La giusta battaglia contro l’ergastolo ostativo al congresso di Nessuno tocchi Caino di Ermes Antonucci Il Foglio Si terrà nel carcere di Opera a Milano, oggi e domani, l’VIII Congresso di Nessuno Tocchi Caino. L’appuntamento si svolgerà nel teatro del carcere, oggi dedicato a Marco Pannella, che nel 2015 partecipò a quello che fu il suo ultimo congresso dell’associazione di cui era presidente, animando e dando slancio alla battaglia per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, che quest’anno ha colto i suoi frutti con le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi della Corte costituzionale. I dirigenti di Nessuno Tocchi Caino (il segretario Sergio D’Elia, la presidente Rita Bernardini e la tesoriera Elisabetta Zamparutti) hanno voluto porre al centro del congresso proprio il tema dell’ergastolo ostativo, ospitando alcuni protagonisti d’eccellenza del mondo del diritto, come Valerio Onida (presidente emerito della Corte costituzionale), Mauro Palma (Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà), Giovanna Di Rosa (presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano), Andrea Mascherin (presidente del Consiglio Nazionale Forense), l’avvocato Antonella Mascia (che ha patrocinato il caso Viola contro Italia alla Cedu), Riccardo De Vito (magistrato di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica), Luciano Eusebi (Università Cattolica del Sacro Cuore) e l’ex magistrato Gherardo Colombo. “La Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale hanno aperto una breccia nel muro di cinta del fine pena mai - spiega D’Elia al Foglio - Il congresso di Nessuno Tocchi Caino ha sicuramente il valore di una celebrazione, quasi di una festa, per il successo conseguito in questo straordinario anno in cui lo stato di diritto ha vinto sullo stato di emergenza, e la speranza sulla paura”. Una celebrazione nel ricordo di Marco Pannella: “Marco è stato l’ispiratore di questo cambiamento - ricorda D’Elia - Lo ha instillato innanzitutto in quelli che riteneva i suoi fratelli: i detenuti, i condannati, gli ergastolani. Con il suo motto “spes contra spem” li ammoniva dicendo: “Non state lì a sperare che qualcuno accenda la luce in fondo al tunnel in cui vivete, siate speranza e incarnate la speranza”. Così è stato. Ad esempio, i detenuti del carcere di Opera, protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem-Liberi dentro”, hanno fatto tesoro del motto pannelliano. Condannati a una pena senza speranza, hanno deciso di essere speranza. La Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale non hanno fatto altro che riflettere il cambiamento dei condannati all’ergastolo, decidendo di superare, di fatto abolire, il fine pena mai”. Un cambiamento che, però, viene duramente contrastato dal fronte giustizialista e dell’antimafia militante: “Noi di Nessuno Tocchi Caino ci siamo già accreditati presso il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per verificare se la sentenza Viola contro Italia è stata applicata nel nostro paese”, afferma D’Elia, che replica anche a chi negli ultimi mesi ha invocato l’intervento del parlamento per vanificare la pronuncia della Corte costituzionale: “Qualsiasi cosa faccia il Parlamento, la sentenza della Consulta resta una pietra miliare, anzi una pietra tombale su una logica antimafia che Sciascia aborriva, affermando che la mafia non va combattuta con la terribilità, ma con lo stato di diritto. Negli ultimi due anni la Corte costituzionale, presieduta da un grande giurista come Giorgio Lattanzi, è stata straordinaria. Sono sicuro che la nuova presidente Marta Cartabia sarà alla stessa altezza, e che quindi qualsiasi cosa decida di fare il parlamento ci sarà una Corte costituzionale cane da guardia dello stato di diritto contro le logiche dell’emergenza”. È proprio questa, conclude D’Elia, la nuova sfida di Nessuno Tocchi Caino: “Mettere in discussione l’idea aberrante secondo cui il sistema penale deve rispondere al dolore e alla sofferenza inflitti dal reato con altrettanta sofferenza e dolore. Lo stato, in nome di Abele, non può diventare Caino”. La nostra battaglia: via la paura con la speranza di Sergio D’Elia*, Rita Bernardini* e Elisabetta Zamparutti* Il Riformista La moratoria delle esecuzioni capitali e poi le sentenze sull’ergastolo ostativo. Non è che l’inizio. Prosegue la lotta di Nessuno tocchi Caino per lo Stato di Diritto e la tutela della dignità umana. Da oggi il Congresso nel carcere di Opera. Questo nostro VIII Congresso che inizia oggi nel carcere di Opera a Milano è speciale. Perché si svolge a distanza di soli quattro anni da quello in cui Marco Pannella, in questo stesso teatro, adesso a lui dedicato, avviava una campagna per porre fine all’onore dell’ergastolo ostativo, con un coinvolgimento diretto degli ergastolani ostativi che chiamava alla lotta, affinché proprio loro, uomini condannati a non avere speranza, fossero speranza. Un appello a cui gli ergastolani ostativi avevano risposto ritmando con lui: “C’est n’est qu’un debut, continuons le combat”. Una battaglia che, fin dall’inizio, ha puntato alle Alte Giurisdizioni quali principali interlocutori per la messa al bando di questa pena inumana. Da cui, in pochi anni, ha ottenuto risposta con le straordinarie sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo e poi della Corte Costituzionale. Una rivoluzione copernicana rispetto al pensiero tolemaico della “certezza della pena”. del “fine pena mai”, del “tu non cambierai mai”. La missione di Nessuno tocchi Caino è quella di vedere affermata e rispettata l’intangibilità della dignità umana. Per questo abbiamo condotto al successo la campagna per la moratoria delle esecuzioni capitali all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e per questo in Congresso vogliamo porre l’urgenza e la necessità di ampliarne la visione per superare, a partire dall’Italia, oltre che la pena di morte, anche la pena fino alla morte e la morte per pena. Ci sentiamo impegnati a proseguire nella battaglia contro le esecuzioni capitali nel mondo e a intensificare l’azione di pressione. a partire dall’Africa, volta a ottenere altri sostegni alla nuova Risoluzione pro-moratoria in vista dell’Assemblea generale del 2020. Tanto più in tempi come questi in cui l’emergenza terrorismo genera la malsana idea che i diritti umani possano e debbano essere sacrificati sull’altare della sicurezza. Non intendiamo mollare né rispetto al dovere che ora incombe sullo Stato italiano di dare esecuzione alla sentenza Cedu che ha riconosciuto l’ergastolo ostativo come un problema strutturale, tenendo costantemente informato il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, né rispetto all’azione collettiva di 252 ergastolani ostativi che, grazie all’avvocato Andrea Saccucci, è stata incardinata davanti al Comitato diritti umani delle Nazioni unite. Vogliamo che la speranza prevalga sulla paura, che lo Stato di Diritto vinca contro la Ragion di Stato che per troppi anni, in nome dell’emergenza, ha stravolto i principi costituzionali. Vogliamo continuare a tener viva l’iniziativa. da portare anche davanti alle corti di giustizia europee, volta a superare l’armamentario emergenzialista speciale di norme e regimi quali il sistema delle informazioni interdittive e delle misure di prevenzione antimafia, e delle procedure di scioglimento dei comuni per mafia, al fine di prevenire il crimine senza distruggere la vita delle persone, combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. In Italia, in particolare, va posto fine all’obbrobrio giuridico di stampo fascista delle misure di sicurezza personali applicate a chi ha finito di scontare la pena e restano internati nelle cosiddette “case lavoro” o nelle colonie agricole che Sono carceri a tutti gli effetti. I sette casi di detenuti che scontano la “Casa lavoro” in regime di 41bis sono emblematici della violazione del diritto a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto. E poi c’è l’isolamento: i documentati effetti lesivi, specialmente se prolungato. lo pongono in contrasto con il divieto di tortura e di trattamenti o punizioni disumane o degradanti. Ma vogliamo soprattutto avviare la riflessione sull’attualità o meno, all’alba degli anni Venti del terzo millennio. del sistema penale e della sua appendice ultima. il carcere, un luogo strutturalmente di tortura, patimenti e afflizione e se non sia il caso, dopo l’abolizione della pena di morte e il superamento della pena fino alla morte, di mettere in discussione anche la morte per pena, l’assurda convinzione per cui alla violenza e al dolore del delitto debbano necessariamente corrispondere una violenza e un dolore eguali e contrari, quelli inflitti dal giudizio e dal castigo propri del diritto penale. Questa è la nuova linea del fronte di lotta di Nessuno tocchi Caino, volta a trovare. come ci richiamava Aldo Moro. “non tanto un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”, a sperimentare non pene alternative, ma alternative alla pena. come quelle - già in atto e da rafforzare - delle pratiche di riconciliazione, delle esperienze di giustizia riparativa, delle opere di pubblica utilità e di ogni altra forma di inclusione e reinserimento nella comunità. Opera è il nome di un carcere, ma vuol dire anche officina. E proprio in questo il senso il Congresso di Nessuno tocchi Caino è qui convocato per concepire. fabbricare, dare corpo a parole, idee, visioni di umanità nuova, di futuro migliore. I braccialetti elettronici possono risolvere il sovraffollamento. Ma non vengono usati di Chiara Penna cosenzachannel.it “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” scriveva nel 1866 Fëdor Dostoevskij in “Delitto e Castigo”. Ed il punto è proprio questo: senza bisogno di estendere il concetto all’idea della pena e del processo penale che attualmente si sta diffondendo nel nostro Paese, in Italia si registra un rovinoso regresso del pensiero evoluto. Con sessantamila detenuti, di cui più di un terzo stranieri, uno su tre affetto da disturbi psichiatrici, due su tre tossicodipendenti o alcoldipendenti, per appena 47 mila posti disponibili, invece di dare applicazione a norme già esistenti che potrebbero migliorare la situazione, l’unica proposta acuta che arriva dal Ministro alla Giustizia è quella di aprire nuove carceri riadattando vecchie caserme. Eppure una soluzione immediata è sotto gli occhi di tutti da anni e sarebbe il semplice ricorso alle misure alternative alla detenzione, tanto ostacolate poiché confuse volutamente con una quasi totale libertà, che minerebbe il principio della certezza della pena. Informazione errata, perché il ricorso alle principali misure alternative alla detenzione quali: l’affidamento in prova al servizio sociale - con rigidi programmi da seguire all’esterno del carcere ed un controllo costante da parte degli assistenti sociali e del magistrato - la semilibertà, con la possibilità di uscire durante il giorno per recarsi al lavoro e tornare la sera a dormire in istituto, la detenzione domiciliare, non solo hanno dimostrato di essere molto più efficaci in termini di abbattimento della recidiva, ma riducono il sovraffollamento e costano notevolmente meno allo Stato. La funzione dei braccialetti elettronici - Le misure alternative, infatti, non solo hanno più senso del “non fare nulla” all’interno del penitenziario, ma hanno il loro carico di afflittività poiché il condannato non ha alcuna libertà, deve attenersi rigidamente alle disposizioni del magistrato ed è costantemente sorvegliato. Lo sarebbe ancora di più ed il numero dei detenuti si ridurrebbe ulteriormente, se si potesse dare attuazione agli artt. 275 bis C.P.P. e 58 quinquies dell’Ordinamento Penitenziario. Le norme in questione introducono, infatti, l’uso dei braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari e costituiscono uno dei più importanti rimedi al problema del sovraffollamento, soprattutto se si pensa all’elevato numero di persone ristrette in via cautelare. Tali dispositivi, però, da quasi 20 anni, restano in molti casi inapplicati perché non disponibili e molti detenuti in attesa di giudizio che ne avrebbero diritto, restano in carcere. La circostanza diventa ancora più inquietante se si considera che il bando per la fornitura che aveva ad oggetto 12.000 braccialetti è stato aggiudicato da quasi due anni, il servizio sarebbe dovuto partire nell’ottobre 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno della nomina della commissione di collaudo: in poche parole, il ministero dell’Interno non ha rispettato i tempi in modo da garantire la loro entrata in funzione e le liste di attesa dei detenuti che potrebbero uscire, ma che non possono farlo perché manca la disponibilità dello strumento di controllo, aumentano. I braccialetti elettronici sarebbero del resto anche utili alle forze dell’ordine, che potrebbero così evitare di impegnare il personale per i controlli giornalieri dei detenuti ammessi a fruire di misure detentive domiciliari. Bloccato il provvedimento dell’ex ministro Orlando - Ed è così, dunque, che l’Italia - c’è da dire insieme al Regno Unito, alla Polonia, alla Germania e alla Spagna - resta immobile dal 2013 di fronte ad un vero e proprio problema strutturale che investe il sistema carcerario, nonostante la Corte di Strasburgo l’abbia condannata più volte al pagamento di migliaia di euro di risarcimento per trattamento inumano e degradante a favore di alcuni detenuti. D’altra parte il tentativo di favorire provvedimenti alternativi promosso dall’ex ministro della Giustizia Orlando nel 2017, è stato letteralmente bloccato dal successivo governo gialloverde che, come è noto, invece di intervenire in tal senso e magari depenalizzare alcuni reati esistenti, ha fomentato la tendenza ad introdurre nuovi reati per ogni (reale o presunta è da verificare) “emergenza sociale”. Lascia perplessi, dunque, non solo l’inerzia del ministero, ma anche l’ottusità del legislatore che, pur essendo consapevole dell’impossibilità oggettiva di intervenire e rendere efficaci le norme già vigenti, ne introduce delle altre solo a fini propagandistici. Esempio lampante è quanto disposto con il c.d. “Codice Rosso” che, tra le tante disposizioni poco risolutive del problema, introduce all’art. 15 la disposizione che rimanda all’art. 275 bis c.p.p. e dunque all’utilizzo del braccialetto elettronico per gli stalker. Disposizione irrealizzabile ed incapace di fornire alcuna tutela alle presunte vittime di atti persecutori, visto il numero di detenuti in attesa di dispositivi che non arriveranno mai. Compromesso M5S-Pd sulla nuova giustizia, all’appello manca Renzi di Carlo Bertini e Francesco Grignetti La Stampa Ieri vertice a Palazzo Chigi. Ma Italia Viva è contraria. E restano due spine: processo penale e legge elettorale. Un accordo c’è, sulla giustizia, con un doppio via libera alla nuova prescrizione (legge Bonafede) e alle nuove intercettazioni (legge Orlando). Ma altri accordi, più complicati, dovranno essere raggiunti. E se ne parlerà l’anno prossimo: di quale sistema elettorale o come modificare il processo penale. Saranno queste le spine del 2020 per la maggioranza giallo-rossa. Il disaccordo è emerso plateale sul processo penale. Lo ammettono tutti i protagonisti, che si sono dati appuntamento al 7 gennaio per ricominciare daccapo con il confronto. Anche se i renziani di Italia viva già protestano e non accettano il compromesso. Una volta accantonato il tema più complicato, però, ovvero la riforma del processo penale, tema incandescente che fa litigare i partiti come avvocati e magistrati, la maggioranza si è potuta concentrare su quelle che sono già leggi dello Stato. In una sorta di disarmo bilaterale, il M5S ha accettato una riforma delle intercettazioni che aveva fieramente avversato e il Pd a sua volta ha ingoiato uno stop alla prescrizione che non avrebbe mai scritto così. Ma tant’è. Sul doppio ok, un vertice a palazzo Chigi, con il premier Giuseppe Conte, il ministro Alfonso Bonafede e le delegazioni dei quattro partiti suggella politicamente l’intesa, già definita mercoledì dai tecnici, nel giro di appena un’ora. Ci sarà un consiglio dei ministri domani mattina, quindi, che inserirà nel decreto Mille Proroghe un capitolo sulle intercettazioni rinviate di due mesi per permettere ad alcune procure di adeguarsi alle nuove disposizioni, e ci sarà anche una norma per equiparare le intercettazioni con i trojan a quelle telefoniche (saranno possibili sono per i reati gravi con pena edittale oltre i 5 anni); per dare maggiori possibilità agli avvocati difensori di verificare la massa delle intercettazioni effettuate (ma saranno trascritte solo quelle considerate rilevanti); e infine per meglio regolare i rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero. “Il pm torna ad avere la supervisione nella scelta”, avverte il ministro. E a questo punto la riforma della prescrizione targata Bonafede entrerà in vigore il 1° gennaio e della promessa velocizzazione del processo - le due riforme avrebbero dovuto camminare in parallelo - se ne parlerà nei mesi prossimi. Nel frattempo sono stati anche rallentati ad arte i lavori parlamentari per un ddl di Enrico Costa, Forza Italia, che mirava proprio a impedire l’entrata in vigore della riforma. “Ci faranno votare quando i buoi saranno scappati”, lamenta Costa. Anche sulla legge elettorale, che in base all’accordo di governo sul taglio dei parlamentari doveva essere sfornata entro Natale, la maggioranza è in stallo per colpa dei veti incrociati dei partitini, LeU e Italia Viva, su due sistemi diversi di legge proporzionale. In attesa di chiudere un accordo a gennaio, si è deciso di parlare con le opposizioni, tanto per fare qualcosa. E a conferma che Salvini è in piena attività per provare a rientrare in gioco c’è un episodio, che ha creato più di un dubbio ai vertici del Pd. Ieri mattina alla prima riunione con l’opposizione, gli sherpa si sono ritrovati davanti un Roberto Calderoli insolitamente disponibile. Il dottor sottile del Carroccio in teoria avrebbe potuto dire, “grazie non ci interessano i vostri schemi proporzionali visto che abbiamo il referendum per il maggioritario in rampa di lancio”, invece ha teso la mano. Della serie, “per noi va bene anche un proporzionale con sbarramento nazionale al 5 per cento”. Quelli della Meloni, invece, hanno avvisato che faranno fuoco e fiamme contro il proporzionale che non assegna la vittoria a nessuno. Ora il Pd si chiede a cosa punti la Lega. E la risposta è: la voglia impellente di Salvini di correre al voto a tutti i costi. Intesa tra M5S e Pd sulle intercettazioni, non sulla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore Le modifiche domani in Consiglio dei ministri, operative dal 2 marzo. Alla fine arriva la schiarita almeno sul fronte delle intercettazioni. Il vertice di ieri tra le forze di maggioranza, con la presenza del capo del Governo Giuseppe Conte, porta a un’intesa su uno dei temi ancora aperti in materia di giustizia. Quello meno sensibile, visto che sulla prescrizione le distanze tra Pd e M5S restano, anche se la fumata alla fine del summit, fa rilevare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis (Pd), è grigia: “la nuova prescrizione entrerà in vigore il prossimo 1° gennaio, ma già il 7 ci rivedremo, condividendo la necessità di individuare misure per dare certezza alla durata dei processi penali”. Intanto però si delinea il percorso per un intervento assai delicato e dal percorso tormentato. Le modifiche alla disciplina sulle intercettazioni, che l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi vicesegretario Pd, aveva voluto per innalzare la tutela della privacy nella ricerca di un punto di equilibrio con le esigenze investigative, saranno oggetto di un pacchetto di modifiche che sarà inserito nel decreto legge “Mille Proroghe” domani all’esame del Consiglio dei ministri. Come già avvenuto con il decreto legge fiscale e la riforma dei reati tributari però, la loro effettiva entrata in vigore è rinviata alla conclusione dell’iter di conversione. Morale: saranno operative dal 2 marzo 2020. Nel merito, l’accordo prevede una toppa a una delle falle, segnalate dai capi delle principali procure, della riforma Orlando, l’assenza di una disciplina della fase transitoria. Mancanza tanto più grave se si tiene conto delle difficoltà di applicazione di due discipline diverse alla medesima operazione. Senza proroga o senza modifiche, infatti, dal 1° gennaio, nell’ambito della stessa attività d’indagine, si sarebbe corso il rischio di dovere applicare regole diverse per aspetti non banali. L’accordo prevede così che la nuova disciplina si dovrà applicare soltanto alle intercettazioni autorizzate a fare data dall’entrata in vigore delle modifiche. Sino ad allora si continuerà ad applicare l’attuale disciplina. Nel dettaglio poi, uno dei cardini del decreto legislativo approvato alla fine del 2017 prevede il divieto di trascrizione, anche sommaria, delle comunicazioni considerate irrilevanti, per effetto di una valutazione della polizia giudiziaria, per le indagini e di quelle che contengono dati personali sensibili; nel verbale dovranno essere indicate solo la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è stata effettuata. In questo modo, però, sottolineò già allora l’Anm ed è stato ribadito ora dai procuratori, senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante diventa impossibile un vero controllo da parte del pubblico ministero. Uno scivolone che si sarebbe potuto evitare se si fosse voluto restringere l’area dell’irrilevanza. Forti anche le perplessità dell’avvocatura, con le Camere penali a sottolineare il fatto che solo un imputato con grande disponibilità di mezzi economici si sarebbe potuto permettere una difesa all’altezza di una verifica di tutto il materiale depositato alla caccia dell’intercettazione in grado di scagionare il cliente. Ora, nel pacchetto di modifiche concordate, trova spazio il recupero di un maggiore spazio di manovra per il controllo del pubblico ministero nella selezione del materiale da ritenere irrilevante e da fare poi confluire nell’archivio riservato: toccherà al pm ricevere dalla polizia giudiziaria i brogliacci sui quali effettuare poi la scrematura tra ciò che ritiene rilevante per la prosecuzione delle indagini e ciò che finirà nell’archivio che ogni Procura nel frattempo ha provveduto a istituire. Assicurato anche un pieno accesso della difesa a tutto il materiale depositato. Prescrizione: la spunta il M5S. Non c’è l’intesa, c’è la riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto Un altro vertice di maggioranza fallito. Ma il 1 gennaio arriva lo stop, Bonafede festeggia. Il rinvio arriva, ma solo sulle intercettazioni come chiedevano dall’inizio i grillini. A furia di vertici falliti, lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado che tre partiti (Pd, Italia viva e Leu) su quattro della maggioranza di governo (il quarto è il M5S) non avrebbero mai voluto vedere entrare in vigore nel testo attuale, diventerà invece legge il prossimo primo gennaio. E il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, al termine dell’ennesima riunione che ha potuto solo registrare il mancato accordo sul punto, si è persino detto “orgoglioso” di poter festeggiare il capodanno con la riforma. Quella che lui considera “una norma di civiltà” e che al contrario la maggioranza, i penalisti, molti magistrati e la gran parte dei giuristi considerano una norma incostituzionale. Un passo in avanti, piccolo, i giallo-rossi lo hanno invece fatto sulle regole delle intercettazioni. Al centro del vertice a palazzo Chigi c’era però la prescrizione. Davanti al presidente del Consiglio è ripartito il pressing degli alleati per convincere Bonafede a un rinvio dell’entrata in vigore della “sua” riforma, approvata all’inizio dell’anno assieme alla Lega. Pd, Iv e Leu chiedono tempo per approvare norme di sicuro impatto sulla durata dei processi. Per evitare che altrimenti la fine della prescrizione per chiunque, colpevoli e innocenti, dopo il primo grado, si trasformi con certezza in un “ergastolo processuale”. Processi infiniti senza più il pungolo del limite temporale, altro che “ragionevole durata” costituzionale. Bonafede l’ha spuntata, solo dichiarandosi “disponibile senza preclusioni” a discutere anche delle proposte degli alleati, in testa la “prescrizione processuale”. Ma dal 7 gennaio. Intanto la fine della prescrizione entra in vigore. Per quanto non produca effetti pratici immediati (è una norma di diritto sostanziale) una eventuale modifica successiva avrà l’effetto di introdurre due regimi diversi. Il rinvio è invece al centro dell’accordo sulle intercettazioni. Altrimenti la riforma firmata dall’ex guardasigilli Orlando (Pd) e contestata dai 5 Stelle nelle piazze e sul blog, sarebbe entrata in vigore il 1 gennaio. Un rinvio ridotto rispetto a quello di sei mesi che il ministro voleva inserire nel decreto “mille proroghe”. Appena due mesi: la proroga potrebbe essere approvata domani dal Consiglio dei ministri. Ma non è certo. Solo oggi “tutte le forze avranno modo di vedere la norma nero su bianco”, ha spiegato alla fine del vertice Bonafede, “c’è un accordo di massima”. Nel caso reggesse, il governo potrebbe fare un decreto ad hoc o inserire nel “mille proroghe” il quarto rinvio dell’entrata in vigore della riforma, stavolta fino al 1 marzo (una domenica); a parte arriverebbero le correzioni nel merito delle intercettazioni sulle quali c’è adesso, forse, un’intesa. Due mesi sono “giusto il tempo di approvare le modifiche concordate”, ha spiegato il senatore Grasso che era al vertice nella delegazione di Leu ma è andato via prima della fine. Le modifiche sulle quali si è trovato un accordo riguardano due aspetti. Verrà recuperato il controllo del pm sulla massa delle intercettazioni grezze, dove adesso è previsto sia la polizia giudiziaria a decidere cosa palesemente non interessa ai fini delle indagini - un modo per evitare di trascrivere particolari irrilevanti. Sarà poi consentito agli avvocati di eccepire sulla rilevanza delle intercettazioni. Il difensore potrà ancora accedere all’archivio riservato - quello nel quale vengono conservati tutte le intercettazioni non (o non ancora) giudicate rilevanti - con le medesime modalità di sicurezza. Potrà cioè solo ascoltare l’audio senza poterne avere una copia e senza poter prendere appunti (cosa invece possibile per le intercettazioni rilevanti). Ma se sorgerà una divergenza su cosa è o non è irrilevante avrà la possibilità di rivolgersi al giudice (in contraddittorio con il pm). Decreto intercettazioni, meno limiti al difensore di Errico Novi Il Dubbio Consentiti l’esame e la copia del materiale. La riforma delle intercettazioni fa un mezzo passo avanti verso la tutela del diritto di difesa. All’avvocato saranno consentiti l’accesso per via telematica a tutto il materiale depositato e l’acquisizione diretta dall’archivio del pm delle conversazioni non trascritte, con possibilità di estrarre copia. Ma il decreto con cui Bonafede ha proposto ieri agli alleati la “correzione” del testo Orlando non rende davvero efficace il divieto di captare i colloqui fra difensore e assistito. n passo avanti verso le esigenze della difesa, ma non risolutivo. Il decreto intercettazioni riveduto e corretto dal guardasigilli Alfonso Bonafede è la vera novità anche per l’ennesimo conclave sulla giustizia, celebrato ieri pomeriggio a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte. Ed è anche una risposta efficace, almeno in parte, alle contraddizioni fatte emergere subito dopo l’emanazione del decreto Orlando, due anni fa, da Cnf, Unione Camere penali e Anm: il testo integrativo discusso nel vertice di ieri ridefinisce il divieto di trascrivere le parti irrilevanti o lesive della privacy, che non saranno dunque “filtrate” arbitrariamente dalla polizia giudiziaria, e prevede anche modalità soddisfacenti per l’accesso del difensore, persino la possibilità di estrarre copia. Restano però alcune gravi questioni aperte. Spiare l’avvocato, il divieto virtuale - La più importante riguarda il divieto di intercettare il difensore, che continua a essere non effettivo. Nella bozza esaminata ieri dal ministro Bonafede con gli alleati non compare infatti alcuna modifica all’articolo 103 del codice di procedura penale, in particolare rispetto alle conversazioni fra l’avvocato e il suo assistito, che restano sì inutilizzabili ma che in realtà i pm potranno continuare ad acquisire, con la possibilità - per i più scorretti - di ascoltarle comunque, e di svelare in modo indebito la strategia difensiva. Il nodo resta eccome, e al momento la maggioranza sembra troppo distratta da altri aspetti del decreto intercettazioni e, soprattutto, dall’eterno tira e molla sulla prescrizione. Ma, come auspicato più volte dal presidente del Cnf Andrea Mascherin, lo stesso esame parlamentare del decreto integrativo di Bonafede potrà essere l’occasione per tutelare finalmente la segretezza delle comunicazioni professionali del difensore. Cosa dicono le nuove norme - Sono gli aspetti tecnici di una giornata complessa, segnata dalle difficoltà di concludere un accordo in tempi rapidi. L’analisi puntuale delle norme avviene in tempo reale nella stessa riunione di ieri pomeriggio, decisa solo poche ore prima: molti dei numerosi partecipanti all’incontro non hanno avuto modo di arrivarci “preparati”. Altra complicazione è lo stridore fra l’imminente entrata in vigore della nuova prescrizione, a cui Pd e Italia viva sono ormai rassegnati, e il rinvio delle norme sulle intercettazioni, materia tenuta in sospeso fino alla fine del vertice, che finisce quando questo numero del Dubbio è già in tipografia. Nel dettaglio, le correzioni alla riforma Orlando appor0tate dal testo “integrativo” di Bonafede, anche sulla scia delle richieste di avvocatura e Anm, ricalibrano uno dei punti chiave del testo di due anni fa (mai entrato in vigore): la non trascrivibilità delle comunicazioni irrilevanti e lesive della privacy. Un divieto non più esplicito per la polizia giudiziaria, in modo da sciogliere il paradosso di una selezione del materiale da riportare nei verbali che altrimenti sarebbe rimasta tutta in capo agli agenti. Non sarà più così, perché gli addetti alle captazioni ora potrebbero anche verbalizzare tutto, ma dovranno tener conto che poi il pm vigilerà affinché dai brogliacci restino fuori quanto meno le espressioni lesive della reputazione, o della privacy, delle persone coinvolte, sdoganate però se rilevanti per le indagini. È chiaro che un problema resta, perché il meccanismo non impedirà di nascondere aspetti utili alla difesa. Però a fare la differenza è un’altra modifica del codice di rito che consente all’avvocato di esaminare per via telematica tutto il materiale intercettato e verbalizzato per via telematica. Sempre il difensore sarà tra le categorie autorizzate ad accedere fisicamente all’archivio riservato del pm, dov’è custodito anche il materiale non trascritto. Potrà ascoltarlo ed estrarre copia dei file, e i suoi accessi, come quelli di magistrati, agenti e cancellieri, saranno debitamente annotati in un registro digitale. Rispetto alla tutela della privacy, si interviene un po’ a macchia di leopardo. Ridefinito il divieto di trascrizione, con il controllo più stringente del pm, c’è il divieto di pubblicare tutte le intercettazioni irrilevanti, senza però che vengano irrobustite le patetiche sanzioni per chi il giornale che se ne infischia (127 euro di “multa”). Viene introdotto un ulteriore controllo del giudice sull’eventuale sopravvivenza di brogliacci non rispettosi della privacy. Sembrano più utili, però, non solo la ribadita tracciabilità degli accessi all’archivio riservato del pm, ma anche l’indicazione, rimasta integra rispetto al testo di Orlando, secondo cui nelle richieste del pm sono riprodotti “solo i brani essenziali” del materiale intercettato. Confermate le indiscrezioni sulla estensione dell’uso dei trojan a tutti i reati di corruzione con pena dai 5 anni in su: lo “spazza corrotti” lo aveva consentito solo per gli illeciti commessi dal pubblico ufficiale. Così come trova accoglienza una delle richieste più pressanti avanzate dai capi delle grandi Procure, la norma transitoria: il testo di Bonafede chiarisce che le nuove norme si applicano solo ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della riforma. Giustizialismo bipartisan: manette ai No Tav, prigione a Salvini di Piero Sansonetti Il Riformista È possibile opporsi al blocco delle navi che soccorrono i migranti, senza chiedere l’arresto, o la condanna per reati gravissimi, di chi invece è favorevole al blocco? Seconda domanda: è possibile essere favorevoli alla Tav senza chiedere la prigione per chi si oppone alla Tav? Ecco, io per esempio sono per la piena accoglienza dei migranti, e depreco le posizioni dell’ex ministro Salvini, che considero reazionarie, sbagliate e anche, talvolta, poco umane: e tuttavia non credo che il senatore Salvini vada messo in prigione. Così come, dopo lunghi “pensamenti” e dubbi, sono fondamentalmente favorevole alla realizzazione della Tav, ma trovo del tutto insensato andare la mattina presto ad arrestare i leader del movimento che si oppone alla Tav. Ieri è stato il giorno del trionfo dell’idea bipartisan delle manette come strumento essenziale di lotta politica. Abbiamo saputo che il tribunale dei Ministri di Catania ha respinto la richiesta di archiviazione, saggiamente avanzata dalla procura di Siracusa, e ha chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini che nel luglio scorso, quando era ministro dell’Interno, impedì per diversi giorni lo sbarco di un centinaio di migranti che erano stati soccorsi e trasportati a terra a bordo della nave Gregoretti, della Guardia costiera italiana. Il tribunale dei Ministri di Catania chiede che Salvini sia incriminato per sequestro di persona, e cioè lo paragona ai banditi che negli anni Ottanta rapivano le persone ricche - anche i bambini - per ottenere cospicui riscatti. La pena prevista per il reato contestato a Salvini è di 15 anni di prigione (e la prescrizione scatterà, con la legge attuale, non prima del 2035). I Cinque stelle l’anno scorso hanno negato l’autorizzazione a procedere, ma stavolta hanno annunciato che la daranno. Santa coerenza. Nella stessa giornata di ieri la polizia - su mandato della Procura di Torino - ha realizzato una vera e propria retata contro i leader del movimento no Tav. Ha arrestato i due principali leader del gruppo di estrema sinistra che si chiama Askatasuna. (Askatasuna è una parola della lingua basca: vuol dire libertà; ed è anche il nome di un partito politico nazionalista basco di estrema sinistra). 14 arresti in tutto. I più noti sono Giorgio Rossetto e Mattia Marzuoli, che sono tra i leader più in vista del movimento no Tav e che nel luglio scorso, insieme a qualche centinaio di attivisti, partecipano alla manifestazione notturna davanti ai cancelli del cantiere Tav a Chiomonte. È una manifestazione “estiva” che si svolge tutti gli anni. I nemici della Tav si riuniscono, sfilano, cantano, fanno casino. Qualche volta sparano un po’ di fumogeni. Non hanno mai né ferito né contuso nessuno. Neanche una sbucciatura. Non c’è mai stato scontro fisico con la polizia, che in genere resta dentro il recinto dei cantieri e risponde alle proteste tirando lacrimogeni. Ma i lacrimogeni vanno contro i manifestanti, non contro la polizia. Stavolta i leader dei no Tav sono accusati di avere incitato gli attivisti a danneggiare i cancelli, anzi, il cancello. Non è precisato quale danno sia stato provocato al cancello di ferro. Credo che sia stato notevolmente scrostato e che bisognerà riverniciarlo. I leader dei no Tav sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, perché non hanno rispettato l’ordine di andar via, di travisamento (reato del quale non so molto, e ignoro se abbia a che fare con la cattiva interpretazione dei testi) e - come si diceva - di danneggiamento. Non sono accusati di lesioni o di reati violenti. I reati contestati (compreso il pericoloso travisamento) sono di luglio, cinque mesi fa, non si può dire che ci sia piena flagranza. Qual è la ragione dell’arresto? La ragione è quella di sempre: fare la faccia feroce, mostrare potere, dare spettacolo. Torniamo a Salvini. Ieri, giustamente, ha fatto fuoco e fiamme per la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui. L’ha messa giù con i suoi toni esagerati di sempre, parlando di dovere di difesa dei confini nazionali. Io, naturalmente, penso che non ci fosse nessun confine da difendere, e che ci sia una bella differenza tra le armate austriache del generale Radetzky e quei 131 poveri africani, affamati e disperati, sfuggiti ai lager libici. Penso però che Salvini abbia ragione a infuriarsi contro l’insensatezza della richiesta di autorizzazione contro di lui, che appare un gesto di intimidazione e di invasione di campo da parte di un pezzetto della magistratura. Sempre più arrogante. Subito dopo però Salvini ha chiesto alla Procura torinese di non essere lassista e di agire con rigore e durezza contro gli oppositori della Tav. Ecco, io vorrei solo che Matteo Salvini si fermasse un attimo piccolo piccolo a riflettere. Come fa a non capire che non si può essere garantisti con la politica del palazzo, e con sé stessi, e poi superare il forcaiolismo di Travaglio, o di Caselli, quando le vittime dei manettari sono i suoi oppositori? Io sono certo che se si ferma a riflettere, e se per una volta rinuncia alla propaganda, capisce che le due posizioni sono incompatibili. Sui reati dei ministri non c’è certezza: inchieste, politica, e Consulta si incrociano di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio Può essere utile ricordare che l’impianto dei Costituenti per i reati ministeriali fu radicalmente mutato dalla legge costituzionale 1/1989, che basò l’accusa ai ministri sull’immunità ministeriale anziché sul foro speciale previsto dalla Costituzione del 1948. Per effetto del referendum dell’8 novembre 1987, niente più Commissione inquirente (“la grande insabbiatrice”, “il porto delle nebbie”); niente più Parlamento in seduta comune; niente più giudizio della Corte costituzionale. La cognizione dei reati ministeriali spetta oggi ai giudici ordinari, previa autorizzazione a procedere delle Camere. Quel referendum ebbe il valore abrogativo evidente, proprio del referendum, ed un valore propositivo schiettamente politico: l’elettorato reclamava per i ministri una giustizia eguale agli altri cittadini. Le ragioni della scelta operata dalla legge costituzionale 1/1989 furono dunque sia politiche che giuridiche. Quanto alle prime, furono almeno tre: depoliticizzare il giudizio sui ministri; parificare quanto più possibile le posizioni dei membri del governo a quelle dei cittadini comuni; abolire un privilegio particolarmente odioso che a taluni pareva essersi trasformato in impunità. Quanto alle seconde, furono almeno quattro: l’eterogeneità del giudizio sulle leggi e sugli uomini rendeva la Corte costituzionale, secondo molti, un giudice inidoneo a giudicare i ministri; il giudizio in unico grado per politici e laici violava il doppio grado di giurisdizione; la parzialità del giudice, considerato che ai quindici giudici costituzionali si aggiungevano i sedici laici; la Corte costituzionale doveva essere sollevata dagli impegni penali che intralciavano il sindacato delle leggi. I cardini del sistema sono due, fissati dagli articoli 1 e 9 della legge suddetta: il presidente del Consiglio e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione della Camera o del Senato; l’Assemblea competente può, a maggioranza assoluta dei componenti, negare l’autorizzazione ove reputi, “con valutazione insindacabile”, che l’inquisito abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Se l’autorizzazione a procedere è concessa, la cognizione dei reati spetta al giudice ordinario, che non è il c. d. “tribunale dei ministri” (come troppi son malamente portati a credere da superficiali divulgatori). Questo collegio di tre magistrati estratti a sorte ogni due anni non è il tribunale vero e proprio perché non possiede la funzione giudicante, bensì i poteri del Pm e del Gip. Invece il giudizio spetta in primo grado al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le comuni norme del codice di procedura penale. A parte la controversa natura del diniego dell’autorizzazione, la discussione parlamentare della riforma fu incentrata sui due presupposti, sui due motivi di diniego (esimenti in senso atecnico per comodità espositiva). I contrari opposero tre argomenti: innanzitutto, le esimenti avrebbero finito per formalizzare, in una legge costituzionale così importante, la cosiddetta ragion di Stato. Inoltre, avrebbero contribuito alla protezione di abusi governativi. Infine, violerebbero lo Stato di diritto. I favorevoli replicarono che, senza tali presupposti, la discrezionalità parlamentare sarebbe scivolata fatalmente nell’arbitrium merum cioè nella totale libertà di scelta. Pertanto, definire le esimenti, serviva a restringere, non già ad allargare la potestà delle Camere di negare l’autorizzazione. E, in effetti, così è. Un acuto studioso osservò che la maggioranza assoluta qui serve a sottrarre il ministro al processo, non a sottoporvelo. Differenza di un certo peso. Fu detto nella discussione che “l’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” farebbe riferimento a valori ed interessi scritti nella Costituzione o direttamente tutelati da norme costituzionali, mentre “il preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” richiamerebbe gli interessi pubblici non immediatamente contemplati in Costituzione, ma, evidentemente, tutelati in via indiretta. Il punto cruciale della legge costituzionale 1/1989 sta nella valutazione delle Camere circa i presupposti dell’insindacabilità. Il legislatore costituzionale volle affermare, chiaro e tondo, che la Camera competente è l’unico giudice, di fatto e di diritto, dell’esistenza dei presupposti. Tuttavia, a chi reputa incostituzionale l’insindacabilità della valutazione parlamentare, si contrappone chi considera tale insindacabilità come la riaffermazione della sovranità politica che, a determinate condizioni, può o deve poter sottrarre allo Stato di diritto la potestà d’imperio, sebbene possa apparire una reviviscenza della teoria e della pratica del governo illimitato. La Corte costituzionale, chiamata a decidere nei conflitti d’attribuzione insorti a riguardo tra magistratura e Camere, sembra inclinare a riconoscere l’insindacabilità purché congruamente motivata e rispettosa dei diritti inalienabili. In conclusione, la riforma costituzionale del 1989, e le fonti ordinarie e regolamentari che la completano, non hanno portato all’auspicata certezza del diritto su un punto cruciale dell’ordinamento. La responsabilità dei reati ministeriali resta sospesa e contesa tra maggioranze parlamentari, inchieste della magistratura, conflitti di attribuzione, giudizi della Corte costituzionale. Mafia. Per la Cassazione il ravvedimento di Brusca non è compiuto La Repubblica Per la Suprema corte la “caratura criminale” e la “gravità dei reati commessi” dal collaboratore di giustizia non permettono la concessione degli arresti domiciliari. E il “compiuto ravvedimento” e il “pentimento civile” vanno approfonditi e verificati nel tempo. Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci e dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo non può andare ai domiciliari: la sua “caratura criminale” e la “gravità dei reati commessi” non permettono la concessione di questo beneficio, per il quale è necessario che ci sia un “compiuto ravvedimento” e il “pentimento civile”, elementi che vanno approfonditi e verificati nel tempo. Lo spiega la Prima sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 7 ottobre, ha respinto la richiesta di domiciliari al collaboratore di giustizia ed ex boss di Cosa nostra, che sconta a Rebibbia 30 anni di carcere, con fine pena nel 2022. Brusca chiedeva di poter accedere agli arresti domiciliari, istanza già respinta dal tribunale di sorveglianza di Roma. Ma proprio la “caratura criminale che ha dimostrato nella sua vita di possedere” portano a considerare “non ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento, ma solo di un ravvedimento non compiuto, anche considerata l’incertezza del completamento del suo percorso di pentimento”. Con la sentenza depositata oggi, i giudici di piazza Cavour condividono le conclusioni del Tribunale di sorveglianza della capitale, rilevando “l’insussistenza della prova di un effettivo compiuto ravvedimento”, e che “lo sforzo di Brusca nel manifestare il suo pentimento civile e il suo intento di riconciliazione nei confronti delle famiglie delle vittime e della società tutta vadano approfonditi e verificati nel corso del tempo”. Inoltre, si legge ancora nella sentenza, “a fronte delle indubbie manifestazioni di resipiscenza” di Giovanni Brusca, le “iniziative riparatorie” da lui intraprese non sono “ancora espressione di un suo compiuto ravvedimento”, ma che tale percorso “sia attualmente soltanto positivamente avviato”. Dunque, il “positivo percorso trattamentale portato avanti da Brusca”, continua la Suprema Corte, il “suo ‘buon’ livello di revisione critica del passato e il comportamento collaborativo da lui tenuto” non sono indici “sufficienti” in relazione al suo “indiscusso spessore criminale”. Nella sentenza della Cassazione infatti si ricorda che la “storia criminale di Brusca è senza dubbio unica e senza precedenti”, con “più di cento omicidi commessi, con le modalità più cruente, in alcuni casi senza selezionare le vittime, ma colpendo indifferentemente bambini solo per realizzare vendette trasversali, capi mafia, servitori dello Stato, privati cittadini caduti nell’ambito dell’attività stragista”, e come, “tra tanti ‘uomini d’onorè, nessuno avesse realizzato un pari percorso sanguinario, manifestando inusitata violenza e assoluto spregio per il valore della vita umana”. Lombardia. Il Garante dei detenuti incontra Direttori delle carceri e Provveditori di Maurizio Pavani lombardiaquotidiano.com “Sono molto soddisfatto per i risultati positivi ottenuti con il tour di presentazione dello Sportello del Garante dei detenuti presso le carceri lombarde e molto motivato per i progetti formativi che andremo a realizzare nel 2020 in ambito sanitario di primo soccorso e con il monitoraggio territoriale dei defibrillatori presenti nelle carceri. Anche coloro che nella vita hanno commesso degli errori e per questo si trovano reclusi, devono sapere che le istituzioni non li lasceranno mai soli perché anche dal carcere si può ricominciare una nuova vita rispettosa dei diritti degli individui, uomini, donne e bambini”. Lo ha detto questa mattina il Difensore regionale della Lombardia Carlo Lio alla presenza dei Vice Presidenti del Consiglio regionale Francesca Brianza e Carlo Borghetti, della Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa e dell’ex provveditore alle carceri lombarde e “storico” direttore di San Vittore Luigi Pagano, durante l’incontro e scambio di auguri in occasione delle festività natalizie che si è tenuto al 23° piano di Palazzo Pirelli con i Direttori delle Carceri lombarde, i comandanti della Polizia penitenziaria e Provveditori regionali. Al centro della riunione, un bilancio sulle positive iniziative intraprese nel corso del 2019 con le aperture degli “Sportelli del Garante dei detenuti” presso le case di detenzione della Lombardia e la presentazione di un nuovo progetto formativo in ambito sanitario e di intervento di primo soccorso riservato ai detenuti che vorranno specializzarsi in questo settore. Al progetto formativo si affiancherà la mappatura-monitoraggio dei defibrillatori. I Servizi dello “Sportello del Garante dei detenuti” sono già attivi nelle Case Circondariali e di Reclusione di Milano-San Vittore, Milano-Opera, Milano-Bollate, Monza, Busto Arsizio, Pavia, Vigevano, Voghera, Como, Bergamo, Brescia-Canton Monbello, Brescia-Verziano, Lodi e Varese. Spoleto (Pg). Detenuto si toglie la vita in carcere Corriere dell’Umbria Dramma nel carcere di Spoleto dove si è tolto la vita un detenuto di 40 anni. Il corpo senza vita del recluso, di nazionalità albanese, è stato rinvenuto all’interno della cella che gli era stata assegnata recentemente a seguito del rientro a Spoleto dopo un periodo trascorso in un istituto toscano. A fare la tragica scoperta sono stati gli agenti della polizia penitenziaria durante il controllo della sezione comune, come conferma Roberto Filippi dell’Osapp. Inutili i soccorsi per il quarantenne che si è suicidato impiccandosi. Profondo il dolore all’interno del carcere di Maiano per l’estremo gesto del detenuto, che all’interno del carcere di Spoleto ha sempre avuto un comportamento esemplare. Era un grande lavoratore e fruiva di permessi. Non ci potevamo immaginare un gesto così grave da parte sua”. Campobasso. Detenuto morto, caccia alla verità: in aula i filmati della videosorveglianza isnews.it Nuova udienza in Corte d’Assise del processo per il decesso di Fabio De Luca avvenuto nel penitenziario di Isernia. In aula ricostruito l’iter delle indagini. Nuova udienza stamane in Corte d’Assise a Campobasso del procedimento che vede imputati Francesco Formigli ed Elia Tatangelo per la morte di Fabio De Luca, detenuto nel carcere di Isernia, avvenuta nel novembre del 2014. In aula sono approdati i filmati girati dal sistema di sorveglianza del penitenziario di Ponte San Leonardo: video che riprendevano il corridoio nei momenti immediatamente precedenti e poi successivi al tragico evento. E sono stati analizzati altresì i passaggi salienti delle indagini svolte. Il tutto per ricostruire la dinamica dei fatti e rispondere al quesito: omicidio o malore? Domanda cui si cerca di dare risposta anche nel corso del processo parallelo, di scena a Isernia, che vede accusato del presunto delitto una terza persona: il 25enne campano Aniello Sequino. Intanto, l’udienza nel capoluogo di regione è stata aggiornata al 31 gennaio prossimo. In quella circostanza è prevista l’escussione di altri nove teste del pubblico ministero. Si tratta della ex fidanzata del 45enne scomparso, un familiare della donna, un ispettore di polizia penitenziaria e ben sei detenuti. I fatti, si ricorda, risalgono alla sera del 5 novembre 2014, quando De Luca fu portato d’urgenza all’Ospedale Veneziale con pesanti traumi alla testa. Si parlò di caduta accidentale. L’uomo, secondo le ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, che indagò sul caso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in Rianimazione, il 45enne morì al Cardarelli, dove nel frattempo era stato trasferito. L’autopsia, eseguita due giorni dopo il decesso, stabilì che le ferite sul corpo di De Luca erano incompatibili con una caduta accidentale. “Trauma cranico multifocale”: fu il responso contenuto nella relazione del medico legale Vincenzo Vecchione. Morte indotta, dunque, forse a seguito di un pestaggio in cella. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili, ora a giudizio. Torino. Nuove proteste al Cpr, tensione tra i migranti reclusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio Sovraffollamento, riscaldamenti guasti e mancanza di prodotti per l’igiene. Ancora proteste da parte dei migranti reclusi nel centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino. Si è appreso solo ieri della rivolta scoppiata lunedì scorso. Le tensioni sono iniziate nell’area bianca, dove quattro persone hanno provato a fuggire in occasione dell’uscita dal centro degli addetti alle pulizie, e sono continuate nell’area rossa, dove i trattenuti nella struttura hanno preso diversi arnesi di un’impresa impegnata in lavori e li hanno lanciati contro le forze dell’ordine. Il giorno prima, domenica 15 dicembre, alcuni ospiti dell’area rossa del complesso avevano incendiato materassi, divelto porte e inferiate, distrutto televisori. Alcuni ospiti erano anche saliti sul tetto dei container. Fa il paio con l’altra rivolta, quella del 25 novembre scorso, quando un gruppo di migranti irregolari ha dato fuoco e distrutto ben otto unità abitative delle aree viola e gialla. La situazione è di fatto insostenibile. I migranti protestano per le condizioni del centro. Secondo chi protesta il riscaldamento non funziona, le docce sono fredde, mancano materassi e molti degli ospiti devono dormire per terra. Mancano inoltre prodotti per l’igiene, l’assistenza sanitaria, le coperte sarebbero sporche e si denunciano anche sovraffollamento e casi di maltrattamenti da parte del personale di vigilanza. La situazione è sempre più problematica. In primis la struttura. D’inverno ci sono problemi con il riscaldamento ed in estate non ha mai funzionato l’impianto di condizionamento dell’aria. La campagna LasciateCIEntrare ha denunciato diversi casi inumani, come un uomo tunisino, affetto da una semiparalisi, che per accedere ai servizi igienici deve essere legato con corde improvvisate. Situazioni denunciate però da ben altri organismi. Nel dicembre del 2018 la Human Rights and Migration Law Clinic, in collaborazione con l’International University College di Torino, i Dipartimenti di Giurisprudenza dell’Università di Torino e l’Università del Piemonte Orientale di Alessandria, ha realizzato il rapporto “Uscita d’emergenza”, in cui si esamina la situazione della tutela della salute dei trattenuti all’interno del Cpr di Torino. Il quadro descritto è allarmante. La politica sanitaria all’interno del Centro è caratterizzata da un approccio informale, poiché non è previsto alcun tipo di preventiva valutazione tecnica circa la compatibilità tra lo stato di salute del migrante e la misura restrittiva. Né, ed è altrettanto grave, si garantisce la continuità terapeutica. Emerge, inoltre, la non adeguatezza del numero del personale medico e del numero di ospiti all’interno della struttura torinese. In ultimo, si è osservato come “la condizione di grave afflizione in cui versano molti dei detenuti, aggiunta alla concreta improbabilità di essere rilasciati dal Centro a seguito di un provvedimento giudiziario di non convalida o non proroga del trasferimento - ipotesi statisticamente inferiore al 5% dei casi nel Cpr di Torino - esponga gli stranieri alla tentazione dell’autolesionismo, sacrificando il proprio benessere ed utilizzando il corpo come arma di negoziazione per la liberazione”. Il disagio aumenta, la sofferenza non acuisce e i migranti, senza aver commesso alcun reato, si trovano di fatto reclusi essendo degli irregolari. Attualmente, i Cpr operativi sono 7, situati in 5 regioni. Sono previsti 1.035 posti complessivi, di cui effettivamente disponibili 715. Per legge i centri devono essere strutturati in modo da garantire l’erogazione dei servizi stabiliti nel capitolato di appalto, quali la fornitura di vitto e l’alloggio, la cura dell’igiene, l’assistenza generica alla persona (compresa la tutela psicologica), la tutela sanitaria (con l’allestimento di un presidio medico fisso neri centri di capienza superiore a 50 posti). Ma nei fatti la situazione è diversa. Agrigento. Indagine della Procura per presunti abusi all’interno del carcere di Donata Posante (Avvocato) agrigentooggi.it È notizia delle ultime settimane l’avvio di un’indagine da parte della Procura della Repubblica di Agrigento - al momento a carico di ignoti - per presunti abusi perpetrati all’interno del carcere Petrusa di Agrigento, verosimilmente nella zona dedicata al cosiddetto isolamento carcerario. L’indagine ha preso avvio, come noto, a seguito di un dossier presentato dalla delegazione del partito dei Radicali che nel mese di agosto scorso aveva fatto un accesso ispettivo nella struttura della casa circondariale Di Lorenzo per verificarne le condizioni di operatività. Condizioni, queste ultime, che non devono aver confortato e soddisfatto i visitatori sul rispetto delle garanzie vigenti - o che tali dovrebbero essere - all’interno della struttura carceraria. Il dossier che ne è seguito, oltre a sollecitare l’intervento della magistratura, deve aver indotto anche alcuni altri detenuti - circa una trentina - a segnalare e denunciare presunti abusi e violenze subite durante la detenzione. È presto, data anche le scarne notizie diffuse, per trarre indebite conclusioni, ma è sicuramente lo spunto, per vero non l’unico nel panorama nazionale, per una riflessione più ampia relativamente ai cosiddetti diritti del detenuto. La situazione attuale delle carceri italiane ha richiesto e continua a richiedere un rafforzamento, ed a volte purtroppo una vera e propria affermazione, della tutela dei diritti di chi è privato della libertà personale. Tale rafforzamento non può che fondarsi in primis sul rilievo che occorre fermamente prescindere dalle ragioni per cui sono ristretti coloro che si trovano in carcere e dal reato da questi commesso, dal più grave al meno allarmante: tutti, indifferentemente, sono uniti da un’intrinseca vulnerabilità che necessità protezione a 360 gradi. E la protezione per essere tale non può e deve guardare alle ragioni che abbiano determinato la detenzione. Passaggio, quest’ultimo, delicato e di difficile attuazione culturale specie in un paese in cui la politica, i mass media o chi per loro, tendono all’inverso risultato dell’allarmismo e dell’ingenerato timore nel cittadino verso chi è colpevole o presunto tale. Una visione cinica e volutamente miope che finge di non tenere conto che nella maggior parte dei casi - certo non tutti - il reo, il reato, la condotta di disvalore penale è solo il portato ultimo di un’indifferenza ed ingiustizia sociale perpetrata a più riprese e più livelli da cui è arduo uscire indenni e senza peccato. Ma il monito al rafforzamento delle garanzie dei detenuti dovrebbe passare anche per il tramite del puntuale riconoscimento delle tutele che risultano già positivizzate e spesso dimenticate nel nostro ordinamento. Dovrebbero orientarci, in tal senso, l’assolutezza e tassatività dell’art. 13 della Costituzione; la personalità della responsabilità penale nell’esteso significato del principio sancito all’art. 27 della carta fondamentale; la Legge 354 del 1975 recante le norme sull’ordinamento penitenziario ed in particolare l’introduzione esplicita nella sua prima disposizione della necessità che il trattamento sia dignitoso e conforme ad umanità, improntato all’imparzialità, ispirato al principio di non colpevolezza dell’imputato sino alla condanna definitiva, ed infine teso, per vocazione costituzionale, alla rieducazione del condannato ed al suo reinserimento in società; le Convenzioni internazionali di cui il Paese è parte. Tutto chiaro, tutto scritto: spesso non attuato. La tutela dei diritti delle persone private della libertà deve poi necessariamente misurarsi con la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione, accesso spesso inibito dalle scarse conoscenze del detenuto non supportate adeguatamente dall’assistenza del legale. Proprio l’ultima relazione al Parlamento del 2019 del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha segnalato, con preoccupazione, che nell’ultimo anno la popolazione detenuta è cresciuta di 2047 unità, e che correlativamente, tuttavia, il numero di coloro che sono entrati in carcere dalla libertà è diminuito di 887 unità: l’aumento, in altre parole, non sembra dovuto a maggiori ingressi, bensì a minore possibilità di uscita. Certo tutto quello che precede, seppure limpidamente riconoscibile, non è di facile attuazione perché necessita di un delicato bilanciamento tra situazioni che tutte abbisognano di tutela: i diritti del detenuto che in quanto persona gode di tutele irrinunciabili ed indeclinabili, il diritto di quanti vogliono vivere in una società ordinata e tranquilla, e il comprensibile diritto di chi ha sofferto, di chi è vittima di un reato, a vedersi riconosciuto quanto patito. Una miscellanea difficile ma non impossibile che non può e deve prestare il fianco ad un affievolimento dei diritti del detenuto perché se è vero che questi deve ricostruire o in alcuni casi formare un senso di legalità mai posseduto, questa operazione diventa impossibile se il luogo deputato a questa ricostruzione, il carcere, viola e mortifica quella stessa legalità. Taranto. I detenuti-muratori sistemano le scale del carcere Gazzetta del Mezzogiorno Dieci ospiti della casa circondariale di via Speziale, hanno imparato le tecniche di restyling di opere murarie lavorando sul campo all’interno della struttura Carmelo Magli. L’iniziativa, possibile per un progetto portato avanti dall’associazione Homines Novi, che ha intercettato un avviso pubblico della Regione Puglia, ha permesso di eseguire interventi sulle scale detentive del primo, secondo e terzo piano del carcere, e sulla scala agenti. Sono stati ripristinati, tappeti in gomma, risistemati i gradini e ripitturate scale e rampe. I risultati del corso di formazione, che ha impegnato i detenuti per un anno in lezioni di teoria e di pratica, dietro il coordinamento del tutor del progetto, il professor Salvatore Montesardo, e con l’ausilio tecnico e professionale dei docenti, gli ingegneri Alfonso Esposito e Mauro Capita, sono stati illustrati alla stampa questa mattina alla casa circondariale. Presenti la direttrice della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, la dottoressa Rossana Ercolano, responsabile della sezione Formazione professionale del Dipartimento per lo Sviluppo Economico, innovazione, istruzione, formazione e lavoro della Regione Puglia, il comandante della Polizia Penitenziaria di Taranto, Giuseppe Donato Telesca, ed il direttore dell’ente di formazione Homines Novi, Gianluigi Palmisano. Il corso - Nello specifico, i detenuti hanno seguito lezioni di disegno tecnico, organizzazione aziendale, sicurezza sui luoghi di lavoro, materiale di base per l’edilizia, e preparazione delle malte. L’attività di pratica è stata realizzata grazie al coinvolgimento attivo di professionisti operanti nel settore, che hanno messo a disposizione materiale di consumo per raggiungere gli obiettivi formativi previsti dal progetto. L’attività di accompagnamento ed affiancamento consulenziale è stata curata dall’associazione di promozione sociale Massimo Troisi. La relazione - “Tutte le lavorazioni - si legge nella relazione dei docenti Alfonso Esposito e Mauro Capita - sono state eseguite dai detenuti con impegno e dedizione ed i risultati ottenuti sono stati soddisfacenti ed al tempo stesso hanno in parte risposto alle richieste della Direzione della casa circondariale, per una maggiore sicurezza dei vani scale e un miglior decoro delle strutture oggetto degli interventi, rispettando il progetto presentato e finanziato”. La qualifica sarà senz’altro spendibile nel mondo del lavoro una volta che questi operatori avranno scontato il loro debito con la società. Si è infatti già potuto creare un ponte di comunicazione tra la realtà carceraria e il mondo occupazionale, anche attraverso un vero e proprio sportello informativo. “Il nostro intento - commenta il direttore Palmisano - è quello di contribuire a dare una possibilità di reale “riscatto” a queste persone. Abbiamo lavorato per rafforzare la loro autostima ed agevolarli nel concreto ingresso nel mondo del lavoro attraverso un orientamento mirato al reinserimento occupazionale, alle logiche legate all’etica del lavoro, e soprattutto rivolte aduna ricerca attiva, offrendo inoltre strumenti per muoversi nella società esterna una volta scontata la pena”. Roma. Economia carceraria e sostenibilità: il caso di Vale La Pena Pub & Shop di Antonella Coppotelli greenstyle.it La sostenibilità a Roma ha una nuova casa grazie a economia carceraria e a Vale la pena Pub & shop. In via Eurialo 22, nel cuore dell’Alberone, quartiere romano che si sviluppa tra l’Appia e la Tuscolana, due tra le più importanti e trafficate vie consolari della Capitale, vive una realtà che con costanza e dedizione ha dato vita a un importante progetto di carattere sociale: Vale La Pena Pub & Shop. Nato per volere di Paolo Strano, fondatore di Semi di Libertà Onlus, associazione votata al reinserimento nel mondo lavorativo degli ex detenuti o ancora in libertà vigilata, Vale la Pena Pub e Shop è il primo esercizio fisico in Italia basato interamente sull’economia carceraria. A raccontarci il progetto e la sua evoluzione negli anni che ha forti connotazioni sostenibili e a basso impatto ambientale sono i tre gestori attuali: Veronica, giornalista professionista specializzata in comunicazione istituzionale, che collabora in qualità di volontaria, Oscar La Rosa, fondatore di Economia Carceraria ed ex volontario della Onlus e Massimo, responsabile della cucina. Tre anime con passato, background e formazione differenti ma tutte accomunate da un unico obiettivo: combattere la recidiva di chi torna in libertà ma non ha reali strumenti per un corretto reinserimento nella società, in primis un impiego regolare. A oggi i dati che i tre gestori ci comunicano sono impressionanti: solo il 30% degli ex detenuti può davvero considerarsi tale e ricominciare a vivere, il rischio di recidiva e di ritorno a commettere illeciti è davvero molto elevato. Percentuale destinata ad aumentare se già durante il periodo di reclusione viene insegnato a chi sconta la pena un mestiere e la relativa etica che ne deriva, quasi a voler confermare l’antico detto che il lavoro nobilita l’uomo e lo rende libero, aggiungiamo noi. Non può essere altrimenti dal momento che l’articolo 1 della nostra Costituzione (e le magliette che i ragazzi vendono nel pub) recita a chiare lettere che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, fondamento che, però spesso, tendiamo a dimenticare. L’economia carceraria e Vale La Pena Pub & Shop fanno bene, quindi, per più di un motivo: in primis permettono al detenuto di imparare una professione che diverrà il suo punto di forza una volta che tornerà in libertà. Molti di loro continuano a lavorare nelle cooperative che hanno investito nel progetto ma tanti altri vanno avanti per la propria strada, potendo contare su un know-how che diventerà un asset su cui puntare. Come logica conseguenza la possibilità di recidiva si abbatte e si immette nella società una forza lavoro pulita, regolare e in grado di pagare le tasse facendone beneficiare la società intera. Forse non tutti sanno che il costo sostenuto dai cittadini per le carceri si riferisce solo allo stabile e al personale, mentre è il detenuto che deve far fronte alle spese quotidiane per la propria permanenza in galera. Quando si esce, prima o poi, bisogna pagare le spese di mantenimento, emesse con una cartella esattoriale da Equitalia Giustizia. E nel caso in cui non si lavori durante la propria detenzione, cosa succede? Difficoltà o resistenza nel trovare un lavoro regolare, perché in automatico scatta una trattenuta sullo stipendio e, soprattutto, la possibilità di tornare a vecchi schemi mentali e modus operandi che, nella maggior parte dei casi, lo riporteranno a delinquere. Bando ai buonismi, però, come sottolinea spesso Veronica durante la nostra chiacchierata: non tutti, a prescindere, sono propensi e pronti a mettersi in discussione e nel pub viene data una possibilità solo a chi ha davvero voglia di lavorare con impegno e determinazione. Insomma l’esser stati detenuti non è né un valore aggiunto né una diminutio; ciò che conta è solo chi si vuole essere e cosa si vuole fare della propria vita. Anche perché le produzioni che hanno il marchio di Economia Carceraria sono quasi tutte legate al cibo e si basano sull’utilizzo di materie prime eccellenti che richiedono cura, perizia e pazienza, giocando per quest’ultima caratteristica sul concetto di tempo che in carcere assume un altro significato. Tutto ciò fa sì che vi sia un’attenzione spasmodica al particolare e alla perfetta integrità del prodotto finale, privilegiando la filiera corta e una modalità di lavoro assolutamente artigianale anche per un limite stesso imposto dalla legge di far entrare macchinari in carcere che impedirebbero la partenza del progetto. La salubrità dei prodotti e la relativa artigianalità è testimoniata dall’etichetta stessa, che contiene solo ingredienti naturali e scadenze brevi (3, 9 e 12 mesi; con l’eccezione dei 24 mesi per caffè e tisane) a riprova del fatto che è bandito ogni tipo di conservante e che è salvaguardato tutto il processo di sostenibilità e filiera breve. A seconda della regione aderente al progetto di economia carceraria, l’ingrediente protagonista cambia facendo della località di origine il punto di forza e il proprio vessillo alimentare: grissini a Torino, taralli a Trani, frutta secca e biscotti alle arance in Sicilia. Completa il tutto un marketing accattivante che gioca sulle etichette tra il concetto di prodotto libero e quello in “manette” come ad esempio testimoniano i brand “Cotti in Fragranza” o “Farina nel Sacco” tanto per citarne un paio. Tutti questi prodotti trovano spazio tra gli scaffali dello shop Vale La Pena e sono destinati alla vendita e all’utilizzo stesso della cucina diretta da Massimo, che, nella spesa quotidiana e nella sua offerta alimentare, non dimentica mai la stagionalità e il basso impatto ambientale da rispettare. Vietati in maniera categorica tutti quegli ingredienti che abbiano conservanti o che non sposino la filosofia del progetto e che non si armonizzino con la creazione di piatti pensati per l’abbinamento con la ricca offerta di birre servite nel locale: come ad esempio il “birramisù”, la sua ultima invenzione, che vuole i savoiardi inzuppati nella Chicca, una birra dolce e a bassa gradazione alcolica prodotta nel carcere di Salluzzo e che crea dipendenza immediata: l’unica ammessa qui. Vicenza. Dal carcere con Dolcissime Evasioni di Andrea Alba Corriere del Veneto Tre mesi fa la coop M25 ha riattivato il forno interno della casa circondariale vicentina Cinque detenuti hanno sfornato per Natale 1.500 panettoni, che sono andati a ruba. Ne hanno prodotti 1.500, raggiungendo e superando di metà l’obiettivo prefissato, ma a Vicenza si continuano a chiedere altri “panettoni del carcere”. La solidarietà ha fatto breccia in città e per le “Dolcissime Evasioni” - il nome che la cooperativa sociale M25, con una certa ironia, ha dato alla linea di dolci prodotti nel penitenziario vicentino - la richiesta supera l’offerta. “Siamo partiti tre mesi fa con il forno dolciario, è una scommessa - racconta Michele Resina, presidente della cooperativa - ci lavorano cinque detenuti volonterosi, che stanno imparando un lavoro guidati da un maestro fornaio”. La società mutualistica M25 è nata nel 2013 come emanazione, di fatto, della Caritas vicentina, per organizzare e gestire una serie di servizi molto diversi fra loro, ma tutti nell’ambito del terzo settore. Oggi, fra le attività seguite, c’è la gestione di centri diurni con pazienti psichiatrici, programmi di riabilitazione per i detenuti e reinserimento abitativo (Il Lembo del Mantello), gestione dei bici-park comunali di Vicenza (l’elenco completo è presente nel sito coopm25.org). “All’interno del penitenziario di San Pio X abbiamo iniziato a sviluppare dei progetti quasi tre anni fa - spiega Resina - inizialmente riattivando delle serre in disuso che erano presenti all’interno. A Vicenza adesso ci sono circa 800 metri quadri di coltivazioni in serra”. Il progetto, come tutti i progetti di M25, ha anche uno sbocco economico che permette alla cooperativa di rimanere in equilibrio: tutti gli ortaggi, coltivazioni che impegnano quattro detenuti, vengono acquistati da un gruppo di famiglie tramite un accordo di acquisto solidale. “Poi abbiamo dato vita a un laboratorio di assemblaggio, sempre dentro il penitenziario: ci lavorano 12 detenuti, sono assunti dalla cooperativa e hanno un tecnico specializzato che li segue”, specifica il presidente della Onlus. E visti “gli ottimi risultati” quest’anno si è deciso di sviluppare ulteriormente le attività nel carcere. Gli operatori hanno ridato vita a un forno per panificazione - adatto sia alla cottura di dolci che di panificati e di pizze - che era presente nel penitenziario ed era fermo da alcuni anni. “Grazie alla donazione di un imprenditore l’abbiamo messo a posto e fatto funzionare. E siamo partiti, con un certo ritardo rispetto alle previsioni - riprende Resina - i dolci in particolare abbiamo iniziato a farli tre settimane fa”. La produzione è incentrata sulla pasticceria da forno: panettoni artigianali (dal costo di 10 euro l’uno), pandori, “veneziane”. Oltre a una ventina di biscotti diversi: dagli “zaleti” ai “parpagnacchi”, dai baci di dama ai krumiri. Le Dolcissime Evasioni, accompagnate dallo slogan “Il lavoro è dignità e i suoi frutti profumano libertà”, finora hanno riscosso un deciso interesse. “Di panettoni ne abbiamo prodotti 1.500 e non riusciamo a star dietro alle richieste, è un peccato - conferma Resina -, purtroppo siamo partiti in ritardo sul previsto a causa di tempi lunghi per le autorizzazioni. Però i prodotti sono molto buoni e apprezzati”. I detenuti hanno inventato anche un dolce “tipico” della casa circondariale vicentina, chiamandolo La Domandina: “Un impasto di noci, fichi e nocciole che ironizza sul fatto che la prima cosa che si impara, in carcere, è chiedere. Per qualsiasi cosa va fatta “la domandina”, appunto”. Il presidente della cooperativa spiega anche l’impostazione economica del progetto, e i possibili sviluppi futuri. “Il nostro obiettivo è fare impresa sociale, insegnando ai detenuti un lavoro, ma il tutto deve sostenersi dal punto di vista economico. Il forno sta in piedi, abbiamo fatto una valutazione economica e con i numeri attuali l’attività regge”, precisa Resina. Per le attività con i detenuti la cooperativa si avvale anche dei forti sgravi contributivi previsti in questi ambiti dalla legge, proprio per favorire tali iniziative. “Il forno di per sé non può far lavorare più di 5 persone, ma vediamo uno sviluppo naturale - conclude il presidente di M25: momenti di formazione nei periodi morti. L’obiettivo è insegnare un mestiere e i nostri maestri artigiani sono veramente bravi: possono insegnare ai detenuti un’occupazione da spendere un domani, quando finirà la detenzione”. Bolzano. Il Vescovo Muser e la messa con i detenuti: “Il carcere resti umano” di Rosalba Cataneo Corriere dell’Alto Adige Messa natalizia in via Dante. Attesa per la nuova casa circondariale L’esempio di Bertoldi: volontario da 50 anni, aiuto le famiglie dei detenuti. “Il carcere resti umano. I detenuti devono assumersi le proprie responsabilità ma senza perdere la speranza”. È il messaggio lanciato ieri dal vescovo Muser in occasione della messa di ieri in via Dante. Fra i presenti anche Bertoldo, volontario che da 50 anni aiuta detenuti e famigliari. I tempi difficili che Charles Dickens raccontava nel suo omonimo romanzo dell’Ottocento, sono anche quelli di chi vive e lavora nella casa circondariale di via Dante, a pochi metri dal centro storico cittadino. Ieri mattina il vescovo Ivo Muser ha fatto visita ai carcerati nel suo tradizionale incontro di Natale, dedicando la sua omelia ai temi della responsabilità, della speranza e dell’umanità. “È importante salvaguardare le leggi - ha detto - ma queste da sole non bastano, devono essere applicate in modo umano. Non dobbiamo dire ai carcerati che quello che hanno fatto andava bene ma di assumersi le proprie responsabilità, pentendosi, ma ricordando loro di non perdere la speranza. Bisogna continuare Muser “Chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità ma non perdere la speranza” ad aiutarli e farli pensare al futuro”. Una messa molto sentita tra i circa 60 detenuti di diverse etnie (per lo più stranieri) presenti nei banchi della cappella. Alcuni di loro hanno partecipato in maniera più attiva leggendo degli stralci dal Vangelo e presentando il presepe. Nella cappella, nonostante l’allestimento natalizio, non sono passate inosservate le condizioni fatiscenti in cui versa l’edificio che ospita attualmente i circa 110 detenuti, a fronte di una struttura che ne può accogliere 85. Dopo l’ispezione, avvenuta due anni fa da parte dei rappresentanti nazionali delle Camere penali italiane che hanno indicato il carcere di via Dante come uno dei peggiori d’Italia, qualcosa, all’interno della casa circondariale sulle condizioni detentive dei carcerati, sembrerebbe essere migliorata. Ad esempio con l’apertura delle porte delle celle, che rende così possibile ai detenuti interagire tra loro e circolare liberamente in alcuni sezioni del carcere, ma anche i laboratori creativi. Ciononostante le condizioni di sovraffollamento restano critiche. A fronte di ciò, non bastano le 70 unità tra agenti, ispettori e sovrintendenti della polizia penitenziaria attualmente impiegate nella struttura. Ne servirebbe un’altra quindicina. Una soluzione che potrebbe in parte alleggerire questo problema è la costruzione di un carcere nuovo capace di contenere in maniera più dignitosa i detenuti. Proprio su questo argomento, all’interno della casa circondariale, ci si chiede che novità ci siano sul nuovo carcere che dovrà essere costruito. Al momento questa domanda pare non abbia ancora trovato una risposta. Bolzano non è l’unico esempio di carcere in Italia a dover far fronte ad un sovraffollamento di detenuti e alla carenza di personale. La differenza, però, è che la nostra Provincia avrebbe davvero i mezzi necessari per poter rispondere al problema. Anche il vescovo della Diocesi di Bolzano-Bressanone auspica che le parti trovino al più presto una soluzione: “Il carcere di Bolzano, nonostante tutte le problematiche, resta un contesto umano”, sostiene. Un esempio di umanità è quello di Bruno Bertoldi che fa volontariato in carcere da cinquant’anni: “Io e i miei colleghi facciamo quello che è possibile - spiega. Procuriamo il vestiario ai detenuti, cerchiamo di aiutare economicamente le famiglie di chi non può farlo. A Natale faremo loro dei regali utili così anche ai loro figli. Il mio detto è parlare poco e lavorare tanto, spero di poter continuare a farlo” racconta Bertoldi non senza una punta di commozione. Roma. I detenuti dell’Isola Solidale cucinano per i senzatetto di San Pietro romasette.it Appuntamento il 20 dicembre in via della Conciliazione. Serviti 40 pasti. Permesso speciale del magistrato per due ospiti, per essere in strada coi volontari. Riso con verdura e diverse varietà di frutto. Tutto fatto in casa. Ai fornelli: i detenuti dell’Isola Solidale, che domani, 20 dicembre, prepareranno i pasti che a partire dalle 21 saranno distribuiti ai senza tetto in via della Conciliazione dai volontari dell’Opera Divin Redentore. Con loro in strada anche due dei detenuti che si sono mobilitati per questa esperienza, che hanno avuto un permesso speciale dal magistrato; gli altri si occuperanno della cucina, dello sporzionamento dei pasti e del loro confezionamento. Per il presidente dell’Isola Solidale Alessandro Pinna si tratta di “un gesto di solidarietà e speranza che assume un alto significato in occasione del Natale. I nostri ospiti mi sorprendono ogni volta perché non si tirano mai indietro quando c’è da mettersi in gioco per chi è solo o in difficoltà. Penso che questo sia un segnale bello e commovente in vista delle festività natalizie”. In continuità con le iniziative di solidarietà portate avanti nel corso dell’anno ogni terzo venerdì del mese. Roma. Il mercatino di Natale “made in carcere” al Tribunale Ordinario Ristretti Orizzonti La Cooperativa Sociale “Together let’s Help the Community!” ha partecipato al mercatino di Natale tenutosi nel Tribunale Ordinario di Roma, sia nel settore penale che in quello civile, insieme ad “Economia Carceraria” e ad altre associazioni che lavorano nelle carceri e nelle strutture accoglienti per minori. L’iniziativa è stata organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) nella persona del Magistrato Emilia Conforti con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati e durerà fino al 19 dicembre 2019. L’obiettivo è quello di mettere in luce realtà che sono presenti dentro le case circondariali e le case-famiglia e che coinvolgono i propri ospiti nella creazione di oggetti di vario genere: dai manufatti artigianali in ceramica creati dalla fantasia dei minori, a prodotti alimentari, alcuni caratteristici del Natale, come torroni e panettoni. Le prelibatezze alimentari provengono da tutta Italia, create da imprese sociali e cooperative che investono negli istituti di pena, coinvolgendo le persone che vi vivono al loro interno. In tanti hanno contribuito al sostegno di queste realtà, comperando gli oggetti esposti: magistrati, avvocati e persone presenti nella struttura del Tribunale che, acquistandoli, hanno sostenuto un’attività importante per la comunità. Anche “Together let’s Help The Community” ha realizzato un successo con la vendita di molti vasetti di miele millefiori prodotto nella Casa Circondariale di Massa Marittima (Gr), nei formati attualmente disponibili (250 grammi e 50 grammi). Si ringrazia coloro che hanno aderito con entusiasmo e soprattutto gli organizzatori dell’evento per la visibilità e la possibilità concessa. Torino. Alberelli e quadri per ricominciare “daccapo” di Stefano Di Lullo vocetempo.it Il negozio-laboratorio della Caritas che coinvolge i detenuti del carcere Lorusso Cutugno. “Esiste uno spazio in città dove se anche ho smarrito la strada posso ricominciare daccapo”. La frase scritta su un cartellino viene appesa ad ogni pacchetto regalo: che si tratti di una cornice, una lampada, un presepe, una libreria, un appendiabiti. Perché ogni oggetto prodotto in quello spazio, messo a disposizione dal Comune di Torino, ha un valore aggiunto: rappresenta l’opportunità di ricominciare daccapo offerta - grazie ad un accordo tra la Caritas di Torino e il Carcere Lorusso Cutugno - per la durata di sei mesi a detenuti in base all’articolo 21 della legge 354/75 sull’ordinamento penitenziario. Lo spazio è un laboratorio di falegnameria con annesso negozio in via San Massimo 31 dove sotto la guida progettuale di Silvia Di Fabio si realizzano con legno e materiali di recupero, con vernici e prodotti ecocompatibili, gli oggetti più disparati. “Il laboratorio”, racconta Silvia Di Fabio, “era nato nel 2014 come integrazione del vicino centro diurno Caritas La Sosta: rappresentava un modo per permettere ai senza dimora di fare qualche lavoretto creativo. Poi dopo un paio di anni si è verificata la difficoltà di coinvolgere in questa attività, che richiede costanza e attenzione, persone che hanno molteplici problemi e si è pensato che invece potesse essere una modalità di reinserimento nel mondo lavorativo per carcerati”. Ed ecco che già una quindicina di detenuti di 6 mesi in 6 mesi si sono avvicendati al laboratorio: alcuni mettendo a frutto la propria professionalità, altri acquisendola. “C’è chi dopo aver terminato il periodo con noi”, prosegue “e aver concluso il tempo della detenzione poi è tornato come volontario per ringraziare di quanto ricevuto in termini di fiducia, di sostegno nel proprio percorso. L’obiettivo infatti non è creare falegnami, ma aiutare persone che hanno sbagliato a capire che possono ancora realizzare cose belle nella loro vita e quindi a ritrovare la fiducia necessaria per ricominciare”. In questi giorni il laboratorio Daccapo, aperto dalle 9 alle 17, offe idee regalo anche “a tema” come presepi e alberelli di Natale, ma tutto l’anno si possono trovare oggetti utili ed è in programma anche la realizzazione di giocattoli. “Oggetti unici”, conclude, “ma soprattutto oggetti che sono parte di un progetto: chi li acquista aiuta persone a ricominciare daccapo”. Massa Carrara. Pranzo in carcere con lo chef: “Crediamo in voi” di Camilla Palagi Il Tirreno Alessandro Bandoni cucina per i 160 reclusi. Il vescovo Santucci: “Spero un giorno di trovare questo luogo vuoto”. “Il carcere è una storia che dovrebbe aiutarci a cambiare la storia. Spero un giorno di trovarlo vuoto. Mi dispiacerebbe soltanto per le guardie carcerarie che perderebbero il lavoro”. È il vescovo di Massa Carrara Giovanni Santucci a parlare di fronte a 160 detenuti della Casa di reclusione di Massa. L’occasione è un’eccezione: un pranzo offerto dall’associazione laicale cattolica Rinnovamento dello Spirito realizzato dallo chef Alessandro Bandoni proprio dentro le mura del carcere di Massa. La sala comune e la chiesa sono allestite con delle grandi tavole addobbate a tema natalizio. Ad occuparle i detenuti, per qualche ora insieme a festeggiare il natale serviti dai volontari di Prison Fellowship per il progetto L’altra cucina. Ogni domenica i volontari cantano per loro nella chiesa della casa di reclusione: “Veniamo qua perché vogliamo trasmettergli un messaggio: c’è chi crede in voi”, spiega la volontaria Carmen Barani. In sala l’aria è ricca di adrenalina e in un momento l’allegria esplode mentre i musicisti Roberto Duna (violino), Maurizio Marchini (tenore) e Pierpaolo Biancalani (fisarmonica) intonano O’Sole Mio. “Credo che ognuno di voi nel cuore, nel profondo, sappia che cosa debba cambiare per poter pensare la vita in termini diversi - dice Cristina Bigi, direttrice del carcere di Massa. E una volta che quei termini si iniziano a pensare, significa che si possono fare”. Presenti al pranzo i sindaci di Massa e di Carrara, Francesco Persiani e Francesco De Pasquale, l’assessora Amelia Zanti e l’assessora del Comune di Montignoso, Giorgia Podestà. “Come movimento crediamo nella giustizia riparativa - spiega la coordinatrice di Rinnovamento dello spirito, Bianca Maria Marcucci - Crediamo che l’umanità vada oltre il reato e che nei detenuti, nei fragili, si trovi l’anima di Gesù”. Altri 60 pasti sono stati serviti nelle celle del carcere e sono andati a quei detenuti che non hanno il permesso di uscire dalle rispettive stanze. Quello di quest’anno è il secondo pranzo natalizio voluto da Don Leonardo Biancalani, parroco di Fossola. “Mi auguro che questa iniziativa si diffonda il più possibile - dice il parroco - e che sia sostenuta dalle istituzioni perché penso che sia una finestra importante per queste persone”. Il menù servito si è composto di un tortino di polenta con fonduta di formaggi, rigatoni al sugo stornellato, crostone di pane fritto con spinaci saltati e vitella e per concludere panettone e pandoro serviti con la crema inglese calda. La musica è continuata per altro tempo e a grande richiesta si è soffermata sulle canzoni della tradizione napoletana. In dodici carceri italiane l’associazione Rinnovamento dello spirito ha offerto un pranzo come questo. Un modo per condividere uno spazio, più che un pasto. E per un momento, per quelle centosessanta persone, è stato Natale. Cagliari. Il rap dei Balentia suonerà per i detenuti del carcere di Uta cagliaripad.it Tornano dal vivo i pionieri del rap in lingua sarda: dopo 23 anni di concerti in tutta Europa, tre album, un Lp e decine di collaborazioni, i Balentia sono pronti per un live molto speciale. Il gruppo infatti suonerà domani, venerdì 20 dicembre, a partire dalle 14.30, per i detenuti della Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Uta, nell’ambito della rassegna “Oltre il sipario” e del progetto/laboratorio “LiberaMente Dentro”, ambedue organizzati dall’Associazione “Il Miglio Verde”. Il progetto nasce con l’intento di creare uno spazio nel quale i detenuti possano indirizzare le proprie potenzialità creative, ricostruire un’identità sociale quale opportunità di reinserimento nella cittadinanza attiva, sostituendo i meccanismi relazionali basati sulla forza, sul controllo e sulla sfida con quelli legati alla collaborazione, allo scambio ed alla condivisione. Per i Balentia si tratta della terza esperienza all’interno di strutture di detenzione, dopo le due esibizioni di alcuni anni fa nell’Istituto Penale Minorile di Quartucciu. Dal vivo la band mogorese presenterà i brani tratti dall’ultimo lavoro discografico, Nieddu, e alcuni brani tratti dai dischi precedenti. I Balentia - Una delle band più attive e longeve del panorama musicale indipendente sardo, Su Maistu e Lepa - originari di Mogoro (Or), - sono artefici di un rap cantato in sardo ed italiano, che loro stessi amano definire sociale. Hanno all’attivo tre album ed un LP autoprodotti, numerose collaborazioni con artisti nazionali dello stesso genere ed oltre 600 concerti in Sardegna, in Italia ed all’estero (Germania, Spagna, Grecia). “Il diritto penale totale”, di Filippo Sgubbi. Ecco il nuovo proibizionismo di Tiziana Maiolo Il Riformista Se è vero che il potere politico-sociale sta nelle mani di chi ha il compito e la forza di qualificare come illecito un comportamento umano, possiamo dire che, nella società del “Diritto penale totale”, sono tanti i soggetti a questo legittimati. Tanti, dal giudice alle vittime fino alla realtà percepita e al pensiero dominante che sovrappone il peccato al reato. Ma non la norma penale, che dovrebbe essere l’unico soggetto a creare il confine tra il lecito e l’illecito. La norma penale che sta sempre più evaporando, sta assumendo un carattere relativo e privo di certezze. Mentre la decisione del giudice trova sempre più la propria legittimazione nel sentire sociale, nel contesto, nella percezione, nelle ragioni di “opportunità”. Una sorta di nuovo proibizionismo che sta avvolgendo come la tela del ragno le libertà individuali e la certezza della norma penale. “Il diritto penale totale” (Il Mulino, pp. 88, 10 euro) è un testo del professor Filippo Sgubbi, ma è come fosse stato scritto, o suonato in concerto, a sei mani, visto che è completato dalle preziose introduzione e postfazione di giuristi come Tullio Padovani e Gaetano Insolera. Meno di cento pagine e pare ci sia proprio tutto, tanto sono dense e precise. C’è naturalmente una parte più politica, quel fenomeno che va sotto il nome di “supplenza”, una vera abdicazione, in corso ormai da qualche decennio, da parte del potere politico che, paralizzato dal gioco incrociato dei veti, ha perso legittimazione non solo consegnando alla giustizia compiti di governo e di pubblica amministrazione che non le sono propri, ma anche accettando di essere esposto, senza più alcuna immunità, al sospetto costante di corruzione e mafiosità. Così si è costruita la società etica, dove all’antinomia colpevole-innocente si è sostituita quella dei puri e degli impuri. Il reato, scrive Sgubbi, si è trasformato “in una colpa antropologico-sociale”. E reato e colpa sono quasi uno stato naturale che prescinde e sicuramente precede il fatto. Quasi un peccato originale della società degli impuri. La casta, ovviamente. Chiudiamo i porti alla guerra di Gregorio Piccin Il Manifesto Domani presidio davanti alla Prefettura di Genova per esigere l’interdizione del commercio bellico dal porto della città. “Chiudiamo i porti alla guerra!” recita il volantino del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova che ha convocato per domani, sabato 21 dicembre, un presidio davanti alla Prefettura di Genova per esigere l’interdizione del commercio bellico dal porto della città. Hanno aderito al presidio Emergency, Amnesty International, Assemblea contro la guerra, Genova antifascista, Rifondazione comunista ed altre associazioni pacifiste cittadine. I portuali possono fare la voce grossa nell’ambito della logistica di Genova perché già lo scorso giugno, col sostegno della Cgil, hanno impedito ad una nave della linea marittima saudita Bahri di caricare materiale destinato ad alimentare la guerra in Yemen, “la più sporca e criminale di quelle in corso”, si legge sul volantino. Le petromonarchie del Golfo sono infatti tra i principali ed efferati consumatori di tecnologia militare occidentale sia di marca statunitense che europea ed italiana. Dopo il blocco di giugno il presidente della regione Toti è sceso in campo dicendo che “è assurdo volere che non si imbarchino questi prodotti, mentre in Liguria molte migliaia di persone lavorano per Fincantieri che fa navi militari e sommergibili, Leonardo che fa radar e missili, per Oto Melara che fa cannoni navali e mezzi blindati…”. Lo scorso novembre il papa in persona ha in qualche modo risposto (indirettamente?) a Toti dicendo a chiare lettere che quando le autorità parlano di pace e trafficano in armi, si tratta di “ipocrisia armamentista”, ribadendo appunto che “i Paesi europei parlano di pace” ma “vivono di armi”, ma soprattutto ha detto che “i lavoratori del porto sono stati bravi”. E del resto stanno rispondendo anche gli stessi portuali del Collettivo Autonomo con il presidio ed il volantino di oggi: “Noi non ci stiamo ad essere complici di questi sporchi affari. Nemmeno se appartengono alla nostra industria di Stato come Leonardo, che ha scelto di anteporre le produzioni militari a quelle civili”. Ma è chiaro che dopo giugno qualcosa è cambiato se all’ultimo attracco dell’Abha Bahri lo scorso 12 dicembre erano presenti Carabinieri e Digos sia al varco che dentro il terminal per garantire le operazioni di carico. Già in quell’occasione i lavoratori portuali hanno fatto sapere in un comunicato che “o la guerra esce dal nostro porto o le conseguenze - innanzi tutto economiche - saranno di tutti. Non siamo disposti a tollerare che un rifornimento continuo ed essenziale alla guerra, quindi alla morte e miseria per milioni di persone, abbia a Genova una sua tappa”. Rosario Carvelli, membro del Collettivo ma anche delegato Filt-Cgil, alla domanda su come intendano imporre la loro linea a governo e istituzioni portuali risponde: “Monitoriamo ogni passaggio della nave saudita e a gennaio pare abbia cancellato il passaggio a Genova. Ma a febbraio saremo nuovamente pronti a bloccare i varchi con l’aiuto della città e chiederemo alla Cgil un nuovo sciopero per fermare queste navi della morte. Il nostro motto è non un passo indietro”. Questa lotta si sta guadagnando visibilità e sostegno perché al momento è l’unica che sta dimostrando concretamente come i lavoratori organizzati e determinati possano imporre un cambio di rotta alle navi saudite e anche alla traiettoria bellicista del nostro Paese che con Leonardo è nella top-ten globale dei venditori di armi. Certo non mancano le contraddizioni: su Leonardo la Fiom continua ad avere una posizione contraddittoria, ma è pur vero che “grazie” alla Abha Bahri i portuali del Collettivo Autonomo stanno costruendo reti con gli omologhi di Livorno e Napoli e con altri dockers in Europa suggerendo e applicando una linea di azione che supera il confine della sola lotta sindacale. Migranti. Nave Gregoretti, anche Conte adesso scarica Salvini di Leo Lancari Il Manifesto Dopo Luigi Di Maio adesso anche Giuseppe Conte prende le distanze da Matteo Salvini su come l’ex ministro dell’Interno gestì gli sbarchi dei migranti quando ormai mancavano poche settimane alla fine del governo gialloverde. “La questione relativa alla vicenda della nave Gregoretti non figura all’ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nell’ambito delle questioni varie ed eventuali nel citato consiglio dei ministri né in altri successivi”, precisava ieri una nota di Palazzo Chigi. Il consiglio dei ministri a cui si fa riferimento è quello del 31 luglio 2019 e la nota firmata dal Segretario generale di Palazzo Chigi, datata 11 ottobre scorso e inviata al Tribunale dei ministri di Catania, non è escluso che abbia avuto il suo peso nella successiva decisione di chiedere al parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno per aver impedito, tra il 27 e il 31 luglio dello scorso anno, lo sbarco nel porto di Augusta di 131 migranti dalla nave della Guardia costiera. La stagione delle decisioni “politicamente condivise” che permise al leader della Lega di evitare il processo per il caso Diciotti - quasi una fotocopia di quello per il quale Salvini è chiamato a rispondere oggi - è ormai davvero solo un pallido ricordo. Ci aveva già pensato Di Maio a farlo capire subito dopo la richiesta del Tribunale dei ministri di Catania di processare il leader leghista per sequestro di persona. Ieri Di Maio è tornato a prendere le distanze dall’ex alleato. “La vicenda Diciotti fu una decisione di governo, la vicenda Gregoretti fu invece propaganda del ministro Salvini. Mi pare che quando vi è stato il caso della Diciotti Salvini disse ‘andrò a processo’. Ora lo vedo un po’ impaurito, ma è evidente che ognuno deve prendersi le proprie responsabilità”. “Di Maio dice che sono impaurito? Se mi processano chi se ne frega”, la replica secca dell’ex ministro. Da ieri il fascicolo sul caso Gregoretti è all’esame della Giunta delle immunità del Senato. Nella richiesta di autorizzazione a procedere i giudici del Tribunale dei Ministri di Catania spiegano come proprio il decreto sicurezza bis - uno dei cavalli di battaglia salviniani - impedisca di vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane alle navi militari, come appunto è la Gregoretti. Il leghista avrebbe quindi infranto una norma da lui stessa voluta quando sedeva al Viminale. “Abbiamo fissato il calendario dando al senatore Salvini 15 giorni per produrre memorie, note e se eventualmente vuole comunicarci se vuole essere ascoltato dalla Giunta”, ha spiegato il presidente, Maurizio Gasparri. Al voto si dovrebbe arrivare al massimo entro il 20 gennaio, e l’esito sembra scontato. Anche se fonti leghiste ieri hanno ricordato come “per risolvere il caso Gregoretti ci furono molte interlocuzioni tra Viminale, presidenza del consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari”, dal M5S i fatti vengono letti in maniera diversa. “Dando un’occhiata veloce alla memoria, sicuramente possiamo dire che è un caso molto diverso dal caso Diciotti. Sembra non esserci un’azione collegiale nel preminente interesse nazionale”, spiegava ad esempio la capogruppo grillina nella Giunta, Elvira Evangelista. E favorevole al processo si è detto anche il presidente della commissione antimafia Nicola Morra. Discorso diverso sarà, il 17 febbraio, per l’aula del Senato. È qui infatti che Matteo Salvini potrebbe giocarsi tutto contando anche su qualche aiuto insperato. Considerando la fuga dal M5S di una decina di dissidenti, la maggioranza è infatti sempre più risicata e soprattutto legata a quanto decideranno i 17 senatori di Italia Viva, tra i quali non mancherebbero i dubbiosi. “Dobbiamo ancora leggere le carte, ma mi sembra davvero che il caso Diciotti fosse più grave”, spiegava ieri uno di loro. Spagna. Corte Ue contro Madrid “Sì all’immunità, scarcerate Junqueras” di Lanfranco Caminiti Il Dubbio Il Tribunale supremo spagnolo si è preso una bella lavata di capo dalla Corte di giustizia europea. La Corte ha infatti stabilito che Oriol Junqueras, eletto eurodeputato il 26 maggio nelle fila di Esquerra Republicana de Catalunya- Erc, godeva dell’immunità parlamentare dal momento in cui sono stati proclamati i risultati delle elezioni, seguendo così la linea segnata dal procuratore generale il 12 novembre in cui già si negava la validità di rivendicare “formalità successive” pretese dalla Spagna, come il giuramento della Costituzione nei locali della Giunta elettorale, per consentire la presa di possesso del seggio. La sentenza, letta dal presidente della Corte di giustizia Koen Lenaerts, stabilisce che “una persona che è stata proclamata ufficialmente eletta al Parlamento europeo deve essere considerata, per questo fatto e da quel momento, come membro di tale istituzione, ai fini dell’articolo 9 del protocollo sui privilegi e immunità dell’Unione, e gode, da questo punto di vista, dell’immunità prevista nel secondo paragrafo dello stesso articolo”. Che cosa accadrà adesso non è chiaro - benché Erc ne abbia chiesto l’immediata scarcerazione - perché Junqueras, in carcerazione preventiva al momento dell’elezione a deputato europeo, è stato condannato in via definitiva a 13 anni il 14 ottobre scorso, per sedizione e malversazione (l’accusa iniziale era di ribellione, con una richiesta di 25 anni di carcere), insieme a nove leader indipendentisti: l’ex presidente del parlamento catalano Carme Forcadell (a 11 anni e 6 mesi), Jordi Cuixart e Jordi Sànchez, leader di due organizzazioni della società civile, Òmnium e Assemblea Nazionale Catalana, (a 9 anni), e gli ex ministri catalani Dolors Bassa, Joaquim Forn, Raul Romeva, Jordi Turull e Josep Rull: un totale di cento anni di carcere per l’organizzazione del referendum sull’indipendenza della Catalogna dell’1 ottobre 2017. “La justícia ha arribat des d’Europa. La giustizia è arrivata dall’Europa. I nostri diritti e quelli di 2 milioni di cittadini che hanno votato per noi sono stati violati. Nullità della pena e libertà per tutti noi! Continuiamo come abbiamo fatto fino adesso!”, ha twittato Junqueras. E Puigdemont, ex presidente della Generalitat catalana: “Encara queden jutges a Europa. Ci sono ancora giudici in Europa. Libertà per @ junqueras. La Corte di giustizia europea difende gli stessi criteri che abbiamo difeso noi contro il Parlamento europeo e le autorità spagnole, che hanno cercato di alterare il funzionamento della democrazia europea”. Questa sentenza potrebbe costituire da precedente per Carles Puigdemont e l’ex consigliere Toni Comín, entrambi riparati in Belgio, in modo che accedano al loro ruolo di eurodeputato: eletti alle ultime europee, non hanno potuto assumere la loro funzione, perché recarsi a Madrid per prestare giuramento sulla Costituzione spagnola come prevede la legislazione nazionale avrebbe significato l’arresto, in quanto su entrambi pendeva mandato di estradizione, che ora peraltro dovrà essere esaminato dalle autorità belghe e spagnole alla luce dell’immunità. Le autorità spagnole quindi non trasmisero all’Europarlamento la proclamazione dell’elezione dei tre catalani (il terzo era, appunto, Junqueras) e di conseguenza l’Europarlamento ha finora rifiutato di farli entrare in carica. Stamattina però David Sassoli, presidente del parlamento europeo, all’inizio della sessione plenaria, ha informato l’assemblea parlamentare del contenuto della sentenza della Corte europea e ha chiesto “alle autorità spagnole competenti di conformarsi”. La sentenza arriva in un momento delicato per la politica spagnola, considerando che si è votato quattro volte negli ultimi quattro anni, ma senza riuscire a andare oltre il bloqueo, una paralisi dovuta a una distribuzione del voto che non dà maggioranze certe. Sanchez, segretario del primo partito, il Psoe, con la coalizione di socialisti e di Podemos di Iglesias, può contare su 169 voti a favore sui 350 del Parlamento, contro i 163 delle opposizioni: in questi voti ci sono anche quelli dei partiti regionali non secessionisti, come il PNV basco; e sinora, Junts per Catalunya (gli indipendentisti di centrodestra di Puigdemont), la Cup (indipendentisti di sinistra), Bildu (la coalizione di partiti nazionalisti di sinistra dei Paesi Baschi) e il Bng (i nazionalisti di sinistra della Galizia) gli hanno risposto picche; non ha quindi la maggioranza assoluta di 176 seggi ma può varare un governo di minoranza e raggiungere la fiducia nel secondo voto del Parlamento, a maggioranza semplice, se i 13 deputati di Erc si asterranno. A Sanchez serve un accordo in Parlamento per far approvare la Legge di bilancio dopo mesi di esercizio provvisorio, ma non può promettere niente che sia al di fuori della Costituzione e delle leggi spagnole, quindi niente diritto di autodeterminazione. Però, recentemente, in una conferenza stampa alla Moncloa Sánchez non ha più detto che saranno illegali e perseguibili per legge i referendum come quelli del Primo ottobre del 2017. E ora, c’è la sentenza della Corte europea. Stati Uniti. Quei pericolosi “santuari delle armi” di Massimo Gaggi Corriere della Sera Negli Stati Uniti si moltiplicano i cosiddetti “gun sanctuaries” per eludere le norme federali o statali contro la diffusione delle armi, una ricetta per la promozione del caos secondo il “Washington Post”. Il clima politico infuocato dell’America con la contrapposizione totale tra progressisti e conservatori alimenta anche fenomeni pericolosi in tema di diffusione delle armi da fuoco: la moltiplicazione dei cosiddetti gun sanctuaries, città e contee nelle quali le assemblee elettive impegnano le autorità locali a non applicare eventuali norme contro la diffusione delle armi varate a livello federale o dai governatori degli Stati. Di movimenti a difesa del Secondo emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce ai cittadini il diritto di armarsi, ce ne sono da tempo parecchi negli Stati Uniti: hanno cominciato alcune contee dell’Illinois, imitate da comunità del Texas, della Florida, del Colorado, del Tennessee e del New Mexico. Ma la spinta a giocare d’anticipo contro ogni possibile intervento restrittivo sulla diffusione di armi spesso di una potenza micidiale (gli americani hanno 300 milioni di fucili e pistole, quasi uno per abitante, in media) è venuta nelle ultime settimane dalla Virginia dove molti rivendicano anche il diritto di creare una milizia per difendere il diritto di armarsi. Difendersi da chi? Non è chiaro, ma l’indiziato è il governatore democratico Ralph Northam. Il suo progetto di introdurre nuovi controlli sulla diffusione delle armi e di limitare la capacità dei caricatori di quelle semiautomatiche ha preso consistenza a novembre quando, per la prima volta da un quarto di secolo, in Virginia sono state elette maggioranze democratiche tanto alla Camera quanto al Senato. La mobilitazione del “popolo del Secondo emendamento” è stata vasta e immediata: in appena 43 giorni, 86 delle 95 delle contee della Virginia hanno deciso di trasformarsi in “santuari delle armi”. Senza nemmeno una sollecitazione della Nra, la potente lobby delle armi. Così oggi a un passo dalla capitale si diffonde un movimento di vigilanza che, benché privo di autorità legale, chiede ai poteri locali di porsi al di sopra delle leggi: una ricetta per la promozione del caos, secondo un allarmato editoriale del Washington Post. Una ricetta difficile da smontare per i democratici che, da quando Trump è presidente, hanno a loro volta creato “città santuario” che non cooperano con le autorità federali dell’immigration per deportare i clandestini. La sostanza è ben diversa, ma il meccanismo è simile. Libia. Prevale la forza e Serraj chiede armi a Italia e Stati Uniti di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera Potrebbero essere alla fine solo le intese tra Putin e Erdogan ad individuare la via d’uscita della crisi. Cosa può fare la politica dove prevale la logica della guerra? È il dilemma che ha caratterizzato la visita di Luigi Di Maio in Libia. Il ministro degli Esteri si è scontrato con una realtà violenta, dove vaghe promesse di dialogo rivelano soltanto brutali dinamiche di muro contro muro. Qui da anni ormai conta unicamente chi combatte, fornisce armi, l’addestramento, garantisce a un campo di prevalere sull’altro. Vince la forza, non la diplomazia. E infatti il governo di Tripoli chiede ora aiuti militari all’Italia assieme ai Paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, che sostennero la battaglia contro l’Isis a Sirte nel 2016. Non a caso uno dei pareri più diffusi resta che, proprio alla luce degli sviluppi nell’assedio delle truppe di Khalifa Haftar contro le milizie schierate a Tripoli con la coalizione di Salvezza Nazionale guidata da Fayez Serraj, saranno alla fine soltanto le intese tra Putin ed Erdogan a individuare la via d’uscita dalla crisi. Da Mosca arrivano i combattenti russi, che hanno permesso le recenti avanzate di Haftar. Con loro stanno i rinforzi egiziani ed emiratini. Da Ankara hanno risposto veloci con l’invio di droni, armi, e mettendo a disposizione di Sarraj 5.000 soldati. Erdogan ne approfitta per espandere le sue acque territoriali sino alle libiche, a scapito degli interessi europei e certamente italiani. Già nel febbraio 2018 aveva minacciato di bombardare la piattaforma Eni-Total per le trivellazioni in acque internazionali al largo di Cipro. Come fermarlo, ora che siamo privi dell’ombrello americano? L’impotenza di Di Maio in Libia è in realtà quella dell’Europa in uno scenario internazionale infido, dominato dalla politica di potenza. “Potevate almeno avvisarci degli accordi con Erdogan”, ha sibilato offeso a Sarraj. Ma, se è vero che la guerra è il proseguimento della politica, difficilmente la politica disarmata fermerà la guerra, anzi, ne diventa vittima. Filippine. 10 anni dopo il massacro di Ampatuan arrivano le condanne di Riccardo Noury Corriere della Sera Tardi e in modo incompleto, ma finalmente per il cosiddetto “massacro di Ampatuan”, avvenuto nelle Filippine nel 2009 è stata finalmente pronunciata una sentenza. Il 23 novembre di 10 anni fa oltre 100 uomini armati assaltarono un corteo elettorale nella provincia meridionale di Maguindanao. I partecipanti si stavano recando a depositare la candidatura alle elezioni nazionali del 2010 di Esmael Mangudadatu. Ma quello era il territorio del potente clan Ampatuan, che esercitava il totale controllo politico nella regione con la forza delle armi. Nel massacro furono uccise 58 persone, tra cui 32 giornalisti. Dopo un’indagine cui più volte il clan Ampatuan ha cercato di mettere i bastoni tra le ruote, un centinaio di persone sono state rinviate a processo, tra cui 54 agenti di polizia. Ventotto imputati, tra cui i due mandanti del massacro - Dadu Antal Jr e Zaldy Ampatuan - sono stati condannati all’ergastolo, automaticamente commutato in 40 anni di carcere, di cui 10 già scontati in detenzione preventiva. Altri 15 hanno ricevuto pene inferiori. Cinquantacinque imputati, per la maggior parte poliziotti, sono stati assolti per insufficienza di prove. Ulteriori 80 presunti responsabili del massacro sono ancora alla larga. La foto è dell’Ufficio stampa della Corte suprema delle Filippine. Arabia Saudita. È stata la prima donna saudita a guidare un’auto. Da allora è in carcere raiawadunia.com Loujain è in carcere in Arabia Saudita solo perché è stata tra le prime donne a mettersi alla guida di un’automobile. Insieme ad altre difensore dei diritti umani, Loujain stava conducendo una campagna pacifica per il diritto alla guida, per porre fine al sistema di tutela maschile e per la giustizia e l’uguaglianza delle donne in Arabia Saudita. Tre mesi dopo il suo arresto, altre donne difensore dei diritti umani sono state arrestate. Loujain è stata portata in giudizio davanti al tribunale penale di Riyad il 13 marzo 2019. Resta in carcere con l’accusa di aver contattato organizzazioni internazionali. L’accanimento delle autorità saudite nei confronti di Loujain al-Hathloul e delle altre arrestate è assurdo e ingiustificabile. Loujain al-Hathloul e le altre difensore dei diritti umani devono essere rilasciate immediatamente in quanto prigioniere di coscienza, detenute esclusivamente per il loro pacifico lavoro in favore dei diritti umani e sollecitiamo le autorità a concedere l’accesso ad osservatori indipendenti nelle carceri per indagare sulle accuse di tortura, maltrattamenti e molestie sessuali. Aiutaci a cambiare la sua storia. Firma l’appello: https://www.amnesty.it/maratone/cambiamolastoria/#loujanin Cile. Un rapporto delle Nazioni Unite denuncia gli abusi della polizia di Marie Bourreau Internazionale Torture, detenzioni arbitrarie, violenze sessuali e uso inappropriato delle armi contro i manifestanti. L’Onu condanna la repressione delle proteste in Cile. L’inchiesta è stata condotta con una rapidità sorprendente. In un rapporto reso pubblico il 13 dicembre a Ginevra la delegazione dell’Onu inviata in Cile dall’alta commissaria per i diritti umani, l’ex presidente cilena Michelle Bachelet, ha concluso che le forze di sicurezza del paese hanno fatto un uso sproporzionato ed eccessivo della forza contro i manifestanti durante le proteste scoppiate alla metà di ottobre. “La polizia ha una responsabilità nelle violazioni dei diritti umani”, ha detto Imma Guerras-Delgado, a capo delle indagini. Secondo la procura, 26 manifestanti sono stati uccisi, ma l’alto commissariato ha potuto accertare la morte di undici persone. In almeno quattro casi sono coinvolti agenti delle forze di sicurezza. Gli esperti dell’Onu, che sono rimasti in Cile dal 31 ottobre al 20 novembre, hanno raccolto testimonianze schiaccianti contro le forze di sicurezza, colpevoli di torture, maltrattamenti, minacce di morte, stupri e detenzioni arbitrarie. Alcuni rapporti di Amnesty International, della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) e di Human rights Watch avevano già denunciato violazioni gravi commesse dai Carabineros, la polizia cilena, e dall’esercito, schierato in varie città all’inizio delle proteste. Distanza ravvicinata Il governo del presidente Sebastiàn Pifiera non riesce a calmare lo scontento sociale. Le proteste, cominciate alla metà di ottobre con gli studenti che manifestavano contro l’annuncio dell’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana a Santiago, si è esteso velocemente a tutta la società: i cileni denunciano le forti disuguaglianze nel paese, dove l’i per cento della popolazione possiede quasi un terzo della ricchezza nazionale. Secondo il ministero della giustizia, in otto settimane sono state arrestate z8mila persone e 1.615 sono ancora in carcere in attesa di un processo, in gran parte giovani senza precedenti penali. Guerras-Delgado ha condannato la gestione “repressiva” delle manifestazioni da parte di agenti che non hanno distinto tra manifestanti violenti e pacifici. Lo dimostra il numero “allarmante” di lesioni agli occhi subite soprattutto dai giovani, quasi 350 secondo i dati raccolti nell’istituto cileno di oftalmologia. Gli agenti hanno usato fucili con cartucce a pallettoni di gomma in modo “indiscriminato e inappropriato” per disperdere cortei essenzialmente pacifici. Il rapporto cita il caso di Gustavo Adolfo Gatica Villarroel, 21 anni, ferito a entrambi gli occhi in una manifestazione a Santiago e oggi cieco. I pallettoni di gomma trovati sotto la pelle di molte persone ferite indicano che i fucili sono stati usati a distanza ravvicinata. Secondo le Nazioni Unite, le autorità cilene erano a conoscenza già dal 22 ottobre della gravità delle ferite, ma non hanno preso provvedimenti. Solo il 19 novembre il capo della polizia ha vietato l’uso di queste armi, ma secondo gli inquirenti sono state usate anche dopo quella data. La squadra delle Nazioni Unite ha documentato 113 casi di tortura e maltrattamenti, soprattutto pestaggi, e 24 casi di violenze sessuali e stupri commessi da poliziotti contro persone arrestate e detenute in modo arbitrario. Il 13 dicembre il ministro cileno degli esteri Teodoro Ribera ha dichiarato di tenere in conto le conclusioni dell’Onu, ma ha sottolineato che “in Cile non ci sono violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani”. Poche ore prima Lorena Recabarren, sottosegretaria alla giustizia, aveva contestato alcune “informazioni errate, non contestualizzate né verificate”: “Un rapporto in più o in meno non ci interessa. Abbiamo già ricevuto quattro rapporti di altre organizzazioni internazionali. Il paese vuole tornare alla normalità per ciò che riguarda i diritti fondamentali”, ha detto. Intanto l’Onu, che continua a ricevere denunce di abusi della polizia, ha invitato il governo cileno a sospendere l’uso dei fucili per controllare le manifestazioni e a istituire un meccanismo di sorveglianza con il compito di valutare la situazione nei prossimi tre mesi.