare tempi certi per la durata dei processi, come la Costituzione e gli interessi del paese richiedono”. Il Pd però non è riuscito a convincere il ministro grillino, che ancora ieri ha dichiarato: “La riforma della prescrizione entra in vigore dal 1 gennaio ed è un traguardo importante”. Nei giorni scorsi, i democratici hanno evitato di appoggiare (anzi hanno rallentato) la proposta di legge di un solo articolo con la quale Forza Italia voleva cancellare le modifiche di Bonafede per riportare in vigore le regole scritte dall’ex ministro Pd Andrea Orlando. Adesso accompagnano il loro testo precisando che “è aperto un confronto con le forze di maggioranza che auspichiamo possa presto concludersi con una sintesi ragionevole”. Bonafede non è altrettanto conciliante e risponde picche anche alla richiesta degli alleati di anticipare il vertice sulla giustizia a una data almeno precedente all’entrata in vigore della nuova prescrizione. Appuntamento confermato al 7 gennaio, e allora - chiarisce Bonafede - “valuteremo tutte le proposte sui tempi del processo penale, l’importante è non far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta”. Risposta sgarbata, ma anche un modo per anticipare il no alla “prescrizione processuale”. Tra i democratici è diffusa convinzione che la riforma Bonafede sarà presto o tardi bloccata dalla Corte costituzionale, dal momento che la “ragionevole durata” del processo, imposta dalla Costituzione, non potrà essere più assicurata in assenza della valvola di sicurezza che è garantita dall’istituto della prescrizione. Gli avvocati dell’Unione camere penali annunciano di volersi affidare a referendum abrogativo della riforma, e ottengono l’appoggio prima di Forza Italia e poi di Salvini, che pure come tutta la Lega quella riforma - inserita a febbraio nella legge cosiddetta “spazza-corrotti” - ha votato. Il presidente degli avvocati penalisti, Gian Domenico Caiazza, ieri ha reso pubblica un’imbarazzata lettera del ministro guardasigilli in risposta alla richiesta di dati ufficiali sulla prescrizione. Proprio l’Unione camere penali, infatti, aveva commissionato qualche mese fa una ricerca all’Eurispes dalla quale veniva fuori che oltre la metà delle prescrizioni arriva nella fase di indagini preliminari, e un altro 25% durante il giudizio di primo grado. La riforma che prevede la cancellazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, allora, risulterebbe inutile in tre casi su quattro. Bonafede ha risposto spiegando che l’elaborazione dei dati ufficiali è ancora in corso. “Ciò dimostra - ha concluso Caiazza - che si interviene a prescindere dalla conoscenza del problema e della realtà, per esigenze simboliche e di comunicazione”. La nuova prescrizione e gli errori d’ingiustizia di Giovanni Valentini Gazzetta del Mezzogiorno, 24 dicembre 2019 Fra pochi giorni, dunque, secondo l’annuncio del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, entrerà in vigore la riforma della prescrizione. Dal 1° gennaio 2020, verranno bloccati i termini dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione sia in caso di condanna. Fino alla sentenza definitiva, il reato non potrà più essere considerato estinto, lasciando magari i colpevoli impuniti. Ed è una riforma che riguarda tutti, anche chi non abbia o non abbia mai avuto a che fare con la giustizia, perché riguarda una garanzia che potenzialmente spetta a ciascuno di noi. Si attendono ora il vertice di maggioranza, previsto per il 7 gennaio, e l’eventuale accordo tra Pd e M5S. Il Partito democratico ha confermato intanto che depositerà una sua proposta di legge per salvaguardare la “ragionevole durata” del processo sancita dall’articolo 111 della Costituzione a favore dell’imputato. Se non arriveranno segnali di apertura da parte dell’alleato di governo, gli stessi “dem” hanno anticipato che si sentiranno liberi di proseguire l’iter parlamentare. Come dire che, in mancanza di un’intesa, il Pd cercherà consensi in Parlamento anche tra le altre forze politiche. La questione non è né tecnica né tantomeno burocratica. A che cosa mira la riforma dei Cinque Stelle? Nello spirito giustizialista che contraddistingue il Movimento, punta essenzialmente a evitare che le lungaggini della giustizia consentano ai colpevoli di farla franca, dilatando i tempi del processo e sfuggendo così alla sentenza di condanna. E non c’è dubbio che si tratti di un obiettivo legittimo e sacrosanto. Ma è proprio questo lo strumento migliore, più efficace e decisivo, per ottenere un tale risultato? Molti ne dubitano. Fra questi, in prima linea, gli avvocati penalisti e più in generale il fronte garantista. “I processi si prescrivono perché durano troppo”, ha scritto in un articolo pubblicato sull’Unità Francesco Petrelli, segretario dell’Unione delle Camere penali. E ha aggiunto: “Se avessero una durata ragionevole non si prescriverebbero”. A parere suo e della maggior parte dei suoi colleghi, insomma, “il problema non è quello della prescrizione troppo breve, ma quello di un sistema processuale troppo lento e di processi troppo lunghi”. E questo, purtroppo, è un dato di fatto incontrovertibile: tant’è che nel 2017, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia, su 129mila processi prescritti quasi centomila si sono prescritti prima ancora di arrivare in tribunale, trattandosi di fascicoli rimasti a far polvere sulle scrivanie o negli armadi. Con la riforma del ministro Bonafede, forse si ridurrà il numero dei colpevoli che riescono a sottrarsi ai rigori della giustizia per decorrenza dei termini di prescrizione. Ma verosimilmente non si accelereranno i processi e chissà quanti imputati innocenti dovranno continuare ad aspettare anni e anni per essere assolti, come purtroppo già avviene nella realtà. Si cureranno così gli effetti di una giustizia lenta, non le cause che la provocano. Con buona pace della norma che stabilisce la “ragionevole durata” del processo, sulla base della consapevolezza che una giustizia tardiva è per definizione una giustizia ingiusta. Può valere anche in questo caso per analogia il principio “meglio un colpevole in libertà che un innocente in carcere”? In un certo senso, sì. Perché il processo è già di per sé una condanna ed essere costretti ad aspettare per troppo tempo una sentenza di assoluzione costituisce una pena per così dire preventiva che segna per sempre la vita di un cittadino innocente in attesa di giudizio. Eppure, come scrive ancora l’avvocato Petrelli nel suo articolo, non mancano gli esempi che dimostrano come “una sana e oculata amministrazione dei tribunali garantisce tempi processuali ragionevoli e annulla di fatto il problema della prescrizione”. Si tratta, dunque, di correggere le disfunzioni dell’apparato giudiziario, di tagliare i “tempi morti”, di incentivare la riorganizzazione degli uffici. Tutto ciò per rispettare i parametri di equità e di civiltà giuridica a cui una società moderna deve aspirare. Una riforma di questo genere, più organica e complessiva, forse potrebbe contribuire anche a ridurre il numero degli errori giudiziari su cui l’Italia detiene un primato assai poco onorevole. Dal 1992 al 2018, gli innocenti finiti in carcere - calcolando soltanto quelli risarciti dallo Stato, a spese della collettività - sono stati oltre 27mila. In media, più di mille all’anno, tre al giorno. Non è anche questo uno scandalo che bisognerebbe stroncare in un Paese civile? Tra il giustizialismo dei Cinque Stelle e il garantismo dei Democratici, c’è da augurarsi che prevalga alla fine il senso di equilibrio e di responsabilità. I termini della prescrizione si possono anche interrompere. Ma occorre ridurre in primo luogo i tempi del processo, rispettando la presunzione d’innocenza che è un cardine fondamentale dello Stato di Diritto. Ricorda a questo proposito lo scrittore ed ex magistrato barese Gianrico Carofiglio nel suo nuovo romanzo intitolato “La misura del tempo” (Einaudi) che il codice di procedura penale (articolo 530, comma secondo) “prevede appunto l’assoluzione quando è insufficiente o contraddittoria la prova che l’imputato abbia commesso il fatto”. Non esiste più, infatti, la formula dubitativa “per insufficienza di prove”. Se l’accusa non è in grado di dimostrare la colpevolezza dell’imputato, questi va assolto con formula piena. Chissà quanti processi durerebbero meno, e soprattutto quanti errori d’ingiustizia si potrebbero evitare, se questo principio fosse rispettato fino in fondo nelle aule dei tribunali della Repubblica. “Le toghe siano moderate nei rapporti con i media” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 dicembre 2019 La Circolare del Csm. È ormai endemico il fenomeno delle distorsioni giuridiche sul processo penale per una informazione giudiziaria legata “a doppio filo” alle impostazioni dell’accusa. Di contro, è sempre meno frequente la cronaca giudiziaria intesa come cronaca del processo: da tempo, infatti, esiste una cronaca giudiziaria fatta di “copia e incolla” delle informazioni degli atti di indagine. Il primo effetto è il condizionamento dei soggetti processuali (giudici, testimoni, parti) dovuto ad una percezione distorta dell’indagine: l’eventuale esito assolutorio del processo rischia di essere percepito come uno “spreco” di attività processuale, o una “denegata giustizia”, da parte di chi si è formato un convincimento colpevolista, quando non “giustizialista”. Ma non solo. Il giudice, laddove decidesse in modo difforme dal comune sentire generato dal predetto convincimento, potrebbe correre il rischio di essere delegittimato e di subire violenti attacchi. Diverse sentenze della Corte Edu si sono espresse, anche di recente, a favore di un bilanciamento tra libertà di stampa e diritto all’informazione, da un lato, e diritto alla riservatezza delle persone coinvolte in vicende giudiziarie e al buon andamento della giustizia, dall’altro. Strasburgo, nonostante l’art. 10 Cedu tuteli la libertà d’espressione, ha confermato la sanzione per il giornalista che ha divulgato notizie coperte dal segreto istruttorio, sottolineando l’importanza della buona amministrazione della giustizia, il diritto ad un processo equo, il rispetto della vita privata dei soggetti interessati. La Corte ha anche ritenuto sussistere un dovere dello Stato di adottare misure organizzative e di formazione del personale per prevenire l’illegittima pubblicazione di informazioni riservate. In tale contesto, vale la pena ricordare che il Csm, con delibera del 2018, ha approvato le “Linee- guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, con lo scopo di garantire la massima “trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria” e la creazione di prassi uniformi per una “comunicazione efficace e deontologicamente irreprensibile, imparziale, equilibrata e obiettiva”, anche attraverso l’elaborazione di strategie comunicative (conferenze stampa, comunicati, utilizzo del web) e la realizzazione di uffici stampa. Alla stesura ha partecipato un gruppo di lavoro, presieduto dall’ex presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, composto da giornalisti, scrittori e magistrati. Sono state svolte anche audizioni del Cnf, dell’Ordine nazionale dei giornalisti, della Fnsi e dell’Anm. “L’informazione giudiziaria non confligge con il carattere riservato, talora segreto della funzione, aumentando la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzando l’indipendenza della magistratura, e più in generale l’autorevolezza delle Istituzioni”, si legge in premessa. Numerose le indicazioni sovranazionali; fra queste, la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri del 2010, secondo cui: “I procedimenti giudiziari sono questioni di pubblico interesse. Il diritto all’informazione deve essere esercitato tenendo conto delle limitazioni imposte dall’indipendenza della magistratura. I giudici devono dar prova di moderazione nei loro rapporti con i media”. La delibera si divide in due parti: una generale ed una specifica per i diversi Uffici (giudicanti, requirenti, di merito, di legittimità). Fulcro della comunicazione giudiziaria è l’oggettivo interesse pubblico (controversie di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico). Fra i punti cardine: scongiurare discriminazioni fra giornalisti e testate, evitare canali informativi privilegiati con esponenti dei media, non personalizzare le informazioni esprimendo opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi. Corollario è il rispetto della sfera privata e familiare degli individui coinvolti, della dignità dell’imputato, degli estranei. Imprescindibile, il rispetto del giusto processo, la tutela della presunzione di non colpevolezza, la centralità del giudicato rispetto ad altri snodi processuali (es. le indagini preliminari), il diritto dell’imputato a non apprendere dalla stampa quanto deve essergli comunicato in via formale. Il procuratore, responsabile della comunicazione esterna, è tenuto al rispetto delle decisioni giudiziarie, che può “contrastare” non pubblicamente ma nelle sedi processuali. Divieto assoluto, infine, di “amplificare impropriamente i meriti dell’Ufficio e dei servizi di polizia giudiziaria”. Giustizia e informazione. Ma con le indagini non si fa spettacolo di Armando Spataro La Repubblica, 24 dicembre 2019 Pochi giorni fa sono venute alla luce criticabili modalità di informazione della Polizia locale della cittadina di Opera (Milano): è stata diffusa sul web la foto di un nigeriano dietro le sbarre, sia pure con il volto “oscurato”, fermato per reati minori. L’esposizione del “trofeo” e di due vigili in posa, al di là del vigente divieto di legge, sarebbe stata ovviamente del tutto inopportuna anche in caso di arresto o fermo per reati gravi. Purtroppo simili eccessi comunicativi traggono spesso origine dal desiderio di acquisire titoli utili per fare carriera. Costituirebbe un grave errore, però, non considerare che improprie modalità comunicative riguardano frequentemente anche i magistrati, in particolare i pubblici ministeri. Sia ben chiaro che la necessità e il dovere di corretta informazione sulle attività connesse all’amministrazione della giustizia appaiono evidenti, anche in relazione alla fase delle indagini preliminari quando le circostanze lo consentano e comunque mai in violazione del segreto. Il corretto rapporto tra giustizia e informazione-comunicazione, anzi, è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia, tanto che, proprio per tali ragioni, il Csm ha emanato nel luglio del 2018 importanti Linee guida, quale espressione della necessità di trasparenza, controllo sociale e comprensione della giustizia intesa come servizio. La giustizia viene comunicata quotidianamente all’esterno con vari strumenti, inclusi avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, sentenze, ma soprattutto attraverso interviste e conferenze stampa che spesso appaiono la spia di diffuse propensioni di magistrati e organi di polizia giudiziaria ad accrescere, per quelle vie, la loro popolarità. Non è ovviamente accettabile alcuna generalizzazione, tuttavia deve ribadirsi che l’informazione va data non solo evitando il rischio di pregiudizio alle indagini e ai diritti delle persone coinvolte (indagati e parti offese), ma anche con misura. Non è perciò apprezzabile la pratica di certe teatrali conferenze stampa, in cui alcuni pubblici ministeri, inclusi quelli che sognano di rivoltare le regioni in cui operano (quasi che il compito dei magistrati sia quello di moralizzare il Paese), presentano sistematicamente le proprie indagini con proclami del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord” (ignorando processi celebrati più di vent’anni prima), così proponendosi come icone per le piazze plaudenti. E si moltiplicano affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm rappresentino la verità accertata, un anticipo di sentenza. Le interviste costituiscono spesso occasione per l’ampliamento degli spazi propri delle conferenze stampa: consentono ai magistrati, ad esempio, la costruzione di verità alternative rispetto a quelle accertate o da accertare nei dibattimenti. Proliferano misteri senza fini e indimostrate responsabilità di un antistato diffuso e indecifrabile: un noto pm ha dichiarato che Messina Denaro non viene preso perché conosce troppi segreti! Se ne può dedurre che le istituzioni lo preferiscono latitante per evitare che li riveli! E chi critica simili costruzioni viene subito accusato di volere isolare i magistrati, negare la verità e temere i poteri forti. Le corrette modalità di comunicazione impongono, invece, oltre che equilibrio e sobrietà, la massima spersonalizzazione delle notizie necessarie, attribuendo un’indagine di pubblico interesse all’Ufficio e non al singolo magistrato che l’ha condotta. Le conferenze stampa vanno riservate alle occasioni di storica o particolare necessità, senza dimenticare che il rispetto del giusto processo e dei diritti della difesa è raccomandato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo anche con riferimento alle parole da usare nell’informazione. Ciò alimenta la fiducia dei cittadini nella giustizia. Protagonisti necessari della comunicazione relativa alla giustizia, però, non sono solo magistrati e polizia ma anche avvocati, politici e giornalisti: i diritti e i doveri connessi all’esercizio di tali elevate funzioni sono indiscutibili, ma molte criticità permangono e anzi rischiano di amplificarsi, per effetto delle moderne modalità dell’informazione. “Cari Pm, se volete rispetto rinunciate a cercare il potere” di Paolo Comi Il Riformista, 24 dicembre 2019 Intervista a Antonio Leone, presidente del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, fino allo scorso anno componente laico del Csm. “Altro che caso Palamara! Quello è servito solo a inchiodare un capro espiatorio. Il problema è una magistratura dove comandano le correnti e domina la smania di allargare la propria potenza”. “Le correnti in magistratura sono sempre più forti. Vuole un esempio? La recente elezione del procuratore generale della Corte di Cassazione. Per una carica tanto importante (il Pg della Cassazione, oltre a tutto il resto, è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, ndr) era auspicabile una maggiore condivisione del Plenum. Invece ci sono stati ben tre candidati, ognuno riferibile a un preciso gruppo associativo. Senza togliere nulla a Giovanni Salvi, magistrato decisamente meritevole e di altissimo profilo professionale e morale, la sua elezione è avvenuta a maggioranza, con 12 voti a favore e ben 5 astensioni. Per una così alta carica, in questo momento, una maggiore condivisione sarebbe stata auspicabile e non avrebbe dato adito a reciproche recriminazioni torrentizie. Insomma, poteva essere un segnale e invece si è proseguito con lo stesso sistema anche su altre importanti nomine. Quali Torino. Brescia e Salerno”. Antonio Leone, presidente del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, fino allo scorso anno componente laico del Csm, non crede che dopo le dimissioni forzate di cinque togati sia cambiato, qualcosa a Palazzo dei Marescialli. Presidente Leone, è scettico? “Guardi, lo “scandalo” Palamara fino a oggi ha prodotto solo un cambiamento degli equilibri al Csm, con la corrente di Davigo che è passata da due a quattro consiglieri, cinque se vogliamo considerare anche l’indipendente Di Matteo che è stato appoggiato dall’ex pm di Mani pulite. I tanti magistrati italiani che nel 2018 votarono per i cinque consiglieri che si sono dimessi non hanno ora rappresentanza. Le pare normale? Non credo. Sa come si chiama in politica una cosa del genere? Ribaltone bello e buono”. Il problema della magistratura ha un nome e un cognome: Luca Palamara. Concorda? “Palamara è diventato il capro espiato rio della magistratura italiana. So per certo che molti magistrati fanno addirittura fatica a pronunciarne il nome. È diventato il simbolo della lottizzazione torrentizia. Ma le oltre mille nomine che sono state fatte nella scorsa consiliatura non credo siano solo farina del sacco dell’ex consigliere Palamara. Dove erano tutti coloro che oggi lo attaccano e gridano contro il sistema clientelare della spartizione degli incarichi? E dove sono quelli che avrebbero usufruito della incriminata spartizione? Il fil rouge dell’ultimo congresso nazionale dell’Anm è stato sostanzialmente: “Basta con Palamara!”. Ma prima di lui lo strapotere delle correnti non esisteva?”. Che idea ha di questa vicenda? “Tutto nasce dall’indagine di Perugia. Indagine che era nota a ognuno di noi fin dal mese di settembre del 2018, quando un importante quotidiano nazionale pubblicò in prima pagina i dettagli del procedimento pendente a Perugia che riguardava Palamara. Nessuno allora si scandalizzò o parlò di fughe di notizie. Vedo molta ipocrisia. E poi, la stura all’inoculazione del trojan, avvenuto lo scorso maggio, qual è stata? E poi, se l’immagina cosa sarebbe accaduto se qualche “trojanino” avesse girato nei dintorni del Csm da una ventina di anni a questa parte?”. Quindi al Csm non è cambiato nulla? “I tre candidati per le ultime suppletive, quelle per eleggere il sostituto del consigliere Paolo Criscuoli, erano tutti riconducibili a una corrente, avendo fatto in passato anche vita associativa con incarichi nell’Anm. Il tanto sbandierato pluralismo delle candidature che fine ha fatto? E anche le nomine di importantissimi uffici giudiziari, Roma in primis, sono al palo. Ma non solo: le nomine in dirittura di arrivo vengono bloccate e rimesse in discussione in ossequio, sembra, alle risultanze trojanesche. Mi riferisco al caso della Procura di Salerno che è tornata in Commissione per valutare che tipo di rapporti avesse avuto l’aspirante con Palamara”. Cambiamo argomento, cosa pensa della riforma “epocale” della giustizia di Bonafede? “La riforma di Bonafede? E chi l’ha vista? Doveva essere pronta per la fine di quest’anno e invece ci sono stati solo annunci per soddisfare l’elettorato giustizialista. Il blocco della prescrizione provocherà il collasso delle Corti d’Appello e creerà una nuova figura giuridica: quella dell’imputato a vita. Siamo di fronte alla fine dello stato di diritto. Lo stop alla prescrizione annulla completamente la ratio per cui è stato creato l’istituto stesso. E sostanzialmente. un modo per rimediare a un fallimento dello Stato: quello di non riuscire a portare a termine i processi. Il ricorso al “fine processo mai”. diciamocelo, diventa sostanzialmente una sostituzione. La sostituzione della condanna. che lo Stato non riesce a comminare, con un processo infinito. Siamo alle prese con uno strisciante ricorso a una ideologia giustizialista, o giacobina che dir si voglia. che valorizza la teoria in base alla quale siamo tutti e sempre presunti colpevoli. Teoria, questa, molto cara anche a qualche alto magistrato. Questa assurdità riesce a mettere al bando due “parole” di non poco conto: umanità e innocenza. Per non parlare, poi, del giusto processo che servirà solo a riempirsi la bocca. Contro questa riforma, ricordo, si sono schierati gli avvocati penalisti, numerosissimi e autorevoli professori di diritto, e anche molti magistrati. Il ministro, invece, continua a usare toni trionfalistici e propagandistici, supportati da argomentazioni - direi meglio spot - prive completamente di verità”. Il Pd sulla riforma Bonafede sembrava aver preso le distanze. Cosa ne pensa? “Le distanze a mio parere si sono azzerate. Mi meraviglia come il buon Andrea Orlando (ex ministro della Giustizia, ndr) si sia rimangiato le sue posizioni, che sicuramente avevano avuto un maggiore apprezzamento, per compiacere l’alleato di governo”. Cosa andrebbe fatto subito nel tanto “criminalizzato” rapporto politica e magistratura? “Innanzitutto andrebbe eliminata da parte della politica la sudditanza psicologica nei confronti della magistratura più ideologizzata. Il legislatore deve essere meno pavido nel formare, una volta per tutte, le regole che impediscano le porte girevoli tra magistratura e politica. Tra l’altro, bisognerebbe eliminare immediatamente tutti gli incarichi extragiudiziari dei magistrati. affidati magistrato, con l’incarico anche di giudice tributario, che è stato autorizzato dal Csm a svolgere attività di consulenza per il presidente del Consiglio Conte. Questo magistrato, senza essere fuori ruolo, la mattina scrive le sentenze di due giurisdizioni ed il pomeriggio scrive i pareri sulle leggi del governo. Tale consulenza è retribuita con la modica cifra di 40.000 euro all’anno. 500 euro l’ora per essere maggiormente precisi. Su questo i grillini non dicono nulla: la loro battaglia sulle esagerazioni degli emolumenti è terminato. Il taglio dei vitalizi dei parlamentari ha fatto scomparire la povertà”. La magistratura è sempre più delegittimata. Cosa suggerisce per invertire la rotta? “La delegittimazione è partita dall’interno stesso della magistratura. così come accaduto per la politica anni addietro. Il populismo si è impossessato di ampie fette della magistratura. Penso. poi. a quella folle ipotesi del sorteggio dei membri del Csm voluto da Bonafede e finito nel cassetto in cambio del via libera dei magistrati allo stop alla prescrizione. Magistrati che, durante lo scorso congresso nazionale dell’Anm, hanno repentinamente fatto inversione di marcia proprio su un argomento così delicato come la prescrizione. E la riforma del Csm qualcuno l’ha più vista? Le toghe, giustamente, rivendicano sempre la loro autonomia e indipendenza. Ma per tornare ad avere il rispetto e la considerazione di tutti devono anche rispettare l’autonomia della politica e, principalmente, del legislatore”. Trojan senza freni, l’ultima beffa: così sarà cancellata la privacy di Valeria Valente* Il Riformista, 24 dicembre 2019 Decreto approvato in Consiglio dei ministri rafforza il ruolo dei captatori informatici: gli ascolti acquisiti potranno essere utilizzati anche per reati diversi da quelli per i quali c’è l’autorizzazione a “spiare”. Ci sono temi su cui il confronto politico rappresenta il termometro della società, del suo stato di salute e, quindi, anche della sua febbre. La giustizia è uno di questi, ancora di più quando si parla di prescrizione e intercettazioni. Non deve sorprendere allora che il dibattito di queste settimane, tornato prepotentemente su questi due temi, sia ampio, plurale e franco. Nessuno può considerare la discussione di questi giorni un intralcio al processo legislativo, tanto più quando la richiesta di approfondimento proviene da voci autorevoli della magistratura e dell’avvocatura che ne sono direttamente interessate. La disciplina sulle intercettazioni, approvata sabato in Consiglio dei ministri e che entrerà in vigore a marzo, dimostra che questo percorso può essere condotto con senso di responsabilità. Troppe volte in questi anni abbiamo denunciato l’uso distorto delle intercettazioni come clava per la delegittimazione pubblica di persone che magari neanche erano coinvolte nelle indagini. E troppe volte la politica su questo punto è stata ipocrita, perché in quella enorme stortura ci trovava un modo facile per aumentare il consenso. D’altronde, già il fatto che per 18 mesi il precedente governo avesse congelato queste nonne, fa capire che senza il Pd probabilmente oggi avremmo una nuova proroga a non si sa quando. lo resto convinta che quello per cui non può diventare pubblico ciò che non è penalmente rilevante e ha invece a che fare con i contesti, i comportamenti leciti, le idee e i giudizi sia un sacrosanto principio di garanzia liberale. Vedremo se con le nuove norme questo rischio sarà scongiurato o servirà proseguire su questa strada. Ad esempio, mi sembra una mediazione equilibrata l’attribuzione al pubblico ministero del controllo affinché nei verbali non finiscano contenuti offensivi e lesivi estranei ai fini delle indagini. Così come è positiva anche la possibilità per il difensore di accedere alle operazioni captative. Sinceramente, mi sembra molto meno accettabile l’ulteriore estensione dell’uso del trojan. Si prevede che nello stesso procedimento il materiale acquisito possa essere utilizzato anche per reati diversi da quelli per i quali c’è l’autorizzazione all’intercettazione. Stiamo parlando del più invasivo strumento nei confronti di una persona. E molto spesso se ne parla senza tenere conto del serio problema di bilanciamento tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie. Su questo punto credo che ci sia stato un passo indietro rispetto al testo originario del decreto Orlando del 2017 e immagino che il Parlamento vorrà esprimersi nelle prossime settimane. Va detto però che sulle intercettazioni il Partito democratico ha dimostrato ragionevolezza e responsabilità, accogliendo le osservazioni espresse da alcune procure e avvocatura. Mi chiedo se su prescrizione e durata del processo stia accadendo lo stesso da parte del Movimento 5 Stelle. Qualcuno, anche nella maggioranza, si è stupito che il Pd sollevi forti criticità sulla prescrizione a firma Bonafede e chieda una soluzione equilibrata sulla giusta durata del processo che quella nonna non garantisce affatto. Io francamente mi stupisco di chi si stupisce. Nel gennaio 2019, la legge meglio nota come “spazza-corrotti” ha introdotto il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito, sia esso di condanna o assoluzione. Lo ha fatto con uno strano meccanismo “ora per allora”, e cioè differendo la sua entrata in vigore al 1° gennaio 2020, in modo tale da poter approvare nel frattempo una revisione di sistema del processo penale in grado di garantirne la ragionevole durata. All’epoca il Partito democratico votò contro quella nonna, per il merito e per il metodo, sollevando persino una pregiudiziale di costituzionalità, con ottime motivazioni che credo rimangano in piedi. Infatti, aprire di fatto all’imprescrittibilità dopo la sentenza di primo grado, significa dare un colpo fatale agli equilibri di uno stato di diritto, dove la pretesa punitiva dello stato ha dei limiti e non è una cappa a cui siamo tutti sottoposti fino a che non si dimostri la propria innocenza. Ma oltre a ciò, questa riforma non risolverà il problema che dice di voler curare, e cioè i tempi del processo, dato che la grandissima parte delle prescrizioni giungono in primo grado, e di queste molte durante le indagini preliminari. Così come le richieste di giustizia delle vittime, e i loro risarcimenti, non saranno soddisfatti meglio, come invece sento dire, dato che l’allungamento prevedibile dei processi interferirà anche sulla celerità delle risposte a chi ha subito un reato o patito un danno. Queste erano le ragioni del nostro no di un anno fa, valide ancora di più oggi. Perché? Semplice. Fra pochi giorni quella nonna diventerà legge senza che nel frattempo da via Arenula sia arrivata una chiara proposta organica sul processo penale. Un anno fa il M5s e il ministro Bonafede avevano spostato in avanti la prescrizione considerando essenziale farla precedere dalla riforma del processo, che ne dovrebbe garantire la durata ragionevolmente breve. Oggi che però sul processo non c’è nulla, la prescrizione resta comunque in piedi. Dove sta la coerenza? Eppure il ministro della Giustizia è lo stesso di un anno fa. *Senatrice Pd Mafie, sequestri della Guardia di Finanza in crescita al Nord di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2019 Le mafie fanno sempre più rotta sulle regioni settentrionali. A testimoniarlo sono le richieste di sequestri avanzate dalla Guardia di Finanza. Nei primi 11 mesi del 2019, sono state avanzate per quasi 300 milioni di euro se si considerano quattro grandi regioni del Nord: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Si tratta delle aree in cui si è registrato il maggior incremento percentuale delle richieste avanzate dalle Fiamme gialle. Un incremento che va di pari passo con la crescente penetrazione e ramificazione nel tessuto economico delle regioni del Nord delle mafie e che in Piemonte ha addirittura portato a quadruplicare le richieste tra il 2017 e il 2019, in cui fino a novembre è stata superata la soglia dei 300 milioni di valore. La presenza della criminalità organizzata al Nord - come fanno notare dalla Guardia di Finanza - è aumentata per fasi e con modalità differenti: si è passati dai primi insediamenti di Cosa Nostra e delle ‘ndrine calabresi negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto in comuni lombardi e piemontesi, fino a una progressiva supremazia della ndrangheta, a partire dagli anni Novanta fino ad oggi. Con la conseguenza che nessun territorio settentrionale può ritenersi immune da infiltrazioni mafiose a causa di una crescente presenza nei clan e di trame di relazioni sempre più fitte soprattutto con gli apparati pubblici e imprenditoriali. Ne sono una testimonianza gli scioglimenti di diversi consigli comunali e gli episodi di corruzione scoperti nella Pa. Più in generale, sono 18 i miliardi (più dell’1% del Pil) sottratti dalla GdF alle mafie dal 2015 tra confische e sequestri. I “delitti d’onore” di ‘ndrangheta nel segno dell’omofobia di Francesco Merlo La Repubblica, 24 dicembre 2019 Riemerge ogni tanto sulla superficie della cronaca (nera) l’omosessualità come valore antimafia. E ogni volta riscopriamo spaventati che nel Sud d’Italia, fatto di marginalità e terra povera da cui scappare, di pregiudizi e sottosviluppo ma anche di bellezza e libertà, c’è un mondo dove la parola gay ha lo stesso suono di “cornuto e sbirro”. L’omosessualità non è infatti compatibile con l’antropologia del boss, del “vero uomo” di mafia e di `ndrangheta, spietato perché virile, spinoso come i fichidindia, masculu d’onore. “Lei è un uomo” dice don Mariano Arena al capitano Bellodi. Ed è bene ricordare che quasi al livello dei quaquaraquà ci stanno solo i pigliainculo. La nostra Alessia Candito sabato scorso ci ha raccontato l’agghiacciante esecuzione di Filippo Gangitano, giustiziato dalla `ndrangheta di Vibo Valentia perché gay. Attenzione: i suoi carnefici non gli rimproveravano tradimenti e infedeltà alla cosca alla quale apparteneva per nascita. Gangitano eseguiva gli ordini con efficienza e con ferocia. Era un picciotto, un killer, un duro, un omone che non esibiva la sua sessualità in alcun modo. Era gay, ma sobriamente, fuori mano e privatamente, in casa sua, dove aveva scelto di abitare con il suo compagno. Ma ‘ndranghetista e gay è appunto un ossimoro antropologico. Lo spiega bene il De Niro di Terapia e pallottole allo psicanalista: “Dottore, tu puoi scoprire quello che vuoi, ma se mi dici che sono frocio, io t’ammazzo!”. E siamo alla questione: come mai la criminalità, che pure si fa capitale moderno, è ancora incistata nei valori arcaici, fatti di famiglia e pasta al sugo e di strangolatori con il crocifisso al collo? Credo che i pregiudizi abbiano una funzione essenziale, come la mitologia greca che mappava le carte nautiche: al Circeo si finiva mangiati dai porci, a Nasso ci si perdeva con Arianna, alle Eolie nascevano i venti, e il confine di tutti i pregiudizi erano le insuperabili Colonne d’Ercole, fine del mondo. Sto dicendo che il pregiudizio, arma di mortificazione della realtà, è la vera sapienza mafiosa. La ‘ndrangheta imprenditrice che ricicla denaro sporco, manovra azioni nella Borsa di Francoforte e investe nell’edilizia in Asia, regola però i suoi conti con lo stereotipo più arcaico. Ecco perché il pregiudizio è un destino, per giunta benedetto da Dio: Filippo Gangitano doveva morire perché la famiglia come impresa criminale moderna si rigenera e si ossigena nel pregiudizio, gongola nel sangue e nel sugo di pomodoro. E ad ucciderlo fu incaricato il cugino perché la liturgia del delitto vuole che sia la famiglia a liberarsi della vergogna che la schiaccia. Ecco: segnalo Vibo Valentia alle organizzazioni che si battono per i diritti degli omosessuali e che scelgono i luoghi dove tenere i loro pride. Ci sono città dove la sfilata dell’orgoglio omosessuale sarebbe più civile e meno folcloristica, più rassicurante e meno scandalosa delle feste del santo. Una inutile litania di Adriano Sofri Il Foglio, 24 dicembre 2019 Non c’è una politica, non c’è una giustizia, ce ne sono di più, dell’una e dell’altra. Prima di tutto colpisce la tenacia dell’impegno di Marco Cappato e di Mina Welby, e delle persone militanti nell’associazione Coscioni. La tenacia va contro l’aria del tempo, che vuole essere leggera ed effimera, e bruciare desideri propositi e giuramenti. Quando questa ostinazione a rivendicare la libertà di ciascuna persona consapevole di decidere della propria vita si leghi all’amicizia e alla frequenza delle persone in carne e ossa, ossa e carne e anima straziate, che invocano d’essere aiutate, il peso umano appare schiacciante e spaventa e respinge. I militanti di cui parliamo, Cappato e Welby e le altre e gli altri, hanno per giunta scelto sempre più nettamente di rinunciare, almeno in apparenza, al doppio impegno, quello specifico sulle questioni di vita e di morte, dell’inizio e della fine della vita, e quello generale sulla “politica”, il governo del tempo che si stende fra quei due punti. In loro agisce la convinzione che quella apparente “questione singola” sia il rocchetto attorno al quale si svolge e si srotola un’idea del mondo. Lo spettacolo dell’assise milanese - l’amministrazione della giustizia è anche uno spettacolo pubblico, che vuole essere esemplare, qualunque strada prenda la sua esemplarità - è stato a sua volta impressionante. L’imputato, l’accusatrice pubblica, i giudici, hanno convenuto sul fondo e tutti hanno potuto riferirsi alla sentenza della Corte costituzionale. La Corte aveva dichiarato illegittimo l’articolo del codice penale che equipara l’aiuto all’istigazione al suicidio: “Nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Erano convenuti tutti, tranne il potere legislativo (e il governo), che hanno scelto da un tempo immemorabile di non scegliere. Si può pensare, qualcuno lo pensa schiettamente, che astenersi dal fissare in una norma legale questioni di una tale intima delicatezza e rischiosità sia la cosa migliore che il parlamento possa fare: pensiero che però sbatte contro il fatto che altri organi, altri luoghi intervengono a decidere nel vuoto tra una legge obsoleta e una elusa. È questo che impedisce di protestare contro l’invadenza dell’amministrazione della giustizia nella vita pubblica e privata. Appena l’altro giorno c’era stato un altro caso, diversissimo e non abbastanza valutato, di quella invadenza, in Olanda, dove la Corte Suprema, dopo due gradi di giudizio, ha definitivamente decretato l’obbligo del governo a ridurre le emissioni di CO2, entro il 2020, almeno del 25 per cento rispetto al 1990; dunque, poiché da allora sono state ridotte così da raggiungere il 17-18 per cento nel 2020, di ridurle di un ulteriore 7-8 per cento entro un anno. Il governo, che aveva tentato tutti i ricorsi, è ora tenuto ad applicare la sentenza: la prima cosa che farà sarà la chiusura delle riaperte centrali a carbone. La sentenza richiama gli articoli 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, che dichiarano la vita e il benessere delle persone diritti universali e inviolabili. Dunque, se non la si dimostri arbitraria, la sentenza coinvolge logicamente l’azione dei governi e dei parlamenti di ogni altro paese europeo. Nel caso olandese, essa non è stata pronunciata in carenza di un’iniziativa politica. Il governo aveva fondato la sua avversione sulla convinzione che non sia legittimo per un tribunale indipendente “giudicare la politica di un governo e per questa via cambiarne la politica”. Il vuoto, in questo caso, non riguarda una pavidità o un astensionismo legislativo, ma il contrasto fra i programmi che governi nazionali e organi internazionali proclamano necessari e urgenti, e la loro elusione di fatto. Un tribunale indipendente olandese può, in nome di una legge europea (e dei suoi riferimenti universali) obbligare il governo olandese. Non esiste un tribunale indipendente europeo, e tantomeno universale, in grado di ottenere lo stesso. Bel problema, che risuscita in molti il vecchio alibi: che senso ha che la piccola Olanda, la piccola Italia, tagli le sue emissioni di gas serra, mentre il resto del mondo va per la sua strada distruttiva? (Per analogia: che senso ha che io non butti la mia cicca in strada quando tutti gli altri eccetera...?). L’invadenza della cosiddetta giustizia è un malanno micidiale, ma trova un terreno propizio nella micidiale immunodeficienza della democrazia e dei comportamenti privati. Postilla: in Olanda la causa era stata promossa da un’associazione di centinaia di cittadini, che l’hanno tenacemente perseguita dal 2013, e attraverso due sentenze, del 2015 e del 2018. Oggi nel mondo sono più di un migliaio i processi intentati per i danni del cambiamento climatico contro governi e grandi compagnie. L’Italia è probabilmente il paese in cui l’invadenza giudiziaria è più grossolana - il Brasile di Bolsonaro e Moro, che del resto le si è ispirato, gioca in un altro campionato. Più realista del re, la politica provvede a regalare alla magistratura anche quello di cui i suoi esponenti più vicini ai problemi veri farebbero a meno, come l’abolizione della prescrizione. D’altra parte, proprio in questi giorni stiamo facendo un bilancio del modo in cui provvedimenti politici disgustosi come i cosiddetti decreti sicurezza sono dimostrati illegali e inapplicabili in un vario numero di tribunali indipendenti. Non ci sono conclusioni da trarre, se non una: che parlare di “politica” e di “giustizia” e di “conflitto fra politica e giustizia” è una inutile litania. Non c’è una politica, non c’è una giustizia, ce ne sono di più, dell’una e dell’altra. Aiuto al suicidio, il fatto non sussiste di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2019 Per Marco Cappato, imputato per aiuto al suicidio del Dj Fabo “il fatto non sussiste”. Nel caso ricorrono i quattro presupposti fissati dalla Consulta per la non punibilità. La decisione della Corte d’assise di Milano è arrivata ieri, in chiusura di un processo che per l’esponente dei radicali si era aperto l’8 novembre del 2017 per aver aiutato Fabiano Antoniani a raggiungere la Svizzera per ricorrere al suicidio assistito, un reato punibile con il carcere dai 5 ai 12 anni. A febbraio 2018 era caduta l’accusa di istigazione al suicidio. Per l’aiuto, invece, la Corte d’assise aveva chiamato in causa la Consulta sollevando dubbi di costituzionalità sull’articolo 580 del Codice penale. Un giudizio che la Corte costituzionale aveva sospeso, invitando il legislatore a intervenire con una norma in linea con le tutele della Carta. Scaduto il tempo i giudici delle leggi, con una sentenza le cui motivazioni sono state depositate il 22 novembre scorso, hanno tracciato la via della non punibilità: l’incriminazione non è conforme alla Costituzione quando l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Consulta aveva chiarito che le condizioni valgono solo per i fatti successivi al verdetto, e non per quelli anteriori come la vicenda Dj-Fabo Cappato. Casi in cui è necessario verificare che l’aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità anche diverse da quelle indicate, ma tali da dare garanzie sostanzialmente equivalenti, in particolare rispetto alla verifica delle condizioni del paziente e dei modi di manifestazione della volontà. E la Corte d’assise di Milano ha ritenuto rispettato il perimetro disegnato dalla Consulta. La Pm Tiziana Siciliano, nella sua requisitoria, nel chiedere l’assoluzione perché il fatto non sussiste, ha affermato che la sentenza della Corte costituzionale al “principio di sacralità della vita sostituisce la tutela della fragilità umana”. Parla di sentenza storica la senatrice del Pd Monica Cirinnà che chiede al Parlamento una legge di civiltà sull’aiuto medico a morire. Partendo dal lavoro fatto in Senato dal Pd con un Ddl del presidente Marcucci e uno a firma della stessa Cirinnà, da integrare con le indicazioni della Consulta per arrivare a una legge in tempi brevi. Trasferimento di valori, sì al sequestro anche se i beni non sono frutto di reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2019 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 23 dicembre 2019 n. 51935. Via libera al sequestro preventivo degli immobili in relazione al reato di intestazione fittizia di beni ai familiari, anche se non provento di reato. Una mossa fatta per eludere le misure di prevenzione da parte di un soggetto condannato per reati di bancarotta fraudolenta e riciclaggio, quest’ultimo riferito al profitto della bancarotta fraudolenta, in merito al crack di una società a responsabilità limitata. La Corte di cassazione, con la sentenza 51935, respinge il ricorso contro la misura. Ad avviso del ricorrente l’ordinanza impugnata non avrebbe evidenziato il collegamento tra gli immobili sequestrati e il presunto profitto che il ricorrente avrebbe ricavato grazie al riciclaggio del denaro proveniente dal tracollo della società. Né era stato indicato il profitto ottenuto con il riciclaggio a monte dell’intestazione fittizia. La Cassazione, nel respingere il ricorso, chiarisce che il delitto di trasferimento fraudolento di valori, previsto dall’articolo 512-bis del Codice penale, scatta anche in caso di condotte che riguardano beni di provenienza non delittuosa. La ratio dell’incriminazione, ha il solo obiettivo di evitare le manovre di chi è assoggettabile alle misure di prevenzione, tese a non far figurare la loro disponibilità di beni o altre utilità, a prescindere dalla loro origine. La conseguenza è che possono essere sequestrati i beni oggetto di intestazione fittizia anche se i cespiti non sono il risultato di un reato, purché siano destinati a integrare la condotta di trasferimento fraudolento di valori. Sbaglia dunque il ricorrente nel fare riferimento all’inesistenza di un collegamento tra il profitto del reato di riciclaggio - per il quale è stato condannato - e i beni sequestrati. Così facendo la difesa confonde, infatti, i presupposti per il sequestro dei beni relativi al riciclaggio, articolo 648-quater del Codice penale, con il sequestro dei beni relativi al reato di intestazione fittizia. Sassari. Presunti maltrattamenti ai detenuti nel penitenziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 dicembre 2019 Almeno cinque i casi denunciati. Indaga la Procura, il Dap avvia gli accertamenti. Le violenze sarebbero avvenute in un contesto già difficile: acqua che cola dai tetti e sezioni del 41bis costruite sotto il livello del terreno. Modalità dure delle perquisizioni nelle celle, attività di controllo sui reclusi che sarebbero state filmate con uno smart-phone. Parliamo di presunti maltrattamenti che sarebbero stati perpetuati nei confronti di alcuni detenuti del carcere sardo di Sassari, il Bancali. Almeno cinque i casi denunciati e la Procura di Sassari ha affidato il caso al Nucleo di polizia giudiziaria della Polizia penitenziaria per investigare sull’accaduto. I primi a muoversi sono stati i magistrati del tribunale di Sorveglianza di Sassari, che avrebbero sentito subito le presunte vittime dei maltrattamenti. Quindi le segnalazioni sono arrivate alla Procura e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È trapelato che tra le persone sentite nei giorni scorsi ci sarebbero operatori in forze all’Istituto sassarese, soggetti che avrebbero confermato le segnalazioni dei detenuti. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria (Dap) in Sardegna, Maurizio Veneziano, conferma di aver ricevuto la delega dal Capo Dipartimento per avviare accertamenti di natura ispettiva e amministrativa sulla vicenda che riguarderebbe episodi segnalati negli ultimi mesi. Verifiche che inizieranno subito dopo le festività, presumibilmente a metà gennaio. Le presunte violenze arrivano in un contesto difficile e si aggiunge alla situazione logistica e ambientale già pesante. Acqua che cola dai tetti ogni volta che piove, con i temporali che spesso fanno saltare la corrente elettrica. Sciacquoni dei water nelle celle vuoti da mesi, muffa e infiltrazione nei muri. Problemi nell’area educativa, che non funziona, ma anche per fare una semplice telefonata a parenti o legali. Mensa, anche della Polizia penitenziaria, sporca con cibi di qualità e quantità inadeguata. Pochissimi mediatori culturali, che nulla possono fare per risolvere i problemi di interazione con le 27 etnie presenti. Come se non bastasse c’è il problema strutturale del 41bis. Relativamente nuovo è l’Istituto di Sassari, che ha sostituito il vecchio “San Sebastiano” di ben triste memoria, caratterizzato però dalla presenza di un reparto detentivo speciale (41bis) sotto il livello del terreno ove sorgono le altre sezioni: una scelta però non dovuta alla tipologia del terreno. Le cinque sezioni scendono gradatamente, con una diminuzione progressiva dell’accesso dell’aria e della luce naturale, che filtrano solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete, corrispondenti all’esterno al livello di base del muro di cinta del complesso. Per tale motivo, sia le persone detenute nelle proprie stanze che il personale nei propri locali devono tenere continuamente la luce elettrica accesa per sopperire alla carenza di quella naturale. Ma non finisce qui. Nonostante la forte presenza di un elevato numero di persone detenute in regime di alta sicurezza o 41bis in Sardegna, non è disponibile un Servizio di assistenza intensiva (Sai) che possa essere utilizzato a tutela della loro salute. Infatti, il Sai dell’Istituto di Sassari - strutturato originariamente per coloro per i quali era disposta una detenzione secondo tali regimi - è stato da due anni trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari- Uta, è esclusivamente per coloro che sono detenuti in regime di normale sicurezza. E adesso al carcere di Sassari si aggiunge anche un’inchiesta da parte della Procura. Palermo. 91enne muore suicida, era in detenzione domiciliare da 4 anni blogsicilia.it, 24 dicembre 2019 In serata a Partinico (Pa) si è impiccato Filippo Nania, 91 anni, detto “Fifiddu”, boss mafioso condannato in via definitiva per 416bis. Era detenuto in detenzione domiciliare dalla fine del 2016 dopo un periodo di reclusione nel carcere Opera di Milano. Secondo una prima ricostruzione pare che Nania sia salito su una scaletta alta circa mezzo metro e si è attaccato alla corda. Prima si era chiuso dall’interno nel garage. La porta del garage è stata aperta dai soccorritori. Le indagini sono condotte dai carabinieri della compagnia di Partinico. Viterbo. Una convenzione per la mediazione culturale a favore dei detenuti stranieri tusciaweb.eu, 24 dicembre 2019 Gestione dell’attività di mediazione culturale a favore dei detenuti stranieri, firmata a palazzo dei Priori una convenzione tra comune di Viterbo (comune capofila del distretto socio sanitario Vt3) e casa circondariale Mammagialla. A sottoscrivere l’importante documento, lo scorso mercoledì, sono stati il sindaco Giovanni Maria Arena e il direttore dell’istituto penitenziario Pierpaolo D’Andria. Presente alla firma della convenzione, avvenuta nella sala Rossa, anche l’assessore ai servizi sociali Antonella Sberna. “La convenzione - ha spiegato il direttore della casa circondariale D’Andria - ha come oggetto la definizione e la strutturazione di un servizio di mediazione interculturale, rivolto ai detenuti stranieri, con l’intento di migliorare le condizioni di vita degli stessi, mediante azioni volte a facilitare la loro permanenza all’interno dell’istituto penitenziario. Questo prevede anche l’istituzione di uno sportello informativo all’interno della nostra casa circondariale. Ringrazio il sindaco Arena per aver condiviso le finalità di questa convenzione che stiamo per sottoscrivere e che vede in primo piano comune e casa circondariale, e un ringraziamento all’assessore Sberna per il percorso avviato insieme pochi mesi fa, e che oggi concretizziamo attraverso la firma di questa convenzione”. “Alla base di alcuni diverbi ed episodi di intolleranza tra detenuti ci sta spesso l’incomprensione - ha sottolineato il sindaco Arena. Parlo di incomprensione linguistica. Così come ci stanno le differenze culturali. I servizi che verranno portati avanti attraverso l’attività di mediazione interculturale sono certo porteranno benefici sia dentro l’istituto penitenziario, nel periodo in cui il detenuto sconta la pena, sia fuori dal carcere, una volta libero, nella fase del reinserimento nel contesto sociale”. Tra gli obiettivi della convenzione rientrano anche un adeguato supporto linguistico e informativo, finalizzato alla conoscenza dei propri diritti in ambito giuridico, sanitario e sociale, culturale e religioso, il miglioramento delle relazioni del detenuto con gli operatori penitenziari, socio sanitari e con gli altri detenuti, la semplificazione amministrativa, in particolar modo nella cura dei rapporti del detenuto con le ambasciate e i consolati di provenienza. E ancora a sostenere iniziative, individuali e non, quali azioni di supporto a percorsi lavorativi, formativi o in generale volti al reinserimento sociale e allo sviluppo di progetti di integrazione e di informazione. “Questa convenzione è indubbiamente una risposta forte alle esigenze di una buona parte della popolazione detenuta - ha affermato l’assessore Sberna. È un documento che fa seguito a quanto ci eravamo detti con il sindaco Arena e il direttore dell’istituto penitenziario D’Andria in occasione del consiglio straordinario dedicato alla situazione della casa circondariale Mammagialla. Attraverso un lavoro costante, portato avanti in questi mesi, abbiamo raggiunto questo risultato. Un risultato che ci vede tra i primi distretti socio sanitari del Lazio a essere prossimi all’avvio del servizio. Ringrazio gli uffici per il solerte e prezioso lavoro che ci ha portato oggi a ufficializzare una preziosa e proficua collaborazione in ambito sociale”. Bergamo. “Aretè”, una creazione gastronomica sbocciata dall’aiuto ai detenuti bergamopost.it, 24 dicembre 2019 La cooperativa sociale Aretè è felice di annunciare la nascita di #Dolosa, la prima creazione gastronomica dello staff di Torre Boldone. A un primo sguardo, #Dolosa è una “semplice” crema al peperoncino, creata con materie prime di qualità, biologiche e a chilometro zero. In realtà questo vasetto pieno di bontà e di sapore nasce dalla mission di Aretè. Cosa significa. Fin dalla sua fondazione, nel 1987, la cooperativa si è posta infatti come principale obiettivo quello di aiutare i detenuti per dare loro, nell’ambito delle misure alternative alla detenzione, la possibilità di vivere un contesto quotidiano differente dal carcere, in un ambiente che fosse “protetto” e che potesse essere d’aiuto nella riabilitazione verso una vita nuova. Nel corso del tempo questa vocazione è stata mantenuta e in parte ampliata con l’inclusione anche di altre tipologie di persone svantaggiate: disabili psichici, ex-tossicodipendenti, disoccupati di lungo periodo, persone in disagio sociale. Vocazione. #Dolosa vuole essere quindi il racconto semplice, sincero e sorridente della vocazione della cooperativa e delle attività che tutti i giorni vengono svolte. Nasce dal desiderio di parlare di temi come il carcere e il reinserimento lavorativo di ex detenuti con la naturale semplicità che caratterizza il nostro quotidiano, con il sogno di avvicinare il maggior numero possibile di persone al nostro mondo, al nostro lavoro e alla nostra cooperativa che vuole essere sempre più inclusiva. “Per raggiungere questi obiettivi siamo partiti dal nome, #Dolosa, una parola che fa immediatamente ed esplicitamente riferimento a ciò che ha portato qualcuno ad andare coscientemente contro le norme - dicono dalla cooperativa. Si tratta di un elemento, quella che comunemente chiamiamo “colpa”, che fa quotidianamente parte della nostra vita e che spesso spaventa le persone, ma che il lavoro in Aretè vorrebbe aiutare ad accettare e ad accogliere, in tutti. #Dolosa è un modo di portare Aretè nelle case di tutti. Si tratta di un progetto che inizia con questa crema, ma che desideriamo portare avanti anche nei prossimi mesi con altre creazioni grazie alla nostra coltivazione di peperoncini”. Dove comprarla. #Dolosa è acquistabile presso il negozio Aretè in via Imotorre, 26 a Torre Boldone secondo gli orari di negozio (da lunedì a venerdì dalle 8.45 alle 19 e il sabato dalle 8.45 alle 13) ed è presente nei cesti natalizi Aretè. Milano. Carcere minorile, crowd-funding per comprare strumenti musicali di Lorenzo Balbo Redattore Sociale, 24 dicembre 2019 L’etichetta “Tanta Roba Label” lancia una raccolta fondi online per acquistare strumenti destinati al laboratorio di musica rap che l’associazione Suonisonori organizza all’interno del Beccaria di Milano. C’è tempo fino al 27 dicembre per donare. “Una musica può fare, salvarti sull’orlo del precipizio”, scriveva Max Gazzè nel 1998. E in effetti sono molte le situazioni in cui una canzone può davvero fare la differenza: ecco perché l’etichetta discografica Tanta Roba Label ha deciso di lanciare una raccolta fondi online per acquistare nuovi strumenti destinati al laboratorio di musica rap per i ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano, organizzati dall’associazione Suonisonori. Per donare c’è tempo fino al 27 dicembre: l’obiettivo è di raccogliere 5 mila euro. “Con questi strumenti musicali i ragazzi potranno studiare ed esibirsi anche fuori dal carcere, diminuendo la loro esperienza detentiva, nonché l’impatto del penitenziario sulle loro vite - affermano gli organizzatori. Il carcere diventa ogni giorno di più il contenitore sociale di gruppi svantaggiati: dove lo stato non riesce ad abbattere le cause di disuguaglianza, la vulnerabilità avvicina alla criminalità. La musica, e nello specifico il rap, possono quindi svolgere una funzione di primaria importanza, facilitando la rieducazione e dando a questi giovani nuovi strumenti per uscire dalla delinquenza”. Il laboratorio di musica hip hop si tiene tre volte a settimana: il progetto è nato quasi vent’anni fa dall’associazione Suonisonori e in totale ha coinvolto circa 2 mila ragazzi. La raccolta fondi è stata lanciata il 19 dicembre al Puntozero, teatro che si trova all’interno della struttura carceraria, durante un concerto di Gemitaiz e MadMan, due famosi rapper dell’etichetta Tanta Roba Label, fondata nel 2011 dal rapper Gué Pequeno e dal dj Harsh e specializzata in musica hip hop. Lo spettacolo è stato aperto dai tre brani inediti di El Diamantik, cantante ecuadoregno di 20 anni approcciatosi all’hip hop proprio durante la detenzione al Beccaria. “La musica è la mia arma per guadagnarmi un futuro - ha dichiarato -. Attraverso le mie canzoni ho l’occasione di raccontare a chi è fuori quali sono i sentimenti di un ragazzo che vive qui dentro”. Pistoia. Natale, in una cassetta i pensieri e le parole dei detenuti di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 24 dicembre 2019 L’idea è nata dai professionisti della locale Azienda sanitaria: dare voce ai tanti detenuti del carcere di Pistoia che voce non hanno. Permettere loro di tradurre in lettera, in forma anonima, le idee, le richieste, le emozioni, i desideri inespressi, per poi depositarli in una “cassetta dei pensieri” in occasione delle festività natalizie. Una “cassetta di Babele” dove far confluire i tanti mondi interiori, tutti diversi: per provenienza, per esperienze vissute, per cultura e anche per le tante lingue che nella realtà carceraria si possono ascoltare. La cassetta - così immaginata dai medici e dagli infermieri che operano all’interno della casa circondariale - è stata collocata vicino all’ambulatorio e si è andata pian piano riempiendo. L’iniziativa però non ha soltanto intercettato i sentimenti dei detenuti: spontaneamente anche gli agenti di Polizia penitenziaria, gli educatori, il personale amministrativo che nel carcere lavora, hanno iniziato a imbucare nella stessa cassetta i loro pensieri di Natale. Grazie alla sensibilità della direttrice dell’istituto penitenziario e del comandante della Polizia penitenziaria, l’idea ha coinvolto tutti, aprendo una finestra su un mondo che sembra invece fatto di uomini-ombra. Si è inoltre deciso che alcuni di questi pensieri verranno letti durante la Messa di Natale che il Vescovo di Pistoia, monsignor Fausto Tardelli, celebrerà in carcere e che tutte le lettere verranno raccolte in una pubblicazione. San Cataldo (Cl). Scambio di esperienze tra i detenuti e il Centro di riabilitazione radiocl1.it, 24 dicembre 2019 Il Centro di Riabilitazione “Villa San Giuseppe” dell’Associazione “Casa Rosetta” ha strutturato, nel corso di quest’ultimo anno, una serie di incontri con gli ospiti della Casa di Reclusione di San Cataldo che proprio nell’imminente avvicinarsi delle festività natalizie vestono una particolare valenza. Gli incontri, frutto dell’operosa collaborazione tra la Casa di reclusione e il Centro di Riabilitazione, sono stati resi possibili dall’impegno che ha visto in prima linea, oltre che le diverse figure interne a “Villa San Giuseppe”, la Direttrice della Casa di reclusione, dott.ssa Francesca Fioria, il Commissario Coordinatore Carlo Di Blasi, il Responsabile dell’area educativa, dott. Michele Lapis, le insegnanti dei corsi Cipia, Antonella e Tina e le insegnanti Grazia e Graziella, dell’Istituto “Rapisardi”, che quotidianamente ed incessantemente aiutano gli ospiti della struttura di San Cataldo nel loro percorso di riabilitazione e che nella finalità progettuale di questi incontri hanno pienamente sposato l’idea di far interagire le due realtà. L’idea di questi incontri nasce nel mese di marzo, in occasione della Festa di San Giuseppe; gli ospiti della Casa di reclusione, Carmelo, Antonio, Federico, Mario, Ahboufa, Antonello, Ahmed, Nino, Natale, Enzo, Francesco, Turi, Angelo, Dyibi, Jim, sono diventati, da quel giorno, compagni di viaggio dei giovani del Centro diurno di “Casa Rosetta”, “Villa San Giuseppe”. Diversi momenti di condivisione, compartecipazione e scambio di esperienze si sono susseguiti all’interno di un calendario di incontri arrivato, ad oggi, alla soglia delle festività natalizie. Compartecipazione e felicità sono stati temi fondanti degli incontri, che vestono la piena valenza del senso della condivisione e del creare sinergia con le diverse realtà agenti sul territorio nell’ottica del “prendersi cura di sé e dell’altro”, concetto questo, che con l’avvento del Natale si trasmuta in un augurio da parte di “Casa Rosetta” diretto a tutte quelle realtà bisognose di attenzione e di maggiore integrazione. Reggio Calabria. L’associazione Elsa entra in carcere con una nuova iniziativa di Cristina Crupi reggiotv.it, 24 dicembre 2019 In occasione dello Human Rights Day, l’Associazione Elsa (The European Law Students’ Association), sezione di Reggio Calabria, ha organizzato un’iniziativa dai risvolti pratici, volta a sensibilizzare le coscienze dei partecipanti in relazione alla condizione di una particolare categoria di soggetti: i detenuti. È nata sotto forma di un’attività di volontariato culturale e, per questo, insieme alle detenute donne si è proceduto ad etichettare e riordinare libri e Dvd donati dai partecipanti in occasione della giornata. I soci di Elsa Reggio Calabria hanno vissuto un bellissimo momento di confronto con le detenute, che hanno parlato della loro esperienza all’interno della Casa Circondariale, esprimendo il desiderio di avere maggiori contatti con persone provenienti dall’esterno, soprattutto con i giovani, stimolando Elsa a strutturare un programma di attività a lungo termine per dare supporto soprattutto morale a chi sta vivendo un percorso di reinserimento nella società. Il tutto si è svolto in un clima disteso e conviviale, nel quale si sono incontrati gli sguardi dei partecipanti, desiderosi di mettersi in gioco al servizio della comunità, e quelli delle detenute, pieni di speranza e voglia di cambiare il loro futuro. L’epilogo dell’evento si è avuto con la donazione che l’associazione ha fatto alla struttura, con una targa recante una frase emblematica inerente ai Diritti Umani, che è stata affissa nella biblioteca da una detenuta che si occupa quotidianamente della sistemazione. Il tutto si è svolto con il pieno sostegno dell’Avv. Agostino Siviglia, Garante Regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, e del Dott. Emilio Campolo, Responsabile dell’area pedagogica dell’Istituto, entrambi presenti all’iniziativa. La nuova voglia di idealismo di Dacia Maraini Corriere della Sera, 24 dicembre 2019 Mi capita di scrivere queste poche righe proprio sotto Natale. Un giorno in cui si festeggia la nascita di un bambino straordinario che ha cambiato le sorti di una grande parte del mondo. Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. In nome di Cristo sono state fatte delle orribili nefandezze. La scissione fra etica e politica è accaduta nel momento in cui la Chiesa, da idealistica e innovativa forza rivoluzionaria si è trasformata in un impero che ha subito costruito il suo esercito, le sue prigioni, i suoi tribunali, la sua pena di morte. Ma molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra. Oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore. I movimenti che abbiamo conosciuto finora, perfino il grande Sessantotto, usavano le parole Lotta, Guerra, Appropriazione, Distruzione, Nemico da abbattere, ecc. Mentre le piccole sardine, (che spero tanto non si facciano trasformare dai media in tonni pronti per la mattanza), rifiutano l’insulto e l’aggressività. Non pretendono di cambiare il mondo, ma di introdurre in una società sfiduciata e cinica, una nuova voglia di idealismo. Non hanno sbagliato simbolo secondo me, perché la sardina da sola non esiste, ma in una massa di corpi volanti, aiuta il mare a compiere i suoi cicli vitali. Inoltre possiamo dire che la sardina è ormai il solo pesce che non provenga da allevamenti intensivi, non si nutre di farine sintetiche, e non viene rimpinzata di antibiotici. Il fatto che riescano a smuovere tante persone, soprattutto giovani, è segno di una richiesta di nuove idealità, ovvero fiducia nel futuro, progetti comuni, spirito di solidarietà e collaborazione. Certuni li ridicolizzano, ma non si accorgono che fanno del male prima di tutto a sé stessi. Con il sarcasmo perpetuano il vizio tutto italiano di disprezzare tutto ciò che è comunitario, di sentirsi superiore a ogni manifestazione di indignazione civica, di criticare tutto e tutti in nome di una conoscenza del mondo più antica e superiore. La lunga marcia per abolire il manicomio di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 24 dicembre 2019 La salute mentale richiede un sistema di welfare pubblico universalistico e un insieme unitario di diritti individuali e sociali come previsto dalla Costituzione. Il muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura dell’Opg, una scelta radicale è un volume realizzato dall’Ufficio del Garante delle persone private della libertà della Regione Toscana in sintonia con il movimento per il superamento dei manicomi giudiziari. A curarlo è Franco Corleone il quale, riprendendo precedenti disegni di legge, avanza la proposta di abolire la non imputabilità del malato di mente. Questo porterebbe a superare il cosiddetto “doppio binario” e di fatto a scardinare la distinzione tra pene e misure di sicurezza. Il codice penale del 1930 fa riferimento alla legge 36 del 1904 sui manicomi che a partire da una visione del malato come “pericoloso a sé e agli altri”, attua un modello di tipo custodiale. Le leggi 180 del 1978 e 81 del 2014, che hanno chiuso i manicomi civili e quelli giudiziari, riconoscono i diritti da attuarsi nella comunità sociale. Il processo di soggettivazione in un quadro di libertà e responsabilità è essenziale per il programma di cura e il progetto di vita. La sentenza 99 del 2019 della Corte Costituzionale ha esplicitato come la persona con infermità psichiche sopravvenute in carcere possa usufruire di misure alternative mediante un ragionevole bilanciamento tra i diritti della persona e la sicurezza della collettività. Il Comitato Nazionale di Bioetica e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno sollecitato la collaborazione interistituzionale, che si è tradotta in alcuni protocolli regionali. Le esperienze di chiusura degli Opg, pur condotte senza una regia nazionale, dimostrano che il nuovo sistema può funzionare. Infatti si stimano in circa seimila i pazienti seguiti nel territorio. Le trentuno Rems (Residenze per Esecuzione Misure di Sicurezza), molto diverse fra di loro, hanno un buon turnover e il 67% dei pazienti accolti nei primi tre anni sono stati dimessi. Tuttavia hanno seri connotati custodiali, certe persone sono di difficile gestione e altre rischiano di essere abbandonate. La salute mentale richiede un sistema di welfare pubblico universalistico e un insieme unitario di diritti individuali e sociali come previsto dalla Costituzione. Il rischio di una regressione delle Rems e di una progressiva occupazione “giudiziaria” delle strutture dei dipartimenti di salute mentale necessita di una riflessione su devianza e conflitto e sulle funzioni delle pene, affinché siano più efficaci sia per le persone che per la sicurezza della comunità. Per la cura si può operare solo nel consenso, favorendo la responsabilità e il protagonismo mediante percorsi di “capacitazione”. Serve un doppio patto uno per la cura, l’altro per la sicurezza. La proposta di riforma dell’imputabilità non mira affatto a negare il disturbo mentale, ma a responsabilizzare la persona rispetto all’agito. Anche nelle ipotesi di proscioglimento, il fatto-reato resta ben presente nella vita psichica della persona che chiede di essere accettata in modo non giudicante, di trovare un senso, una conciliazione interiore premessa di un percorso riparativo e per quanto possibile di conciliazione. È quindi fondamentale anche per i percorsi di cura un pronunciamento sociale, una sentenza che dia certezze, rispetto a kafkiane misure di sicurezza. Poi l’esecuzione della pena terrà conto del trattamento dei disturbi mentali considerando al contempo le necessità di sicurezza. Rivedere le funzioni delle pene implica un ripensamento degli istituti di pena, una diversa strutturazione delle Articolazioni tutela salute mentale nel carcere, la proposizione di altre soluzioni interne o esterne agli stessi istituti. Occorre un’analisi sui determinanti biologici, psicologici, sociali agendo su quelle più facilmente rilevabili e modificabili. La proposta rilancia un’azione riformatrice per superare le contraddizioni del codice penale che rischiano di soffocare le buone pratiche e di far fallire una rivoluzione straordinaria, di civiltà e umanità. *Psichiatra. Direttore del Dipartimento salute mentale, Ausl di Parma Tso, l’Italia non rispetta le raccomandazioni europee di Valentina Stella Il Dubbio, 24 dicembre 2019 L’accusa dell’Associazione Radicale “Diritti alla Follia”. Nelle Relazioni sulle visite in Italia dal 2004 al 2016 il Comitato per la Prevenzione della Tortura (Cpt), organismo collegato al Consiglio d’Europa, ha espresso una serie di raccomandazioni specifiche sulle garanzie legali relative alla procedura dei Trattamenti sanitari obbligatori (Tso). L’Associazione Radicale “Diritti alla Follia” ha tradotto ed esaminato queste raccomandazioni perché, come rendono noto in un comunicato stampa Cristina Paderi e Michele Capano, rispettivamente segretaria e tesoriere dell’associazione, “di questo documento così significativo per l’Italia, non è stato possibile trovare neanche il testo in italiano”. Per il Cpt “è emerso che quasi nessuna delle raccomandazioni specifiche fatte in precedenza dal Comitato è stata realizzata nella pratica. Tale stato di cose non è accettabile”. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le criticità emerse: 1) “Non era raro che durante la procedura di Tso gli stessi medici che lavoravano nel Servizio diagnosi e cura compilassero essi stessi il certificato medico per il sindaco e il giudice. Il Cpt ritiene che tale pratica sia discutibile in termini di etica professionale”; 2) “i certificati redatti dai medici spesso non contenevano alcuna motivazione (molto spesso entrambi i certificati contenevano solo la diagnosi di “stato di agitazione”); in diversi casi, il primo e il secondo certificato erano letteralmente identici o erano addirittura redatti con la stessa calligrafia”; 3) “la delegazione ha osservato che, in un certo numero di casi, la decisione del tribunale veniva notificata al sindaco, ma non al paziente interessato”; 4) “occorre che i pazienti siano di norma ascoltati di persona dal giudice tutelare competente, preferibilmente nei locali dell’ospedale. Si tratta di una garanzia fondamentale”; “il Cpt considera che dovrebbe completare l’esame degli atti di tale procedura anche un’udienza in ospedale, che permetta un contatto diretto tra le parti in causa, cioè: paziente, medico e giudice. Tale udienza potrebbe d’altronde essere organizzata nel quadro della legislazione attuale. Essa permetterebbe al magistrato non solo di ascoltare le spiegazioni del paziente e del medico, ma anche di comunicare direttamente la sua decisione al paziente (con l’aiuto del medico, se necessario)”. In merito a tale quadro problematico, Paderi e Capano sottolineano che “rispetto a queste raccomandazioni clandestine, abbiamo riscontrato una sostanziale coincidenza tra quello che il Comitato per la Prevenzione della Tortura predica e quello che è il contenuto della proposta di riforma del trattamento sanitario obbligatorio di cui ci siamo resi elaboratori e protagonisti in questi anni. Ovviamente queste raccomandazioni si sono andate ripetendo nel corso degli anni perché il Comitato nelle visite registrava che nulla era cambiato, ma questo tipo di sollecitazione non è mai entrata neanche nel dibattito istituzionale”. Per leggere tutte le raccomandazioni: https://www.dirittiallafollia.it/wp-coten/uploads/2019/12/raccomandazioni-del-cpt-allitalia.pdf Libia, l’allarme dell’Onu: “Già uccisi 284 civili”. Missione Ue, Pompeo apre di Cristiana Mangani Il Messaggero, 24 dicembre 2019 Quasi mezzo milione gli sfollati. Il ministro degli Esteri italiano riceve dal segretario di Stato l’appoggio Usa all’iniziativa diplomatica. L’America non molla l’Italia, né l’Europa, ma sulla Libia continua a voler rimanere “defilata”. Non sembra sufficiente a convincerli la presenza dei contractors russi a fianco dell’esercito del generale Khalifa Haftar, anche se ammettono di essere preoccupati. E soprattutto sembrano credere poco alla riuscita della Conferenza di Berlino, per la quale non è stata ancora fissata una data certa. Per questo tutte le mediazioni che l’Italia sta cercando di mettere in campo sono ben accette. Ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che sta giocando una grossa partita personale sulla Libia, ha parlato al telefono con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, dal quale avrebbe ricevuto pieno appoggio per la trattativa diplomatica in corso. Così come avrebbe dato l’ok alla missione Ue che dovrebbe già partire con l’inizio dell’anno. Il responsabile della Farnesina ha intenzione di recarsi in Turchia nei prossimi giorni, forte dei rapporti di amicizia che hanno sempre legato l’Italia a quel paese. In questo scenario, Fayez al Serraj, capo del governo riconosciuto dall’Onu, e il suo nemico Khalifa Haftar, provano a giocare una partita tutta personale. Perché, se l’idea di una espansione turca in Tripolitania sembra accettata dal presidente, non è vista bene da tutte le parti in causa. E Haftar, dal canto suo, vorrebbe evitare di essere completamente fagocitato dai russi, e ieri ha annunciato che andrà presto in Grecia, dopo che nei giorni scorsi il ministro degli Esteri Nikos Dendias (da sempre vicino a Serraj) si è recato a Bengasi, in polemica con la firma del memorandum tra Tripoli e Ankara. All’Italia resta il compito non facile di riportare in primo piano i partner europei, in vista di quella Conferenza di Berlino alla quale credono in pochi. Aspettando, invece, con maggiore interesse il bilaterale tra Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin previsto per 1’8 gennaio. Intanto ieri il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin ha parlato al telefono con il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, Robert O’Brien, al quale avrebbe assicurato che la Turchia continuerà a lavorare per la “sicurezza e la stabilità nella Libia”, ma anche a “difendere i suoi diritti nel Mediterraneo orientale”. C’è poi il ruolo che sta provando a giocare la Tunisia: esclusa dalla Conferenza di Berlino, sta preparando una iniziativa autonoma. L’idea è di organizzare un consesso sulla crisi in cui vengano coinvolti i protagonisti “minori”, che potrebbero avere maggiori chances di esercitare un pressing incisivo su Sarraj e Haftar. Ieri, poi, l’Onu ha lanciato un allarme per la situazione nel paese: “Siamo preoccupati per il deterioramento dei diritti umani in Libia. “Nel 2019, il nostro ufficio insieme alla missione di sostegno delle Nazioni Unite (Unsmil) - ha dichiarato l’Alto Commissario per i diritti umani (Ohchr), Rupert Colville - ha documentato almeno 284 morti civili e 363 feriti a seguito del conflitto armato, con un aumento di oltre un quarto del numero di vittime registrato nello stesso periodo dell’anno scorso. Abbiamo serie preoccupazioni sull’impatto che il conflitto sta avendo su aree densamente popolate come Abu Salim e Al Hadba, dove altri 100.000 civili rischiano di essere sfollati, oltre ai 343.000 che hanno già lasciato le loro case”. Iran. La repressione degli ayatollah: “1.500 morti nelle proteste di piazza” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 24 dicembre 2019 La repressione delle proteste di novembre in Iran è stata brutale e il numero delle vittime potrebbe essere molto più alto di quello finora certificato dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Un’inchiesta pubblicata ieri dalla Reuters parla di circa 1.500 persone uccise, tra cui 17 adolescenti e 400 donne. L’agenzia inglese cita tre fonti anonime del ministero dell’Interno iraniano e un quarto funzionario. A dare l’ordine di “fare tutto il necessario” per sedare le rivolte sarebbe stata direttamente la Guida suprema, Ali Khamenei, in una riunione con i più alti responsabili della sicurezza a cui avrebbe partecipato anche il presidente Hassan Rouhani, che guida un governo considerato espressione dell’ala più moderata del regime. “L’ordine ha dato il via alla più sanguinosa repressione dei manifestanti dopo la Rivoluzione islamica de11979”, scrive Reuters. “Non possiamo commentare il report che cita persone che lavorano al ministero dell’Interno e informazioni delle forze di sicurezza, degli ospedali e dei medici legali”, spiega da Londra Nassim Papayianni, ricercatrice del team Iran di Amensty International. “Non abbiamo accesso a fonti interne al governo, le nostre ricerche si basano sui report che riceviamo dall’Iran e che verifichiamo. Finora possiamo confermare che i morti sono stati almeno 304, ma crediamo che il bilancio sia più alto e stiamo indagando per verificare le notizie di altre vittime”. Il Consiglio supremo di sicurezza nazionale dell’Iran ha smentito l’inchiesta della Reuters: “Falsa propaganda”, frutto di una “guerra psicologica”, una “storia americana” - rispolverando le teorie cospirazioniste di una regia americana dietro le proteste - ma senza fornire un bilancio certo delle vittime. Le proteste sono scoppiate il 15 novembre scorso: l’aumento del prezzo della benzina ha fatto da detonatore a una rabbia diffusa contro la corruzione e l’inefficienza del governo, accusato di spendere soldi per le operazioni militari nella regione - in Libano, Siria, Yemen - e non per dare servizi dignitosi ai cittadini. Alcuni manifestanti hanno attaccato banche e uffici governativi e la sera del 17 novembre hanno dato fuoco alle immagini di Khamenei, che in Iran ha il controllo su tutte le decisioni che riguardano la sicurezza e gran parte di quelle politiche: l’ayatollah ha fatto subito capire che aria tirasse definendoli “banditi”. Per una settimana il governo ha bloccato Internet e così le notizie sui morti sono cominciate a trapelare solo verso la fine di novembre. “Crediamo che le persone arrestate siano migliaia e temiamo che vengano torturate o costrette a confessioni forzate poi usate contro di loro nel processo: già ne sono apparse su alcune televisioni di stato”, spiega Papayianni. Le testimonianze raccolte da Amnesty raccontano anche di famiglie che hanno subìto pressioni dalle forze di sicurezza per non parlare con i media o fornire versioni false sulla morte dei loro cari: “In un caso almeno ci hanno raccontato che è stato detto loro di dire che la vittima era morta in un incidente stradale”. Farnaz Fassihi, però, che per il New York Times si occupa di seguire cosa accade in Iran e ha raccontato la repressione del regime, solleva dubbi sulle cifre fornite da Reuters. “Può qualsiasi altro giornalista indipendente o qualsiasi organizzazione per i diritti confermare i numeri di Reuters? Io non ci sono riuscita ha scritto su Twitter - e anche il Dipartimento di Stato ha gonfiato i numeri”, riferendosi alle dichiarazioni dell’inviato speciale Usa per l’Iran, Brian Hook, che per primo aveva parlato di più di 1.000 morti. Sul coinvolgimento diretto di Khamenei nella gestione della repressione invece sembrano esserci pochi dubbi. Il 3 dicembre è stato proprio un alto funzionario delle guardie rivoluzionarie iraniane, Yadollah Javani, a dire pubblicamente che se non fosse stato per “l’intervento tempestivo” del leader supremo, non sarebbe stato possibile “mettere fine alle proteste”. Arabia Saudita. Omicidio Khassogi, cinque condanne a morte e nessun mandante di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 dicembre 2019 La mano pesante del tribunale di Ryadh, in Arabia Saudita, si è abbattuta su quelli che sono stati giudicati come gli autori dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista 59enne, editorialista per il Washington Post. L’uomo era stato visto per l’ultima volta entrare nel consolato saudita di Istanbul Il 2 ottobre 2018: da allora era scomparso. Indagini turche e delle Nazioni Unite sono state concordi nell’indicare nei servizi segreti sauditi i responsabili. Nel mirino degli inquirenti erano finite 11 persone anche se tutta l’inchiesta ne vedeva convolte almeno 31. Ieri le sentenze: cinque condanne a morte mentre altri 3 imputati dovranno scontare pene detentive di 24 anni a testa. Le pene capitali sono state comminate per aver “commesso e partecipato direttamente all’omicidio della vittima”, gli altri invece sono stati giudicati rei di aver coperto questo crimine e violato la legge. Tre gli assolti. Già la relatrice speciale Onu sul caso, Agnes Callamard, aveva rivelato l’estate scorsa che erano emerse le responsabilità di alcuni agenti di cui erano stati resi noti i nomi: Fahad Shabib Albalawi, Turki Muserref Alshehri, Waleed Abdullah Alshehri; Maher Abdulaziz Mutreb, un funzionario dell’intelligence e la dottoressa Salah Mohammed Tubaigy, medico legale del ministero degli Interni. L’omicidio di Khashoggi sarebbe l’esito tragico di un’operazione sotto copertura, un rapimento per portare in Arabia Saudita Khashoggi, residente in realtà negli Stati Uniti e tenace oppositore della petro- monarchia. Gli investigatori hanno ricostruito le fasi della vicenda: al giornalista sarebbe stata iniettata una dose letale di narcotico provocandone la morte. L’impossibilità di trasportarlo fuori del consolato indusse la squadra di agenti a smembrare il corpo anche se i resti non sono stati trovati Ma al di là delle condanne ben presto sono emerse prove, che l’Onu ha definito credibili, per le quali sarebbero giustificate ulteriori indagini a carico di alcuni alti funzionari del regno e dello stesso principe ereditario Mohammed bin Salman, il vero uomo forte di Ryadh. Il principe ha sempre negato ogni coinvolgimento, anche se nell’ottobre scorso aveva praticamente consegnato “i colpevoli” assumendosi “la piena responsabilità come leader soprattutto perché l’omicidio è stato commesso da individui che lavorano per il governo saudita”. In ogni caso i vertici sono stati solamente sfiorati, infatti uno dei più stretti collaboratori di Salman, Saud al-Qahtani, sebbene estromesso dalla sua carica non è stato accusato mentre e l’ex vice capo dell’intelligence Ahmad Asiri è stato assolto per insufficienza di prove. Il Vietnam è forse diventato un paradiso per i criminali cinesi? di Alessandro Graziadei unimondo.org, 24 dicembre 2019 Se per mesi milioni di cittadini di Hong Kong, in maggioranza giovani, hanno manifestato chiedendo più democrazia e la cancellazione completa della legge che facilita l’estradizione di latitanti e sospetti in Cina, ritiro annunciato ufficialmente solo ad inizio settembre, in Vietnam la società civile locale sta protestando da settimane per il modo in cui le autorità di Hanoi hanno gestito gli ultimi casi di cronaca legati alla delinquenza cinese troppo spesso soggetta ad estradizione o a multe irrisorie anziché alle pene detentive previste dalla legge vietnamita. In particolare le condanne emesse nei confronti di cittadini cinesi coinvolti nella produzione e nel traffico di stupefacenti sono risultate per molti troppo leggere, tanto che sui media locali politici, attivisti e semplici cittadini si stanno domandando sempre più spesso: “Il Vietnam è forse diventato un paradiso per i criminali cinesi?”. Hanoi e Pechino hanno firmato il 7 aprile del 2015 una legge sull’estradizione, ma l’Assemblea nazionale del popolo cinese ha ratificato l’accordo solo lo scorso 26 agosto, giorno in cui è ufficialmente entrato in vigore. Subito dopo, le autorità vietnamite hanno rispedito in Cina tre persone, colpevoli di aver ucciso un tassista e averne gettato il corpo in un fiume della provincia di Son La, nel Vietnam nord-occidentale. L’espulsione del trio di criminali ha suscitato l’ira di quanti volevano che la pena venisse scontata nelle carceri vietnamite. Sempre verso la fine di agosto Hanoi ha estradato 28 cittadini cinesi coinvolti in truffe finanziarie e nei primi giorni di settembre quasi 400 persone sono state rimandate in Cina, nonostante facessero parte della più grande organizzazione dedita al gioco d’azzardo illegale online ad H?i Phòng City. L’ultimo incredibile episodio risale allo scorso 11 settembre, quando le autorità hanno fatto irruzione in un laboratorio illegale gestito da sette cinesi a Bùi Th? Xuân, quartiere della città di Quy Nh?n City nella provincia centro-meridionale di Bình ??nh. Durante l’operazione la polizia ha rinvenuto grandi quantità di sostanze chimiche e decine di macchinari ed attrezzature per la produzione di droga. Quattro degli arrestati hanno ricevuto solo una multa di 95 milioni di dong vietnamiti circa 3.707 euro per “soggiorno illegale” in Vietnam mentre gli altri tre complici sono stati condannati a pagare un’ammenda di 20 milioni di dong, poco più di 780 euro, per “ingresso e lavoro illegale”. Eppure il Codice penale vietnamita prevede condanne a molti anni di carcere, o addirittura la pena di morte, per chiunque sia trovato in possesso di quantitativi di droga come quelli rinvenuti a Quy Nhon City. Per molti questo, al pari di altri recenti provvedimenti, hanno messo in discussione la stessa sovranità nazionale vietnamita tanto che alcuni media hanno ricordato come “chiunque produca o venda droga sul suolo vietnamita, dovrebbe essere giudicato secondo la Legge del Vietnam. Ma il governo si è fatto trascinare dalla Cina in un accordo sull’estradizione, per cui le autorità sono costrette a consegnare i criminali cinesi a Pechino. Tuttavia, non si sa se questi affronteranno mai un processo in Cina”. Per questo, preoccupati per l’impatto sociale del fenomeno droga, molti cittadini vietnamiti stanno protestando contro il ricorso delle autorità a “sanzioni amministrative” proprio mentre per mano cinese la produzione ed il traffico di stupefacenti continuano la loro impunita ascesa in tutto il Vietnam. Ma non solo lì. L’industria farmaceutica cinese, in pieno sviluppo, da diversi anni gioca un ruolo sempre più grande nel traffico internazionale di droga e molte nuove sostanze psicoattive nel mondo hanno la Cina e lo stesso Vietnam come luogo di produzione e di smercio. Già nel 2016 il Eu Drug Markets Report, il rapporto elaborato dall’Europol e dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle dipendenze per l’Unione europea sul mercato della droga, che presenta la mappa del mercato illecito di droga nell’Unione europea, evidenziava l’importanza della Cina come luogo di produzione e smercio di molte delle sostanze che finivano in Europa. Prodotte soprattutto nel Guangdong in Cina le droghe raggiungono l’Europa usando la posta celere e compagnie che possono consegnare pacchi da un chilo direttamente davanti alla porta del compratore in circa due giorni lavorativi. Secondo le Nazioni Unite lo sviluppo del mercato è avvenuto grazie alla rete moderna dei trasporti, a internet, al basso costo della manodopera e alla corruzione di alcune ditte farmaceutiche. Le varie droghe vengono, infatti, spesso prodotte in modo legale da ditte registrate, ma la produzione viene poi deviata verso mercati illeciti. Il governo cinese sta cercando di controllare le ditte farmaceutiche con regolamenti sempre più stringenti e verifiche costanti, ma senza molti risultati. Ciò è dovuto in parte al fatto che vi sono decine di ditte, più o meno piccole, che si dedicano anche alla produzione delle droghe, rendendo pertanto estremamente difficile il loro controllo. In più, con grande astuzia, quando una sostanza, di solito fondamentale per produrre anfetamine e meta-anfetamine, viene proibita dal Governo cinese, le ditte o trasformano rapidamente la produzione utilizzando sostanze simili per sfuggire al divieto o appaltano la produzione all’estero. È questo purtroppo anche il caso del Vietnam dove molti laboratori illegali agiscono sia come produttori di sostanze utili a confezionare droghe, sia come produttori indipendenti di prodotti finiti e pronti ad essere immessi sul mercato. Un mercato che al momento la nuova legge sull’estradizione tra Cina e Vietnam sembra quasi tutelare, anziché reprimere.