Giustizia, la tregua vacilla di Errico Novi Il Dubbio, 21 dicembre 2019 Il Pd pronto a “rettificare” il blocca-prescrizione: “Intesa coi 5S o faremo da soli”. Renzi tentato dal sì alla legge Costa. Resta alta la tensione sul processo penale, nonostante i passi avanti compiuti sulle intercettazioni nel vertice di giovedì. A tenere lontani i partiti di maggioranza è sempre lo stop alla prescrizione dopo il primo grado. Una norma che entrerà in vigore dal 1° gennaio ma alla quale il Pd non intende arrendersi: “Nei prossimi giorni depositeremo una proposta di legge che consenta di salvaguardare la ragionevole durata del processo”, ribadiscono Alfredo Bazoli e Walter Verini, “confidiamo in un’intesa ma senza segnali di apertura da parte del M5s ci sentiremo liberi”. Italia viva ha una posizione anche più dura e continua a non escludere il sì alla legge Costa. Oggi intanto il Consiglio dei ministri darà via libera al decreto riveduto e corretto sulle intercettazioni, che sarà efficace dal 2 marzo. Sui nodi in discussione interviene il presidente del Cnf Andrea Mascherin, che chiede “termini perentori per la durata delle indagini e delle diverse fasi processuali”. La straordinaria abilità della maggioranza giallorossa è nell’accumulare potenziale di scoppio senza arrivare mai alla deflagrazione. Perché se davvero si facesse la cronaca, per quanto se ne sa, del vertice sulla giustizia di giovedì sera, si dovrebbe concludere che il governo di Giuseppe Conte ha i giorni contati. E invece i contrasti sulla prescrizione emergono, divampano, ma poi nel day after, cioè ieri, sembrano ancora una volta disinnescati. Sembrano. Se non fosse per un’impennata imprevedibile. Firmata da Andrea Marcucci, capogruppo Pd al Senato (e legatissimo a Renzi). Dopo che in mattinata altri del suo partito parlano sì di una “nostra proposta che indica tempi certi per i processi” e che “presenteremo nei prossimi giorni”, alle 16.30 Marcucci, dalla sua pagina Facebook, dà il testo già per depositato e intima al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di convocare subito, prima di Capodanno, il vertice che la sera prima il resto del Pd aveva concordato, dopo lunga trattativa, di aggiornare al 7 gennaio. Strano? Vero, però. Scrive il presidente dei senatori democratici: la prescrizione “fu approvata da Salvini e dal M5S” e “entra in vigore il prossimo 1 gennaio. Una legge, tanto per essere chiari, anticostituzionale e barbara, che di fatto rende l’Italia il paese dove i processi possono durare per sempre”. Aggettivi inauditi, almeno dal fronte dem. Ma Marcucci va pure oltre: “Il Pd ha presentato un proprio disegno di legge per stabilire una durata ragionevole dei processi. Il ministro Bonafede convochi un vertice prima della fine dell’anno. Per il Pd è semplicemente impossibile che una legge del genere passi senza correttivi”. Cosa vuol dire? Che nella maggioranza ci sono scintille fuori controllo, in grado di innescare l’ordigno da un momento all’altro. Si concentrano in Italia viva e in quei parlamentari dem che sono più in sintonia con Renzi. Persino se rimasti all’ombra del Nazareno a fare i capigruppo, come Marcucci appunto. Eppure i focolai di incendio sono per ora isolati. Così Bonafede può assicurare che è tutto a posto per il decreto intercettazioni, e che “è vero, sulla prescrizione ci sono distanze, ma abbiamo deciso di rivederci il 7 gennaio, e comunque non ho preclusioni verso alcuna proposta”. Lo dice dopo il vertice di giovedì, durato 4 ore, in cui si è detto di tutto e Italia viva, in particolare, è arrivata di nuovo a indicare nel novero delle ipotesi quella più devastante: “Non escludiamo di votare la legge Costa”, ha avvertito la delegazione renziana composta da Maria Elena Boschi, Lucia Annibali e Giuseppe Cucca. Adesso il programma prevede che nel Consiglio dei ministri di stamattina sia dato l’ok alle norme correttive sulle intercettazioni, con il nuovo slittamento della riforma Orlando: non al 30 giugno come inizialmente previsto ma al 2 marzo. Nello stesso tempo, il Pd annuncia: “Presenteremo nei prossimi giorni una nostra proposta di legge che consenta di salvaguardare la ragionevole durata del processo. Confidiamo ancora in un’intesa di maggioranza, ma senza segnali di apertura da parte del M5s ci sentiremo liberi di proseguire l’iter parlamentare”. Parole di Alfredo Bazoli, che dei dem è il capogruppo nella commissione Giustizia di Montecitorio, confermate dal responsabile Giustizia Walter Verini: “Il testo arriverà a brevissimo. E sarebbe stato meglio discuterne prima del 31. Lo faremo il 7”, spiega Verini al Dubbio, “e il proposito di cercare un’intesa non è virtuale: a Bonafede non chiediamo abiure rispetto alla sua legge, ma da lui neppure accettiamo diktat. Siamo convinti che si debbano evitare gli effetti perversi del blocco alla prescrizione”. Una tensione sospesa di cui approfitta Matteo Salvini, che trova il tempo per definire “una schifezza” il processo penale senza prescrizione e per chiedere le “dimissioni” di Bonafede. Ma appunto, il problema non è l’opposizione. È Italia viva. Che nel vertice di giovedì sera è stata assai più dura del Pd. E che il giorno dopo definisce “inutile” un vertice il 7 gennaio, quando la nuova prescrizione sarà già in vigore. Intanto oggi a Palazzo Chigi ci si vede di nuovo. Vanno ratificate le correzioni ulteriori chieste da Italia viva, Pd e Leu sulle intercettazioni: riguardano in particolare l’uso dei Trojan, che torna ad essere consentito per i reati di corruzione solo se a commetterli è un pubblico ufficiale. Sarà anche rivista la procedura che attiva gli interruttori del virus spia, ricondotti alla totale responsabilità del pm. Restano le altre novità anticipate ieri dal Dubbio: a cominciare dal controllo sulle trascrizioni inopportune (per la privacy e il più generale danno alla reputazione degli intercettati) condotto ex post dal pm anziché dalla polizia. E soprattutto restano, opportunamente, le possibilità per il difensore di esaminare addirittura per via telematica le intercettazioni depositate, mentre quelle non trascritte potranno essere ascoltate, dall’avvocato, direttamente dall’archivio riservato del pm, con facoltà di ottenere copia dei file. L’ultima notizia, forse la più sorprendente, riguarda però di nuovo la prescrizione. Sempre al tavolo di giovedì è venuta fuori, a un certo punto, la famosa proposta dell’Anm: lo stop limitato alle sentenze di condanna. Italia viva si è detta fermamente contraria: “Si violerebbe il principio di non colpevolezza”. Ma l’ipotesi non è stata definita irricevibile da Bonafede. Rischia dunque di essere il solo comune denominatore: prescrizione resuscitata per chi è assolto. Ipotesi però problematica, come dicono i renziani. Il che fa capire come la sospensione natalizia non corrisponda affatto al disinnesco della bomba. Giustizia, il baratto Pd-5Stelle di Aldo Torchiaro Il Riformista, 21 dicembre 2019 Bonafede ottiene il via libera alla prescrizione, i dem incassano l’ok alla riforma delle intercettazioni. Duri gli avvocati: “Surreale”. Anche l’ultima speranza, il vertice di maggioranza sulla giustizia di giovedì, ha deluso i garantisti. Il Pd punta a trattare a oltranza e la riforma della legge sulle intercettazioni diventa la moneta di scambio per la prescrizione. Su tutto, però, una certezza la impone il calendario: il primo gennaio entra in vigore la riforma Bonafede che abolisce l’istituto della garanzia prescrittiva in primo grado. L’intero mondo giuridico, dalle università ai professionisti, è in rivolta. E i Dem annunciano l’arrivo imminente di un disegno di legge correttivo, come extrema ratio. Un cannone puntato sul ministero di via Arenula, pur sapendo che la trattativa va condotta con i guanti bianchi, prima dell’eventuale fuoco alle polveri. Perché se il M5S è in caduta libera nei sondaggi non può che legarsi mani e piedi a una riforma totemica come questa. “Nei prossimi giorni il Pd depositerà una sua proposta di legge di modifica che consenta di salvaguardare la ragionevole durata del processo - annuncia Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia alla Camera - ma confidiamo ancora nella possibilità di una intesa di maggioranza e faremo il possibile per favorirla, a partire dal prossimo incontro del 7 gennaio. Ma senza segnali di apertura da parte del M5s ci sentiremo liberi di proseguire l’iter parlamentare”. Di andare cioè alla conta. Anche perché, salvo sorprese. il vertice del 7 gennaio si troverà a sancire l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che a quel punto sarà già entrata in vigore da sei giorni. Non a caso i renziani, contrarissimi alla riforma Bonafede, hanno già definito “inutile” vedersi dopo l’avvio del 2020, lasciando intendere che, qualora non dovessero sopraggiungere novità prima del 31 dicembre, potrebbero disertare il vertice. Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd, punta sul tavolo di trattativa. E non dispera. “Vogliamo raggiungere un accordo di maggioranza: pretenderemo il rispetto degli accordi di programma condivisi sul punto, peraltro sancito dalla Costituzione, della ragionevole durata dei processi. Perché la riforma di Bonafede è di dubbia costituzionalità ma soprattutto porta a una conclusione diversa dagli accordi di governo. E dunque insistiamo con forza perché i nostri alleati Cinque Stelle trovino con noi una strada comune. Noi non chiediamo abiure ma non accettiamo diktat. Ma soprattutto non giochiamo con la giustizia per far cadere o sostenere il governo”. Se si andasse allo scontro in commissione Giustizia, d’altronde, i numeri non sarebbero dalla parte dei 5 stelle, che finora tengono il punto: tranne i pentastellati, infatti, tutte le altre forze politiche, di maggioranza e di opposizione, sono fortemente critiche nei confronti della riforma. L’8 gennaio scadranno i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge di Enrico Costa (Fi), che abroga tout court la riforma Bonafede. E non é escluso che possa essere lo strumento utilizzato dai detrattori della nuova prescrizione per mettervi la parola fine. Costa assapora i popcorn, nell’attesa: “I nodi vengono al pettine e il Pd perde la faccia sulla prescrizione. Volevano il rinvio dell’entrata in vigore per fare una riforma del processo, poi la prescrizione processuale, poi si sono piegati all’entrata in vigore accontentandosi di un disegno di legge. infine hanno annunciato una proposta di legge. Non si è visto niente. Niente di niente”. Verini non demorde: “Ci vediamo domenica alla Camera per una seduta straordinaria, ci troveremo lì e avremo una versione definitiva della nostra proposta. Lunedì potrebbe essere presentata alla stampa. Anche tra Natale e Capodanno chiediamo agli alleati di maggioranza di continuare a parlarci. Abbiamo ottenuto soddisfazione con il dialogo sulle intercettazioni, che va nel Mille Proroghe. Il clima non è di rottura; le posizioni sono distanti ma un accordo si può trovare. Caro Bonafede - lancia l’appello Verini - tocca a te fare la sintesi”. L’Unione delle Camere Penali suona i tamburi di guerra. Giorgio Varano. responsabile della comunicazione degli avvocati penalisti: “Sulle intercettazioni non abbiamo ancora visto il testo. non ci esprimiamo. Sulla riforma Bonafede siamo al surreale. Il Ministero non ha ancora risposto sulla richiesta di conoscere quali sono i reati che si prescrivono. posto che il 75% delle prescrizioni oggi intervengono tra le indagini preliminari e la sentenza di primo grado; la cosa surreale è che sono stati richiesti anche dalla commissione Giustizia della Camera. La risposta del Ministero è stata che devono individuarli. Possibile che il dicastero della Giustizia non abbia i dati sui reati commessi in Italia? Per alcuni reati sono stati raddoppiati i termini della prescrizione. facendo scelte di politica giudiziaria da parte del legislatore: un esame deve essere fatto”. I Dem sanno che la giustizia è una cristalleria. È il punto che può far saltare il banco. E quando a Venni ricordiamo che la riforma Bonafede è una bandiera, per il Movimento, lui guarda fuori dalla finestra: “Non vede quanto vento tira in questi giorni freddi? Le bandiere bisogna saperle ammainare. quando rischiano di strapparsi e volare via a pezzi”. Prescrizione, pressing dem-Iv: un vertice prima dell’Epifania di Alberto Gentili Il Messaggero, 21 dicembre 2019 È durata lo spazio di una notte la fragile tregua raggiunta giovedì sera a palazzo Chigi. Il Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, con la sponda del premier Giuseppe Conte, è riuscito nel vertice di maggioranza a impedire lo stop alla sua riforma che da gennaio cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio e ha incassato un rinvio fino al 2 marzo delle nuove norme sulle intercettazioni scritte dal vicesegretario dem, Andrea Orlando. Ma ieri è scattata la rivolta degli alleati. Sconfessando indirettamente l’accordo raggiunto da Orlando che prevede un nuovo vertice il 7 gennaio per parlare della riforma penale che assicuri tempi certi e brevi alla durata dei procedimenti, il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci è andato alla carica: “Il ministro Bonafede si dovrebbe rendere conto che non ci fermiamo di fronte alla logica del fatto compiuto. Serve una riunione di maggioranza prima di gennaio. Non è possibile accettare che i processi abbiano tempi infiniti”. Duro anche Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia della Camera: “Nei prossimi giorni il Pd depositerà una sua proposta di legge di modifica che consenta di salvaguardare la ragionevole durata del processo. Confidiamo ancora nella possibilità di una intesa di maggioranza e faremo il possibile per favorirla, a partire dal prossimo incontro del 7 gennaio. Ma senza segnali di apertura da parte dei 5Stelle ci sentiremo liberi di proseguire l’iter parlamentare”. Come dire: approveremo la nostra riforma del processo penale anche senza i voti dei grillini. Del resto è vasto il fronte, che include anche la Lega e Forza Italia, contrario allo stop della prescrizione senza tempi certi per i processi. Sulla stessa linea Italia Viva che già nel vertice di giovedì sera aveva tuonato contro l’accordo: “Abbiamo chiesto la stessa urgenza che si è avuta per le intercettazioni anche sulla prescrizione. Chi ha deciso di rimandare la discussione al 7 gennaio ha perso tempo prezioso per dare tempi certi a vittime e colpevoli”, ha affermato Marco Di Maio, deputato renziano. E ha spiegato: “Abbiamo chiesto l’altra sera di intervenire con il decreto “Mille Proroghe”, ma ci è stato detto di no. Dunque, entro la fine dell’anno si depositi un testo sul tema ampio del processo penale, non si lasci entrare in vigore una legge così importante come l’eliminazione della prescrizione senza un atto di compensazione non tanto nei confronti di Italia Viva, ma chiediamo che si compensi lo squilibrio generato dalla prescrizione”. Si è fatta sentire anche Forza Italia con la capogruppo alla Camera Mariastella Gelmini: “Pd e Italia Viva hanno dormito per mesi ed ora, a 10 giorni dall’entrata in vigore dello stop alla prescrizione, si svegliano di soprassalto. Hanno ignorato la proposta di legge Costa e il pericolo della riforma Bonafede. Saranno corresponsabili di questo ergastolo processuale”. Ed Enrico Costa, estensore del disegno di legge che se approvato cancellerebbe la riforma di Bonafede ha aggiunto: “I nodi vengono al pettine ed il Pd perde la faccia sulla prescrizione. Volevano il rinvio dell’entrata in vigore per fare una riforma del processo, poi la prescrizione processuale, poi si sono piegati all’entrata in vigore accontentandosi di un disegno di legge, infine hanno annunciato una proposta di legge. Non si è visto niente. Niente di niente. Ed in compenso hanno lavorato ad abbattere la diga che stiamo costruendo contro lo stop alla prescrizione, allungando artificiosamente i tempi di discussione della nostra proposta di legge, votando contro la dichiarazione di urgenza e contro il nostro ordine del giorno. Pensavano di tenere il piede in due scarpe, ma sono stati smascherati”. Il senso dell’acqua per la prescrizione di Barbara Alessandrini L’Opinione, 21 dicembre 2019 Contro la stupidità, il raziocinio prende talvolta strade inattese e molto bizzarre. E a volte passa per l’acqua. Capita così che a rendere più accessibile al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la ratio che sta alla base dell’istituto della prescrizione, che dal 1 gennaio, per sua esaltata volontà, verrà invece sospesa del tutto, ci ha involontariamente pensato l’Autorità di regolazione per Energie Reti e Ambiente. Dal 1° gennaio 2020, infatti, con tanto di delibera, in caso di rilevante ritardo nella fatturazione del gestore, anche per le bollette dell’acqua che scadono dopo il 1 gennaio 2020, gli utenti potranno eccepire, udite, udite! la prescrizione e pagare solo gli importi fatturati che si riferiscono ai consumi più recenti, di 2 anni. La riduzione, sì sì riduzione, della prescrizione è da 5 a 2 anni - spiega la stessa Autorità in una nota - ed è già stata introdotta per le forniture elettriche dal 1° marzo 2018 e gas dal 1° gennaio 2019. Inoltre, pensiamo un po’, viene stabilito il funambolico principio per cui deve essere riscontrata una frequenza minima mensile delle fatturazioni, per evitare bollette troppo ravvicinate. Non solo. Si istituisce un meccanismo di premi e penalità a tutti i gestori, guarda caso allo scopo di incentivare il miglioramento del servizio all’utenza e i rapporti contrattuali. Che dire, il senso dell’acqua per la logica, per l’efficienza e, traslando, per la giustizia. Nel caso di specie è riconosciuto come imputato anche il gestore. Per la responsabilità di allungare troppo i tempi della fatturazione, ossia di arrecare un danno all’utente, inadempiente perché non messo in condizione di pagare in tempi adeguati. Perciò la giusta amputazione del tempo in cui l’utente deve rimanere imbrigliato tra le maglie dell’incapacità di enti che dovrebbero tempestivamente fatturare le loro bollette, diventa un incentivo per migliorare il funzionamento del servizio nei confronti dell’utenza. Il suo snellimento e una sua velocizzazione, quindi. Un logico principio per cui chi offre un servizio, delle garanzie, ai cittadini, se chiede loro di pagare un debito che però non riesce a notificare entro un determinato lasso di tempo, ‘paga’ con il mancato introito liberando il cittadino dal suo capestro. Meno è il tempo a disposizione per portare a termine le fatturazioni perché i tempi di prescrizione sono stati accorciati, più si velocizza il sistema per farle arrivare a destinazione. Perché, il punto è solo questo: snellire, velocizzare il sistema. Qualunque sistema. Anche quello giudiziario che già ora, con tempi lunghissimi di prescrizione per molti reati, tiene un numero spropositato di imputai in balia dello Stato nel cosiddetto ‘fine processo mai’, arriva ad emettere sentenze definitive a distanza di 30/40 anni dall’apertura dell’inchiesta comminando pene che ormai non possono rieducare più proprio nessuno e nella stragrande maggioranza dei casi vede morire i faldoni processuali di prescrizione negli armadi dei Pubblici ministeri se l’imputato non ha rilevanza o interesse mediatica o politica. Ormai il 2 gennaio è alle porte ma Bonafede, che nel frattempo non ha colpevolmente nemmeno presentato un’idea che sia una per assottigliare i tempi ingiusti dei processi, e per alleggerire la macchina giudiziaria, potrebbe venire fulminato sulla via delle Forniture di servizi. E ragionare sul diritto dell’imputato di non morire ostaggio a vita dello Stato nel caso in cui il Pm non riesca a dimostrarne la colpevolezza, ma anche proprio sul piano di quel mal compreso efficientismo con cui ammanta di legittimità la sua controriforma. Meno tempo a disposizione per dimostrare la colpevolezza di un imputato, al contrario, significherebbe un maggior pungolo per lavorare e chiudere i processi. La decisione dell’Autorità regolazioni per Energie Reti e Ambiente come metafora e anche piuttosto efficace, dell’importanze dell’istituto della prescrizione. Lo comprenderà? L’ultima parola, si teme, resta ad Aristotele persuaso com’ era che il buon uso delle metafore è segno di intelligenza, poiché indica che chi la usa e chi la comprende, abbia afferrato molto bene il concetto affine. Prescrizione, che strane proposte sulle inchieste. Ma la soluzione è rinforzare la prevenzione di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 21 dicembre 2019 Quello della sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio non è l’unico nodo sul quale stanno sorgendo dei problemi in ordine alla riforma della giustizia portata avanti dal Guardasigilli Bonafede: è, infatti, di queste ore la notizia secondo la quale alcuni esponenti del Partito Democratico avrebbero avanzato alcune - singolari - proposte da inserire proprio nella riforma medesima, al fine di riorganizzare il processo penale. Tra queste vi sarebbe, addirittura, quella di consentire al Giudice per le Indagini Preliminari di “retrodatare” l’iscrizione sul registro degli indagati, sì da conseguentemente anticipare le scadenze per rendere più celere il procedimento e incentivare la Magistratura inquirente ad agire e velocizzare i tempi delle inchieste. Tecnicamente discutibile, soprattutto in punto certezza del diritto! A parere di chi scrive, una siffatta soluzione appare assolutamente di dubbia praticità oltreché ai limiti della costituzionalità. Risulta evidente, dunque, che, proprio come la modifica in ordine all’interruzione sine die della prescrizione, anche una simile proposta non potrà produrre alcun beneficio al processo penale: non sono queste le migliorie di cui il sistema necessità per evolvere. Piuttosto, come detto in altre sedi, è necessario provvedere ad implementare l’organico operante presso i Palazzi di Giustizia, che, invece, paradossalmente negli ultimi anni hanno visto il loro numero diminuire notevolmente a fronte della chiusura di alcune sedi, ritenute secondarie, come quella di Alba. Semmai dare maggior rilievo all’udienza preliminare e permettere di accedere a riti alternativi dilatando le maglie edittali per accedervi. Tuttavia, proprio sul solco di velocizzare i tempi delle indagini, la riforma Orlando (Legge n. 103 del 2017) aveva provveduto a modificare l’art. 412 c. p. p., rubricato “avocazione delle indagini preliminari per mancato esercizio dell’azione penale”. L’attuale norma prevede, quale asserito ed ipotetico correttivo alla lentezza dell’operato dei Sostituti Procuratori, la possibilità per il Procuratore Generale presso la Corte di Appello, se il Pubblico Ministero rimane inerte, non esercitando l’azione penale o non richiedendo l’archiviazione del procedimento, di disporre presso di sé l’avocazione delle indagini. Il vero elemento, tuttavia, su cui occorre concentrare l’attenzione nell’ottica di migliorare il sistema penale risiede nella previsione di un assetto preventivo affinché la configurazione di un ipotetico fatto penalmente rilevante sia arrestato in una fase embrionale, mediante l’adozione di adeguati protocolli. Questa la scia del Codice della Crisi d’Impresa e dell’insolvenza che all’art. 2086 del Codice Civile inserisce, nei fatti, l’obbligo per gli Enti di dotarsi di adeguati assetti organizzativi, spostando l’asse dal giudiziario alla prevenzione. Un simile sistema general-preventivo ridurrebbe grandemente il numero dei processi proprio perché verrebbe ridotto il numero dei reati. Riforma della prescrizione, lo Stato non la difenda: è incostituzionale di Stefano Ceccanti* Il Riformista, 21 dicembre 2019 L’1 gennaio entra in vigore la legge che cancella la prescrizione dopo il primo grado. Se andrà al giudizio della Consulta il presidente del Consiglio non chieda all’Avvocatura dello Stato di difenderla. Purtroppo la norma incostituzionale sulla prescrizione entrerà in vigore il primo gennaio. Non è uno scenario per niente piacevole, specie per chi come il Pd aveva all’epoca del Governo precedente non solo espresso un dissenso, ma anche presentato una pregiudiziale di costituzionalità. Però la storia non finisce il primo gennaio del 2020. Ovviamente il primo impegno dei parlamentari deve essere quello di una modifica legislativa e logica vorrebbe che il ministro Bonafede accettasse di rimettere in discussione quella grave forzatura, perché in una coalizione non si può pretendere dagli alleati che rinuncino unilateralmente al loro punto di vista. Però, nel frattempo, la realtà si muoverà presto, checché ne dica il ministro, giacché esistono i processi per direttissima e in poche settimane per via incidentale la questione arriverà fatalmente alla Corte. Eviterei invece la strada del referendum abrogativo, che avrebbe tempi più lunghi e, comunque, contro norme incostituzionali non si invoca il referendum, si rimedia in Parlamento o si investe la Corte della decisione. Per questa eventualità, piuttosto prossima, ho predisposto ieri un’interrogazione per la quale ho richiesto l’adesione a tutti i deputati di tutti i gruppi, invitando il Presidente del Consiglio ad evitare di impegnare l’Avvocatura dello Stato in una difesa sbagliata, rispettando il pluralismo interno alla coalizione, fin qui colpevolmente ignorato dal ministro Bonafede. Nell’interrogazione ho ricordato, tra l’altro, che nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale l’Avvocatura dello Stato rappresenta e difende il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale interviene nei giudizi anche su materie che rientrano nella competenza di altri Ministeri; che la legge 9 gennaio 2019, n. 3 prevede all’articolo 1, dal primo gennaio prossimo, la sospensione del corso della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che-definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del decreto penale. Una sospensione che, ho sottolineato, vari e qualificati operatori del diritto, nonché molti parlamentari. ritengono violi le garanzie costituzionali a partire dalla ragionevole durata del processo sancita dall’articolo 111 della Costituzione. Pertanto è altamente prevedibile che la Consulta venga investita in via incidentale della questione di costituzionalità relativa ad essa. Ho quindi chiesto al presidente Conte se intenda escludere sin d’ora di attivare l’Avvocatura per difendere dinanzi alla Corte una normativa che presenta gravi criticità rispetto alle garanzie costituzionali. *Deputato del Partito Democratico Orlando “Una legge Pd contro i processi eterni. Ora sulla giustizia i 5S dovranno trattare” intervista di Liana Milella La Repubblica, 21 dicembre 2019 “Come assicurazione sulla vita noi presenteremo un nostro ddl sulla prescrizione che ci auguriamo di non dover usare. Ma la legge di Bonafede da sola resta una norma sbilenca e una bandiera”. Dice così il vice segretario del Pd ed ex Guardasigilli Andrea Orlando che nega “uno scambio sulla giustizia” con M5S. Quanto all’altolà dei renziani è netto, “la prescrizione non sta nell’accordo di governo”. Chi ha vinto sulla giustizia tra M5S e voi del Pd? “Non era una partita di calcio. La questione delle intercettazioni è stata chiusa, mentre il confronto sul processo penale è ancora aperto. L’importante è che possano vincere i cittadini e che la funzionalità del sistema giudiziario sia garantita”. Ammetterà che è una vittoria il fatto di aver portato a casa le intercettazioni dopo due rinvii consecutivi di Bonafede… “Stiamo parlando di una disciplina che limita il rischio della diffusione impropria di conversazioni captate per accertare verità processuali. Un rischio non eliminato del tutto, ma fortemente ridotto con la riforma”. Un rischio per lei pubblicare le telefonate? “Le intercettazioni in base all’ordinamento sono disposte per finalità di giustizia, non per analisi sociologiche o per scoprire l’indole delle persone coinvolte. Bisogna evitare che diventi pubblico ciò che non è penalmente rilevante. Questa è la ratio della legge. Non viene scongiurato il rischio al cento per cento. Ma il decreto da un lato riduce a monte la massa di conversazioni immesse negli atti, dall’altro rende il percorso più tracciatile, quindi sarà più facile individuare chi le diffonde illegittimamente, senza però ridurre in alcun modo la capacità di indagine e senza sanzioni per i cronisti che eventualmente si trovassero in possesso di quel materiale”. Quindi se io trovo un’intercettazione riservata la posso pubblicare e non rischio niente? “I rischi sono quelli presenti nelle norme vigenti, il decreto non cambia nulla”. A proposito di decreto, il forzista Costa sostiene che quello che sarà fatto per prorogare di due mesi la legge sulle intercettazioni è incostituzionale perché non c’è alcuna urgenza per farlo… “Non so se sarà quella la scelta. Con tutto il rispetto per il giurista Costa, mi pare singolare che dopo anni di tentativi di Forza Italia per limitare, a dir loro, l’uso improprio delle intercettazioni adesso lui cerchi il modo di opporsi alla legge”. Resta lo scontro sulla prescrizione di Bonafede, con lo stop definitivo dopo il processo di primo grado. Che succede con la sua entrata in vigore il primo gennaio? “Niente”. Come niente? State litigando da due mesi... “Semplicemente non è stato ancora trovato un equilibrio tra l’interruzione della prescrizione in primo grado e una riforma del processo penale che eviti a una persona di restare sotto processo a vita. Perché non c’è alcuna garanzia che il processo non vada oltre un certo tempo. Invece bisogna trovare una soluzione per garantire il fine corsa. Un processo sospeso non fa giustizia per nessuno nemmeno per le vittime”. Ma Bonafede ha segnato un gol portando a casa la sua prescrizione? “Capisco che c’è chi possa essere entusiasta per questa bandiera, ma qui non stiamo agitando delle bandiere ma ponendo il problema di un equilibrio tra processi che rischiano di finire nel nulla con la prescrizione e processi eterni. Uno sforzo va fatto. Altrimenti, senza un risultato, il Pd chiederà il ripristino dell’attuale regime della prescrizione”. Cioè la sua legge? “La legge vigente del 2015”. E cosa farete? Un vostro ddl? “Sì, certo, la prossima settimana ne presenteremo uno che ci auguriamo di non dover approvare perché nel frattempo è stato raggiunto un punto di equilibrio tra prescrizione e funzionamento del processo penale. Altrimenti dobbiamo tornare alla prescrizione attuale. E non sarebbe una nostra vittoria ma una sconfitta per tutti. Però è inaccettabile che non ci sia alcuna forma di deterrenza al processo infinito”. Il niet dei renziani alla prescrizione di Bonafede non rischia di incrinare la maggioranza? “Non c’è alcun accordo di governo che ci vincoli al rispetto di questa norma sbilenca votata da Lega e M5S. Tuttavia stiamo cercando un punto di equilibrio. Bonafede finora non ha proposto nulla di risolutivo nel quadro di una riforma largamente condivisibile. Noi faremo il ddl come fosse un’assicurazione sulla vita. Non abbiamo aderito all’iniziativa strumentale di Costa, però il nostro margine di iniziativa resta”. Salafia (M5S): “Basta processi finiti nel nulla. Niente sconti sulla prescrizione” intervista di Antonio Pitoni La Notizia, 21 dicembre 2019 “Mai più banchieri fraudolenti impuniti. Ben venga il contributo degli alleati purché costruttivo”. C’è un dato di fatto inoppugnabile, mette in evidenza la deputata M5S, Angela Salafia: “La riforma della prescrizione entrerà in vigore il prossimo primo gennaio”. Volenti o nolenti, alleati e opposizione, da Italia Vivia a Forza Italia dovranno farsene una ragione. Più che una pace, sulla prescrizione sembra una tregua armata: Italia Viva continua a sparare contro la riforma Bonafede e il Pd annuncia che presenterà una propria proposta di legge. Siamo al tutti contro tutti? “Ognuno è libero di dare il proprio contributo - fermo restando che dovrebbe essere sempre positivo - specie quando si tratta di un tema così importante. Detto questo, la riforma della prescrizione entrerà in vigore il prossimo primo gennaio e di lì a poco si ricomincerà a dialogare e lavorare. Esattamente come abbiamo fatto fino ad ora”. Dopo averla votata, ora Salvini dice che la legge Bonafede è una barbarie. Teme che sulle posizioni della Lega e del Centrodestra più in generale, possano convergere pezzi della maggioranza, a cominciare da Italia Viva, per smontare la riforma della prescrizione? “L’incoerenza di Salvini non è più una sorpresa per nessuno. Detto questo, ho difficoltà a pensare che Italia Viva e Lega possano condividere la stessa idea di giustizia. Non ricordo che sia accaduto in tempi recenti, quando Renzi era ancora nel Pd, e mi sorprenderebbe se le cose cambiassero proprio ora”. Il vice ministro Buffagni, intanto, taglia corto: “Tra i grandi amici della prescrizione, ci sono tutti quei banchieri fraudolenti che truffavano gli italiani e che noi vogliamo far pagare”. è anche a questo che serve la riforma della prescrizione? “Con la nostra riforma della prescrizione sarà molto più difficile che i procedimenti penali finiscano in un nulla di fatto, quindi sì: anche i banchieri fraudolenti, dovranno fare i conti con una giustizia più efficace. Ovviamente non si tratta solo di questo, non parliamo certo di un intervento selettivo su alcuni tipi di reati. Gli effetti della nuova prescrizione ricadranno su tutti i processi, a partire dalla sentenza di primo grado. L’obiettivo, al di là dei singoli casi, è quello di dare ai giudici maggiori possibilità di arrivare fino in fondo per poter accertare la verità”. C’è però chi obietta, anche nella maggioranza, che i processi non possono durare in eterno. Bloccando la prescrizione dopo il primo grado si va verso il fine giudizio mai? “Al contrario, con lo stop della prescrizione si va verso processi più rapidi. Nessuno, nei gradi di giudizio successivi al primo, avrà più interesse a rallentare e a perdere tempo, perché nessuno sarà più salvato dalla prescrizione dei reati. La norma è pensata per garantire la ragionevole durata dei procedimenti, e con la riforma del processo penale verranno introdotti ulteriori strumenti per comprimere i tempi e rendere la macchina della giustizia ancora più efficiente. D’altronde, anche l’Associazione nazionale magistrati, in audizione alla Camera, ha detto chiaramente che quella del “fine giudizio mai” è una ipotesi priva di fondamento”. Trovata l’intesa sulle intercettazioni, resta il nodo della riforma del processo penale. Come se ne esce? “Al di là degli aspetti più strettamente politici di questa vicenda, sono convinta che nessuno sia contrario all’idea di comprimere i tempi dei processi e di restituire ai cittadini una giustizia più rapida. Non credo sia necessario aggiungere altro”. Perché la ‘ndrangheta è ormai la mafia più potente e ricca del mondo di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 21 dicembre 2019 Il potere delle cosche calabresi ha ormai superato quello della mafia siciliana. Le ‘ndrine sono in tutti i continenti, ma hanno scelto la strategia dell’inabissamento: meno violenza più affari puntando sui rapporti con la massoneria. Un’operazione dopo l’altra. Giovedì un terremoto da 334 arresti tra Vibo Valentia e un pezzo d’Europa. Poi la nuova inchiesta che travolge l’assessore regionale piemontese Roberto Rosso per voto di scambio mafioso. Ogni nuova alba è protagonista di inchieste grandi e piccole sull’enorme potere delle cosche calabresi. Clan che non solo soffocano le terre del Sud ma che ormai, e da diversi decenni, hanno trovato la loro terra più fertile nei territori del Nord, Lombardia e Piemonte su tutti. La ‘ndrangheta è oggi considerata la più potente, ricca e ramificata organizzazione mafiosa a livello mondiale. Se Cosa nostra palermitana deve il suo salto di qualità alla prima metà del secolo scorso grazie allo sbarco in Nord America, i clan calabresi sono ormai presenti ovunque: dall’Australia al Canada, passando per Brasile, Venezuela, Argentina, Est Europa e Russia. Un’espansione avviata con i soldi dei rapimenti negli anni Settanta e Ottanta e oggi rafforzata dall’egemonia mondiale della ‘ndrangheta nel traffico di cocaina. Ma oggi la ‘ndrangheta è più forte di Cosa nostra, la mafia che negli anni Ottanta e Novanta sfidò lo Stato ai suoi più alti livelli? Certamente sì. Anche se i “siciliani” non sono scomparsi ma stanno sempre più mutuando dalle ‘ndrine la capacità di penetrare gli apparati dello Stato senza fare rumore, senza sparare e senza neppure il bisogno di mostrare muscoli o la faccia più violenta. La ‘ndrangheta ha da sempre preferito non sfidare le istituzioni ma riuscire ad inserirsi al proprio interno. Lo stesso è avvenuto per l’imprenditoria e la politica, ma anche (in alcuni casi) per magistratura e forze dell’ordine. Questo approccio ha permesso a una mafia considerata per troppo tempo un’accozzaglia di famiglie rurali e pastori, di entrare nella stanza dei bottoni. Di far crescere, e ormai in modo sbalorditivo, il proprio “capitale sociale”. La ‘ndrangheta non ha infettato il Nord come un virus maligno, ma ha trovato a Milano come a Genova, a Modena e Reggio Emilia come ad Aosta e Torino, le braccia spalancate di chi ha approfittato dei servigi dei boss arrivati spesso con il soggiorno obbligato: dal lavoro nero allo smaltimento di rifiuti, dai cantieri alle false fatture. I soldi delle cosche sono oggi in ogni settore imprenditoriale: edilizia, ristorazione, finanza, gioco online, concessionarie e perfino nella sanità. La ‘ndrangheta è arrivata al vertice delle mafie mondiali essenzialmente per tre fattori. L’organizzazione, che a differenza di Cosa nostra non ha una vera commissione ma un “Crimine” che svolge soprattutto funzioni di collegamento. Mentre ogni ‘ndrina lavora (e si muove) in autonomia anche se all’interno di regole e confini comuni. Una sorta di franchising ante litteram. Decisiva è stata poi la capacità di prendere l’egemonia del traffico di droga, impiantando i propri uomini nei Paesi di produzione della coca e stringendo alleanze - anche con il sistema dei matrimoni combinati - con gli eredi dei “boss dei cartelli”. Stessi meccanismi arcaici, quindi, ma proiettati dall’altra parte del pianeta. Infine la capacità della ‘ndrangheta è stata quella di cambiare pelle, passando dai 700 morti della seconda guerra di mafia (1985-91) alla strategia dell’inabissamento. In particolare dopo la strage di Duisburg - 6 morti nell’agosto 2007 - le ‘ndrine hanno scelto deliberatamente di abbandonare la fase più violenta e limitare in maniera chirurgica agguati e delitti. Il motivo? Esattamente l’opposto della strategia stragista di Totò Riina: lo Stato quando reagisce lo fa in maniera così dura e determinata da mettere in seria difficoltà l’organizzazione mafiosa. Per questo meglio non sfidarlo, riuscire a confondersi, evitare di apparire (come è invece nella realtà) il principale problema per la sicurezza di questo Paese. La ‘ndrangheta sa quando può sparare e quando è meglio non farlo. Per evitare di attirare l’attenzione dello Stato e anche per non allarmare i cittadini che più dalle cosche devono essere “distratti” da altre questioni. Operazione di marketing senza precedenti. Ma c’è un altro, ultimo e forse decisivo fattore. È quello messo in luce dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dallo studioso Antonio Nicaso nel loro ultimo libro “La rete degli invisibili”. La ‘ndrangheta grazie all’incontro con la massoneria deviata ha trovato un volano relazionale che l’ha fatta entrare nei più alti apparati di questo Paese. Una rete segreta di insospettabili - magistrati, giornalisti, politici, imprenditori, ufficiali delle forze dell’ordine - capace di condizionare ogni cosa. Uno scenario che sembra uscito da un film di fantascienza per chi considera la ‘ndrangheta come una mafia di pastori, riti e “mangiate” di capretto in Aspromonte. Ma che è la più impressionante realtà uscita dalle ultime inchieste giudiziarie. Corte di Giustizia europea contro l’Italia per risarcimento di soli 4.800 € a vittima di stupro di Alberto Custodero La Repubblica, 21 dicembre 2019 La causa pilota parte da Torino da una donna sequestrata e stuprata nel 2005 da due violentatori che dopo la condanna hanno fatto perdere le loro tracce. La Cassazione aveva chiesto l’intervento dell’organo giudiziario europeo che si pronuncerà per la prima volta su questa materia il 2 marzo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea il prossimo due marzo discuterà la “causa pilota” intentata contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri da una donna vittima, nel 2005, di sequestro di persona e violenza sessuale. Oggetto dell’udienza è la direttiva europea del 2004 che obbliga gli Stati membri a creare “un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un risarcimento equo ed adeguato delle vittime”. La tesi della vittima di violenza torinese, assistita da un pool di avvocati specializzati (Marco Bona, Umberto Oliva, Francesco Bracciani, Vincenzo Zeno-Zencovich), era che in forza di tale direttiva lo Stato, dal primo luglio 2005, avrebbe dovuto garantirle un indennizzo equo e adeguato essendo i violentatori rimasti sconosciuti. Ma le cose sono andate diversamente. Ecco la cronaca di quella che ha il sapore di una beffa politico-giudiziaria. Il Tribunale di Torino (sentenza 2010) aveva riconosciuto l’inadempimento della Presidenza del Consiglio per la mancata attuazione di quella direttiva. Così anche la Corte d’Appello di Torino (sentenza 2012), confermando la pronuncia del Tribunale e condannando la Presidenza: “è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente”. Alla vittima di violenza torinese furono riconosciuti Euro 50.000,00, ad oggi non ancora corrisposti dallo Stato italiano: contro questa sentenza, infatti, il Governo aveva poi fatto ricorso in Cassazione nel 2012. Nel frattempo, per scongiurare cause di questo tipo e condanne da parte della Corte di giustizia (che comunque nel frattempo, nel 2016, sanzionava l’Italia), il legislatore italiano interveniva a più riprese con interventi normativi nel 2016, 2017 e 2018, prevedendo, tuttavia, indennizzi del tutto inadeguati. Per il reato di violenza sessuale l’“importo fisso” di Euro 4.800. E poi, per il reato di omicidio l’“importo fisso” (da dividersi fra tutti i famigliari legittimati attivi) di Euro 7.200, incrementato a Euro 8.200 nel caso di omicidio commesso dal coniuge o da persona legata, nel passato o al momento del fatto, da relazione affettiva alla persona offesa. Per le lesioni personali soltanto un indennizzo a titolo di rifusione delle spese mediche ed assistenziali “fino a un massimo di euro 3.000”. Dunque, nella “causa pilota” torinese giunta avanti la Cassazione la Presidenza del Consiglio sosteneva che tali interventi legislativi fossero tali da soddisfare le pretese delle vittime. E dunque pure della donna torinese. La tesi sostenuta dal pool di avvocati che la assistono, invece, era che “con tali leggi l’Italia non avesse in nessun modo rimediato al suo inadempimento, ma avesse consegnato alle vittime indennizzi assolutamente irrisori”. Peraltro, aggiungono i legali, “la strada per ottenere tali elemosine di Stato è irta di ostacoli assurdi e vessatori”. Con la legge di bilancio del 30 dicembre 2018 il Governo ed il Parlamento attuali confermavano tale quadro normativo, ancora una volta tradendo le aspettative delle vittime. Dopo diversi rinvii la Cassazione (ordinanza 31 gennaio 2019) decideva infine di rimettere alla Corte di Giustizia la questione se gli indennizzi previsti dal legislatore italiano siano conformi al principio di indennizzo equo ed adeguato di cui alla direttiva del 2004. Sul punto la Cassazione esprimeva il dubbio che non lo siano affatto, affermando che questi indennizzi si collocano nell’“area dell’irrisorio” e l’importo di euro 4.800 per le vittime di violenze sessuale è una somma “palesemente non equa”. Lottare per avere giustizia è diventato per questa giovane donna una delle poche ragioni per cui valesse spendersi. Gli studi di economia e commercio interrotti, la difficoltà a stabilire delle relazioni: ha il sapore dell’insulto l’offerta di 4.800 per ripagare una vita distrutta da quei due connazionali che l’avevano vista ballare in discoteca, una sera di ottobre del 2005, e avevano deciso di rapirla. Una volta uscita dal locale, era salita in auto con due amici e poco dopo sulla strada li aveva affiancati un furgone. Per poco non li faceva finire fuori strada, costringendoli a fermarsi. Erano scesi due ragazzi che avevano aperto la portiera e prelevato di forza la diciottenne, caricandola sul furgone. Gli amici avevano provato a trattenerla, ma gli altri erano stati più forti. Ed erano stati anche più veloci, riuscendo a seminare gli amici che per qualche chilometro li avevano seguiti, mentre chiamavano al telefono le forze dell’ordine. Le indagini avevano poi permesso di scoprire, attraverso l’analisi delle celle telefoniche, che la donna era stata portata in un casolare della Valsusa, dove era stata percossa e stuprata. Al mattino i due l’avevano liberata alla periferia di Torino. Furono poi identificati ma fecero perdere le loro tracce. Condannati in contumacia a 10 anni di carcere, non risarcirono mai la vittima, che, ora ha deciso di fare causa allo Stato innanzi la Corte di Giustizia di Lussemburgo. La parola alla difesa di Massimo Gramellini La Stampa, 21 dicembre 2019 Il tribunale di Asti ha introdotto in via sperimentale una riforma volta a snellire i tempi della giustizia: l’abolizione dell’avvocato difensore. L’idea, un tempo ampiamente dibattuta in ambienti illuminati come l’Unione Sovietica, non era però mai stata messa in pratica da nessuno fino a questa settimana, quando il collegio giudicante di un processo per violenze famigliari ha dato pubblica lettura della sentenza di condanna dell’imputato a 11 anni di reclusione. A quel punto il difensore ha segnalato alla Corte di non avere ancora preso la parola. Altri giudici meno reattivi si sarebbero nascosti sotto lo scranno, cercando di mimetizzarsi con le piastrelle del pavimento. Invece il presidente del tribunale ha incassato il colpo da vero uomo di mondo. Ha stracciato il dispositivo e, rivolto al legale, lo ha invitato a concludere, sottovalutando quanto sia difficile concludere qualcosa che non si è cominciato. Senza contare che per un avvocato dev’essere piuttosto seccante svolgere la sua arringa davanti a tre giudici che non solo hanno già preso la loro decisione, ma l’hanno pure messa per iscritto. Così si è stabilito di rifare il dibattimento, magari avendo cura di scrivere la sentenza soltanto alla fine. La sciatteria e il pregiudizio, dopo avere contagiato larga parte del popolo italiano, hanno raggiunto il luogo dove in nome di quel popolo si amministra la giustizia. Ma, essendo io all’antica, prima di dirlo lascerei la parola alla difesa. Abruzzo. Peggiora notevolmente la situazione di sovraffollamento delle carceri di Maria Cattini laquilablog.it, 21 dicembre 2019 Risulta notevolmente peggiorata la situazione delle carceri abruzzesi in generale e riguardo al numero dei detenuti in particolare. Sono infatti di molto aumentati il numero dei reclusi, compresi quelli stranieri, all’interno degli 8 istituti di pena abruzzesi. Tale situazione contrasta fortemente con l’invariata se non addirittura diminuita presenza di operatori penitenziari. Rispetto a novembre 2018, che lo ricordo raccontava già di una disastrosa e sovraffollata situazione, i detenuti complessivamente presenti nelle carceri della Regione verde d’Europa sono aumentati di ben 88 unità passando dai 1974 ristretti (dei quali 351 stranieri) di allora ai 2062 di oggi (360 stranieri per lo più albanesi (59), rumeni (78), marocchini (49) e nigeriani (27)). Di molto peggiorata risulta essere la situazione a Sulmona ove, a fronte di 375 detenuti sui 303 regolarmente “ospitabili”, oggi se ne contano ben 423 (+48) il che significa un sovraffollamento di ben 120 unità detenute. Stessa sorte per Lanciano ove i detenuti sono aumentati di circa 26 unità (280/254 per una capienza regolamentare di 231 detenuti e quindi +49 in termini di sovraffollamento) e a Pescara ove 21 sono le persone in più presenti rispetto all’anno precedente (399/378 per una capienza regolamentare pari a 273 posti e quindi con un numero di soggetti reclusi rispetto a quello regolamentare di +126 unità). Anche la situazione di Chieti, che già possedeva numeri di tutto rispetto in termini di sovraccarico di persone detenute, risulta ulteriormente peggiorata, seppur di poco, rispetto allo scorso anno. Qui si è passati dai 142 (rispetto alla capienza regolamentare di 79 detenuti) ai 144 di novembre 2019 e quindi con 65 detenuti in sovraffollamento. Seppur in un contesto non assolutamente deflattivo rispetto alla capienza regolamentare e prevista essere di 255 detenuti ospitabili, risulta leggermente anche se quasi del tutto impercettibilmente migliorata la situazione a Teramo. Qui si è passati dai 425 dello scorso anno ai 422 di quest’anno (+ 167 in termini di sovraffollamento). Tornando a guardare in Provincia dell’Aquila troviamo una situazione del tutto invariata all’Aquila 186 rispetto agli stessi del 2018 è un peggioramento delle condizioni numeriche ad Avezzano ove oggi si contano 6 detenuti in più rispetto allo scorso anno (63/57 rispetto ad una capienza regolamentare di 53 posti). Unica nota positiva, seppur relativamente parlando, ci è data dalla Casa Lavoro di Vasto. Essa risulta essere l’unica realtà abruzzese nel 2019 ad aver visto decrescere il numero di “ospiti” -12 rispetto al 2018 (145/157). Volendo trarre le dovute conclusioni possiamo tranquillamente affermare che, fermo restando la la generalizzata situazione negativa che caratterizza la situazione carceraria regionale, la Casa di Reclusione di Sulmona risulta essere tra gli istituti abruzzesi quella con i peggiori coefficienti annuali. A tal proposito giova ricordare che presso il carcere peligno vi è una situazione riguardante il personale di polizia penitenziaria davvero drammatica. Rispetto alla stragrande maggioranza degli istituti abruzzesi ove la garanzia di turni a 6 ore sono al momento solo minacciati o in parte soppressi a Sulmona, da molti anni a questa parte, non si sa più cosa significhi lavorare su 4 quadranti atteso che quasi tutte le turnazioni sono strutturate su 8 ore giornaliere. Di qui, considerati i dati sopra esplicati e quelli che mi appresterò ad integrare, mi sento di affermare senza ombra di dubbio che la “maglia nera” 2019 spetta senz’altro a Sulmona. Questo rappresenta un dato davvero allarmante visto che a breve il penitenziario della città che fu di Ovidio sperimenterà l’apertura di un nuovo padiglione, che importerà ulteriori 200 detenuti e che lo relegherà a massima espressione penitenziaria d’Italia se non d’Europa considerata la peculiarità che ha di vedere ristretti detenuti tra i più pericolosi ed attenzionati d’Italia, molti dei quali ex 41 bis, detenuti AS3 (tutti macchiatosi dei reati di associazione di stampo mafioso e che ricomprende realtà quali cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, mafia nigeriana, stidda) e numerosi collaboratori di giustizia, tutti di prima fascia e quindi tutti sottoposti alla massima esposizione al rischio. Quello che risulta paradossale è che della carenza di organico sulmonese non sembrerebbe essere d’accordo il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria il quale in Sulmona vedrebbe addirittura un soprannumero di agenti se è vero come è vero che ad una richiesta di distacco avanzata da un poliziotto penitenziario di stanza a Rieti lo stesso ufficio sembra abbia risposto negativamente proprio adducendo come motivazione un presunto surplus di poliziotti. Sulmona nel 2019 sarà ricordata anche per il notevole numero di congedi ordinari in arretrato che caratterizza il vissuto del personale di polizia penitenziaria e che supera di gran lunga le 10.000 giornate. Triste è il sapere inoltre di ripetute richieste al personale di cui sopra di rientro anticipato dalle ferie proprio per far fronte alla grave carenza d’organico. A compromettere il già disastroso quadro che ci sta riservando lo scenario penitenziario aquilano del 2019 ci si mette anche l’Asl 1 dell’Aquila, Avezzano e Sulmona la quale, sempre più inspiegabilmente, non concede l’accesso al più avveniristico repartino penitenziario ospedaliero d’Italia, pronto da moltissimo tempo ma non ancora aperto alle numerose esigenze “carcerarie”; la questione caserme vive un rigurgito di compromettenti situazioni. Sia l’Aquila che Sulmona sono alle prese con una riduzione dei posti letto che sta fortemente compromettendo le aspettative dei tantissimi pendolari. Avellino. Indagine sulla morte in carcere di Carmine Taccone la notte di Natale di due anni fa di Andrea Fantucchio thewam.net, 21 dicembre 2019 Respinta la richiesta di archiviazione. Imputazione per la ragazza che fu arrestata con lui. Il Gip, Marcello Rotondi, ha disposto l’imputazione coatta per Rosa Manzo, che fu arrestata con Carmine Taccone, 30enne originario di Avellino, morto in carcere la notte di Natale del 2017 a causa di una overdose da metadone. Il sostituto procuratore, Paola Galdo, aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine. La famiglia del giovane si è opposta grazie all’assistenza legale dell’avvocato Maria Giovanna De Guglielmo. Nell’opposizione si ripercorrono i momenti precedenti al decesso e ci si focalizza su tanti punti d’ombra che ci sono intorno a quella notte. Chi ha somministrato la dose di metadone letale a Carmine? Quando è avvenuta quella somministrazione? Il protocollo sanitario, seguito al momento dell’arrivo in carcere, è stato adeguato? Ora la ragazza, per la quale c’è stata l’imputazione coatta, dovrà difendersi in aula. Nei suoi confronti sono ipotizzati i reati di cessione di stupefacenti e morte come conseguenza di altro reato. Il magistrato - nel documento che motiva la sua decisione - precisa come l’opposizione, presentata dall’avvocato della famiglia Taccone, vada intesa come una denuncia. E quindi possa spingere il Pm a effettuare nuove indagini su aspetti non presi adeguatamente in considerazione fino a ora. Torino. Ipm Ferrante Aporti, dietro le sbarre sempre più giovani italiani di Paolo Coccorese Corriere di Torino, 21 dicembre 2019 Il detenuto più piccolo ha 15 anni. La sua biografia è coperta dalla privacy, ma la sua età è pubblica. Ha quindici anni il più giovane ospite del Ferrante Aporti. Più piccolo di Greta Thunberg, il ragazzino - come tutti gli altri 44 detenuti dell’istituto minorile - ha davanti a sé una sfida importante da vincere. Per sfortuna non è quella ambientale resa celebre della giovane svedese. Dopo la condanna ricevuta, è chiamato a riportare in carreggiata una vita finita troppo in fretta fuori strada. Una partita che dovrebbe veder partecipe l’intera società che, invece, sembra guardare con distacco le sorti delle strutture detentive come quella di Mirafiori. Dietro gli spessi muri del carcere minorile si nascondono le più preoccupanti contraddizioni di questo presente. La prima? Nei primi sei mesi del 2019 al Ferrante Aporti c’è stato un aumento del 450 per cento della presenza di italiani con un’età compresa tra i 14 e i 15 anni rispetto all’anno precedente. Bambini (o poco più) con una lunga fedina penale e un futuro a rischio. Ha ragione don Domenico Ricca, il prete che da 40 anni si occupa del carcere minorile, quando spiega che il Ferrante Aporti rischia di diventare “la periferia della periferia”. La distanza dal centro non si misura solo in chilometri, ma addentrandosi nelle storie personali dei giovani detenuti. Nel primo semestre del 2019 è aumentata del 6 per cento la presenza di quelli nati nel nostro Paese, mentre calano gli stranieri. Ma non solo. Al di là di una comune leggenda metropolitana, ovvero di una vulgata carceraria, gli ospiti per espiazione della pena diminuiscono del 32 per cento. Gli ingressi per custodia cautelare sono saliti in un anno del +89 per cento, mentre si sta assistendo a un cambio di rotta sul capitolo delle imputazioni di chi finisce dietro le sbarre del Ferrante Aporti. Anche se rimane forte la presenza di condannati per delitti contro il patrimonio (furti e rapine, in particolare), negli ultimi mesi c’è stata un’impennata di quelli contro la persona. “Registriamo l’incremento di reati odiosi come maltrattamento in famiglia o tentato omicidio - spiega la direttrice Simona Vernaglione. Sono il simbolo di un disagio sociale che aumenta. Casi non molto presenti nel passato torinese”. Costante il numero di soggetti usciti per collocamento in comunità. Mentre per quanto riguarda i trasferimenti non ci sono notevoli variazioni. A esclusione di quelli verso gli istituti per adulti (+75 per cento). Torino. Lettere dai baby carcerati di Paolo Coccorese Corriere di Torino, 21 dicembre 2019 La Garante dei detenuti lancia la raccolta di regali per i giovani del Ferrante Aporti. “Per non farli sentire soli a Natale”. Il più desiderato è la Playstation. La Playstation è il dono più desiderato dai ragazzi rinchiusi nel Ferrante Aporti. La celebre consolle è una passione condivisa con i coetanei che vivono all’esterno, ma dietro le sbarre del carcere minorile acquisisce un valore inaspettato. “Per anni l’istituto ha bandito i videogiochi. Oggi si è deciso di permetterne l’uso all’interno. Le Playstation non saranno installate nelle “camere”. Questo passatempo deve diventare un premio, uno stimolo per i giovani a comportarsi bene”. Monica Cristina Gallo è la Garante comunale per i diritti dei detenuti. Quest’anno per la terza edizione di “Da noi a loro”, ha deciso di rinnovare la formula dell’iniziativa. Un esperimento nato per “accorciare le distanze tra chi è dentro e chi è fuori” con una raccolta di regali per chi altrimenti rischia di non riceverne. Ma questa volta, per guidare un po’ la solidarietà dei torinesi ed evitare il consueto arrivo di peluche e modellini poco adatti all’età dei carcerati, si è scelto di pubblicizzare una lista dei desideri stilata dagli stessi ospiti del Ferrante Aporti. Ragazzi che nonostante non siano dei bambini (il più piccolo ha, infatti, 15 anni) hanno scritto una lettera a Babbo Natale per provare ad esaudire un desiderio molto meno materiale della Playstation: trascorrere le festività con quel calore familiare in grado di far dimenticare almeno per un giorno le ristrettezze della vita in cella. L’iniziativa è nata durante un pranzo organizzato dalla direzione dell’istituto minorile che ha messo intorno allo stesso tavolo i 44 detenuti (24 i giovani adulti e 20 i minori), gli operatori e i magistrati che si occupano dei reati commessi in questa fascia d’età. Un’occasione speciale dove l’idea di rimodulare la tradizionale raccolta dei doni offerti della città è stata accolta con un grande sorriso dai ragazzi del Ferrante Aporti. “Molto spesso si rischia di dimenticare che sono giovani come tutti gli altri. Con desideri e sogni condivisi simili a quelli dei loro coetanei. Hanno tra i 15 e i 24 anni”. Simona Vernaglione, già direttrice del penitenziario di Bari, è la responsabile del carcere minorile di Torino da agosto. “Non avendo a disposizione grandi risorse, è importante l’aiuto che può arrivare da fuori - spiega Vernaglione. Soprattutto perché con questa iniziativa vogliamo far passare un concetto a questi ragazzi: siete uguali agli altri e potete meritarvi, se rispettate le regole, anche di giocare ai videogiochi come loro”. C’è un po’ di paternalismo in queste parole, ma anche un incoraggiamento a voltare pagina. Nelle lettere scritte idealmente dal Ferrante Aporti c’è dell’altro oltre le consolle da installare negli spazi comuni. “Nei giorni scorsi - aggiunge la garante Monica Cristina Gallo - abbiamo consegnato dei palloni da calcio, mentre stiamo cercando quelli da basket, scarpe da calcetto dal numero 40 al 44, lettori Mp3 senza scheda di memoria”. Per ricevere i regali, l’istituto minorile ha organizzato un servizio di ricevimento ad hoc. Basterà presentarsi ai cancelli di via Berruti e Ferrero 3 con il dono, non impacchettato per consentire i controlli, suonare e annunciare di aver aderito alla campagna per poter entrare. Aprire quel portone è un’azione con un valore in più. Serve a dimostra come il Ferrante Aporti è un luogo della città. Importante come gli alti. E non una vergogna da nascondere. Viterbo. Una convenzione per la mediazione culturale a favore dei detenuti stranieri tusciaweb.eu, 21 dicembre 2019 Gestione dell’attività di mediazione culturale a favore dei detenuti stranieri, firmata a palazzo dei Priori una convenzione tra comune di Viterbo (comune capofila del distretto socio sanitario Vt3) e casa circondariale Mammagialla. A sottoscrivere l’importante documento, lo scorso mercoledì, sono stati il sindaco Giovanni Maria Arena e il direttore dell’istituto penitenziario Pierpaolo D’Andria. Presente alla firma della convenzione, avvenuta nella sala Rossa, anche l’assessore ai servizi sociali Antonella Sberna. “La convenzione - ha spiegato il direttore della casa circondariale D’Andria - ha come oggetto la definizione e la strutturazione di un servizio di mediazione interculturale, rivolto ai detenuti stranieri, con l’intento di migliorare le condizioni di vita degli stessi, mediante azioni volte a facilitare la loro permanenza all’interno dell’istituto penitenziario. Questo prevede anche l’istituzione di uno sportello informativo all’interno della nostra casa circondariale. Ringrazio il sindaco Arena per aver condiviso le finalità di questa convenzione che stiamo per sottoscrivere e che vede in primo piano comune e casa circondariale, e un ringraziamento all’assessore Sberna per il percorso avviato insieme pochi mesi fa, e che oggi concretizziamo attraverso la firma di questa convenzione”. “Alla base di alcuni diverbi ed episodi di intolleranza tra detenuti ci sta spesso l’incomprensione - ha sottolineato il sindaco Arena. Parlo di incomprensione linguistica. Così come ci stanno le differenze culturali. I servizi che verranno portati avanti attraverso l’attività di mediazione interculturale sono certo porteranno benefici sia dentro l’istituto penitenziario, nel periodo in cui il detenuto sconta la pena, sia fuori dal carcere, una volta libero, nella fase del reinserimento nel contesto sociale”. Tra gli obiettivi della convenzione rientrano anche un adeguato supporto linguistico e informativo, finalizzato alla conoscenza dei propri diritti in ambito giuridico, sanitario e sociale, culturale e religioso, il miglioramento delle relazioni del detenuto con gli operatori penitenziari, socio sanitari e con gli altri detenuti, la semplificazione amministrativa, in particolar modo nella cura dei rapporti del detenuto con le ambasciate e i consolati di provenienza. E ancora a sostenere iniziative, individuali e non, quali azioni di supporto a percorsi lavorativi, formativi o in generale volti al reinserimento sociale e allo sviluppo di progetti di integrazione e di informazione. “Questa convenzione è indubbiamente una risposta forte alle esigenze di una buona parte della popolazione detenuta - ha affermato l’assessore Sberna. È un documento che fa seguito a quanto ci eravamo detti con il sindaco Arena e il direttore dell’istituto penitenziario D’Andria in occasione del consiglio straordinario dedicato alla situazione della casa circondariale Mammagialla. Attraverso un lavoro costante, portato avanti in questi mesi, abbiamo raggiunto questo risultato. Un risultato che ci vede tra i primi distretti socio sanitari del Lazio a essere prossimi all’avvio del servizio. Ringrazio gli uffici per il solerte e prezioso lavoro che ci ha portato oggi a ufficializzare una preziosa e proficua collaborazione in ambito sociale”. Andria (Bat). Natale “Senza Sbarre” è felicità Gazzetta del Mezzogiorno, 21 dicembre 2019 “Il Natale è una magnifica occasione per conoscere l’impegno dei nostri fratelli detenuti e del progetto Senza Sbarre”. È, come sempre un vulcano di bontà, don Riccardo Agresti mentre racconta del progetto in corso nella parrocchia di San Luigi al Monte a pochi passi da Castel del Monte ad Andria. Hanno allestito qualcosa che va oltre la speranza. “Abbiamo mercatini di Natale e le casette sono state fatte interamente dai ragazzi affidati al progetto. Lo stile è quello del Trentino e lo scopo è quello non solo di aggregare tutti i casari della Murgia ma anche di mettere anche in vendita quelli che sono i prodotti che i nostri fratelli carcerati portano avanti ogni giorno”, ha precisato don Riccardo. “Pasta, taralli, verdure dei campi e tanto altro è nelle casette e sicuramente potranno essere degli alimenti ottimi per il Natale. Questo sta ad indicare che il lavoro è essenziale ed è fondamentale per fare emergere la dignità di ognuno di loro - ha proseguito. Il mercatino è aperto ogni sabato e ogni domenica e poi durante il tempo di Natale, dal 22 al 26 anche la mattina in modo tale che ci si possa fare una passeggiata e vedere l’integrazione dei nostri fratelli detenuti con la comunità e comprendere come la possibilità della misura alternativa al carcere sia assolutamente fondamentale per loro e per noi. A questo aggiungo che, ragionando, secondo i criteri della carità, è possibile trovare tanti elementi per vivere meglio il Natale. Vi aspetto”. Buon cibo ed integrazione - La Masseria “San Vittore” ed il pastificio “A mano libera” sono parte del progetto della diocesi di Andria “Senza sbarre” per l’inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti. L’iniziativa portata avanti da don Riccardo Ag resti ha trovato l’apprezzamento de vescovo di Andria. “L’idea centrale di questo progetto diocesano è di occuparsi di eseguire la misura alternativa al carcere in comunità attraverso l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti”, dice don Riccardo. Il valore della cultura - “Nel nostro mercatino potrete trovare anche il libro “Senza Sbarre” del magistrato Giannicola Sinisi”. Così don Riccardo Agresti, responsabile del progetto che porta lo stesso nome del lavoro redatto dall’ex sindaco di Andria. “Crediamo molto anche nel valore della cultura come strumento di comprensione di fenomeni sociali che portano al delinquere - ha proseguito don Riccardo. Riflettere a Natale su tutto questo è di assoluta importanza per tutti noi”. Latina. Libri ai detenuti, successo per l’iniziativa della Camera Penale latinaoggi.eu, 21 dicembre 2019 Raccolti 161 volumi. Lunedì è prevista la seconda giornata. Il successo dell’iniziativa è stato inaspettato. In poche ore sono stati raccolti ben 161 volumi ed è un numero che ha sorpreso positivamente tutti, a partire dalla Camera Penale di Latina Giorgio Zeppieri che ha organizzato l’iniziativa. Sono i libri che saranno donati in occasione delle festività natalizie ai detenuti della casa circondariale di via Aspromonte. “Il carcere è fatto di sbarre e i libri allargano gli orizzonti - ha spiegato il presidente della Camera Penale Domenico Oropallo - è un messaggio che può sembrare retorico ma la cultura è la chiave di volta”. Qualcuno ha portato libri di Luciano De Crescenzo, altri di Tolstoj e non sono mancati anche i classici. “Abbiamo lanciato un sasso nello stagno - ha detto il segretario della Camera Penale Maurizio Forte - e crediamo fortemente in questa iniziativa”. Lunedì è previsto il secondo giorno di raccolta all’ingresso del Tribunale: si inizia alle 9,30 e si finisce alle 12,30. L’appello lanciato dalla Camera Penale è stato pienamente raccolto. Era rivolto a tutti gli operatori del diritto e non solo. “Ribadiamo il nostro invito verso tutti i colleghi ma anche i magistrati, i dipendenti e i dirigenti del Tribunale di Latina - avevano spiegato dalla Camera Penale - di partecipare ancora più numerosi”. In un caso questa mattina una signora che ha preferito l’anonimato, si è presentata con molti libri rilegati, il suo è stato un gesto dettato dalla dolcezza e dal cuore, hanno raccontato diversi avvocati che hanno assistito alla donazione. “Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti ma perché nessuno sia più schiavo”, è la frase presa in prestito a Gianni Rodari dai penalisti pontini per questa nobile iniziativa portata a termine grazie alla sensibilità della direttrice del carcere di Latina Nadia Fontana. Nella foto gli avvocati con i libri che sono stati donati oggi. Catanzaro. “Adotta un’aiuola”. I detenuti hanno piantato le stelle di Natale lanuovacalabria.it, 21 dicembre 2019 Torna anche per il Natale 2019 l’iniziativa solidale “Adotta un’aiuola” che ha già unito lo scorso anno il carcere di Catanzaro e l’associazione Universo Minori, attiva per facilitare i rapporti tra i genitori detenuti e i loro figli. Le persone recluse presso la Casa Circondariale hanno simbolicamente partecipato all’iniziativa dell’Ail (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma Onlus) piantando giovedì scorso le stelle di Natale, emblema della lotta contro la leucemia, in un’aiuola della Casa Circondariale all’ingresso delle sezioni detentive. Il valore dell’iniziativa è quello di creare una connessione tra il carcere e la comunità esterna: durante il mese di dicembre 2019 le piantine sono state vendute in tutta Italia a scopo benefico, nelle piazze e nelle strade. Adesso sono arrivate anche qui. La direttrice dell’Istituto Angela Paravati spiega: “Le stelle di Natale ricordano a chi è in carcere che spesso anche chi è fuori sta combattendo altre lotte: molte persone trascorrono lunghi mesi in ospedale senza poter tornare a casa, e trascorreranno il Natale lontano dalle loro famiglie, senza alcuna colpa, e solo con la speranza di poter vivere ancora. Le stelle di Natale ci ricordano che finché c’è vita le cose possono cambiare, e non si deve mai smettere di crederci”. Anche la presidente dell’associazione Universo Minori Rita Tulelli si è soffermata sul significato della manifestazione: “L’associazione organizza spesso in collaborazione con il carcere di Catanzaro iniziative a favore dei figli di genitori detenuti, perché i bambini sono spesso la motivazione migliore per iniziare una vita migliore. E una vita diversa passa anche dall’attenzione al prossimo e dalla partecipazione a iniziative solidali come la raccolta fondi tramite la distribuzione delle stelle di Natale dell’Ail, manifestazione che permette ogni anno di finanziare progetti di ricerca scientifica e di assistenza sanitaria”. Frosinone. I libri liberano chi sta in carcere o in situazioni di disagio di Cristina Papitto retisolidali.it, 21 dicembre 2019 L’esperienza dell’associazione Oltre l’Occidente a Frosinone, che porta la cultura nel carcere, nelle Rems, nel Centro di salute mentale. Incontriamo l’associazione Oltre l’Occidente di Frosinone, ospitata nello spazio della Regione Lazio di Più Libri più Liberi, Fiera nazionale della piccola e media editoria, per presentare il progetto Costruire Memoria, nato per portare la lettura e la scrittura tra le persone svantaggiate e finanziato con fondi del bando “Io Leggo” della stessa Regione Lazio. Incontriamo il presidente, Paolo Iafrate, che ci racconta l’attività della biblioteca di Oltre l’Occidente: una biblioteca privata, ma che rientra nell’Obr (Organizzazione Bibliotecaria Regionale) e svolge attività presso i settori emarginati del territorio di riferimento. La biblioteca e il territorio. “L’associazione”, racconta Iafrate, ha sede nel centro storico di Frosinone, ed è un punto di riferimento da 25 anni per le persone che vogliono trascorrere delle ore insieme o fare attività culturali”. Negli anni l’associazione è diventata una biblioteca con oltre 20.000 monografie, materiale sulle scienze sociali e la storia e un fondo locale di circa 1500 testi, ma è importante il fatto che, “nel corso del tempo, ha sviluppato una serie di relazioni con il territorio: inizialmente con il Centro di salute mentale, in particolare con il centro diurno dell’Asl di Frosinone, con il quale da sempre collabora sia attraverso delle attività, come il cineforum, sia attraverso l’integrazione di alcune persone all’interno dell’associazione, per attuare dei progetti o micro progetti lavorativi. Inoltre nel 2017, quando è stata riconosciuta regionalmente, la biblioteca ha iniziato delle progettualità con la Rems di Ceccano e con la casa circondariale di Frosinone”. I libri in carcere. Nello stesso anno l’associazione ha infatti proposto al carcere di Frosinone di svolgere al proprio interno una parte del progetto Costruire Memoria. “È così, che ci è stato proposto di ricostituire la biblioteca di circa 6 mila volumi, che si trovava nel carcere, ma non era utilizzata. Da lì è nata una collaborazione, continua e valorizzata”, continua Iafrate. “L’obiettivo nostro sarebbe di riuscire a realizzare quello che hanno fatto a Roma con la biblioteca del carcere, che è stata riconosciuta all’interno del circuito delle biblioteche romane e in cui ci si può avvalere anche del prestito dello scambio dei libri con l’esterno”. Grande aiuto è stato dato dalle volontarie del Servizio civile nazionale che hanno collaborato sia alla Rems, sia nel carcere, sia nel centro diurno. “L’attività principale nella casa circondariale è stata svolta intorno alla rinascita della biblioteca della struttura stessa”, racconta Marta Mancini, volontaria in servizio civile, con competenza in Sociologia della devianza. “Ovviamente con tutte le problematiche alle autorizzazioni che, come potete immaginare, in un ambiente del genere non è semplice ottenere. Abbiamo catalogato i libri presenti all’interno, per arrivare alla fine alla stampa del catalogo. Tutto ciò è stato possibile grazie alla collaborazione di detenuti volontari, che si sono occupati e si occupano tuttora anche del servizio del prestito e di ritiro dei testi. Quello che noi abbiamo fatto, è stato di entrare all’interno della casa circondariale in punta di piedi e cercare di abbracciare una realtà detentiva, che fa riferimento alle persone private della libertà personale. La biblioteca è stata potenziata e oltre a questa, abbiamo riattivato anche altri due punti lettura già esistenti ma non funzionanti, all’interno di altri due reparti. Abbiamo creato un prestito interbibliotecario, affinché tutti i detenuti potessero avere accesso ai libri”. L’attività in carcere prevede anche alcuni laboratori artigianali che, spiega Mancini, “mettono in risalto le qualità artistiche dei detenuti, oltre a un laboratorio di musica, poesia e teatro. Questi laboratori sono per i detenuti momenti di socializzazione, così come la biblioteca”. Oltre a questo, le volontarie in servizio civile si sono occupate anche della stesura di libri perché, spiega “in carcere ci sono molti detenuti lettori accaniti, che hanno loro stessi scritto libri, che riguardano proprio la loro vita da detenuti”. La continuità. “Il nostro è sì un approccio volontario, legato a una spinta che coltiviamo all’interno della nostra associazione Oltre l’Occidente”, aggiunge Paolo Iafrate, però il valore e il riconoscimento di quello che facciamo è dato anche dalla continuità del lavoro, che abbiamo svolto con queste strutture. Queste sono strutture chiuse: non è semplice farsi aprire le porte e non solo in senso figurato. Vi faccio un esempio: l’unica attività reale è la scuola, che però può accogliere solo una piccola parte dei 700 detenuti e chi richiedere di seguirla, deve superare una selezione da parte del personale. All’interno del carcere, c’è una direzione amministrativa, un’area educativa e un’amministrazione. Quale è stato il riconoscimento che va dato a Marta e alle varie persone che hanno collaborato? il fatto di riuscire oggi ad essere interlocutori della struttura carceraria”. Le attività nella Rems. “Amo questo tipo di lavoro”, spiega Marta, “che è in realtà uno stile di vita, in quanto per me è fondamentale la libertà e l’idea di socializzazione e di reinserimento attraverso attività creative”. Lei e le altre collaborano anche con la Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), dove svolgono corsi di rialfabetizzazione per gli adulti ospiti della struttura, italiani e soprattutto migranti. “Svolgiamo materie non soltanto relative alla didattica italiana e alla letteratura, ma anche altre di argomenti quali l’inglese la matematica, che sono le materie di cui gli ospiti hanno molto piacere ad interessarsi. È proprio durante il corso di alfabetizzazione, che abbiamo notato il bisogno di un supporto multimediale. Così, grazie a contributi arrivati su bandi della regione Lazio, abbiamo potuto donare alla struttura strumenti multimediali ed informatici oltre che ludici, come ad esempio una play station, un biliardino, un videoproiettore. Per la socializzazione è importante la fruizione di questi strumenti da parte degli ospiti anche quando i volontari non sono presenti, nostro compito è attivare processi di stabilizzazione delle attività e strumenti proposti, anche se non disertiamo la partecipazione al karaoke mensile”. Conclude Paolo Iafrate: “Una Rems non è un carcere, è una struttura residenziale. In provincia di Frosinone ce ne sono due: una a Ceccano, che ospita almeno 20 uomini, e una a Pontecorvo, che ospita 12 donne. La Rems è una struttura accogliente, diciamo così: non ci sono le guardie penitenziarie, ci sono dei vigilanti privati che svolgono in maniera discreta quelle le attività di sorveglianza, non ci sono eccessivi muri, ma ci sono ovviamente delle recinzioni. Siamo però in presenza di situazioni abbastanza articolate e molto gravi, non solo perché ci sono alcuni reati di un certo rilievo, ma anche perché le persone sono abbandonate in queste strutture da decenni. Abbiamo trovato persone, che hanno vissuto tanta parte la loro vita in queste strutture, che hanno strumenti culturali, ma una capacità di socializzazione ormai molto attenuata”. Mattarella premia 32 cittadini che si sono distinti per l’impegno nella società La Repubblica, 21 dicembre 2019 Il presidente conferisce per la quinta volta i riconoscimenti al merito della Repubblica agli “eroi del quotidiano”. Eroi del quotidiano, ovvero cittadine e cittadini che si sono distinti per l’impegno nella solidarietà, nel soccorso, nella cooperazione internazionale, nella tutela dei minori, nella promozione della cultura e della legalità, per le attività in favore della coesione sociale, dell’integrazione, della ricerca e della tutela dell’ambiente o per atti di eroismo. Anche quest’anno, è la quinta volta che accade, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di conferire, motu proprio, trentadue onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a persone, tra i tanti esempi presenti nella società civile e nelle istituzioni, che si sono segnalate come casi significativi di impegno civile, di dedizione al bene comune e di testimonianza dei valori repubblicani. L’annuncio è stato dato da una nota del Quirinale che ha quindi diffuso l’elenco dei premiati. Alessandra Rosa Albertini, 68 anni (Pavia), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la esemplare generosità con cui ha sostenuto, in prima persona, la ricerca scientifica ribadendo il suo strategico valore per il futuro del nostro Paese”. Biologa genetista, ha lavorato all’Università per 40 anni e da gennaio 2019 è in pensione. Dal 2012 è stata direttrice del dipartimento di Biologia e Biotecnologie allo “Spallanzani” di Pavia, dove era entrata nel 1970 con un assegno di addestramento scolastico e scientifico. Nel febbraio 2019, ha donato all’Università 250mila euro da utilizzare per cofinanziare le posizioni di ricercatori a tempo determinato, junior, e di assegnisti di ricerca. Gaetano Angeletti, 76 anni (Corridonia-MC), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo quotidiano impegno nel sostegno alle famiglie con problemi di disagio giovanile e nel contrasto alla tossicodipendenza”. Pensionato, già titolare della tipografia Taf srl e presidente dell’Associazione “La Rondinella” di Corridonia. Nel 2005 il figlio Manolo, di 30 anni, muore per un’overdose di cocaina. Questa tragedia è alla base del suo impegno, insieme alla moglie Gabriella, per la fondazione e promozione dell’Associazione “La Rondinella”. La Onlus ha l’obiettivo di sostenere le famiglie con problemi di disagio giovanile legato alla dipendenza da droghe. Nel 2016, a causa del terremoto, la sede dell’Associazione è stata ritenuta inagibile ma le attività di aiuto alle famiglie sono proseguite nella sua tipografia. Pompeo Barbieri, 25 anni (San Giuliano di Puglia - CB), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo encomiabile esempio di reazione alle avversità e di impegno sociale”. Il 31 ottobre 2002, giorno del crollo della scuola “F. Jovine” di San Giuliano di Puglia, frequentava la classe terza elementare. Estratto vivo dalle macerie è stato ricoverato per gravi danni da schiacciamento e gli è stata riscontrata la lesione del midollo che lo costringe su una sedia a rotelle. Nel 2013, insieme ad altri sopravvissuti di quel tragico crollo, ha fondato l’Associazione di volontariato “Pietre Vive” che “nasce dal desiderio di gratitudine per il dono della vita perché ciò che ci era stato regalato potesse diventare un dono per gli altri”. Tramite l’Associazione finanzia progetti di grande rilevanza sociale in Italia e all’estero. Grazie alle terapie riabilitative in piscina ha scoperto la passione per lo sport diventando campione di nuoto paralimpico. Il 4 marzo 2019 ha vinto due medaglie d’oro nei 50 metri e 100 metri stile libero ai Campionati assoluti invernali nuoto paralimpico. Suor Gabriella Bottani, 55 anni (Milano), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la totale dedizione con cui da anni è impegnata nella prevenzione, sensibilizzazione e contrasto alla tratta degli esseri umani”. Suora comboniana, per anni in missione in Brasile, è la coordinatrice di “Talitha Kum”, una rete internazionale contro la tratta di esseri umani di iniziativa dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali. Talitha Khum opera in 77 Paesi, con oltre duemila suore impegnate in prima linea per realizzare attività di contrasto ai trafficanti, per lavorare nel recupero e reinserimento, anche sociale e lavorativo, delle vittime. Christian Bracich, 44 anni (Trieste), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo esemplare contributo nella promozione di politiche aziendali fondate sulla conciliazione tra vita professionale e familiare e sulla tutela del valore della persona anche nel mondo del lavoro”. Amministratore Unico della Cpi-Eng, azienda triestina di ingegneria e progettazione meccanica con circa 40 dipendenti. Christian nel 2005 ha dato vita alla Cpi-Eng Srl con l’idea che “per crescere bisogna innovare, investire in nuove idee e proporre servizi innovativi”. Nell’aprile 2018 ha trasformato un contratto a tempo determinato di una dipendente in attesa di un figlio in uno a tempo indeterminato con un aumento di stipendio. L’azienda si distingue per una attenta politica di conciliazione. In assenza di un nido, ha stabilito un accordo con una associazione culturale triestina che cura uno spazio di coworking con educatrici dedicate ai bambini. Bracich considera il welfare una importante leva strategica aziendale e il dipendente una risorsa da formare e valorizzare. Romolo Carletti (noto come Romano), 84 anni (Montemignaio - FI), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per lo straordinario esempio di generosità e solidarietà che lo ha visto ogni giorno accompagnare a scuola un bambino non vedente altrimenti impossibilitato a frequentarla”. Pensionato. Vive in una zona montana, nella piccola frazione della Consuma, nel comune di Montemignaio. Tutte le mattine accompagna e riprende da scuola Xhafer, un bambino macedone di 7 anni, non vedente dalla nascita che vive con la famiglia in una casa vicina. Il padre di Xhafer lavora come taglialegna e già dall’alba è nei boschi, la madre non ha la patente. Lo scuolabus non è utilizzabile senza una specifica assistenza che al momento non è stato ancora possibile predisporre. La scuola è a Pelago, e per Romano sono 60 km al giorno di curve e tornanti tra gli abeti. Elisabetta Cipollone, 57 anni (Milano), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo encomiabile impegno, in memoria del figlio Andrea, per garantire l’accesso all’acqua potabile in Paesi disagiati”. Nel 2011 ha perso il figlio Andrea, di 15 anni, in un incidente stradale. In sua memoria ha dato vita ad un progetto volto a raccogliere fondi per realizzare pozzi di acqua potabile in Etiopia. L’idea è nata dai disegni di Andrea, da bambino, dedicati al tema dell’acqua. Quando, dopo la morte del ragazzo, entrò in contatto con i salesiani impegnati in Etiopia con il Volontariato internazionale per lo sviluppo (VIS), Elisabetta decise che avrebbe aperto “Un pozzo per Andrea” (da cui ha preso nome il progetto). Dall’inizio del progetto sono stati aperti 24 pozzi e altri sono in cantiere. Maria Coletti, 50 anni (Roma), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per l’appassionato e coinvolgente contributo a favore di una politica di pacifica convivenza e piena integrazione” Rappresentante dell’Associazione “Pisacane 0-11”, formata da genitori dei bimbi che frequentano la scuola dell’infanzia e primaria Carlo Pisacane, nel quartiere di Torpignattara di Roma, uno degli istituti italiani con il maggior numero di studenti “stranieri” (molti dei quali sono nati in Italia). L’Associazione è nata nel 2013 dalla necessità di supportare la scuola con progetti e attività aperti anche al territorio, alla comunità del quartiere. I volontari dell’associazione, nell’ambito del doposcuola autogestito, si impegnano soprattutto nel supportare nell’apprendimento dell’italiano e nell’aiutare con i compiti i bambini con genitori stranieri che non parlano bene la nostra lingua. Giovanna Covati, 58 anni (Piacenza), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per lo straordinario coraggio e altruismo con cui, senza esitazione, ha protetto, con il proprio corpo, una bambina dal violento impatto con un trattore fuori controllo”. Nell’agosto 2018, nella località Le Rocche, sulle colline di Bobbio (Piacenza), in occasione della vendemmia, un trattore fuori controllo, senza alcun conducente, sbanda in un vigneto. Giovanna Covati si trovava nel vigneto, vicino a lei c’era una bambina, Caterina. Quando il trattore si avvicina, Giovanna si butta d’istinto su Caterina facendole da scudo mentre il trattore le investe. Caterina si salva mentre Giovanna subisce fratture e lesioni da schiacciamento. In prognosi riservata giunge all’ospedale di Parma, reparto rianimazione. Dopo 50 giorni è cominciata la riabilitazione. Samba Diagne, 52 anni (Senegalese) Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo prezioso contributo in soccorso di un caporalmaggiore dell’esercito italiano aggredito con delle forbici e ferito dall’attentatore a Milano”. Giunto in Italia quasi 30 anni fa. Dopo aver svolto diversi lavori, da circa 4 anni è occupato come addetto alla sicurezza in alcuni negozi milanesi. Padre di cinque figli. Nel settembre 2019 è intervenuto in soccorso del caporalmaggiore dell’Esercito Matteo Toia, aggredito con delle forbici e ferito da Mohamad Fathe in Piazza Duca d’Aosta a Milano. Mentre l’aggressore cercava di darsi alla fuga, Samba è riuscito a fermarlo e disarmarlo. L’aggressore è stato poi arrestato. Giuseppe Distefano, 70 anni (Riposto - CT), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la sua dedizione e il suo encomiabile impegno nella divulgazione e promozione della cultura del dono degli organi”. Pensionato, già dirigente scolastico in Istituti superiori del vicentino. Trenta anni fa, a seguito di un incidente stradale, ha perso il figlio di 15 anni, Luigi. Insieme a sua moglie decisero di acconsentire all’espianto degli organi. Da allora si è impegnato nell’Associazione Italiana per la Donazione di Organi (Aido), anche in qualità di referente regionale. Organizza incontri nelle scuole con lo scopo di sensibilizzare i giovani sul valore della vita e sulla “cultura del dono”. Emanuela Evangelista, 51 anni, Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo costante impegno, in ambito internazionale, nella difesa ambientale, nella tutela delle popolazioni indigene e nel contrasto alla deforestazione”. Biologa, è Presidente di Amazonia Onlus e Vicepresidente dell’Associazione Trentino Insieme. In Amazzonia dal 2000, anno in cui scrisse la sua tesi di laurea, vi si è trasferita nel 2013. Vive in un villaggio della tribù dei Caboclos, regione dello Xixuaù nel cuore della foresta, nello stato brasiliano di Roraima. È impegnata in progetti di cooperazione volti a favorire la conservazione della foresta e il contrasto all’esodo dei nativi. Il suo contributo è stato determinante per la costruzione della scuola e dell’ambulatorio. Marco Giazzi, 26 anni (Castiglione delle Stiviere - MN), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo esempio e l’ammirevole contributo nell’affermazione dei valori della correttezza sportiva e della sana competizione nel mondo dello sport”. Rappresentante dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Alto mantovano e allenatore della squadra “Amico Basket” di Carpenedolo, della categoria Under 13. Durante una partita in casa contro la squadra Negrini Quistello, in seguito a proteste e insulti dei genitori della squadra avversaria nei confronti dell’arbitro (di soli 14 anni), ha chiamato il time out chiedendo ai genitori di smettere di protestare. Non avendo ottenuto i risultati sperati ha ritirato i propri ragazzi nonostante il vantaggio di 10 punti. Ha spiegato “non hanno perso i ragazzi in campo ma il basket, lo sport”. Dino Impagliazzo, 89 anni (Roma), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la sua preziosa opera di distribuzione di pasti caldi e beni di prima necessità ai senzatetto presenti in alcune stazioni ferroviarie romane”. Ex dirigente INPS in pensione. A Roma è conosciuto come “lo Chef dei poveri”. Ha cominciato molti anni fa preparando dei panini per i senzatetto della stazione Tuscolana di Roma. La portata del suo impegno sociale è cresciuta, grazie all’aiuto di familiari, vicini e parrocchie, finché nel 2006 ha fondato l’Associazione (che dal 2015 si chiama Romamor) che riunisce circa 300 volontari e garantisce pasti per oltre 250 persone al giorno grazie a prodotti alimentari invenduti o in prossima scadenza, che riceve gratuitamente da negozi, supermercati o dalla grande distribuzione. Claudio Latino, 59 anni (Aosta), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per lo straordinario impegno e la dedizione ai valori del volontariato in favore delle persone in condizioni di disagio”. Lavora presso la Direzione regionale Valle d’Aosta di Trenitalia. Da sempre impegnato nel sociale: dal 2016 al 2017 è stato segretario nazionale dell’Aido (Associazione italiana per la donazione di organi); dal 2017 è Presidente del CSV (Centro di Servizio per il Volontariato) della Valle d’Aosta. CSV è un’Associazione che riunisce 88 tra le 161 organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale attive in Valle d’Aosta. Donato Matassino, 85 anni (Ariano Irpino-AV), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo generoso contributo per il sostegno al diritto allo studio per i bambini nei Paesi svantaggiati e per la promozione della ricerca scientifica in Italia” Già Professore ordinario di Zootecnica dell’Università “Federico II” di Napoli. È fondatore e Presidente del Consorzio per la Sperimentazione, Divulgazione e Applicazione di Biotecniche Innovative (ConSDABI). Dal 2007, sempre con fondi propri, finanzia premi per giovani laureati e dottori di ricerca. Ha erogato 140mila euro all’Accademia dei Georgofili e 40 mila euro alla Associazione scientifica di Produzione Animale (ASPA) per il riconoscimento di premi annui. Stefano Morelli, 42 anni (Roma) Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il prezioso contributo che offre in ambito internazionale operando gratuitamente bambini affetti da labiopalatoschisi, ustioni e traumi di guerra”. Laureato in medicina e specializzato in anestesia e rianimazione. Assunto all’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma come cardio-anestesista pediatrico, ha iniziato contemporaneamente a coordinare le attività Anestesiologiche e di Rianimazione della ONG Emergenza Sorrisi, operando gratuitamente bambini affetti da labiopalatoschisi, ustioni e traumi di guerra. Da dodici anni organizza missioni in: Africa, Medio Oriente, Europa dell’Est, Sud Est Asiatico, Sud America e America Centrale. Nel corso di queste missioni svolge anche attività di formazione ai medici ed infermieri locali. Alfredo Murgo, 52 anni (L’Aquila), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo contributo, quale libraio, nella tenuta della coesione sociale della comunità aquilana duramente colpita dai terremoti del 2009 e del 2016”. Titolare della libreria “Il Cercalibro” de L’Aquila. È stato il Coordinatore regionale di una distribuzione gratuita di libri per 1.500 studenti in stato di difficoltà nelle aree colpite dal terremoto del Centro Italia. L’iniziativa, che è nata da un accordo tra editori, Associazione librai italiani e Ministero dell’Istruzione, ha voluto riconoscere il ruolo fondamentale delle librerie sul territorio come punto di riferimento per una comunità. Greta Reinberg Mastragostino, 89 anni (Genova), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per portare avanti con passione e dedizione il servizio dell’associazione, fondata dal marito, Silvano Mastragostino, impegnata nel recupero chirurgico-ortopedico di bambini ed adolescenti in due missioni del Kenya”. Presidente dell’Associazione Silvano Mastragostino, già Genova Ortopedia per l’Africa (G.O.A), fondata nel 1996 dal marito, Silvano Mastragostino, all’epoca Primario della 2 divisione di Ortopedia e Traumatologia dell’Istituto Pediatrico Giannina Gaslini di Genova. Mauro Pelaschier, 70 anni (Monfalcone - GO), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo autorevole contributo nella sensibilizzazione al rispetto e alla tutela degli ecosistemi marini”. Tra i nomi più noti della vela italiana, già timoniere (1983) di Azzurra, la prima barca italiana in America’s Cup. Il 29 giugno 2018 ha compiuto il periplo d’Italia a vela come ambasciatore della Fondazione One Ocean per testimoniare il rispetto degli ecosistemi marini e diffondere la Charta Smeralda, un codice etico di comportamenti virtuosi per la conservazione dell’ambiente marino. È testimonial Telethon. Giacomo Perini, 23 anni (Roma), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la sua straordinaria testimonianza in prima persona della forza e delle difficoltà proprie dei pazienti oncologici”. Atleta paralimpico, è il rappresentante legale dell’Associazione Cresos. Dal primo giorno di ospedale, ha cominciato a scrivere un libro, dal titolo “Gli anni più belli”, edito dall’Associazione italiana medicina da cui è nato anche un docufilm. Ha realizzato uno spettacolo teatrale “I fuori sede” che dà voce ai malati di cancro e testimonia il dolore ma anche la forza e l’energia necessarie per affrontare la malattia. Nonostante la malattia lo abbia costretto ad abbandonare l’equitazione, sua grande passione, non ha abbandonato l’attività sportiva ed oggi fa parte della Nazionale paralimpica di canottaggio. Lavora al Coni presso la Federazione Triathlon, settore paralimpico, gira per le scuole per parlare ai ragazzi della propria esperienza e portare loro un messaggio di speranza e resilienza. Angelo Pessina, 57 anni e Francesco Defendi, 55 anni (Bergamo), Ufficiali dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il coraggio e l’altruismo con cui, a proprio rischio, sono intervenuti in soccorso dei passeggeri del velivolo privato che, nel settembre 2019, in provincia di Bergamo, è precipitato al suolo, prendendo fuoco”. Nel settembre 2019, Pessina, già ispettore della Polizia di Stato e Defendi, già dipendente di una società di costruzioni metalliche, hanno visto davanti all’Aeroclub Taramelli il velivolo privato Mooney M-20, appena precipitato al suolo. Nonostante le fiamme e il fumo intenso, hanno aperto le portiere e tirato fuori il pilota, Stefano Mecca, e le figlie Chiara e Silvia. Purtroppo, a seguito delle deflagrazioni, non sono riusciti ad estrarre la terza figlia, Marzia, che, incastrata tra le lamiere, già non dava segni di vita. A seguito delle ferite riportare, il 28 ottobre scorso, è deceduto anche il Signor Stefano Mecca. Massimo Pieraccini, 56 anni (Firenze), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo encomiabile contributo, la cura e la costanza con cui da anni è impegnato nelle delicate attività di trasporto urgente connesse a donazione e trapianto di organi”. Dal 1993 è il rappresentante legale del Nucleo Operativo di Protezione Civile di Firenze (Nopc), Associazione di volontariato, da lui stesso fondata, che presta servizi in relazione al trasporto urgente di medici per prelievi d’organo, campioni per tipizzazioni tissutali, plasma, midollo osseo e altri materiali biologici e sanitari, nonché farmaci salvavita e pazienti trapiantandi. È un “angelo dei trapianti”. Nell’ottobre 2018 il Nopc ha raggiunto il traguardo delle 10mila vite salvate in 25 anni di attività. Giuseppe Pistolato, 93 anni (Venezia), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per l’impegno profuso, nel corso della sua vita, nella promozione del valore della solidarietà”. Pensionato e vedovo, è conosciuto come “Bepi”, il diacono operaio. Ha lavorato per 40 anni nel cantiere navale Breda di Porto Marghera, prima come ribattitore e poi come carpentiere. Nel 2018, dopo 21 anni, ha concluso il suo servizio di carità nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. Nella diocesi veneziana, è il primo diacono permanente ad essere entrato in una struttura penitenziaria. Ogni giorno, per venti anni, ha dedicato due ore del suo tempo ai detenuti all’interno del carcere. Paolo Pocobelli, 48 anni (Milano), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la forte testimonianza offerta e l’instancabile contributo alla rimozione dei limiti e alla promozione di una politica di pari opportunità per le persone con disabilità rispetto alle attività di volo”. Appassionato di volo, a 22 anni di età, durante un lancio con il paracadute, ha subito un incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Nonostante la disabilità, non ha mai rinunciato al sogno di volare: è stato il primo paraplegico in Italia ad ottenere tutte le licenze di volo (sportiva, privata e commerciale) e, nel 1993, ha fondato l’Associazione “Ali per tutti” per permettere ai portatori di handicap di prendere il brevetto per guidare velivoli ultraleggeri o di aviazione generale con piccole modifiche strutturali. Tiziana Ronzio, 49 anni (Roma), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per l’impegno e lo spirito di iniziativa con cui si dedica alla riqualificazione strutturale e sociale del quartiere di Tor Bella Monaca a Roma”. Operatrice sanitaria, abita nel quartiere di Tor Bella Monaca, a Roma, in una delle torri dell’Ater di 15 piani di Viale Santa Rita da Cascia, per anni uno spazio utilizzato dagli spacciatori. Nel 2015 ha fondato l’Associazione “Tor più Bella” con cui ha realizzato iniziative per riqualificare, dal punto di vista strutturale ma anche sociale, la torre - attraverso piccoli interventi di manutenzione, lavori di giardinaggio, realizzazione di murales nell’androne - e rendere più vivibile e sicuro il quartiere. Grazie all’aiuto del quartiere sono state avviate attività a favore degli anziani e di recupero dell’ambiente circostante come la bonifica di viale dell’Archeologia. Per questa sua attività Tiziana Ronzio è stata più volte minacciata e aggredita. Rosalba Rotondo, 61 anni (Scampia - NA), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per la sua totale dedizione alla formazione delle giovani generazioni all’insegna della tutela del diritto allo studio e della piena inclusione delle minoranze”. Preside dell’Istituto comprensivo di Scampia Ilaria Alpi - Carlo Levi che, tra elementari e medie, conta oltre 250 ragazzi Rom. In un territorio difficile, Rotondo è in prima linea nel contrasto alla devianza giovanile e nella fattiva costruzione di un percorso di reale inclusione sociale. La scuola è conosciuta per la sua esperienza di piani etno-didattici ed educativi per gli studenti Rom. È stata anche riconosciuta dalla Comunità europea e dal Consiglio d’Europa quale sede di una “Legal Clinic JustRom”, servizio legale volto a tutelare la popolazione Rom, ed in particolare le donne, in un’ottica di antidiscriminazione razziale. Carlo Santucci, 34 anni (Roma), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per l’altruismo e l’impegno profuso nel delicato intervento di primo soccorso che, nell’agosto 2019, ha permesso di salvare la vita a una donna in arresto cardiaco su un treno austriaco diretto a Dobbiaco”. Medico chirurgo precario. Per molti anni ha lavorato nelle ambulanze e al momento è insegnante di primo soccorso. In vacanza in montagna, il 27 agosto scorso, mentre era in treno è intervenuto, su richiesta dei passeggeri, in soccorso di una donna in arresto cardiaco. In mancanza di un defibrillatore sul treno, ha praticato il massaggio cardiaco tenendola in vita per quaranta minuti, finché non è arrivato l’elisoccorso austriaco che l’ha trasportata in ospedale. Mons. Filippo Tucci, 90 anni (Roma), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per aver dedicato tutta la sua vita all’accoglienza e all’inclusione delle persone in condizioni di disagio e di abbandono”. Fino al maggio 2019 Primicerio dell’Arciconfraternita di San Rocco all’Augusteo e Rettore della Chiesa di San Rocco. La parrocchia è da mezzo secolo un punto di riferimento per i poveri del centro storico. Le persone assistite sono per lo più senza fissa dimora. L’intervento nei loro confronti si concretizza in assistenza spirituale, sanitaria (inclusa la donazione di farmaci di prima necessità), refezione, docce e servizi igienici, donazione di biancheria nuova, indumenti, coperte. Angel Micael Vargas Fernandez, 20 anni (Casalmaiocco - LO), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il suo coraggioso intervento in soccorso di un bambino di 4 anni che stava precipitando da un balcone di un edificio”. Padre argentino e madre peruviana, di cittadinanza argentina e da 12 anni in Italia. Di giorno lavora in una stazione di servizio di Casalmaiocco nel Lodigiano, la sera studia informatica ai corsi serali dell’istituto Alessandro Volta di Lodi. Nel settembre scorso ha salvato la vita a un bambino di 4 anni che stava precipitando dal secondo piano di un palazzo sul piazzale davanti alla stazione di servizio. Corso sotto al balcone, è salito sul tetto di un furgone lì posteggiato e proprio mentre il bambino cadeva si è buttato riuscendo a prenderlo al volo. Entrambi sono finiti sull’asfalto ma Angel con il proprio corpo ha attutito la caduta del bambino. Riccardo Zaccaro, 22 anni (Roma), Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: “Per il coraggio e l’altruismo con cui, a proprio rischio, è intervenuto in soccorso di una coppia di anziani rimasti intrappolati dalle fiamme”. Studente alla facoltà di Architettura all’Università La Sapienza. Soprannominato dai giornali “l’eroe seriale”: a 22 anni ha già salvato la vita a tre persone, un suicida e due anziani dal rogo della loro casa. Il primo evento risale a due anni fa quando Riccardo ha soccorso un ragazzo che minacciava di gettarsi dal cavalcavia dell’autostrada A1. È stato tra i primi ad arrampicarsi e a cercare di fermarlo, riuscendoci. Il secondo evento risale invece al maggio scorso: in via Alfredo Fusco, nel quartiere Balduina, a Roma, ha salvato dalle fiamme due anziani rimasti intrappolati nell’appartamento situato al piano inferiore al suo. Diritti umani, le 12 buone notizie del 2019 (una al mese) di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 21 dicembre 2019 Prigionieri rilasciati, sentenze che rompono il muro dell’impunità, provvedimenti verso l’abolizione della pena di morte: la selezione di Amnesty International. Aspettando la verità per Giulio Regeni - Prigionieri rilasciati, rifugiati salvati dal rimpatrio, sentenze che spesso dopo decenni rompono il muro dell’impunità, provvedimenti importanti verso l’abolizione della pena di morte o per il rispetto dei diritti dei minori. “Le dodici buone notizie del 2019 di Amnesty International - commenta Riccardo Noury, portavoce della ong in Italia - sono una selezione, difficile e faticosa, dei passi avanti fatti quest’anno in favore dei diritti umani, grazie all’impegno di attiviste e attivisti, della società civile e anche delle istituzioni. Ne sono rimaste fuori tantissime altre. Soltanto ieri, per esempio, un tribunale delle Filippine ha finalmente condannato, dopo 10 anni, i responsabili del massacro di Ampatuan, in cui vennero uccise 58 persone. E pochi giorni fa un tribunale dell’Honduras ha emesso le prime condanne per l’assassinio della leader ambientalista Berta Cáceres. L’auspicio e l’impegno sono che le buone notizie che abbiamo invano atteso nel 2019 arrivino 2020: che l’intellettuale uiguro Ilham Tohti - che il 18 dicembre non ha potuto ritirare il premio Sakharov del Parlamento europeo, perché condannato all’ergastolo - torni in libertà e che lo stesso accada al blogger saudita Raif Badawi, che sta languendo in carcere per reati di opinione. E che vi siano verità e giustizia per Giulio Regeni”. Ungheria, 19 gennaio - Ungheria: il 19 gennaio torna in libertà Ahmed H., un cittadino siriano che nel settembre 2015 era stato incriminato per “complicità in un atto di terrore”, ovvero il lancio di pietre per protestare contro la chiusura del confine tra Serbia e Ungheria. Condannato ai sensi delle leggi antiterrorismo a dieci anni, poi ridotti a sette e infine a cinque, era stato dichiarato idoneo al rilascio anticipato. Somaliland, 25 febbraio - Somaliland: il 25 febbraio viene rilasciato il poeta Abdirahman Ibrahim Adan. Era stato arrestato il 12 gennaio dopo aver declamato una poesia in cui denunciava violazioni dei diritti umani tra cui la brutalità della polizia e il trattamento degradante dei prigionieri. Egitto, 4 marzo - Egitto: il 4 marzo torna in libertà il fotogiornalista Mahmoud Abu Zeid, detto “Shawkan”. Arrestato il 14 agosto 2013 mentre stava documentando per conto di un’agenzia fotografica la repressione delle forze di sicurezza contro due manifestazioni al Cairo, ha trascorso in carcere cinque anni e mezzo. Iran 16 aprile - Iran: il 16 aprile viene rilasciato dopo quasi otto anni di isolamento Mohamed Ali Taheri, maestro del movimento mistico Erfan e-Halgheh (Circolo dei mistici) condannato a morte in primo grado nell’agosto 2017 per “corruzione sulla Terra” e poi in appello a cinque anni di carcere. Usa, 9 maggio - Stati Uniti d’America: il 9 maggio il nuovo governatore della California, Gavin Newsom, annuncia la sospensione delle pene capitali per tutta la durata del suo mandato, che scadrà nel 2023. Grecia, 6 giugno - Grecia: il 6 giugno il Parlamento approva un emendamento che modifica la legislazione in materia di violenza sulle donne introducendo il criterio dell’assenza del consenso per la qualificazione del reato di stupro. Italia, 8 luglio - Italia: l’8 luglio la prima Corte d’Assise d’appello di Roma commina 24 ergastoli per il sequestro e l’omicidio di 23 cittadini di origine italiana residenti in Bolivia, Cile, Perù e Uruguay all’epoca delle dittature militari degli anni Settanta e Ottanta. Fra i condannati c’è anche Jorge Nestor Troccoli, l’unico attualmente residente in Italia, ritenuto membro dell’intelligence uruguayana legata all’allora dittatura del suo Paese. El Salvador, 19 agosto - El Salvador: il 19 agosto Evelyn Hernández viene prosciolta dall’accusa di omicidio aggravato. Nell’aprile 2016 aveva subito un intervento ostetrico di emergenza che aveva causato la fine della sua gravidanza. Per questo, era stata condannata a 30 anni di carcere. Nel 2018 un tribunale di secondo grado aveva annullato la condanna ordinando un nuovo processo. Russia, 7 settembre - Russia: il 7 settembre il regista cinematografico ucraino Oleg Sentsov viene rilasciato nel contesto di uno scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina. Nel 2015 era stato condannato a 20 anni di carcere per “terrorismo” al termine di un processo irregolare, solo per aver espresso opposizione all’occupazione russa della Crimea. Dal momento dell’arresto aveva trascorso in carcere circa sei anni. Camerun, 5 ottobre - Camerun: il 5 ottobre un tribunale militare rimette in libertà oltre 90 prigionieri, tra i quali il leader del Movimento di rinascita del Camerun Maurice Kamto, l’avvocata Michéle Ndoki e Gaston Philippe Abe Abe, meglio noto come Valsero, rapper di fama internazionale. Arrestati il 28 gennaio, nei loro confronti pendevano accuse che avrebbero potuto portare a una condanna a morte. Italia, 28 novembre - Italia: il 28 novembre il Tribunale civile di Roma ha dato ragione a 14 ricorrenti, sostenuti da Amnesty International Italia, che nel 2009 erano stati respinti in Libia. La sentenza ha stabilito che le persone ricorrenti hanno diritto al risarcimento del danno e soprattutto il diritto di “accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale”. Sierra Leone, 12 dicembre - Sierra Leone: il 12 dicembre la Corte di giustizia della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale accoglie un ricorso, presentato da due ong locali e sostenuto anche da Amnesty International, e giudica discriminatorio il provvedimento emanato nel 2015 dal governo che impediva alle ragazze incinte di frequentare le lezioni e di presentarsi agli esami: in quel modo, dichiara la Corte, è stato violato il loro diritto all’istruzione. Quando Conte chiedeva ai premier della Ue, come favore personale, di prendersi i migranti di Francesco Damato Il Dubbio, 21 dicembre 2019 A inchiodare Matteo Salvini, sia pure con chiodi per ora di carta, sulla croce del processo per sequestro di persona, abuso d’ufficio e non so cos’altro, chiesto dal tribunale dei ministri di Catania per i 131 migranti bloccati a fine luglio nel porto di Augusta sulla nave Gregoretti, della Guardia Costiera, sarebbe una comunicazione già partita da Palazzo Chigi. Della quale si è affrettato a farsi forte nella polemica politica con l’ex alleato di governo il capo ancòra delle 5 Stelle e ministro degli Esteri Luigi Di Maio per contestare a Salvini di aver fatto tutto di testa sua con quel blocco, senza la copertura del governo fornitagli l’anno scorso, in occasione di una vicenda analoga occorsagli con la nave Diciotti, anch’essa della Guardia Costiera. E risolta dal Senato col no al processo. La giunta senatoriale delle immunità, presieduta di diritto da un esponente dell’opposizione, in questo caso da Ignazio La Russa, avvocato peraltro di lunga esperienza, approfondirà sicuramente la questione prima di votare, il 20 gennaio, e formulare all’assemblea di Palazzo Madama la sua proposta di accoglienza o rigetto dell’autorizzazione al processo. Si vedrà naturalmente con quale tipo di maggioranza, e di sorpresa, essendo peraltro il passaggio finale doverosamente a scrutinio segreto, con tutte le incognite del trasversalismo politico e umorale, per non parlare d’altro. Al di là delle precisazioni e smentite già opposte dall’avvocato ed ex ministro leghista Giulia Bongiorno, che si è subito assunta la regìa della difesa di Salvini, una circostanza già appare nella sua assoluta, incontrovertibile singolarità, a prescindere o al netto, come preferite, delle simpatie o antipatie che potrà procurarsi l’ex titolare del Viminale con i suoi abituali atteggiamenti e toni da sfida, di una intensità inversamente proporzionale alle distanze che lo separano dall’appuntamento elettorale di turno. Che stavolta, con le votazioni regionali del 26 gennaio in Calabria e in Emilia-Romagna, rischia di accavallarsi con la fase conclusiva e decisiva del percorso parlamentare della richiesta giudiziaria partita da Catania. La circostanza è quella rivelata, sullo spinosissimo terreno della gestione degli sbarchi e, più in generale, del fenomeno migratorio, dal presidente del Consiglio in persona Giuseppe Conte. Che, sfiancato dalle continue polemiche col suo allora e ancora per un po’ vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, in un momento di spontaneità scambiato da qualcuno anche per una gaffe di Stato, si lamentò pubblicamente nella scorsa estate delle ore trascorse al telefono nei week con i suoi omologhi europei. Ai quali chiedeva “il piacere personale” di prendersi in carico una parte dei migranti trattenuti sulle navi di soccorso dal blocco dei porti italiani disposto dal Viminale a tutela dei confini, della sicurezza e quant’altro. In quel piacere “personale” rivelato, vantato e quant’altro dal capo del governo c’era un po’ tutto: non solo la stanchezza, magari anche le preoccupazioni espresse di volta in volta a Conte dal presidente della Repubblica, ma soprattutto l’ammissione di una situazione paradossale e scandalosa, diciamolo pure, di una comunità internazionale, cioè l’Unione Europea, incapace e nei fatti indisponibile, al di là delle parole di apertura apparente, a farsi carico spontaneamente, rapidamente e decentemente di un fenomeno scaricato sulle spalle, e sulle coste italiane, solo dalle circostanze naturali. Il racconto del presidente Conte vale, anche ai fini del processo che torna a incombere sul collo dell’ormai ex ministro dell’Interno, e ora solo principale oppositore del governo, più di dieci, cento, mille sedute del Consiglio dei Ministri per certificare la natura complessa, multilaterale e quant’altro di una questione maledettamente pasticciata. Che, codice alla mano, può anche permettere ad un pubblico ministero o ad un giudice delle indagini preliminari, come si configura il cosiddetto tribunale dei ministri, di ipotizzare un sequestro di persone. Ma sarebbe pur sempre un curioso sequestro: di persone regolarmente soccorse, assistite, visitate da curiosi e non, trattenute a bordo di navi sicure solo per il tempo necessario a stabilirne la destinazione, non certo verso i luoghi di prigionia e tortura da cui quella gente proveniva. Tutto questo credo che possa e debba essere detto con tutta onestà, senza la pretesa - ci mancherebbe - di insegnare ai magistrati il loro mestiere né al governo e a chi lo guida il loro, né di prenotarci al prossimo comizio di Salvini o manifestazione similare, magari all’insegna di diversi - presumo dalle sardine. Basterebbe parlarne, e agire di conseguenza, rinunciando ai soliti interessi di bottega della politica e della campagna elettorale di turno. Cioè, senza specularci sopra. Migranti. Processo a Salvini, i dubbi di Italia Viva. I numeri ora sono in bilico di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 21 dicembre 2019 I favorevoli all’autorizzazione a procedere sono in teoria 12, contro 11 contrari. Se i tre senatori renziani facessero mancare il loro appoggio il verdetto della giunta del Senato si ribalterebbe. Concedere l’autorizzazione procedere per Matteo Salvini indagato per il caso Gregoretti? “Dal punto di vista umano e politico lo abbiamo già giudicato. Dal punto di vista giudiziario i nostri colleghi in giunta per le autorizzazioni leggeranno le carte e valuteranno nel merito cosa fare”: Davide Faraone, esponente di Italia Viva lancia il sasso nello stagno. Il suo partito tiene il giudizio in sospeso riguardo al processo contro l’ex ministro dell’interno e i numeri necessari per l’autorizzazione a procedere sono ora in bilico. Se infatti i renziani diranno no, Salvini potrebbe essere “graziato” dalla giunta per le autorizzazioni a procedere. “Non siamo giustizialisti e non siamo abituati ad utilizzare temi giudiziari per trarre benefici nella lotta politica” aggiunge Faraone. Linea ribadita anche dal deputato Marco Di Maio: leggere le carte e solo dopo decidere. I numeri in campo - La giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato dovrebbe votare sul caso della Gregoretti (nave della Marina italiana con 131 migranti a bordo alla quale, nel luglio scorso, fu impedito lo sbarco per cinque giorni) il 9 o 10 gennaio. I numeri, come detto, sono molto stretti. In teoria contro Salvini dovrebbero votare l’unica esponente del Pd (Anna Rossomando), 6 grillini, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso e l’ex M5S Gregorio De Falco più i tre di Italia Viva. Totale 12 voti. Sul fronte opposto sono schierati Lega (5), Forza Italia (4), Fratelli d’Italia (1, il presidente della giunta Maurizio Gasparri) ai quali potrebbe aggiungersi l’esponente sudtirolese Durnwalder. E farebbero 11. A questo punto se i renziani dovessero farsi da parte, il verdetto verrebbe ribaltato e la giunta non potrebbe dare il via libera al processo contro Salvini. La Lega: “Palazzo Chigi sapeva” - Quest’ultimo, intanto, ribadisce la sua linea di difesa: la decisione di bloccare la nave Gregoretti fu presa collegialmente dal governo, esattamente come era avvenuto nel caso della Diciotti (quando fu negata l’autorizzazione a procedere). “Il senatore Matteo Salvini ha conservato copia delle interlocuzioni scritte avvenute a proposito della Gregoretti - fanno sapere fonti della Lega. Si tratta di numerosi contatti anche tra ministero dell’Interno, Presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari. Era stata contattata anche la Cei”. Si tratta di una risposta a quanto affermato ieri da Palazzo Chigi secondo il quale l’argomento non fu discusso in consiglio dei ministri e nessuna decisione fu quindi condivisa. Profughi: 5.000 nuovi homeless. Grazie Lamorgese... di Filippo Miraglia* Il Riformista, 21 dicembre 2019 Dal 31 dicembre i comuni dovranno chiudere i Centri ex Sprar. Migliaia di rifugiati senza casa. Una circolare, emanata su indicazione del Viminale, scarica sugli enti locali la responsabilità. Ma era prevista una proroga. Nei giorni scorsi una Circolare del Servizio centrale che gestisce il Siproimi (ex Sprar), cioè la segreteria organizzativa del sistema di accoglienza pubblico per i rifugiati che fa capo ai Comuni, emanata su indicazione del Viminale, ha disposto l’uscita dalle strutture che le ospitano delle persone con permesso umanitario. con termine il 31 dicembre. Si tratta di una disposizione contenuta nel primo decreto sicurezza che, oltre ad abolire la protezione umanitaria e ad estromettere dal sistema pubblico dei comuni i richiedenti asilo, ha previsto che chi era presente al momento dell’entrata in vigore del decreto (5 ottobre 2018) nei centri ex Sprar, ci possa restare fino alla fine del progetto. Gran parte dei progetti d’accoglienza per rifugiati degli Enti locali saranno rinnovati a fine anno, cosi dice il decreto ministeriale pubblicato di recente, che regola l’accesso al Fondo nazionale per le politiche e i servizi per l’Asilo dei Comuni. Anzi è prevista anche una proroga tino a sei mesi per consentire alle amministrazioni di individuare l’ente gestore, ovvero svolgere, laddove necessario, una nuova gara per l’assegnazione del servizio connesso. In ogni caso. sia a seguito della proroga, sia per la previsione del rinnovo, non è prevista alcuna fine del progetto. La circolare, chiaramente voluta dal Viminale, è quindi sbagliata e frutto di una interpretazione illegittima. Se si dovesse dar seguito a quanto contenuto nella nota del servizio centrale del Siproimi ci troveremmo nella condizione davvero intollerabile. oltre che inspiegabile. di scaricare la responsabilità sugli stessi enti locali. ai quali si chiede di mettere per strada migliaia di persone. famiglie e minori inclusi. Sulla base di una proiezione fatta a partire dai centri d’accoglienza gestiti dall’Arci. saranno tra le 3 e le 5 mila persone, tra cui molte donne vittime di violenza. come denunciato dai centri antiviolenza della rete D.i.Re. Dal 31 dicembre i comuni, nelle già difficili condizioni in cui lavorano anche a causa delle festività. si troveranno a fronteggiare la gestione del freddo stagionale e il disagio sociale, che in inverno - come noto - aumenta. La Circolare riprende, come già accennato, quanto previsto dal decreto sicurezza e non tiene conto della recente sentenza della Cassazione che ha definitivamente certificato la non retroattività della legge. che quindi non può applicarsi ai progetti d’accoglienza avviati prima dell’ottobre 2018. Le persone e le famiglie con titolo di soggiorno per ragioni umanitarie presenti nei centri Siproimi. rientrano tutte in questa categoria, poiché dopo l’ottobre del 2018 questo titolo di soggiorno non è più stato emesso dalle questure. Auspichiamo un intervento urgente del governo per scongiurare una crisi che metterebbe in grave difficoltà le persone e gli enti locali, titolari dei progetti. oltre alle organizzazioni che li gestiscono per conto dei comuni. L’Arci intende opporsi con ogni mezzo alla sciagurata ipotesi che migliaia di persone e famiglie con minori possano essere abbandonate per strada in pieno inverno. senza concludere un percorso) di inclusione sociale e lavorativa, come previsto dai progetti. Chiederemo ai Comuni di presentare ricorso nell’eventualità che a questa circolare seguano, nei riguardi delle persone ospiti delle strutture. provvedimenti di rifiuto individuali della proroga dei progetti di accoglienza. come previsto dal decreto ministeriale che regola la presenza dei rifugiati nelle strutture d’accoglienza. La situazione è aggravata da una seconda circolare del servizio centrale diramata ieri, che dispone dal 31 dicembre il trasferimento nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) dei richiedenti asilo attualmente ospiti nei Centri ex Sprar. In tantissime province. però. i bandi per la gestione dei Cas sono andati deserti, questo significa che le persone potrebbero essere trasferite anche a molti chilometri di distanza e costrette a lasciare città dove magari hanno iniziato faticosamente a costruire percorsi di inclusione. Se quindi dovessero rifiutare il trasferimento, finirebbero anche loro in strada. Il governo e la maggioranza farebbero bene a chiudere la stagione della persecuzione e della criminalizzazione dei migranti, che ha portato e porta vantaggi solo alla destra xenofoba e a cancellare tutti quei provvedimenti propagandistici. a partire dai due decreti sicurezza e dall’accordo con la Libia, che avevano l’unico obiettivo di indicare lo straniero come nemico e raccogliere facili consensi. *Responsabile immigrazione dell’Arci Lettera di una profuga: “Schiave e vendute, siamo naufragate in mezzo al mare” di Tesfay Afrah Abrahem Il Riformista, 21 dicembre 2019 Salve prof. Mannino, oggi le vorrei raccontare la mia storia, perché mi ha sempre ispirato fiducia. Da quando sono diventata una sua alunna, lei non ha visto in me solo l’apparenza. Ha visto oltre e questo mi ha aiutato a crescere. Mi presento correttamente. Il mio nome è Afrah, ho 18 anni, sono nata in Sudan, originaria etiope, ma cresciuta in Italia. In Sudan mia madre era proprietaria di un B&B e mio padre lavorava in un ristorante, mia sorella frequentava le medie e io andavo all’asilo. Quando avevo quattro anni, la mia famiglia decise di trasferirsi in Libia, perché ci fu una guerra tra sudanesi: in seguito il Paese si divise in due parti. Non appena arrivati in Libia, ci accorgemmo subito che la situazione era molto pericolosa, perché i libici punivano le donne che non indossavano il velo. Mia madre era ortodossa e mio padre musulmano. Gli stranieri che vivevano da più tempo in Libia crearono un’area lavorativa a Tripoli per soli stranieri. E così i miei genitori aprirono un ristorante e iniziarono a lavorare diligentemente. Mia sorella li aiutava, io invece passavo il tempo a giocare con i bambini. Non frequentavo la scuola perché la mia famiglia aveva paura che potesse capitarmi qualcosa di brutto: un giorno venni quasi rapita, ma per fortuna quell’uomo fu fermato prima che potesse arrivare al cancello. In quel periodo sequestravano i bambini per poi ucciderli e vendere i loro organi. Col passare del tempo i miei genitori decisero di voler andare in Italia, ma i soldi per pagare lo scafista non bastavano e così ci tirammo indietro. Proprio allora un mio amico partì con la sua famiglia, ma un mese dopo sentimmo che la loro barca si era capovolta. Morirono tutti. Fu uno choc. Frattanto la Libia diventava ogni giorno sempre più pericolosa per gli stranieri. Mesi dopo i miei genitori decisero di voler partire e iniziarono a chiedere informazioni sulla barca. Così a un certo punto decidemmo di andar via. Partimmo a notte fonda, salimmo su un grande furgone e iniziammo il nostro lungo viaggio. Superato il deserto, fummo catturati quattro volte. I sudanesi ci vendettero ai libici e poi ancora i libici ad altri libici. Per due volte i miei genitori pagarono per essere liberati. La terza volta però restammo senza soldi. Così presero i miei genitori e li misero in una stanza con dei serpenti, minacciandoli che se non avessero pagato sarebbero morti lì. Io e mia sorella eravamo all’oscuro di tutto, ma la paura c’era nel non vedere i nostri genitori. Infine mia madre chiese un prestito a mia zia che stava in America. Fummo liberati tutti e continuammo il nostro viaggio. Arrivati in una villa ci chiesero di nasconderci. Ero nel cortile e mi stavo annoiando, quando uno di loro mi disse: “Sto uscendo, non aprire a nessuno”. Io però capii male. Pensai che mi avesse detto di aprirgli non appena fosse stato di ritorno. Sentii qualcuno bussare, mi misi a correre per aprire, e aperto il portone vidi un fucile puntato sulla mia fronte. Per il terrore mi misi a correre verso mia madre. Fummo di nuovo presi, mia madre pagò di nuovo, ma i soldi non bastarono neanche allora. E così mio padre decise di rimanere indietro. Io, mia madre e mia sorella proseguimmo il viaggio da sole. Senza mio padre. Alle 21 cominciammo a correre per raggiungere la riva dove la barca ci stava attendendo. Cinque ore senza fermarci. Io ero sempre in braccio a mia madre o di qualche ragazzo che si offriva di aiutarla: avevo sei anni, ero piccola per sopportare quel percorso che per giunta era fatto di corsa. Arrivati a riva trovammo la barca e salimmo a bordo. Iniziammo il viaggio in mare. Ma a metà viaggio il motore si fermò. Tutti dal panico iniziarono a urlare dalla disperazione e a pregare, finché dopo qualche ora venne una barca molto più grande della nostra. Erano i libici. Ci chiesero se volessimo tornare in Libia o restare in mare. Tutti risposero di voler morire in mare piuttosto che tornare, mia madre urlando chiese di aiutarci, che aveva due bambine. I libici senza pietà se ne andarono come se non stesse accadendo nulla intorno a loro. Il mattino seguente incontrammo dei pescatori tunisini che ci aiutarono con il motore. Ci dissero che avevamo sbagliato rotta, che stavamo andando verso Malta. E così ci guidarono verso la Sicilia. Chiamarono la guardia costiera. Finalmente dopo tre notti e tre giorni arrivammo in Sicilia. Sono ormai dodici anni che vivo in Italia, parlo, scrivo e penso in italiano, l’unica cosa che mi manca per completarmi è un pezzo di carta, la cittadinanza italiana. Bacerò sempre questa terra come fece mia madre la prima volta che arrivammo, sono multietnica, Sudan, Etiopia, Italia. Tre terre diverse. Tre culture differenti, ma fanno parte di me e della mia storia. Cordiali saluti, la sua alunna. Ma quale droga? Sulla canapa la destra fa propaganda a colpi di fake news di Monica Cirinnà* Il Riformista, 21 dicembre 2019 La strumentalizzazione che da destra si fa della coltivazione e della commercializzazione della canapa sativa (cioè non contenente principio attivo stupefacente) è una totale distorsione della realtà giuridica, scientifica, medica ed economico-produttiva. Va detto molto chiaramente - infatti e prima di tutto - che la canapa prodotta e venduta legalmente in Italia nulla ha a che fare con le sostanze stupefacenti. Che non è stata operata negli anni alcuna modifica alla legge sulle droghe, che sono e restano illegali. Che la regolamentazione del settore, avvenuta con la legge n. 242/2016, è un provvedimento che ha a che fare con l’agricoltura e null’altro. Da queste verità bisogna partire se si vuole parlare di canapa. Non introducendo bugie e mistificazioni che utilizzano - del tutto impropriamente - la parola “droga”. La canapa sativa non è una droga! Punto. O si parte da qui, o si finisce inevitabilmente fuori strada. Ma perché allora tanto discutere su un qualcosa che, alla prova dei fatti, è ben diverso da come viene raccontata dai megafoni della destra? Perché ancora una volta c’è chi pensa soltanto alla becera propaganda, per di più basata su fake-news, invece di aiutare il tessuto imprenditoriale del nostro Paese a crescere e a rafforzarsi. In occasione della discussione sulla manovra di bilancio, ho dovuto ascoltare, appena pochi giorni fa, Matteo Salvini nell’Aula del Senato parlare addirittura di “droga di Stato”. Un intervento che ha dimostrato tutta l’ignoranza del soggetto sulla materia. 0/e la sua assoluta malafede. Uno schiaffo a coloro che faticosamente, con grande passione e con notevoli investimenti, anche in innovazione tecnologica, fanno impresa nell’agricoltura. Perché è proprio questo - e soltanto questo - il tema. Stiamo parlando di una realtà con circa 10mila addetti, 1500 aziende attive e un fatturato annuo di 150 milioni di euro. Aziende agricole di piccole e medie dimensioni, oltre a piccole attività commerciali - per lo più gestite da giovani - che hanno dato nuovo vigore - oltre ad aver creato lavoro - a una produzione storica e tradizionale di tante zone del nostro Paese. La canapa è, infatti, utilizzata da sempre per i tessuti e ora - sempre più e lecitamente - per un’infinità di prodotti, dalla bioedilizia alla creazione di nuovi materiali, fino all’utilizzo in cucina. Tutto questo sfruttando soltanto le sue fibre. Dalle proprietà fitoterapiche della canapa si ricavano, poi, prodotti che si basano sul cannabidiolo, un principio che ha proprietà rilassanti, anticonvulsivanti, antidistoniche, antiossidanti, antinfiammatorie. “E quindi? Dov’è il problema?”, si chiederà qualcuno. Semplice: non c’è! A corto di argomenti e con una fame quotidiana di propaganda, la destra solleva periodicamente il polverone sulla canapa prendendo a pretesto lo 0,5%: cioè quella percentuale legale di Thc (tetraidrocannabinolo, il principio psicoattivo) che non deve essere superata nella canapa industriale. Un limite fissato per legge, che tutela i produttori e i consumatori con prodotti sicuramente privi di effetti stupefacenti. Tanto per capire di cosa stiamo parlando: la cannabis terapeutica, prodotta in maniera controllata dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico dell’Esercito di Firenze, ha un contenuto di Thc compreso tra il 13 e i120%. La marijuana illegale ha concentrazioni di thc che raggiungono anche il 30%. La canapa industriale, come detto, non può andare oltre lo 0,5%. Ripeto: 0,5%. Solo questo basterebbe a dimostrare quanto sia ridicolo e antiscientifico parlare, quindi, di “droga libera” e delle mille altre trovate propagandistiche volte - questo si - a drogare un tema che ha, invece, a che fare soltanto con parole come agricoltura, impresa, innovazione, occupazione e lavoro giovanile. Continuerò con il Pd e con le varie sensibilità che ho trovato anche nel M5S - a iniziare dal senatore Mantero che ha presentato l’emendamento alla manovra, da me convintamente sottoscritto, poi falcidiato dalla presidente Casellati - a combattere perché nel nostro Paese possano continuare a crescere un’agricoltura avanzata e il relativo indotto. Un’agricoltura sostenibile che porti nuova ricchezza e lavoro nelle nostre campagne. Un’agricoltura che riavvicini i giovani alla natura rendendola anche fonte di reddito. *Senatrice Pd Gran Bretagna. La radicalizzazione e i fattori di resilienza dei detenuti ed ex detenuti di Rosalba Miceli La Stampa, 21 dicembre 2019 Tracciare il profilo psicologico di un aspirante terrorista è sempre molto complesso per gli addetti ai lavori. Tratti di personalità e motivazioni individuali si intersecano con le dinamiche di aderenza all’ideologia politica o religiosa del gruppo di riferimento. Un terrorista in azione non fa distinzione tra adulti e bambini, uomini e donne, passanti e forze dell’ordine, turisti e residenti del luogo, non distingue tra i volti delle vittime o potenziali vittime. Il volto dell’Altro è ormai svuotato di ogni consistenza e significato. Come è arrivato a tal punto? Altrettanto difficile è capire perché il futuro terrorista intraprenda il percorso che lo porterà infine ad accettare di morire per uccidere meglio e a morire affinché viva meglio l’immagine che lo rappresenta. È una strada obbligata? Un processo, che una volta intrapreso, non ha vie d’uscita laterali, deviazioni impreviste, e corre vertiginosamente verso l’epilogo finale? I programmi di deradicalizzazione, di riabilitazione e reinserimento nella società possono dare risultati concreti? Su tali temi, che hanno anche infiammato la recente campagna elettorale, si confronta l’opinione pubblica britannica, dopo l’attacco sul London Bridge ad opera del ventottenne radicalizzato, Usman Khan, che venerdì 29 novembre intorno alle 14.00 locali, ha aggredito i presenti con il coltello, uccidendo due persone e ferendone altre, prima di essere ucciso a sua volta dalle forze dell’ordine. Usman Khan, cittadino britannico, nato e cresciuto in Inghilterra, già condannato per gravi reati legati al terrorismo, si trovava in libertà condizionale. Appena diciannovenne, Khan era stato arrestato con altri otto simpatizzanti di al-Qaida per aver pianificato attacchi terroristici con ordigni esplosivi contro la Borsa di Londra ed altri obiettivi potenziali della città e per aver cercato di costituire un campo di addestramento jihadista in Kashmir. Dopo un complesso iter processuale, che ne aveva accertato la pericolosità sociale, Khan era stato condannato a sedici anni di reclusione e, scontata metà della pena, era uscito dal carcere nel dicembre 2018. Da allora era “in libertà condizionale” (on licence). Dopo i grandi progetti terroristici del passato, la parabola di Usman si è conclusa con un piano omicida di facile attuazione: due coltelli e una cintura esplosiva finta che, verosimilmente, gli avrebbe assicurato il martirio per mano degli agenti di sicurezza. Fin dal 2012, Khan aveva chiesto di partecipare a percorsi di deradicalizzazione ed era stato inserito in un programma di recupero di jihadisti condannati. Il giorno dell’attentato l’uomo si trovava nel centro di Londra proprio per partecipare a una conferenza pubblica sulla riabilitazione dei detenuti. Infatti, poco prima dell’attacco, presso la Fishmongers’ Hall, nei pressi del London Bridge, si era tenuto l’evento di celebrazione dei cinque anni di attività di Learning Together, un progetto dell’Istituto di Criminologia dell’ateneo di Cambridge. Nella sala erano presenti diversi docenti, studenti, educatori ed ex detenuti tra cui lo stesso Khan, invitato come delegato dello Staffordshire per parlare della sua esperienza di riabilitazione. L’azione terroristica è iniziata già all’interno della sede dell’evento. Usman Khan aveva partecipato alla sessione mattutina della conferenza (che aveva esplorato l’importanza dello storytelling e della scrittura creativa nel recupero dei criminali). Come riporta il Guardian, lo scrittore e attivista americano, Bryonn Bain, aveva appena concluso il suo intervento con la frase suggestiva: “without vulnerability there is no courage” quando Khan compì la sua repentina trasformazione da delegato a killer. Credevano nel recupero e nella riabilitazione dei detenuti le sue giovani vittime: il 25enne Jack Merritt e Saskia Jones, 23enne, due laureati di Cambridge che partecipavano al programma Learning Together. Merritt era cooordinatore del progetto, mentre Jones vi lavorava come volontaria. Il progetto Learning Together, che prevede incontri tra studenti di legge e detenuti (soprattutto quelli che hanno intrapreso percorsi di riabilitazione), vuole sollecitare nei detenuti ed ex detenuti la capacità di ricostruzione di una dignità personale, un’educazione a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, e in tal modo ridurre il rischio di una recidiva ai danni di nuove vittime potenziali, una volta fuori dalla prigione (secondo dati recenti, la recidiva, nel Regno Unito, riguarda un ex condannato su due). Diversi ex-offender, che erano presenti alla conferenza, hanno affrontato immediatamente Khan, trattenendolo e disarmandolo fino all’arrivo delle forze di sicurezza. Tra questi, James Ford, un uomo che si trovava in libertà vigilata per aver ucciso, nel 2003, una ragazza con disabilità, e Marc Conway, in precedenza detenuto presso Hmp Grendon (come Ford), poi divenuto agente di polizia. Le persone possono cambiare? Ne è convinto David Wilson, professore di Criminologia alla Birmingham City University e portavoce de “The Friends of Grendon prison”, che afferma: “Io so tramite il mio lavoro che le persone possono cambiare e che il cambiamento è una conseguenza di sistemi di detenzione innovativi, tra cui quello di Hmp Grendon”. Al di là della vicenda emblematica dell’attentato sul London Bridge, con le sue luci e le sue ombre, resta comunque da comprendere appieno quali fattori di resilienza individuale e collettiva entrino in gioco nel determinare il successo di un programma di riabilitazione. Learning Together: https://www.cctl.cam.ac.uk/tlif/learning-together/details Libia. “A Tripoli aspettiamo l’ordine, poi tanti si uniranno ad Haftar” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 21 dicembre 2019 I due fronti sono deboli. Ma in campo a riequilibrare le forze ci sono turchi e russi. Due colpi, a forse tre secondi l’uno dall’altro. Secchi, infidi, arrivati dal nulla. Due sibili che fendono l’aria e vanno a sbrecciare il muro dell’abitazione a meno di un metro da noi. C’eravamo fermati da qualche minuto nella strada deserta del quartiere di Salahaddin in attesa dei volontari della milizia Ghnewa che ci scortassero forse un chilometro più avanti sulla linea delle postazioni contro le forze del maresciallo Khalifa Haftar. Al riparo di un balcone, di fronte ad un negozio di alimentari sventrato dalle esplosioni, avevamo visto alcuni pulcini sporchi, affamati. È la sorte degli animali abbandonati dai civili sfollati di fretta e furia, che sempre si trovano nelle zone di guerra. Avevamo provato a dare loro un poco di biscotti secchi raccolti dalle confezioni sparse a terra. Ed è allora che un cecchino, invisibile, appostato chissà dove, ha premuto il grilletto. Non abbiamo neppure sentito lo sparo quando i calcinacci e le schegge ci hanno sfiorato la testa. “Che stupidaggine! Morire per due polli”, è stato il primo pensiero. Ma per i miliziani non c’è nulla di nuovo. “Avviene tutti i giorni. Qui si combatte soprattutto a duelli tra cecchini dotati di ottimi fucili col binocolo e bombardamenti mirati di piccoli droni. Nostri e loro”, hanno spiegato. Dicono che con il dispiegamento a settembre dei cecchini russi il gioco si è fatto più duro. Dal campo di Haftar replicano che, da dopo l’accordo tra Sarraj ed Erdogan il 27 novembre, ora stanno arrivando i tiratori scelti turchi. “Resisteremo contro i nuovi invasori ottomani”, tuona da Bengasi il portavoce militare Ahmed Mismari, minacciando raid su porti e aeroporti della Tripolitania per bloccare i rinforzi. In serata i social di Tripoli mostrano l’arrivo di tank con le bandiere turche da Misurata con i rinforzi turchi che sembrano aver già bloccato l’attacco di Haftar sul quartiere di Tarhuna. È la battaglia alle periferie di Tripoli, sempre più diretta al cuore della città. A seconda dei simboli e dei numeri disegnati sulle auto mimetizzate in marrone e nero si riconoscono le appartenenze alle cinque maggiori brigate schierate col governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Sarraj: quella di Eithan Tajuri sulle arterie maggiori, quindi la Ghnewa verso l’aeroporto, la Rada che controlla le prigioni più importanti, la Al Bugra dei guerriglieri del quartiere di Tajura, la Al Nawassi del quartiere di Abu Sitta. Tra loro spesso nascono contenziosi, specie in queste settimane che Sarraj sta ritardando i pagamenti. Ma anche si ricompattano contro il nemico comune. Come le numerose milizie inviate da Misurata, che dai primi di ottobre erano sempre più divise tra quelle disposte a mandare volontari a Tripoli e le contrarie. Però, da ieri Haftar minaccia apertamente di bombardare la loro città, se entro tre giorni non si ritireranno da Tripoli e Sirte. Risultato: il fronte è tornato ad unirsi. Vedremo invece cosa faranno gli oltre 300 soldati italiani dispiegati con l’ospedale militare inviato a Misurata nel settembre 2016. Si trovano nell’area della base militare dell’aeroporto, un obbiettivo sensibile già sfiorato dalle bombe di Haftar nell’estate. Ieri dallo Stato maggiore a Roma hanno rifiutato la visita dei giornalisti italiani. Nel pomeriggio sale sulla nostra auto un ex giornalista 46enne, che tiene i collegamenti tra alcune migliaia di ex militari del vecchio esercito di Gheddafi e giovani volontari armati pronti ad insorgere in città al fianco dei soldati di Haftar. Accetta di farsi fotografare solo col volto coperto. Se fosse catturato rischierebbe la vita. È noto col nome del suo blog, Safuan Trabulsi. “Noi siamo le cellule dormienti. Attendiamo l’ordine per scendere in piazza. In maggio avevamo provato. Ma decine dei nostri sono stati arrestati o uccisi”, dice. Sugli stessi balconi stanno ad asciugare uniformi e camicette da bambini. Nei garage si riparano i pick up con le mitragliatrici montate sul cassone. Transitiamo nei quartieri di Al Hadba e Al Keisa: a zone ingorgate dal traffico degli sfollati si alternano vie deserte. Indica complesso ospedaliero di Abu Selim, rigorosamente destinato ai miliziani feriti. Quanti siete? “Oltre 4.000. Ma la popolazione è stanca della guerra e di essere derubata impunemente dalle milizie. Quando Haftar arriverà tanti si uniranno a noi”, replica. A suo dire manca poco all’ora finale. Eppure, da un paio di giorni la situazione si è fatta stranamente più calma, come se i rinforzi stranieri giunti ai due campi li riequilibrassero, costringendo all’ennesima tregua. Stati uniti. Curtis processato sei volte, torna a casa dopo 23 anni il perseguitato d’America di Simone Sabattini Corriere della Sera, 21 dicembre 2019 Condannato a morte, salvato (per ora) da un podcast che ha fatto scuola. La Corte Suprema: giurie truccate, i membri neri costantemente esclusi. Non c’erano ali di folla a proteggerlo dai venti di tempesta fuori dal carcere di Louisville, Mississippi. C’erano le braccia di due sorelle che non hanno mai smesso di sorreggerlo, pur non potendolo toccare da ormai 23 anni. Curtis Flowers - un nome dolce da cantante soul e un destino amaro da capro espiatorio - torna a casa una settimana prima di Natale, in libertà vigilata, per la prima volta in quasi un quarto di secolo. È con ogni probabilità il carcerato più perseguitato d’America: processato sei volte per lo stesso crimine (non si ricordano casi simili), un quadruplice omicidio, che sostiene di non avere commesso; è nel braccio della morte da 20 anni. La sua è una storia incredibile, ripescata e ribaltata da un podcast che ormai ha fatto scuola e storia. Dal buio di un villaggio dimenticato nel cuore dell’America fino alla Corte Suprema Usa e alle fragili ali della libertà arrivata quasi per miracolo. Eppure non ci sarebbe niente di miracoloso, nel (temporaneo) epilogo di questi giorni. Piuttosto, le assurdità riempiono fino farli scoppiare i 23 anni precedenti. Il primo livello - quello delle ripetute condanne a morte - in fondo è persino il meno sorprendente. Una strage di periferia dentro un negozio di mobili a Wynona, Mississippi: 4 morti tra dipendenti e clienti. Chi è stato? Gli inquirenti locali puntano subito il dito su Curtis Giovanni Flowers, un ex dipendente appena licenziato per banali negligenze. “È lui: voleva vendicarsi”, dicono. Trovano le impronte delle scarpe tra il sangue delle vittime, le tracce di polvere da sparo, i proiettili compatibili (non l’arma). Tutto a carico del giovane Flowers, incensurato, che allora ha 26 anni e una figlia piccola. Un ragazzone afroamericano in un paese fermo agli anni 60, quelli di Mississippi Burning: i bianchi da una parte, i neri dall’altra, due mondi separati. E infatti sono tutti sollevati dalla condanna, che pare risarcire una comunità sconvolta. Solo che la Corte Suprema del Mississippi ribalta la sentenza: il processo è stato ingiusto. Lo stesso “colpo di scena” si ripeterà altre 3 volte, dopo altrettanti processi fotocopia. E qui si passa al secondo livello della vicenda, che ha un contro-protagonista: il procuratore distrettuale Doug Evans, l’uomo che per 20 anni ha provato senza sosta a far condannare Flowers è si è visto rispedire indietro tutte le condanne (in due casi non si è riusciti a raggiungere un verdetto). La ragione è semplice, al netto delle prove rivelatesi sempre più fragili: Evans ha sistematicamente “sbiancato” le giurie, facendo rimuovere i componenti afroamericani. Poteva farlo? Tecnicamente sì: il sistema americano dà facoltà alla pubblica accusa di sostituire i giurati “sospetti”. Solo che Evans lo fa solo con i neri. E quando non ci riesce, la condanna non arriva. Avanti così per anni, senza che Flowers possa mai lasciare il carcere. Poi, l’estate scorsa, dopo una sesta condanna a morte, il caso sbarca a Washington: tocca alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Che fa a pezzi la condotta di Evans: finisce 7-2, con tre giudici conservatori che votano assieme ai liberal. “Condotta palesemente discriminatoria della pubblica accusa, un caso disturbante”, scrivono i giudici. Scavando nel passato di Evans si scopre che ha “fatto fuori” i membri neri delle giurie per tutta la sua carriera. Si torna al punto di partenza, ma Flowers resta in galera, e Evans al suo posto: è una carica elettiva. Proverà a condannarlo un’altra volta? Ormai però il castello è crollato, e lunedì scorso un giudice del Mississippi non ha potuto negare la libertà su cauzione. Ma chi ha bonificato il suolo avvelenato di Wynona, Mississippi? Chi ha fornito tutto il nuovo materiale a giudici e avvocati? È il terzo livello della storia. Porta il nome di un podcast: In the Dark. Sedici puntate prodotte da American Public Media, in parte finanziate dal fundraising, costate pare 100.000 dollari l’una. Un lavoro enorme, avvincente, impressionante. In the Dark ha sgonfiato ogni presunta prova, intervistato testimoni rivelatisi inattendibili, voltagabbana, corrotti, ha stanato un possibile colpevole alternativo. Ed è stato il primo podcast della storia ad aggiudicarsi il prestigioso Polk Award. A conti fatti, Curtis Flowers deve ringraziare soprattutto loro. In attesa che, dopo le accuse, cada anche il braccialetto elettronico e arrivi la libertà totale. Quella vera.