Francesco Basentini: “I carcerati liberi di usare droghe. E restano impuniti” di Patrizia Floder Reitter La Verità, 23 dicembre 2019 Il capo del Dap: “Il possesso di sostanze è giudicato penalmente non rilevante. Le celle aperte? Una misura che ha creato il caos”. Magistrato, classe 1965, originario di Potenza, Francesco Basentini è dal giugno dello scorso anno a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Dottore, ci faccia capire: i detenuti che aggrediscono la Polizia penitenziaria hanno conseguenze penali? “Certo, il reato che viene contestato loro può essere di resistenza o minaccia e violenza a pubblico ufficiale. Se poi l’aggressore ferisce il poliziotto, sotto il profilo penale si parla anche di lesioni aggravate. In termini di sicurezza per l’istituto e per l’agente, ho dato disposizioni perché quando accadono questi episodi, il detenuto venga trasferito in un altro carcere. Non è per voler adottare una linea dura, ma per dare un messaggio molto chiaro”. Quindi c’è un aggravio della pena detentiva? “Bisogna sempre aspettare i tempi delle indagini e di un processo. Non c’è un aumento automatico della pena. Ci vogliono anni, nel frattempo il detenuto può uscire dal carcere”. Allora funziona ben poco come deterrente… “Per questo, lo scorso anno il Dap aveva proposto una modifica normativa: chiedevamo che un detenuto non possa beneficiare di misure alternative se aggredisce non solo poliziotti, ma anche personale medico e infermieristico all’interno di un istituto penitenziario. La commissione parlamentare non l’accolse perché la considerò non “afferente” alla materia oggetto del decreto Sicurezza”. Con le celle aperte, il lavoro degli agenti costretti alla vigilanza dinamica è diventato più difficile e molto pericoloso. Tanti vorrebbero tornare al regime precedente… “Il sistema, eccellente sotto il profilo virtuoso ma aggiungo anche virtuale, va rivisto. Non ha funzionato fin dall’inizio perché quello che doveva essere un esperimento per concedere più spazio, cioè anche il corridoio, al detenuto costretto in celle superaffollate, è stato poi applicato senza alcuna direttiva dipartimentale. Si è lasciato fare ai singoli direttori di istituto, con il risultato che c’è una miriade confusa, psicotica di modelli di celle, aperte tre, cinque, dieci ore al giorno. Addirittura nelle sezioni dove ci sono detenuti in alta sicurezza”. Che cosa pensa di fare? “Dal mio punto di vista, la cella aperta deve essere la tappa di un percorso premiale, al quale il detenuto può accedere solo dopo un periodo di osservazione. Deve dimostrare, con il suo comportamento, di meritare di passare alla sezione celle aperte. È impensabile metterci subito tutti Quelli che entrano in carcere. Che cosa fanno tutto il giorno, senza che sia stato programmato per loro un lavoro, un’occupazione? Senza che sappiamo di quali disturbi soffrono? Capisce, però, che non sarà facile tornare al sistema celle chiuse adesso che tutti le hanno spalancate con modalità diverse”. C’è poi l’emergenza detenuti con problemi psichici, che finiscono in carcere perché le Rems sono poche e insufficienti. Peggiorano, non vengono curati e fanno andare fuori di testa anche i poliziotti… “La maggior parte dei comportamenti aggressivi sono collegati a stati di disagio psichico, oltre agli agenti ne sono vittime gli altri detenuti. Il problema della sanità penitenziaria è gravissimo, non coinvolge solo le patologie psichiatriche ma tutta la salute del detenuto. Dal 2008 non abbiamo più personale, medici nostri, tutto è delegato alle Regioni e dipendiamo dalle disponibilità delle varie aziende sanitarie. Bisogna coinvolgere il ministero della Salute, se non si possono ampliare le Rems sicuramente impegnative anche per noi, perché devono essere presidiate da poliziotti penitenziari - e già ne abbiamo pochi - deve essere assicurato un “repartino”, come viene detto, in ogni ospedale. Pochi posti, da garantire ai detenuti che soffrono di problemi psichiatrici e che vanno gestiti da una struttura clinica”. Parliamo di droga e cellulari che entrano negli istituti penitenziari: i detenuti vengono riforniti senza controllo e rimangono impuniti? “Il Dap procede a trasferire pure loro per motivi di sicurezza. Il paradosso è che il detenuto trovato in possesso di un cellulare non affronta nessuna conseguenza penale. Avevamo proposto la configurazione di reato, pure questa non è stata accolta. Torneremo alla carica. Non viene sanzionato nemmeno chi si droga, la detenzione per uso personale non è “rilevante penalmente”. Lo so, è terribile perché la presenza di droga e cellulari in carcere diventa strumento di potere. Il dipartimento, lo Stato devono fare una battaglia di valori in questo senso”. Fumo passivo, altra questione aperta. Perché in carcere è possibile accendersi la sigaretta ovunque? “Sarebbe un atto di civiltà evitare il consumo di tabacco, ma se dovessimo proibire il fumo può immaginare che cosa succederebbe nelle carceri. Quando l’estate scorsa venne prese l’iniziativa di non consentire l’uso delle televisioni dopo la mezzanotte, successe il finimondo. Ho dovuto revocare quella misura. Capisco le esigenze del personale, che sconta una “detenzione” nascosta e che avrebbe il diritto di non inalare il fumo diluito in un ambiente chiuso, capisco che la salute sia cosa diversa dal guardare la tv, ma i cambiamenti vanno fatti con grande attenzione”. Il Sappe sostiene che un detenuto arriva a guadagnare quasi come un agente. È vero? “Non è materialmente possibile. La mercede, il compenso per le attività svolte in istituto, dietro assunzione a tempo determinato, non è superiore ai 2.3 di uno stipendio previsto da contratto collettivo nazionale per le singole categorie. Neppure mi risulta che ci siano cooperative che super-pagano lavori affidati ai detenuti all’interno del carcere”. La maratona penale: 1.600 giorni di processo tra indagini e Cassazione di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2019 Quasi 1.600 giorni dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione: è la durata media di un processo penale nei tre gradi di giudizio. Si tratta di quattro anni e quattro mesi circa, la metà dei quali passano di fronte alla Corte d’appello. E sono tre i distretti in cui i procedimenti penali nei tre gradi di giudizio durano in media più di duemila giorni: Reggio Calabria, Napoli e Roma, che arriva a 2.241 giorni, più di sei anni. È questo il quadro destinato ad accogliere lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che è previsto entri in vigore il prossimo 1° gennaio. Una misura fortemente voluta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (M5S), che l’ha difesa a spada tratta nonostante sia osteggiata dai compagni di Governo del Pd e da una parte consistente degli operatori della giustizia, avvocati in prima fila, preoccupati dallo scenario del “fine processo mai”. Per scongiurare il rischio di tenere troppo a lungo gli imputati in attesa di una sentenza che non arriva, quello che si chiede da più parti è che la morte della prescrizione sia accompagnata dalla riduzione dei tempi dei processi. Si tratta di un impegno già alla base del patto con la Lega, allora al Governo, che un anno fa aveva portato all’approvazione del blocco della prescrizione. Ma il progetto di riforma elaborato da Bonafede non è mai arrivato al Consiglio dei ministri. I tempi delle cause - Ma quanto durano i procedimenti penali? Per capirlo Il Sole 24 Ore del Lunedì ha elaborato i dati raccolti dal ministero della Giustizia nei 26 distretti di Corte d’appello e riferiti al primo semestre del 2018. A questi è stata applicata la formula utilizzata dalla Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) per stimare la durata media, che prevede di dividere i procedimenti pendenti per quelli definiti e di moltiplicare il risultato per il periodo considerato (in questo caso 181 giorni). Quello che emerge è che al momento i tempi medi dei procedimenti penali restano (tranne in appello) ben al di sotto dei limiti di “ragionevole durata”, vale a dire le soglie che, se sforate, danno diritto a un indennizzo per le parti, regolato dalla legge Pinto: in totale sei anni, articolati in tre anni in primo grado, due in secondo e uno in Cassazione. Sia le indagini preliminari condotte dalle procure sia i processi in tribunale durano in media circa un anno (rispettivamente, 323 e 375 giorni), mentre in appello i tempi medi sono di 759 giorni e in Cassazione di 132 giorni. Ma, esaminando i dati dei processi a rischio Pinto, la situazione cambia: nel 2017 le cause in corso da più di tre anni in tribunale erano il 19% del totale, quelle giacenti da oltre due anni in appello quasi il 40% e gli ultra-annuali in Cassazione l’1,3 per cento. L’allarme in appello - Che la situazione delle Corti d’appello sia quella più difficile lo confermano anche i dati territoriali: in nove uffici giudiziari su 26 si supera in media la “ragionevole durata” di due anni, con Bari, Reggio Calabria, Venezia e Roma oltre i mille giorni e Napoli che arriva quasi a 1.500 giorni. E in appello si faranno sentire gli effetti del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: le Corti dovranno gestire anche i processi che non si estingueranno più con il passare del tempo. “Le Corti d’appello - spiega il presidente della sede di Roma, Luciano Panzani - rappresentano il collo di bottiglia della giustizia penale perché, con la riforma del 1998 che ha istituito il giudice unico di primo grado e lo ha sostituito in molti casi al collegio, si è aumentata la produttività del tribunale senza rafforzare gli organici dell’appello”. Per Panzani “occorre potenziare le Corti in difficoltà e la revisione delle piante organiche annunciata dal ministero va in questa direzione”. In ogni caso, “a Roma - afferma - i processi di un certo rilievo li facciamo in fretta e tutti: Mafia Capitale l’abbiamo chiuso in sei mesi. E dall’anno scorso abbiamo iniziato a erodere l’arretrato: abbiamo definito un numero di processi più alto rispetto ai nuovi iscritti”. La situazione in Procura - Al contrario di quanto succede nei tribunali, nelle Procure le durate più lunghe si registrano nei distretti del Nord. In cima alla classifica Brescia, con 535 giorni. “Ora la situazione è cambiata - spiega però il Procuratore aggiunto di Brescia, Carlo Nocerino -. Da un paio d’anni l’organico è quasi al completo (23 sostituti procuratori su 25) e siamo quindi riusciti a invertire la tendenza: nel primo semestre 2019, a fronte di 9.866 nuovi fascicoli ne abbiamo chiusi 12.779. Abbiamo inoltre svolto importanti indagini sull’infiltrazione delle organizzazioni mafiose, sul finanziamento al terrorismo islamico e sul deep web”. Arriva lo stop alla prescrizione di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2019 La riforma della prescrizione che comporta il blocco dopo la sentenza di primo grado scatterà il 1° gennaio, così come previsto dalla legge Spazza-corrotti approvata a inizio 2018, quando al Governo c’era l’alleanza M5S-Lega. Si tratta di una battaglia storica dei Cinque Stelle, portata avanti dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In Parlamento, lo stop alla prescrizione non piace alla Lega, che accettò di votarlo solo in cambio dell’impegno a varare misure per ridurre i tempi del processo. Il blocco è osteggiato anche dal Pd. Peraltro, la riforma Bonafede cancellerà quella varata due anni fa dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando (Pd), che aveva previsto di sospendere il corso della prescrizione per un anno e mezzo dopo la sentenza di primo grado e per un altro anno e mezzo dopo la pronuncia d’appello, ma che non è, di fatto, mai entrata in vigore. I malumori del Pd - La scorsa settimana, anche grazie all’accordo raggiunto sulla riforma delle intercettazioni, i Dem hanno accettato, non senza malumori, l’entrata in vigore del blocco. Bonafede, soddisfatto per aver realizzato uno degli obiettivi storici del Movimento, si è detto disponibile a riprendere la discussione sulla riduzione dei tempi dal 7 gennaio: “Considereremo tutte le proposte senza preclusioni”, ha detto. Ma il Pd vorrebbe fissare un nuovo incontro prima del 7 gennaio. E ha annunciato che nei prossimi giorni depositerà una sua proposta di legge di modifica che consenta di salvaguardare la ragionevole durata del processo e che si riserva di portare avanti se non si troverà un’intesa con i Cinque Stelle. Sembra quindi ridursi l’appeal della proposta di legge presentata da Enrico Costa (Forza Italia), che prevede di cancellare lo stop dopo il primo grado: il termine per gli emendamenti è stato fissato per l’8 gennaio, quindi dopo l’entrata in vigore della riforma. Il “no” degli avvocati - In prima fila contro il blocco ci sono inoltre gli avvocati, che hanno paventato il rischio di processi infiniti dopo il primo grado. Un pericolo che secondo Bonafede non esisterebbe perché lo stop riguarderà solo i procedimenti relativi ai reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020: gli effetti non si vedrebbero nell’immediato e ci sarebbe quindi tutto il tempo per lavorare alla velocizzazione dei processi. Opposta la posizione dei giudici. La settimana scorsa, durante l’audizione in commissione Giustizia alla Camera, l’Anm ha dato il suo assenso alla riforma e ha negato il rischio che, nell’immediato, si producano effetti dirompenti sui processi in corso, sposando quindi l’interpretazione di Bonafede. In base ai dati 2018, sono circa 30mila i processi che, ogni anno, con lo stop dopo il primo grado rischiano di non avere mai fine. Un numero che fra l’altro potrebbe aumentare a causa del maggiore aggravio di lavoro per le Corti d’appello. Decreto legge sulle intercettazioni: ecco cosa cambia Il Dubbio, 23 dicembre 2019 Il Cdm approva la legge che modifica le intercettazioni in vigore dal 29 febbraio, ecco i 5 cambiamenti. Passa in Consiglio dei Ministri il decreto legge sulle intercettazioni. Il testo, portato al tavolo dal Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, corregge la precedente legge Orlando che era stata collocata su un binario morto. All’uscita, Bonafede ha parlato di “distanza” tra alleati della maggioranza, ma che “le intercettazioni “sono uno strumento irrinunciabile per le indagini”. Ha poi spiegato che “sarà elaborato un sistema moderno e digitale: ci saranno maggiori garanzie per trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza delle indagini, la tutela della riservatezza e il diritto di difesa”. L’aspettativa è di farla entrare in vigore tra due mesi, il 29 febbraio (anziché il 31 dicembre prossimo). Le modifiche rispetto alla legge precedente del 2015 riguardano 5 aspetti. Il pm - Sarà il pubblico ministero a decidere quali siano le intercettazioni rilevanti da trascrivere e non la polizia giudiziaria, come previsto da Orlando. I difensori - Potranno chiedere e avere copia cartacea delle intercettazioni considerate rilevanti dal pm (prima potevano solo ascoltarle). Quelle irrilevanti invece potranno essere solo ascoltate e l’avvocato potrà chiedere al giudice che vengano trascritte. Le indagini in corso - Per le intercettazioni già in corso, si applicherà la vecchia legge e non il nuovo decreto legge, che entrerà in vigore per le indagini con iscrizione nel registro delle notizie di reato successive al 29 febbraio. Il Trojan - I software spia inseriti nei cellulari potranno essere usati per i delitti puniti oltre cinque anni e solo commessi dai pubblici ufficiali. Continuano a valere le regole delle intercettazioni ambientali. I giornalisti - Il giornalista che pubblica una intercettazione non sarà più perseguibile per violazione di segreto d’ufficio, come prevedeva la legge Orlando. La riforma Bonafede e l’ingiustizia dei processi senza fine di Massimo Adinolfi Il Mattino, 23 dicembre 2019 È giusto o ingiusto che un reato sia prescritto, che l’azione punitiva dello Stato debba conoscere un termine temporale? Tra le molte domande che la sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio suscita, questa domanda non v’è. Ci si domanda quali effetti avrà la riforma Bonafede sui processi, si obietta giustamente che la gran parte delle prescrizioni precede e non segue la pronuncia di primo grado, e addirittura interviene nelle indagini preliminari. Poi ci sono quelli - compreso il presidente della Camera, Roberto Fico - che invece dicono che grazie alla prescrizione la fanno franca solo i ricchi e i potenti, cioè quelli che possono permettersi grandi avvocati, benché nessuno abbia mai fornito dati che suffraghino questo giudizio (eppure al Ministero hanno un signor servizio statistico), e quegli altri che, a rincalzo, sostengono addirittura che la riforma accelererà i processi, visto che quegli azzeccagarbugli degli avvocati non avranno più motivo per mettere in campo tattiche dilatorie. Va bene, ognuno si formi la sua opinione, ivi compresi quelli che, con un grillino a via Arenula, vedono finalmente un ministro imbracciare, con vindice coraggio (e qualche clamorosa gaffe), la spada della Giustizia, ma si provi almeno a interrogarsi sulla concezione della pena che sta dietro l’idea che lo Stato debba inseguire e punire i colpevoli fino alla fine dei loro giorni. Meglio di tutti l’ha detta un filosofo, Kant: prima di cessare di esistere, lo Stato dovrebbe eseguire anche l’ultima condanna. Kant parlava in realtà di assassini e pena di morte (Dio non voglia qualcuno ne riprenda le pagine e riproponga la misura!), ma il fondamento giustificativo rimane uguale: è la legge del taglione, l’unica che, secondo il filosofo, rende l’uguale con l’uguale. Senza sconti, senza indulgenze. Una concezione strettamente retributiva: hai sbagliato, paghi, non importa se prima o poi. Il fatto è che da una simile concezione della pena il diritto si è progressivamente allontanato. L’articolo 27 della nostra Costituzione accoglie per esempio l’idea che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: e cosa volete rieducare, a distanza di decenni dalla commissione di un fatto? Ma è l’intera visione del diritto penale che muta, in età moderna, quando rinuncia all’idea che far giustizia significa infliggere una sofferenza pari a quella che il colpevole ha inflitto: questo infatti è il taglione, anche nella raffinata versione dell’imperativo categorico kantiano. Questa è la legge romana di Nu ma o la faida longobarda. È la sete di vendetta, che non sarà placata fino a che il colpevole non sarà punito. Dovesse essere raggiunto in capo al mondo, quand’anche fosse oramai in fin di vita: altro che prescrizione! È invece altra, tutt’altra la teoria - illuministica, liberale, garantista - per cui la pena viene comminata precisamente allo scopo opposto: non per vendetta, ma proprio per mettere il colpevole al riparo da essa. Per risparmiargli la rivalsa, la rappresaglia, la ritorsione, il regolamento di conti. Per scongiurare futuri delitti, ma anche per trarre il colpevole in salvo dalla furia vendicatrice delle Erinni. Forse con qualche ottimismo ho detto prima che il diritto si è progressivamente allontanato da una simile visione, cupamente retributiva della giustizia. E forse, più amaramente, devo constatare che essa torna. Cosa accade infatti con la prescrizione del reato? Il colpevole, non essendo stato individuato in tempo, non viene punito. Ma perché doveva essere punito: per dare soddisfazione alla vittima, o per prevenire altra violenza? In un’ottica risarcitoria, o preventiva? Nel primo caso, è palesemente un’ingiustizia, nel secondo no, perché a distanza di tempo possono ben mutare le esigenze di prevenzione. Ma l’articolo 27 dice inoltre che nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. E l’articolo 111 impone che la legge assicuri la ragionevole durata del processo. Si tratta di garanzie fondamentali, per chi dovesse finire nelle maglie della giustizia, che, di nuovo, si giustificano solo se l’istituzione del tribunale non risponde esclusivamente all’esigenza di dar soddisfazione alla vittima, ma anche a quella di offrire tutele all’imputato. E non v’è chi non veda come oggi sia la prima esigenza a muovere l’opinione pubblica, insieme a richieste di sempre maggiori interventi repressivi che invece di diminuire l’insicurezza sociale finiscono con l’accrescerla. Però il Pd, che aveva già votato contro la riforma Bonafede (quando al governo con Conte e Bonafede c’era la Lega) ora ha ottenuto almeno che dopo l’entrata in vigore se ne continui tuttavia a discutere. Nobile proposito. Tanto nobile quanto inutile. Il Pd ha pure ottenuto una nuova disciplina delle intercettazioni, che dovrebbe, tra le altre cose, limitare la diffusione di quelle irrilevanti, e garantire meglio i diritti della difesa. Peccato che, nelle pieghe del provvedimento, sia detto che del materiale acquisito grazie alle intercettazioni ci si può avvalere anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione. C’è dunque una possibilità di estensione dell’uso di strumenti invasivi della libertà delle persone, che va al di là dell’espressa autorizzazione. È vero che il ministro chiedeva anche di più: l’utilizzo dei trojan per tutto ciò che da esso emerge, anche al di fuori del procedimento autorizzato, ma la mediazione raggiunta suona anch’essa, oramai, come un insopportabile scrupolo garantista, che imbriglia ipocritamente l’azione dei magistrati. E così un’altra pietra all’edificio moderno del diritto è tolta, la ragione si vuole che stia tutta e sola dalla parte dei pm, e dell’immagine della giustizia resta solo la spada. Brandita con qualche goffaggine dal ministro alla crociata giustizialista, Alfonso Brancaleone Bonafede. Ci sono tre indizi che fanno una prova: la giustizia sta fallendo di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 23 dicembre 2019 Le cronache giudiziarie in Italia offrono purtroppo da lustri spunti di amara riflessione sull’uso disinvolto della giustizia nelle procure e nei tribunali, e negli ultimi giorni ce ne sono stati addirittura tre di particolare interesse in Puglia, in Calabria e in Piemonte. Tre indizi che fanno la prova di quanto la giustizia abbia bisogno di una profonda riforma. Ricordate il senatore Azzollini, per anni stimato presidente della commissione bilancio, del quale si diceva che fosse addirittura più potente di un ministro dell’Economia? Ebbene, nel 2013 fu coinvolto nell’inchiesta sulla presunta maxi-truffa da 150 milioni legata alla costruzione del nuovo porto di Molfetta con sessanta indagati e due ordini di arresto. Su Azzollini piovvero ben sedici capi d’imputazione, e lui aveva rinunciato a beneficiare della prescrizione. Ebbene: dopo sei anni è arrivata la sentenza con tutti e 28 gli imputati assolti. Un altro successo della Procura di Trani, quella salita agli onori delle cronache per una lunga serie di inchieste partite da ipotesi di reato clamorose, passate attraverso interrogatori di alti esponenti della politica e della finanza e finite quasi sempre nel nulla. Come quella per usura contro l’ex ministro Savona. Il secondo spunto arriva dal maxi-blitz contro la ‘ndrangheta, un’operazione colossale alla vigilia delle elezioni regionali in Calabria con ramificazioni fino al Piemonte. Ai doverosi ringraziamenti ai magistrati e alle forze dell’ordine si sono però aggiunti altrettanto doverosi interrogativi su quanto resterà alla fine di un così imponente e articolato impianto probatorio, sulla scorta delle esperienze passate. È stata una deputata del Pd, Enza Bruno Bossio, moglie di un indagato, a mettere il dito nella piaga, affermando che la lotta alla mafia è una cosa seria non uno spettacolo da prima pagina, “e mi auguro che davvero Gratteri riesca a smantellare la mafia più pericolosa che ci sia. Ma mi auguro anche che si arrivi a processo e non finisca, come il 90% delle sue indagini, in una bolla di sapone che non pulisce nulla ma cancella nel frattempo la dignità di chi ne viene toccato”. Ma il fatto che lascia stupiti è che il procuratore Gratteri abbia postato su twitter un articolo del Fatto quotidiano che sottolineava come la maxi-operazione contro la ‘ndrangheta fosse sparita dalle prime pagine dei grandi giornali. Oltre alla politica, ora anche la giustizia si fa sui social? I commenti sono stati ovviamente quasi tutti colmi di indignazione, ma qualcuno ha fatto notare che un magistrato non dovrebbe fare mai un tweet del genere, ricordando a Gratteri che in Germania è proibito perfino fare conferenze stampa sulle inchieste. Terzo e ultimo indizio: l’episodio avvenuto al tribunale di Asti, dove la Corte è entrata in aula e ha letto la sentenza di condanna contro un padre accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia prima che avesse parlato la difesa. Una gaffe che la dice lunga sul clima che si respira in alcuni ambienti giudiziari, dove le sentenze vengono preconfezionate alla faccia del processo accusatorio in cui la prova dovrebbe formarsi nel dibattimento. Tre indizi, insomma, che fanno la prova di un fallimento. ‘Ndrangheta, le risposte che mancano di Gianluca Di Feo La Repubblica, 23 dicembre 2019 La ‘ndrangheta ha inventato la formula criminale vincente, che le sta consegnando un primato planetario. Negli anni 80 si è imposta nel Nord Italia, poi si è insediata nell’Europa centrale, ha gettato ponti verso l’Est ed è sbarcata nelle Americhe. Lo riconosce persino uno scrittore come Don Winslow, raccontando nel bestseller “Il cartello” come gli equilibri tra i narcos messicani dipendano dalla capacità di stringere rapporti con i padrini calabresi: gli unici capaci di smistare tonnellate di cocaina attraverso l’Atlantico. Hanno una mentalità coloniale, che li spinge a impiantare nuove cosche ovunque. La descriveva un boss intercettato nelle indagini dell’allora procuratore Giuseppe Pignatone: “Il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo diventerà”. Tutte le cellule però restano sempre legate alla terra d’origine, in un rapporto di osmosi con i paesi natii, articolato secondo rapporti di sangue e di affiliazione. Ed è questa fusione di valori arcaici e dinamismo internazionale a renderla tanto forte. Le permette di farsi protagonista negli affari leciti e illeciti, mantenendo un’identità violenta: alterna la corruzione e il controllo dei voti alle azioni armate. Si infiltra nell’imprenditoria, nelle amministrazioni pubbliche, nel commercio attraverso figure insospettabili ma ha sempre schiere di uomini pronte a punire chi non rispetta i patti. Negli ultimi giorni tre inchieste clamorose ci hanno costretto ad aprire gli occhi sul dilagare delle ‘ndrine. In Val d’Aosta il presidente della Regione si è dimesso dopo l’accusa di collusione. In Piemonte un assessore regionale ed ex sottosegretario è finito in cella: gli è stato contestato l’acquisto di voti dai boss. Ancora più importante l’operazione coordinata dal procuratore Nicola Gratteri perché è andata a incidere sul dominio della zona grigia calabrese, il cuore dell’impero: sono finite agli arresti 334 persone, inclusi esponenti politici di destra e sinistra, sindaci, avvocati, commercialisti, ufficiali delle forze dell’ordine. All’ex senatore Pittelli è stato addebitato di avere messo “a disposizione le sue conoscenze in Italia e all’estero per consentire il radicamento e la forte penetrazione della ‘ndrangheta in ogni settore della società civile: nelle università, negli ospedali più rinomati, all’interno dei servizi segreti, nella politica, nelle banche”. Non ci sono luoghi inaccessibili per gli emissari di queste cosche. Di fronte agli elementi raccolti dai giudici, colpiscono la disattenzione della classe politica e la mancanza di una mobilitazione per estirpare le radici del fenomeno. Gratteri denuncia l’inerzia del “potere legislativo che ancora oggi non ci ha dato un sistema di norme proporzionato e proporzionale alla realtà criminale”. Lo stesso procuratore da calabrese ha poi invitato i calabresi a reimpossessarsi del territorio: “Da oggi dovete andare in piazza, dovete occupare la cosa pubblica, dovete impegnarvi in politica, nel volontariato, in tutto quello che è possibile fare, andare oltre il vostro lavoro”. Lo sosteneva anche Pio La Torre, il parlamentare comunista padre della legislazione antimafia assassinato a Palermo, parlando a Reggio Calabria nel 1973: “O la democrazia vive come partecipazione popolare e allora si possono assestare colpi di maglio a tutte le forme di intermediazione parassitaria, a tutte le forme di clientelismo, di corruzione, di mal governo che poi sono l’alimento permanente del potere mafioso o noi avremo solo l’illusione della retata in Aspromonte”. Ed è questo il punto chiave. L’azione repressiva della magistratura e dei corpi di polizia è inutile se non viene accompagnata a una rinascita. Dopo ogni retata, i ranghi vengono inevitabilmente rimpiazzati perché non si costruisce un’alternativa alle prospettive criminali. E questo compito spetta alle istituzioni, locali e soprattutto nazionali. Richiesta incidente probatorio: abnorme il rigetto del Gip perché vuole ascoltare la persona offesa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 22 novembre 2019 n. 47572. È abnorme il provvedimento con cui il Gip rigetta la richiesta di incidente probatorio presentata dal pubblico ministero adducendo la necessità della previa escussione della persona offesa in sede di indagini. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 22 novembre 2019 n. 47572. L’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale prevede che nei procedimenti relativi a taluni gravi reati (come, ad esempio, quello di violenza sessuale) il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle indagini possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne ovvero della persona offesa maggiorenne, anche al di fuori delle ipotesi del comma 1 dello stesso articolo, e prevede altresì che si procede allo stesso modo, “in ogni caso”, vale a dire, indipendentemente dal reato oggetto di indagine, all’assunzione della testimonianza della persona offesa che “versa in condizione di particolare vulnerabilità”. Tale disposizione esclude qualsiasi potere discrezionale da parte del giudice circa l’opportunità di accogliere la richiesta. Secondo la Cassazione, le uniche valutazioni consentite (oltre a quella generale desumibile dall’articolo 190, comma 1, del codice di procedura penale, che attribuisce al giudice il potere di escludere “le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”) attengono alla sussistenza dei requisiti indicati dalla disposizione, vale a dire che: l’istanza provenga da soggetto processuale legittimato (il pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, ovvero la persona sottoposta alle indagini); il procedimento penda nella fase delle indagini preliminari ovvero in udienza preliminare (cfr. Corte costituzionale, sentenza 10 marzo 1994 n. 77); si stia procedendo per uno dei reati indicati dalla norma, ovvero quando la persona offesa di altro reato versi in condizioni di particolare vulnerabilità; la testimonianza di cui si richiede l’assunzione riguardi un minore di età (anche se non trattisi di persona offesa) ovvero la persona offesa maggiorenne. Entro questi limiti, ragiona la Suprema corte, l’obbligo per il giudice di disporre l’incidente probatorio è imposto dal rilievo che il legislatore ha inteso evitare i fenomeni di vittimizzazione secondaria ritenendo detto interesse prevalente sul principio generale secondo cui la prova si forma in dibattimento, e dall’ulteriore rilievo che, proprio con tale disposizione, il legislatore ha inteso, in ossequio agli obblighi internazionali, non conculcare la tutela dei diritti delle vittime. Alla luce di questi ineccepibili principi la Cassazione ha affrontato il ricorso proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari reiettivo della richiesta di incidente probatorio: nella fattispecie, il giudice per le indagini preliminari aveva infatti respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal pubblico ministero ritenendo necessaria la previa escussione della persona offesa in corso di indagini, trattandosi di incombente asseritamente necessario per consentire alle parti, durante l’audizione protetta, di procedere alle contestazioni, e per fornire al giudice elementi di attendibilità della persona esaminata. Secondo la Corte si trattava di un rigetto arbitrario perché sostanzialmente fondato su un presupposto giuridico - la previa audizione del dichiarante - insussistente e apoditticamente affermato senza peraltro neppure indicare la fonte normativa del supposto obbligo; la Cassazione, quindi, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullata senza rinvio l’ordinanza reiettiva, ritenendo tale provvedimento strutturalmente “abnorme”, perché con esso si era “disapplicata”, senza alcuna argomentazione, una regola generale di assunzione della prova prevista in ottemperanza a obblighi assunti dallo Stato in sede internazionale: non si trattava, quindi, soltanto di violazione di norme processuali, ma di un provvedimento reso al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite, e quindi affetto da cosiddetta “abnormità strutturale”. In termini, sezione III, 16 maggio 2019, Proc. Rep. Tivoli in proc. S., in una fattispecie in cui il giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal pubblico ministero con la seguente motivazione: “l’assunzione della testimonianza della persona offesa circa i fatti per cui si procede non presenta caratteri di urgenza tali da non consentirne l’espletamento nella sede deputata alla formazione della prova, quale il dibattimento, né appaiono ricorrere ulteriori condizioni che suggeriscano l’adozione del mezzo di prova nelle forme richieste”. Recidiva, il giudice deve verificare l’accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2019 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 5 novembre 2019 n. 44854. È compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi di recidiva contemplate dall’articolo 99 del Cp, quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla relativa giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. Ciò perché, spiega la Cassazione con la sentenza 44854.2019, per l’applicazione della recidiva il giudice deve dare conto del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo. La sentenza è in linea con i principi espressi dalle sezioni Unite, nella sentenza 24 febbraio 2011, Proc. gen. App. Genova in proc. Indelicato, laddove, in parte motiva, nel ricostruirsi l’istituto, si è affermato che per ritenere e applicare la recidiva il giudice deve motivatamente spiegare, con riguardo alla nuova azione costituente reato, la sua idoneità a manifestare una più accentuata colpevolezza e una maggiore capacità a delinquere, in relazione alla natura ed ai tempi di commissione dei precedenti, così da giustificare l’aumento di pena. Piuttosto, va ulteriormente precisato che la recidiva deve ritenersi “applicata” dal giudice non solo quando viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato: la recidiva, cioè, deve ritenersi “applicata” anche quando il giudice la ritenga equivalente alle riconosciute circostanze attenuanti; mentre deve ritenersi “esclusa” quando le attenuanti siano riconosciute con giudizio di prevalenza (cfr. sezioni Unite, 18 giugno 1991, Grassi). Da ciò derivando la conseguenza che, se la recidiva, pur contestata, è esclusa dal giudice, non solo non dà luogo all’aggravamento della pena, ma non produce neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all’articolo 69, comma 4, del Cp, dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’articolo 81, comma 4, dello stesso codice, dall’inibizione all’accesso al cosiddetto “patteggiamento allargato” e alla relativa riduzione premiale di cui all’articolo 444, comma 1-bis del Cpp; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva stessa non sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità. (cfr. sezioni Unite, 27 maggio 2010, Calibè). Configurabilità del reato di oltraggio a un magistrato in udienza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2019 Oltraggio a un magistrato in udienza - Bene giuridico tutelato - Scriminante del diritto di critica - Esclusione. La ratio dell’art. 343 c.p. risiede nella tutela dello Stato nell’esercizio della funzione giudiziaria e il bene giuridico presidiato consiste non tanto e non solo nell’onore e nel prestigio del magistrato, inteso quale persona fisica materialmente destinataria della contumelia, bensì, e in primo luogo, nell’ordinato esercizio dell’amministrazione della giustizia da parte dello Stato - e per esso da parte dei magistrati che lo rappresentano in udienza. (Nel caso di specie è stata esclusa l’applicabilità della scriminante del diritto di critica in quanto le espressioni offensive e oltraggiose pronunciate durante la lettura del dispositivo della sentenza risultavano dirette a colpire il magistrato nell’esercizio delle sue funzioni). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 28 novembre 2019 n. 48555. Oltraggio a un magistrato in udienza - Offesa dell’onore e del prestigio del Magistrato - Contenuto. Il reato di oltraggio a magistrato in udienza risulta integrato allorché la condotta sia riconosciuta come idonea a compromettere quei requisiti di efficacia e di autorevolezza che devono assistere l’azione del magistrato, non essendo indispensabile che la condotta sia da esso direttamente percepita, ma occorrendo che la stessa sia di per sé tale da determinare quelle condizioni di pregiudizio che valgono a offendere il bene tutelato dalla norma incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 16 novembre 2018 n. 51970. Oltraggio a magistrato in udienza - Circostanze aggravanti - Attribuzione di un fatto determinato - Condanna - Presupposti - Pluri-offensività della condotta oltraggiosa - Criteri. Poiché il bene giuridico primariamente tutelato dall’articolo 343 c.p. è il buon andamento della pubblica amministrazione della giustizia - sub specie di corretto svolgimento del contraddittorio tra le parti in udienza, in quanto strumentale al libero e sereno esercizio del potere-dovere di ius dicere - il carattere offensivo delle espressioni rivolte a un magistrato in udienza deve essere valutato non già sulla base della soggettiva percezione di quest’ultimo, bensì alla stregua della loro oggettiva capacità di incidere negativamente sul prestigio della funzione giudiziaria e sulla correttezza del contraddittorio e di compromettere in tal modo la libertà e la serenità del giudizio. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 28 marzo 2017 n. 15524- Reati contro la pubblica amministrazione - Oltraggio a un magistrato in udienza - Fattispecie. Integra il reato di oltraggio a un magistrato in pubblica udienza il comportamento dell’avvocato che, nel corso dell’udienza, rivolga ripetute contestazioni al presidente del collegio sul modo di condurre l’udienza al punto di esortarlo ad abbandonare il dibattimento, per avere consentito eccessiva libertà al pubblico ministero, facendo illazioni e lasciando intendere che tale incapacità di arginare il pubblico ministero potesse derivare da problemi particolari del giudicante nei confronti del rappresentante dell’accusa: trattasi di un comportamento gravemente insinuante e idoneo a generare dubbi sull’imparzialità del giudice, che si risolve in un attacco alla sua persona, non potendosi ritenere che costituisca solo una mera critica, diretta a contestare la legittimità o l’opportunità del comportamento del giudicante. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 maggio 2016 n. 20515. Oltraggio a un magistrato in udienza - Critica del provvedimento giudiziario - Reato - Insussistenza - Fattispecie. Le espressioni di critica a un provvedimento del magistrato, laddove siano immediatamente percepibili come un giudizio che investe la legittimità o l’opportunità del provvedimento in sé considerato, e non la persona del magistrato in quanto tale, non possono integrare il reato di oltraggio (nella specie, a magistrato in udienza ex articolo 343 del Cp): ciò in quanto il rispetto, di cui tutti i pubblici funzionari devono essere circondati, non equivale a insindacabilità. (Nella specie, è stato escluso il reato nella condotta di un imputato che, nel corso di un’udienza davanti alla Corte di assise ove rispondeva di gravi reati, aveva reso a verbale dichiarazioni spontanee affermando che il processo era “un complotto tra falsi pentiti, compresi i pubblici ministeri”, tanto che, all’esito del giudizio di merito, era stato condannato per i reati di calunnia e, appunto, di oltraggio a magistrato in udienza). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 20 maggio 2011 n. 20085. L’Aquila. Corrispondenza in carcere, la Corte d’Appello dà ragione al detenuto in 41bis di Fernando Bocchetti terranostranews.it, 23 dicembre 2019 La lettera inviata da Lubrano era stata trattenuta dal direttore del carcere dell’Aquila. Trattenuta su richiesta del direttore del carcere dell’Aquila la corrispondenza del detenuto Orlando Antonio al 41bis, alias Mazzolino, ritenuto a capo dell’omonimo clan operante a Marano, Quarto e Calvizzano. La Corte d’Appello ratificava ma poi, in seguito al reclamo del difensore di Orlando, accoglieva le tesi difensive. In data 27.07.2019 l’Ufficio Censura segnalava al Direttore della Casa Circondariale de L’Aquila che la missiva proveniente da Lubrano Armando (nipote di Orlando Antonio), detenuto presso la Casa Circondariale di Nuoro e ritenuto affiliato al, contenesse “brani dal linguaggio criptico potenzialmente emblematici di una metodica di comunicazione con l’esterno di messaggi in codice che potrebbero lasciar trasparire la volontà di informare su situazioni che trascendono dalla specifica faccenda narrata ed estensibili a circostanze diverse”. Il provvedimento di non inoltro della corrispondenza veniva ratificato dalla Corte di Appello di Napoli; il detenuto Orlando Antonio proponeva tempestivamente reclamo ritenendo palesemente ingiusta la decisione adottata. All’udienza in camera di consiglio assumeva la difesa l’avvocato Rosario Pezzella, del foro di Napoli Nord, evidenziando alla Corte che con la recente Sentenza della Suprema Corte di Cassazione (N. 32452 del 22.02.2019, depositata il 19.07.2019), la V sezione penale ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale ex art. 41bis ordinamento penale, la decisione di non inoltro, per essere legittima, deve essere motivata, sia pur sinteticamente e tenendo conto del bilanciamento tra ragioni ostensibili e rilievi non consentiti poiché confliggenti con esigenze investigative, sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo. In altre parole, l’avvocato Pezzella sottolineava che “il combinato disposto degli articoli 18 ter e 41 bis O.P. non può essere interpretato nel senso di consentire che diritti primari, di rango costituzionale, attinenti alla sfera privata e personalissima della persona ancorché detenuta, finiscano per essere sostanzialmente elisi o eliminati in via generale ed astratta; d’altronde, una lettura della disposizione di cui all’articolo 41 bis O.P. non costituzionalmente orientata ne determinerebbe la potenziale esposizione a dubbi di legittimità costituzionale in relazione alla violazione dell’Art. 15 della Costituzione (libertà della corrispondenza) ma anche dell’Art. 111 (giusto processo)”. Nell’accogliere in pieno le tesi difensive, la Corte disponeva la restituzione della corrispondenza senza alcuna limitazione. Perugia. Fa freddo in carcere, i detenuti protestato per i termosifoni spenti umbriajournal.com, 23 dicembre 2019 Serata di tensione, ieri, nel carcere Capanne di Perugia dove i detenuti ristretti nella II Sezione Penale hanno inscenato una pacifica protesta, rientrata in tarda serata. “È successo che i detenuti lamentano la precarietà del riscaldamento e del servizio elettrico, che spesso non funzionano e lasciano le celle al freddo”, spiega Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE. “Si è trattato, come detto, di una protesta pacifica, gestita al meglio dal personale di Polizia Penitenziaria dei vari ruoli, ma che ha fatto emergere in maniera chiara ed evidente una criticità significativa che può essere foriera di ulteriori tensioni se ad essa non si pone rimedio con urgenza”. Apprezzamento per la professionalità ed il senso del dovere del personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere Capanne di Perugia arriva anche da Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Il personale di Polizia Penitenziaria ha saputo gestire l’evento critico nel modo migliore, tranquillizzando i detenuti ed evitando quindi che le pacifiche lamentele potessero degenerare. Ancora una volta è la Polizia Penitenziaria, l’unica realtà professionale effettivamente presente 24 ore al giorno in carcere, a dover fronteggiare queste situazioni di tensione ed a farlo, come è successo ieri sera a Perugia, con competenza e professionalità, garantendo ordine e sicurezza in un contesto certamente critico. Alle donne e agli uomini con il Basco Azzurro del Corpo va l’apprezzamento e la vicinanza del Sappe”. Treviso. Il vescovo Tomasi ieri per la prima volta tra i detenuti di S. Bona Il Gazzettino, 23 dicembre 2019 Messa in carcere “La responsabilità vi rende liberi”. “Caro vescovo Michele la nostra comunità è fatta di tante nazionalità e culture diverse, ma anche qui dentro, tra queste quattro mura, è possibile vivere in pace. È possibile quando ci sentiamo amati”. Le porte della piccola cappella a due passi dalle celle si sono aperte ieri mattina dentro la Casa circondariale di Santa Bona per far prender posto all’altare al vescovo Michele Tomasi che - per la prima volta dal suo arrivo nella diocesi di Treviso - ha celebrato qui la messa. Inizia in tono confidenziale il saluto di benvenuto rivolto al presule da una trentina di detenuti che ieri hanno partecipato alla celebrazione. Ci si stringe tra i banchi della piccola chiesa. A celebrare la liturgia con il vescovo è arrivato pure don Piero Zardo, il cappellano del carcere che qui è di casa. In chiesa c’è anche il direttore della struttura carceraria, Alberto Quagliotto. Al vescovo i detenuti spiegano senza troppi giri di parole quanto valore abbia la sua presenza. Il saper loro dire: io ci sono. A pochi giorni dal Natale la visita e la prima messa risuonano come un regalo atteso: “Caro fratello vescovo è importante che lei sia qui tra noi oggi legge un detenuto nella lettera di benvenuto al presule Noi ci sentiamo parte della Chiesa. Vogliamo gustarci la vita anche qui dentro”. A monsignor Tomasi viene subito in mente quando per la prima volta nella sua vita ha varcato la soglia di un carcere: “È stata una mattina di Natale. Avevo 17 anni. Ero andato con un gruppo di giovani e le chitarre”. Di seguito è il brano del Vangelo dell’ultima domenica di Avvento a far scandire al presule parole come giustizia, obbedienza e libertà. Che nella piccola chiesa del carcere non possono non risuonare con un’eco speciale: “In tutte le forme di giustizia che noi viviamo in questa terra l’obiettivo è rispettare e permettere a ciascuno di vivere il proprio essere umano. La propria dignità umana. E la dignità passa attraverso la capacità di assumersi la responsabilità di ciò che siamo. La mia vita può diventare nuova attraverso la mia abilità ad assumermi la mia responsabilità. Allora faccio l’esperienza che può sembrare strana, quasi assurda, che se obbedisco divento davvero libero”. Non tardano a giungere ai detenuti e a tutto il personale della struttura carceraria gli auguri di buon Natale ormai alle porte: “Il Signore non dice mai tu non hai speranza. E continua a dirmelo così tante volte che alla fine mi devo arrendere. Crederci. E dire proviamo a fare nuova questa esistenza. Proviamo a dare un senso positivo a quello che mi hai dato e che sono. Questa è tutta la nostra vita. È così per tutti noi. Se vogliamo essere giusti dobbiamo essere prima di tutto umani. Per poterci sentire perdonati dobbiamo scoprire dov’è la nostra vera dignità”. Roma. Torna il pranzo di Natale nel carcere di Rebibbia di Stefano Liburdi Il Tempo, 23 dicembre 2019 Festa nella torrefazione del carcere di Rebibbia. Brindisi con le note del duo Di Battista-Nicolai. “Poi d’improvviso venivo dal vento rapito. E incominciavo a volare nel cielo infinito”. Nicky Nicolai intona la canzone italiana più famosa al mondo accompagnata dalle note del sassofono di Stefano Di Battista e dei suoi musicisti. La platea accompagna con battiti di mani e canta insieme alla raffinata artista il ritornello. “Volare oh oh, Cantare oh oh oh, nel blu dipinto di blu. Felice di stare lassù”. Sorrisi e voglia di stare bene nella torrefazione del “Caffè Galeotto” all’interno del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Qui il caffè viene tostato, pulito, fatto riposare per tre o quattro giorni all’interno dei silos dove finisce di fermentare e, infine, imbustato. Tavoli coperti da tovaglie rosso-festa occupano lo spazio centrale della fabbrica, a fare da contorno sacchi di juta colmi di chicchi di caffè e i macchinari per la produzione. Detenuti, camerieri per l’occasione, portano piatti colmi di cibo che loro stessi hanno preparato per l’occasione. Come ogni anno la Panta Coop, titolare dell’attività di torrefazione, si è fatta promotrice del pranzo di Natale occasione di incontro tra società esterna con il mondo del carcere. “Volare oh, oh. Cantare oh oh oh”, si alzano ondeggianti le mani del “parterre” dove siede la dott.ssa Rosella Santoro, che da tre anni a capo di questo Istituto, ha trasformato un luogo di pena e espiazione in un luogo di formazione, occupazione, di recupero e reinserimento con attività produttive. Applaudono e sorridono il senatore Pier Paolo Sileri, l’assessore al Comune di Roma Daniele Frongia, la presidente del IV Municipio Roberta Della Casa. E ancora sorrisi da Daniela De Roberts, qui in rappresentanza del Garante Nazionale dei diritti delle persone prive della libertà, con lei il Garante Regionale dei diritti dei detenuti Stefano Anastasia e il Garante Comunale Gabriella Stramaccioni. Seduti ai tavoli anche esponenti della polizia penitenziaria, volontari, fornitori, clienti del Caffè Galeotto e i detenuti che fanno gli onori di casa. Hanno lavorato con cura per rendere accogliente il magazzino dove lavorano e in effetti ci sembra di respirare e di riconoscere la vita che qui scorre anche gli altri giorni. Tra sorrisi e strette di mano, tutti sono stati accolti da un prosecco di benvenuto che ha dato inizio al banchetto. Cornetti salati e rotoli di pasta ripieni hanno preceduto una lasagna calda, abbondante e delicata. Poi polpette alla crema di peperoni prima del gran finale con il tiramisù al sapore di mandorle e la specialità della casa: il caffè. Un detenuto ha il piatto vuoto, sorride e beve coca cola. Ha superato i cinquant’anni e viene dal Senegal: è in carcere da otto anni. Tra pochi mesi sarà fuori. Lui non mangia carne, sorridendo svela il segreto della sua tranquillità davanti alla lasagna: “Ho mangiato prima un piatto di spaghetti alle vongole in sezione”. Ridiamo insieme. Vendeva merce contraffatta nelle vie del centro di Roma quando è stato arrestato. No, i suoi “fornitori” no. Loro sono ancora in giro e lo avranno certamente sostituito con qualche altro che ripercorrerà la sua stessa strada. Il senso alla detenzione lui lo ha trovato qui a Rebibbia, nella torrefazione. Lavora alla macchina che confeziona il caffè alla fine del processo di produzione. Ha un lavoro in mano e una formazione che potrebbe agevolarlo quando sarà fuori di qui e si riaffaccerà al mondo esterno. La Torrefazione occupa 10 detenuti regolarmente assunti e 4 in formazione. Grazie al progetto del Caffè Galeotto, quest’anno hanno assaporato la libertà accedendo ai benefici di leggi e inserendosi nel mondo del lavoro ben tre detenuti. “Sono piccoli numeri lo so - spiega Mauro Pellegrini che nei primi anni duemila ha fondato la Panta Coop - Ma per noi sono un’enormità e una grandissima soddisfazione. Il coronamento di tutto il nostro lavoro”. L’impegno è quello di far sì che la pena non sia solamente “punitiva”, ma sia anche e soprattutto occasione di riscatto personale. Diventa fondamentale dunque fornire i mezzi a chi i mezzi non li ha avuti o non li ha voluti usare. Attraverso la formazione prima e il lavoro poi, il detenuto può recuperare dignità e affrontare l’impatto con il mondo esterno sempre poco propenso a riaccogliere chi ha sbagliato. Chi non ha beneficiato di attività formative ha un tasso di recidiva superiore al 70% contro quello che sfiora il 5% di chi è accolto in realtà lavorative. Nicky Nicolai e Stefano Di Battista continuano a trascinare il pubblico e con la loro musica contribuiscono a rendere indimenticabile questa giornata per gli ospiti. L’insolito pubblico ascolta e partecipa. I due artisti hanno sposato da tempo questa causa e a ogni occasione, con sempre maggior entusiasmo, offrono dei momenti di serenità a persone che stanno affrontando un momento delicato della propria esistenza. “Penso che un sogno così non ritorni mai più”, ma la voglia è che questa giornata di forti emozioni non finisca con il pranzo, ma che questo spirito prosegua nella vita e nell’impegno di tutti i giorni. Che sia dentro o fuori da queste mura. Eboli (Sa). Il Club Rotary festeggia il Natale con i detenuti dell’Icatt ifatti.eu, 23 dicembre 2019 Solidarietà agita, mai sbandierata: è lo stile del Club Rotary di Eboli che, dopo la raccolta di coperte per i meno fortunati, ieri ha voluto festeggiare il Natale insieme ai detenuti dell’Icatt di Eboli e alle loro famiglie. Un giorno speciale di fratellanza e dalle forti emozioni. Baci e abbracci, abbracci prolungati e felici fra i detenuti, i loro figli, le mogli, le compagne. Abbracci e lacrime di gioia, di speranza, la speranza di tornare presto a casa, di ricominciare prendendo un’altra strada. Un bambino e una bambina si stringono forti alle gambe del giovane papà. Il detenuto mostra ai suoi piccoli la bellezza del luogo che lo ospita. E forse è vero: la felicità non è avere tutto, ma accontentarsi di quello che si ha. Emozionate il discorso del presidente del Club Rotary Francesco Scocozza: “Oggi è il giorno più buio dell’anno, 21 dicembre cade il solstizio d’inverno, e a me piace pensare che abbiamo portato un po’ di luce nella vita di tutti oggi. La luce è quella energia che accompagna la festa degli auguri, evento tradizionale per tutti i Club Rotary tanto da essere con il passaggio del collare e la visita del Governatore annoverata tra gli eventi più importanti per il club nel corso dell’anno rotariano. Questo carica di maggiore valore simbolico la condivisione della festa degli auguri con l’intera comunità dell’Icatt. Questa è per noi rotariani l’opportunità di condividere i valori fondamentali della nostra istituzione basata sulla famiglia, l’amicizia, la comprensione ed il service”. Parole che arrivano al cuore: “Essere qui oggi, per questo particolare evento ci consente di lavorare come rotariani perché incontriamo e conosciamo questa realtà: L’Icatt di Eboli, un Istituto a Custodia Attenuata che rappresenta un modello virtuoso nel nostro territorio. Qui si attua un processo di accompagnamento al reinserimento nella collettività. Perché con questa festa stiamo compartecipando ad un percorso sancito dalla costituzione italiana nei cui valori ci riconosciamo istituzionalmente e stiamo rispondendo all’appello del Presidente Mattarella che nei suoi discorsi ha invitato alla partecipazione attiva la società civile, gli intellettuali, gli artisti, i mezzi di comunicazione, a moltiplicare le occasioni per stare accanto ai ragazzi impegnati in questo percorso non facile, fatto di privazione della libertà, di lontananza dagli affetti familiari, ma finalizzato a garantire davvero, a loro e alle loro famiglie, un futuro di serenità, di dignità, di appagamento. Il motto del rotary quest’anno è: il rotary connette il mondo, ecco che stiamo operando una connessione tra la collettività che vive fuori da queste mura, ma che vi entra ed incita questi ragazzi ad essere tenaci e a svolgere al meglio il loro percorso con la fiducia di potere trovare fuori una società pronta al loro reinserimento”. Con questo auspicio formulo i migliori auguri per le festività natalizie e l’augurio di vivere un importante nuovo anno per la vita di tutti noi. Ringrazio quanti si sono adoperati in modo fattivo alla buona riuscita dell’evento ringrazio Francesca spera e attraverso le tutti i soci che hanno collaborato, il direttore e la dott. Caleca che hanno sempre risposto con entusiasmo e con spunti propositivi a tutte le interazioni organizzative agli imprenditori e agli operatori privati che riconoscendo la valenza dell’evento hanno voluti contribuire alla buona riuscita della festa: Donato e Pierpaolo Santimone dell’Hotel Grazia e del ristorante “Aglio, olio e peperoncino”, il mago Paolo Fulgione, il caseificio “La Contadina”, la Valcarni Srl di Atena Lucana; “Sorrento sapori e tradizioni”; l’azienda agricola semplice di Elio Rocco. Preziosissimi lo chef Mario Taddeo e Loredana. Carinola (Ce). Il presidente Anci Marino a pranzo con i detenuti ecodicaserta.it, 23 dicembre 2019 Una giornata diversa. Un pranzo particolare per festeggiare il Natale con i 550 reclusi del carcere di Carinola. Il presidente di Anci Campania, Carlo Marino, è stato ospite del direttore della Casa di Reclusione “G.B. Novelli” di Carinola, Carlo Brunetti, insieme alla presidente dell’Asi di Caserta, Raffaella Pignetti. Un pranzo organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, con il contributo di tanti volontari, finalizzato a offrire un momento di svago a persone in una particolare situazione di disagio. Nel giugno 2013 il carcere di Carinola fu riconfigurato come Istituto a custodia attenuata, con reparto interamente a sorveglianza dinamica, e adibito alla detenzione esclusiva dei detenuti inseriti nel circuito media sicurezza a custodia attenuata. Nel novembre del 2017 è diventato Casa Reclusione a regime ordinario con sezione a custodia attenuata. Per questo motivo, in un futuro prossimo, ma molto ravvicinato, si può immaginare la realizzazione di speciali accordi di Anci Campania con l’Istituto di pena al fine di consentire ad alcuni reclusi di partecipare a lavori di pubblica utilità (Lpu) con i Comuni, peraltro già previsti dal Ministero della Giustizia come sanzioni penali sostitutive. Lpu, come è noto, consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere anche presso i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. L’idea è di rendere generale per tutti i Comuni della Campania il Protocollo d’intesa firmato il 5 aprile 2018 tra Anci e Ministero della Giustizia sul programma sperimentale per lo svolgimento di attività lavorative extra-murarie di protezione ambientale e di recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi da parte dei soggetti in stato di detenzione e di modelli locali di gestione integrata del ciclo di raccolta dei rifiuti nelle comunità penitenziarie territoriali. Firenze. A Sollicciano i detenuti realizzano presepe artistico controradio.it, 23 dicembre 2019 Un presepe artistico è stato realizzato dai detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano. L’opera, che sarà esposta all’interno del ‘Giardino degli incontri’ del penitenziario, sarà inaugurata il prossimo 23 dicembre, alle ore 11, dall’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, in occasione della messa natalizia. La realizzazione del presepe ha visto coinvolti, per oltre un anno e mezzo, detenuti di diverse culture, estrazioni e religioni. E così, precisa una nota, da un incontro nato quasi per scommessa nell’estate del 2017 tra la direzione del carcere fiorentino ed i soci di Firenze dell’Associazione italiana amici del presepio, Massimo Pucci e Giuseppe Mazza, si è deciso di dare vita al progetto della costruzione di un presepio all’interno del “Giardino degli incontri” del carcere. Sotto la guida costante di Pucci e Mazza, i detenuti si sono cimentati per la prima volta con fogli di polistirene, colori acrilici e colla a caldo ed hanno appreso, e nello stesso tempo messo in pratica, le principali tecniche costruttive. L’ambientazione è quella di uno scenario popolare del ‘400 nel quale i particolari architettonici delle facciate dei vari edifici sono completati dalla cura degli interni delle abitazioni, ove nulla è lasciato al caso. A fare da sfondo all’ambientazione, un cielo azzurro ed una catena montuosa dalla quale le fasi del giorno e della notte si alternano per dare dinamicità all’allestimento. Non manca, ovviamente, la vegetazione ed una fontana centrale, con acqua vera. Il presepio del carcere di Sollicciano resterà esposto, in maniera permanente, perché il suo messaggio sia sempre vivo, in ogni momento dell’anno. Migranti. Da profughi a homeless, lettera del Viminale: “Nessuno finirà per strada” Il Riformista, 23 dicembre 2019 In merito al nostro articolo dal titolo “Profughi, 5.000 nuovi homeless: grazie Lamorgese”, pubblicato nell’edizione cartacea di sabato 21 dicembre e rilanciato sul sito de Il Riformista, il ministero dell’Interno ci ha risposto con una nota che riportiamo integralmente: Egregio Direttore, in relazione all’articolo “profughi: 5.000 nuovi homeless” pubblicato sul giornale da Lei diretto, è gradita occasione per fornire alcune chiarificazioni. A legislazione vigente, i titolari dei permessi di soggiorno per motivi umanitari possono rimanere nel nuovo Sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi) solo fino al termine dei progetti in corso, la maggior parte dei quali scadrà il prossimo 31 dicembre. La proroga di tali progetti, prevista nel decreto ministeriale adottato lo scorso 18 novembre, non è pertanto applicabile ai titolari di permesso umanitario. Nonostante questo quadro normativo, nessuno dei 1.428 titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, attualmente presenti nel Siproimi, comunque finirà per strada. Per dare continuità all’azione di assistenza l’Autorità Responsabile dei fondi europei Fami ha già pubblicato, infatti, due specifici avvisi riservati agli Enti Locali per finanziare iniziative di accompagnamento all’autonomia e all’inclusione. Al momento, i progetti finanziati sono trentanove ed un nuovo bando verrà a breve pubblicato. Le progettualità avranno inizio dopo una fase accelerata di selezione. La continuità all’assistenza dei titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari potrà essere garantita anche utilizzando le strutture già destinate dai Comuni nell’ambito del Siproimi. Infatti, la possibilità di mantenere la sede di accoglienza attuale rientra nella discrezionalità dell’Ente Locale titolare del progetto ed è consentita dal Fami. Rimane inoltre confermata la possibilità, qualora ne ricorrano i presupposti, di rilasciare loro un permesso di soggiorno per cure mediche o per i casi speciali previsti dalla legge (es. vittime di tratta). In attesa di definire le modifiche al quadro normativo, in corso di valutazione politica, il Ministero dell’Interno è molto attento, in questa delicata fase, alle condizioni di vita di tutti i soggetti coinvolti e alle esigenze dei Comuni italiani che li ospitano e delle organizzazioni che gestiscono i relativi progetti. Si confida che questa illustrazione puntuale del lavoro che stiamo svolgendo possa fugare le preoccupazioni nate in queste ore attorno a un tema così delicato. Auguri ai perseguitati, carbone a noi che voltiamo la testa di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 dicembre 2019 Preferiamo far finta di niente per non rovinare i rapporti con le potenze che reggono l’economia del mondo. Per la difesa dei diritti umani non c’è più posto. Auguri sentiti, al di là di tutte le confessioni e gli ideali professati, ai perseguitati che vengono vessati senza che noi europei e occidentali, i campioni dell’ipocrisia e della declamazione retorica sui diritti e valori universali, apriamo bocca per denunciare quei crimini. Auguri ai curdi, inseguiti e discriminati dalle feroci milizie turche, dopo che avevano eroicamente fronteggiato l’Isis. Auguri agli uiguri, la minoranza musulmana in Cina, deportati a centinaia di migliaia nei campi di concentramento nel silenzio di chi non vuole turbare i proficui rapporti con Pechino. Auguri ai morti e rifugiati del popolo islamico Rohingya, massacrato dalla Birmania di San Suu Kyi, incredibilmente Premio Nobel per la pace. Auguri ai cristiani dell’Arabia Saudita uccisi perché in possesso di un rosario o di un crocefisso, ai cristiani del Pakistan accusati di blasfemia solo perché onorano il loro Dio, ai cristiani della Nigeria sterminati dai fanatici terroristi islamisti. Auguri alle donne che in Iran si strappano in piazza il velo dell’oppressione vengono incarcerate e oppresse. Auguri agli omosessuali russi che a Mosca vengono picchiati con inaudita violenza non appena osano manifestare il loro orgoglio gay. Auguri agli omosessuali palestinesi perseguitati e costretti a riparare nel civile e democratico Stato di Israele. Auguri ai siriani fatti fuori a centinaia di migliaia dal tiranno Assad, nel silenzio complice della comunità internazionale. Auguri a Ayaan Hirsi Ali, messa al bando dalle università americane prese in ostaggio dai fanatici intolleranti che non sopportano le sue battaglie contro il fondamentalismo islamista. Auguri ai profughi dei campi di concentramento in Libia che scappano dalla miseria più totale, torturati e stuprati nell’assoluta impotenza dell’Onu e dell’Europa che consegna silente la Libia alla Russia e alla Turchia di Erdogan, e che suscitano attenzione solo se a pochi chilometri dalle cose europee. Auguri ai venezuelani vessati dal regime di Maduro, ai cubani vessati dal regime castrista, al popolo dell’Amazzonia vessato dal regime di Bolsonaro. Auguri a tutti loro, e carbone amaro a vagonate per noi che voltiamo la testa dall’altra parte, che preferiamo far finta di niente per non rovinare i rapporti con le potenze che reggono l’economia del mondo. Per la difesa dei diritti umani non c’è più posto. Libia. Erdogan difende Tripoli per uscire dall’isolamento di Mariano Giustino Il Riformista, 23 dicembre 2019 Il presidente turco Erdo?an non sembra bleffare e si dice pronto ad inviare sue forze militari a Tripoli per consentire al Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dall’Onu di Fayez al-Sarraj di difendersi dal suo nemico, il generale Kalifa Haftar dell’Esercito nazionale libico (Lna), che minaccia un’offensiva finale su Tripoli. E giovedì il governo libico di al Sarraj ha accettato l’offerta di sostegno militare e logistico da parte della Turchia. L’annuncio di Erdo?an ha fatto seguito a un protocollo d’intesa firmato da Ankara e Tripoli sui confini delle rispettive Zone economiche esclusive (Zee) nel Mediterraneo orientale. Ankara vuole uscire dall’isolamento della annosa disputa marittima che la oppone a Cipro e Grecia e che la esclude dallo sfruttamento delle risorse energetiche in corso nella regione a seguito di un accordo tra la Repubblica di Cipro, la Grecia, Israele, Giordania, Egitto e Italia stipulato all’inizio di quest’anno per la costruzione di un gasdotto East Med, un collegamento sottomarino tra Cipro e l’isola greca di Creta, per trasportare gas estratto dai giacimenti scoperti nel Mediterraneo orientale ai mercati europei. La Grecia che si vide già nel 1974 minacciata nei suoi interessi marittimi, si è affrettata a dichiarare la nullità dell’accordo presso le Nazioni unite e l’Egitto ha effettuato manovre militari vicino alla costa del Mediterraneo. Si riaccende dunque una disputa sulle delimitazioni dei confini marittimi tra Turchia, Grecia e Cipro e ciò presenta il rischio di una escalation delle tensioni nell’area. L’attivismo del leader turco nella regione è instancabile e ha preso in consegna l’aeroporto di Geçitkale nella parte settentrionale di Cipro per dispiegare i suoi droni armati Bayraktar Tb2 che accompagneranno le sue navi da perforazione e le sue forze navali nel Mediterraneo orientale. Gli accordi aprono per la Turchia la possibilità di garantirsi i depositi di scisto bituminoso presenti nel Mar Mediterraneo e ciò dipende dalla permanenza al potere di al-Sarraj. Ankara continuerà quindi a sostenere il governo di Tripoli perché deve garantire alla sua economia in crisi lo sfruttamento delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale e l’unico suo alleato in questa partita è il leader del Gna. Se al-Sarraj dovesse essere sconfitto la Turchia, già esclusa dal progetto East Med sarebbe anche tagliata fuori dalla possibilità di rivendicare suoi diritti assieme a quelli dei turco-ciprioti. Ecco perché Ankara è costretta a difendere in tutti i modi il suo alleato al-Sarraj. Libia. Sarraj: “Le armi dalla Turchia? Le avevamo chieste all’Italia, non c’è stata risposta” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 dicembre 2019 Fayez Sarraj non chiama mai Khalifa Haftar per nome. Per il premier del governo di Accordo Nazionale a Tripoli il capo militare della Cirenaica diventa semplicemente “l’aggressore”. È un dettaglio. Ma aiuta a capire la gravità della crisi libica, che sconvolge anche gli equilibri nel Mediterraneo, sempre più esplosiva con il crescente intervento militare straniero. Si chiudono le porte della diplomazia? Ieri i guardacoste di Haftar hanno sequestrato una nave turca e intanto la Grecia manda il suo ministro degli Esteri a dialogare con Abdullah al Thani, premier del governo dell’Est non riconosciuto dall’Europa. Primo ministro, l’Italia si rifiuta di mandare le armi che chiedete per combattere Haftar. Così le avete ottenute dai turchi. Dopo la visita martedì di Luigi Di Maio qui in Libia sono ormai tanti a parlare di rischio di “irrilevanza” italiana... “Noi avevamo chiesto le armi a tanti Paesi, inclusa l’Italia, che pure ha diritto di scegliere la politica che più le aggrada e con cui i rapporti restano comunque ottimi. Da Roma, in verità, non sono mai giunte risposte ufficiali. Con Di Maio abbiamo avuto un ricco scambio d’opinioni. Quanto invece alla sua tappa a Bengasi dal nostro aggressore e Tobruk non ho visto alcuna sostanza, oltre a generiche dichiarazioni di amicizia che lasciano il tempo che trovano. Così, la comunità internazionale risulta divisa. Da una parte i Paesi disposti ad armare i nostri avversari-aggressori. A loro si contrappongono altri Paesi, tra cui l’Italia, che credono tutt’ora alla formula per cui l’unica soluzione resta il dialogo politico. Ma si tenga a mente che qui siamo sotto attacco militare, con sofferenze indicibili per la popolazione vittima di bombardamenti, morti, feriti, con centinaia di migliaia di sfollati”. Haftar avanza anche grazie ai soldati russi. Le milizie di Tripoli mostrano i video dei tank turchi sbarcati a Misurata. Alla fine saranno Putin ed Erdogan a dettare le regole del gioco? “È uno scenario difficile, reso ancora più complesso dagli interventi stranieri. Non credo però che l’intera questione possa venire risolta solo dai colloqui tra Putin ed Erdogan. È un processo caratterizzato da continui contatti bilaterali e multilaterali, in cui non mancano le voci degli Stati Uniti, della Germania impegnata con l’Onu a preparare la conferenza di Berlino e degli altri partner europei. Il nostro aggressore ha già fallito. Al momento del suo improvviso attacco il 4 aprile diceva che avrebbe preso Tripoli entro 48 ore. Nove mesi dopo la guerra continua. Sono certo che saremo noi a prevalere. Alla fine sarà deciso chi ha il diritto di negoziare il futuro della Libia e invece chi è l’aggressore destinato ad essere giudicato dal tribunale internazionale”. Roma e altri Paesi criticano la sua intesa con Erdogan per il controllo delle acque del Mediterraneo. Di Maio ha protestato dicendo che un buon alleato prima avrebbe avvisato... “Prima di tutto Libia e Turchia sono due Paesi membri dell’Onu, con governi legittimi, indipendenti e sovrani. Quel memorandum è nei nostri diritti. Sinceramente apprezzo i buoni rapporti e la cooperazione che abbiamo con l’Italia e mi auguro s’intensifichino. Però non avevamo alcun dovere nei confronti di Roma. Con la Turchia si negoziava in proposito dal 2004. Chiunque abbia obiezioni può ricorrere alla legge internazionale e in caso all’arbitrato di un tribunale internazionale. Così, del resto, è già avvenuto per i litigi relativi ai diritti sulle acque limitrofe alle nostre coste con Cipro e Malta. C’è stato un arbitrato e i contenziosi sono stati risolti pacificamente. Reputo invece fuori luogo e troppo gridate le proteste greche. Credono davvero che la Libia sia tanto debole? Non accettiamo pressioni o manipolazioni”. Teme una svolta filo-Haftar dell’Italia? “Di Maio non è riuscito a bloccare l’aggressione militare contro di noi. Questa sarebbe stata l’unica prova di un suo successo ai colloqui di Bengasi. Ciò non toglie che l’Italia abbia tutto il diritto di comunicare con chiunque ed invitarlo a Roma”. La Libia sempre più come la Siria di qualche anno fa? “Sono anni che lanciamo l’allarme sul pericolo di interferenze militari straniere. Mettevo in guardia sulla guerra per procura ben prima del 4 aprile 2019 e non importa fossero soldati russi, egiziani o altri. Adesso noi siamo accusati di fare arrivare i tank e droni turchi? Scusate ma cosa vi aspettavate dal nostro governo, che sarebbe rimasto in disparte a far nulla mentre la capitale veniva devastata, insanguinata, occupata? Nessun esecutivo responsabile può restare passivo mentre la sua popolazione viene abusata. Chiunque ci critica si chieda prima cosa avrebbe fatto al nostro posto e scoprirà che non avevamo alternative”. La conferenza di Berlino prevista per fine gennaio resta una via percorribile? “Ci speriamo. Ne ho parlato a lungo con l’inviato dell’Onu, Ghassan Salamé, e con il ministro degli Esteri tedesco. Si vorrebbe tenere un incontro a Berlino per bloccare le interferenze in Libia e quindi subito dopo organizzare dialoghi diretti tra libici. Non so però con quali possibilità di successo. Il problema è che il nostro aggressore prende tempo, continua a parlare di ora zero della battaglia per Tripoli e credere nell’opzione militare. Ci bombarda, spreca risorse immani e nell’Est non costruisce nulla”. Stati Uniti. La tortura è “il segreto della neve” lantidiplomatico.it, 23 dicembre 2019 Edward Snowden ridicolizza il tweet festivo della Cia. L’ex contractor dell’Nsa Edward Snowden ha ridicolizzato un tweet festivo della Cia ricordando le sue pratiche di tortura. “È il segreto della neve che amiamo l’inverno”, ha twittato ieri sul suo profilo Twitter, in occasione del primo giorno d’inverno negli Stati Uniti. Snowden ha replicato con una arguta risposta che ridicolizzato la Cia. “È segreto della neve che avete torturato Gul Rahman per settimane in un luogo segreto, quindi lo avete incatenato nudo su un pavimento di cemento fino a quando non è morto nel freddo quasi invernale”, ha twittato. Gul Rahman, cittadino afgano, fu rapito da un campo profughi in Pakistan dagli ufficiali della Cia nel 2002, e portato in una prigione segreta vicino a Kabul, conosciuta come la “fossa di sale”. Il suo trattamento era un segreto fino alla pubblicazione del rapporto del Comitato di intelligence del Senato sulla tortura della Cia nel 2014. Secondo il rapporto, Rahman è stato incatenato e costretto a rimanere in piedi per giorni e giorni, sottoposto a privazione del sonno, fatto risvegliare con acqua fredda gelata, picchiato e incatenato al pavimento della sua cella. Morì di ipotermia a meno di un mese dalla sua prigionia, la sua colpa non fu mai accertata. Snowden ha anche asfaltato l’attuale direttore della Cia Gina Haspel, “che allora era a capo di un sito di tortura correlato”. Al tempo della detenzione di Rahman, Haspel era responsabile di un sito nero in Tailandia con il nome in codice “Cat’s Eye”. Secondo lo stesso rapporto del Senato, i detenuti sul posto venivano regolarmente torturati, con un detenuto, Abu Zubaydah, confinato in una scatola delle dimensioni di una bara. Un ufficiale della Cia citato nel rapporto paragonò la struttura a un “sotterraneo” medievale. Non è la prima freddura di Snowden contro la Cia quando si sforza di apparire vicina ai cittadini statunitensi usando le pubbliche relazioni. Un tweet di Halloween che offriva ai bambini utili consigli di travestimento è stato ridicolizzato, con molti utenti che si sono chiesti se un’organizzazione con una storia così oscura dovrebbe insegnare ai bambini qualcosa in primo luogo. Cina. La cartolina di Natale è un Sos: “Siamo prigionieri a Shanghai” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 23 dicembre 2019 Il messaggio trovato da una bimba inglese. I negozi Tesco sospendono il fornitore cinese. Penna in mano, l’albero di Natale alle spalle, Florence aveva appena aperto la scatola di bigliettini di auguri solidali. Si stava accingendo a scriverli ai suoi compagni di scuola, quando passandoli in rassegna, magari per scegliere quello da inviare all’amica del cuore, il più bello tra quei teneri gattini con il cappello rosso di Babbo Natale sul capo, ha sgranato i suoi occhioni verdi: “Ehi, ma questo è già stato usato, è già scritto” ha esclamato questa bambina di sei anni con l’aria divertita, rivolgendosi alla mamma che li aveva acquistati a un super Tesco di Londra. Un testo di poche righe, tutto in maiuscolo: “Siamo prigionieri stranieri detenuti nel carcere di Qingpu a Shanghai. Siamo costretti a lavorare contro la nostra volontà, per favore aiutateci e denunciate il nostro caso ad un’organizzazione per i diritti umani”. Un Sos talmente assurdo da essere scambiato di prim’acchito per uno scherzo anche dai genitori di Florence. All’incredulità è poi subentrato lo choc: si fa beneficenza con i lavori forzati? Pare un ossimoro, e se fosse vero? Un indizio ha aiutato la coppia a fare chiarezza: sul bigliettino c’era anche l’indicazione di contattare un certo Peter Humphrey. Il padre della bambina lo ha cercato su Google scoprendo che si trattava di un giornalista britannico che aveva trascorso due anni nella stessa prigione, a Shanghai, condannato per violazione delle leggi cinesi sulla vita privata mentre lavorava lì come investigatore antifrode per conto della multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline. È stato lui a raccontare la storia sul Sunday Times. “Quando ho ricevuto via Linkedin il messaggio del signor Widdicombe mi sono ripiombati addosso quei due anni terribili” ha scritto. Poi alla Bbc ha spiegato: “Quando ero recluso io si trattava di lavoro volontario, che tornava utile per le piccole spese. Ma nell’ultimo anno è diventato obbligatorio”. Tesco ha annunciato di aver avviato un’indagine e ha subito sospeso il contratto con il suo fornitore cinese: “Nella nostra catena di fornitori non è ammesso l’uso del lavoro carcerario”, ha spiegato un portavoce. La società di Shanghai che produceva i biglietti natalizi è stata oggetto di un audit anche il mese scorso, si difende la multinazionale che quest’anno punta a ricavare 300mila sterline dalla vendita di cartoline benefiche, da devolvere a British Heart Foundation, Cancer Research Uk, e Diabete Uk. Ma a beneficiare dell’operazione pare sia stato in primis il sistema carcerario cinese, il più popolato al mondo dopo gli Usa con 2,3 milioni di detenuti. Non è facile per le società straniere verificare se le catene di approvvigionamento siano collegate al lavoro carcerario. Ma il prezzo (soltanto 1,5 sterline per una confezione da 20 biglietti) e il tipo di prodotti deve mettere in guardia. Senza aspettare un’altra Florence. Honduras. Strage nelle prigioni: 36 morti nel week end La Repubblica, 23 dicembre 2019 Scontri a colpi di arma da fuoco e di coltello in due istituti di detenzione. Almeno 36 persone sono state uccise nel week end durante scontri nelle prigioni dell’Honduras di cui l’esercito e la polizia tentano di riprendere il controllo dopo una serie di omicidi legati alle “maras”, le bande criminali che infestano il Paese. Domenica almeno 18 persone sono morte durante gli scontri fra detenuti in una prigione del centro del Paese. Gli scontri con “armi da fuoco, coltelli e machete” sono scoppiati nella prigione di El Porvenir a 60 chilometri a nord della capitale Tegucigalpa. La notte precedente, un’altra sparatoria aveva causato 18 morti e 16 feriti nella prigione di Tela. I due massacri sono stati perpetrati poco dopo che il presidente honduregno Juan Orlando Hernández, aveva ordinato all’esercito di prendere il controllo delle prigioni nelle quali sono detenute 21mila persone. La decisione del presidente era stata presa dopo l’uccisione di 5 membri della gang della Mara Salvatrucha da parte di un altro detenuto nella prigione di massima sicurezza di La Tolva. Questo mentre il giorno prima era rimasto vittima di un colpo di pistola il direttore del principale istituto di massima sicurezza dell’Honduras. Il direttore era stato sospeso perché sotto inchiesta dopo l’assassinio di Magdaleno Meza un grosso trafficante di droga che aveva accusato il fratello del presidente honduregno poi riconosciuto colpevole di traffico di droga da un tribunale di New York ed ora rischia l’ergastolo. Arabia Saudita. Donne allo stadio ma restano in carcere le attiviste che si battono per i diritti di Simona Verrazzo Il Messaggero, 23 dicembre 2019 Donne sugli spalti, senza restrizioni, nello stadio di Riad (Arabia Saudita), in occasione della finale della super-coppa italiana tra Juventus e Lazio, vinta dalla squadra romana per 3 a 2. Un incontro segnato dalle polemiche, tra gli appelli di chi avrebbe voluto che l’evento saltasse, come Amnesty International e Usgrai, per il mancato rispetto dei diritti umani nel regno e per l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, nell’ottobre del 2018, in cui è coinvolto - per sua stessa ammissione - il principe erede al trono, Mohammad Bin Salman. Le tifose di calcio come prova delle riforme da mostrare al mondo, ma - paradossalmente - restano ancora in carcere molte attiviste diventate simbolo proprio della difesa dei diritti delle donne. Il caso più noto è quello di Loujain Al-Hathloul, perché tra le più impegnate per la fine del divieto femminile alla guida, torturata in prigione, tanto che sua sorella aveva scritto una lettera al segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, alla vigilia della visita in Arabia Saudita, quasi un anno fa. Ma Loujain non è la sola a essere ancora detenuta. L’ultimo giro di vite, a fine novembre, ha portato dietro le sbarre una decina di giornalisti, tra loro anche Zana Al-Shahri, che scrive per il magazine Al Asr, e Maha Al-Rafidi, firma del quotidiano Al Watan. Sulle sorti di Samar Badawi le indiscrezioni si rincorrono. Negli scorsi mesi era stata annunciata, via social network, la sua esecuzione, mentre Amnesty International ha confermato che è viva ma rinchiusa in carcere, dove sta scontando una condanna a vent’anni. Samar è impegnata per la fine del ‘sistema del guardiano’, la figura maschile, appartenente alla famiglia, che controlla la vita delle donne, inoltre è la sorella dell’attivista scrittore e blogger Raif Badawi, a cui sono state inflitte, oltre alla prigione, anche 1.000 frustate in pubblico. Ancora non libera, bensì sottoposta a regime di isolamento, è Nassima Al-Sada, scrittrice, membro della minoranza sciita spesso sottoposta a forte repressione. Si stima che gli sciiti sauditi siano circa il 15 per cento della popolazione e le associazioni in difesa dei diritti umani continuano a denunciare le discriminazioni che li colpiscono per il solo fatto di aderire alla corrente islamica che è maggioritaria in Iran, il principale nemico dell’Arabia Saudita nella regione del Golfo.