Niente braccialetti elettronici, è impossibile dare i domiciliari di Chiara Spagnolo La Repubblica, 1 dicembre 2019 I penalisti: “Il nuovo servizio doveva partire a ottobre, ma finora è tutto fermo”. Battista (Anm): “Utilissimi in caso di stalking”. “Dispone gli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico. Vista la penuria di tali strumenti, però, in attesa di utilizzare gli apparecchi che andranno a liberarsi, il detenuto resta in carcere”. Quello di Nicola Abbrescia, 35enne barese arrestato nel 2017 per estorsione a un imprenditore edile, è soltanto l’ultimo caso di persone costrette a prolungare la permanenza in cella in assenza degli apparecchi per la sorveglianza. La decisione del Gip (che ha accolto l’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati Gaetano Sassanelli e Gianluca Loconsole) risale a pochi giorni fa e viene resa nota proprio nella “Giornata dei braccialetti”, quando anche le Camere penali pugliesi protestano per difficoltà di applicazione di un istituto che era stato previsto fin dal 2000. “I braccialetti sono insufficienti - spiegano il presidente dell’organismo barese, Guglielmo Starace, e il coordinatore della commissione Esecuzione penale, Filippo Castellaneta - nonostante sia stato effettuato un bando per la nuova fornitura, che aveva a oggetto 12 mila dispositivi. Il servizio doveva partire a ottobre 2018, ma non è accaduto”. Quale sia il motivo agli avvocati non è dato saperlo, considerato che dopo un decennio di gestione Telecom il nuovo servizio di Fastweb e Vitrociset per la fornitura di 1.000 apparecchi al mese, a distanza di un anno dall’aggiudicazione della gara, ancora non parte. E nei tribunali è ancora caccia ai braccialetti per la sorveglianza elettronica. Sono diverse le situazioni in cui i giudici ritengono necessario applicarla, come spiega il presidente dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Battista: “In casi di stalking, per esempio, o di persone responsabili di maltrattamenti e che abitano vicino alle vittime o, come è capitato di recente, di giovanissimi incensurati che avevano commesso diversi reati e rispetto ai quali è necessario imporre un controllo più stringente dei semplici domiciliari, ma si ritiene che non sia adeguata una misura afflittiva come il carcere”. Certo, la storia insegna che l’uso del braccialetto non funge automaticamente da deterrente per chi lo indossa. Come racconta l’esempio di Ivan Caldarola, il figlio ventenne del boss del quartiere Libertà, Lorenzo, che pochi giorni fa è tornato in carcere dopo aver manomesso il dispositivo che gli era stato applicato dopo l’arresto per ricettazione e danneggiamento. O quello di un 23enne di Corato che nella notte di Ferragosto ha reciso il braccialetto ed è uscito, aggredendo i parenti e i carabinieri che lo hanno rintracciato. Casi isolati, comunque, che non frenano i giudici dall’applicazione di tale strumento, la cui scarsa disponibilità impone ai magistrati attentissime valutazioni. “Ci sono due orientamenti giurisprudenziali - spiega ancora Battista dell’Anm. Chi pensa che siccome il braccialetto è necessario, il detenuto debba restare in carcere finché non è disponibile. E chi dispone comunque gli arresti domiciliari, anche senza braccialetto pur avendo valutato che servirebbe. In entrambi casi si tratta comunque di decisioni assolutamente delicate”. Perché incidono sulla vita delle persone e a volte allungano di mesi la permanenza dei detenuti in carcere, come chiariscono i presidenti delle Camere penali di Brindisi e Foggia, rispettivamente Pasquale Annichiarico e Giulio Treggiari. Senza contare che tale sistema provoca un aggravio enorme per le casse dello Stato: la permanenza quotidiana negli istituti penitenziari costa 131 euro al giorno, 4 mila al mese, e prolungare anche di qualche settimana la detenzione delle decine di persone che in Puglia, come in tutta Italia, sono in attesa del braccialetto elettronico significa spendere inutilmente migliaia di euro. Violenza sulle donne e sistema penitenziario: l’impegno delle istituzioni di Marina Caneva gnewsonline.it, 1 dicembre 2019 Si è svolto a Mestre il convegno “La complessità del sistema penitenziario: occuparsi degli uomini che agiscono violenza di genere”, un momento di riflessione sulla violenza di genere nato dalla collaborazione tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, l’Ufficio del Garante dei diritti della persona della Regione del Veneto e la Ulss 3 Serenissima. Si è trattato della seconda tappa del percorso di riflessione sulla complessità del sistema penitenziario, volto ad approfondire il fenomeno della violenza di genere dalla prospettiva dei vari soggetti che entrano in contatto con questa realtà: operatori penitenziari, agenti della Polizia Penitenziaria, psicologi, infermieri professionali, funzionari giuridico pedagogici, assistenti sociali, avvocati, medici chirurghi e associazioni di volontariato. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mirella Gallinaro, ha sottolineato l’importanza della sinergia tra tutte le istituzioni, a fronte dei dati preoccupanti diffusi dai mass media in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Considerando che per gli uomini che si macchiano di violenza di genere, assegnati nelle sezioni comuni degli istituti penitenziari, non è previsto il coinvolgimento in programmi specifici che affrontino il problema dell’agire violento nei confronti delle donne, è stata attribuita grande rilevanza alla collaborazione fra i diversi soggetti operanti sul territorio. La Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Linda Arata ha ripercorso l’evoluzione normativa in materia di tutela delle vittime nei delitti di violenza di genere e le possibili ricadute nella fase esecutiva della pena detentiva, entrando nel merito delle novità introdotte dalla legge Codice Rosso, che ha previsto una riduzione dei tempi di intervento giudiziari e l’innalzamento delle pene. Altri interventi hanno analizzato le origini psicologiche della violenza di genere e la dimensione socioculturale del fenomeno. Presentate, nel corso del convegno, anche le esperienze di alcune cooperative attive sul territorio, mentre la Divisione Polizia Anticrimine della Questura di Venezia ha illustrato le tecniche di approccio degli operatori di Polizia per il contrasto della violenza di genere. ? Salvini: “Il reato di tortura non ha senso” Il Tirreno, 1 dicembre 2019 L’ex Ministro dell’Interno: “Il reato di tortura non ha senso, è un cappio intorno al collo e un’arma in più per i detenuti che impedisce alla Polizia penitenziaria di fare il proprio lavoro”. Tappa pisana per Matteo Salvini prima di raggiungere Firenze e partecipare alla cena dei militanti della Lega. La visita lampo nella città della Torre si è concentrata sulla casa circondariale di Don Bosco che l’ex ministro dell’interno ha definito come “il peggiore mai visitato”. Davanti a una delegazione di agenti di polizia penitenziaria il leader leghista si è poi concentrato sui temi nazionali: “Il reato di tortura non ha senso, è un cappio intorno al collo e un’arma in più per i detenuti che impedisce alla Polizia penitenziaria di fare il proprio lavoro”. Salvini ha visitato il carcere Don Bosco di Pisa per incontrare il personale, i vertici dell’istituto e alcune delegazioni dei sindacati della polizia penitenziaria. “C’è una marea di problemi, reparti chiusi per umidità e tetti fatiscenti - ha aggiunto commentando lo stato della struttura carceraria di Pisa -. Due terzi dei detenuti sono immigrati, decine sono malati psichiatrici. Frequenti sono le aggressioni. Fossi nel ministro farei un salto a Pisa. Noi, faremo alcune proposte in manovra economica. Non è possibile che ci siano solo ventimila euro all’anno per le ristrutturazioni di questo istituto. La situazione è molto critica”. Bonafede, mano tesa alle toghe. E sulla prescrizione avvisa il Pd di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 dicembre 2019 Il ministro della Giustizia all’Anm riunita a congresso: i dem non votino con FI. E sul Csm apre ai magistrati. Continua a dire che l’abolizione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, in vigore dal 1° gennaio, è “una conquista di civiltà”. E quando lo ribadisce al congresso dell’Associazione nazionale magistrati, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ricorda che le toghe proponevano di bloccarla al momento del rinvio a giudizio. Ora invece sostengono che la nuova legge “provoca squilibri”, perché senza snellire quantità e tempi dei processi c’è il rischio di rinviare i verdetti all’infinito. Il Guardasigilli promette che affronterà anche quel problema, e se la prende con il Pd: “Non capisco come sia possibile che chi si opponeva alle leggi di Berlusconi sulla prescrizione breve, pensi ora di votare la proposta di Forza Italia per tornare indietro”. Lasciando intendere che se non si riesce a sbloccare l’accordo per velocizzare i processi è colpa del nuovo alleato di governo: “Quando ci vediamo per discuterne dicono che prima bisogna fermare la modifica della prescrizione; così è un cane che si morde la coda, comunque troveremo una soluzione”. Ai magistrati Bonafede tende non una ma due mani, nel tentativo di portarli dalla sua parte. Annuncia di avere definitivamente abbandonato l’idea del sorteggio per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura, strappando un applauso liberatorio. Dice che le aggressioni dei politici alle toghe “in stile seconda Repubblica” non gli piacciono e promette che non ci saranno “riforme punitive” contro giudici e pm, che devono rimanere nello stesso ordine giudiziario: “Sono contrario alla separazione delle carriere”, e anche questo è rassicurante per i magistrati preoccupati per la riforma costituzionale, sponsorizzata dagli avvocati, che potrebbe trovare una maggioranza trasversale in Parlamento. Per le toghe l’unicità delle carriere tra giudici e pm è un bastione da difendere a ogni costo. Al congresso danno la parola a Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali che contro l’abolizione della prescrizione targata Bonafede scenderà nuovamente in sciopero la prossima settimana. Ma davanti a giudici e pm l’avvocato Caiazza si concentra sulla separazione delle carriere: “Non ci sono secondi fini reconditi, né c’è alcuna intenzione di portare il pm alle dipendenze del potere esecutivo”. Cita Giovanni Falcone e garantisce: “Difendiamo senza condizioni e senza deroghe l’indipendenza della magistratura dal potere politico”. L’applauso di cortesia anticipa la replica dell’ex presidente dell’Anm Francesco Minisci: “Con questa riforma dannosa, pericolosa e punitiva non solo il pm, ma anche il giudice sarà sottoposto al governo. Mi appello al ministro Bonafede e al vicepresidente del Csm Ermini, aiutateci a evitare questo disastro”. Il Guardasigilli dà la sua parola, David Ermini preferisce parlare della crisi del Csm dopo il caso Palamara. Il mercato delle nomine e le “degenerazioni del correntismo” aleggiano sul congresso come fantasmi che tutti continuano a temere, nonostante tutti dicano di volerli scacciare definitivamente. Spiega che si impone un taglio netto, “una vera e propria cesura con il passato”. E l’applauso più convinto di una platea in cui i giovani magistrati vorrebbero sentirsi garantiti dal Csm e dall’Anm è quello in cui Ermini ammonisce: “Palazzo dei Marescialli è e deve restare una “zona demilitarizzata”, sottratta ed estranea all’influenza delle correnti e dei partiti; non devono trovare spazio insistente e sollecitazioni nei confronti dei consiglieri, né esistere pellegrinaggi di singoli candidati e indecorose questue per incarichi direttivi e semi-direttivi”. Il nodo delle nomine resta il più difficile da sciogliere, i consiglieri delle diverse correnti rivendicano criteri di trasparenza, ma restano le divisioni che si materializzano al momento delle scelte. E dopo l’elezione del procuratore generale della Cassazione (12 voti su 24 aventi diritto), si attende quella del nuovo procuratore di Roma: la poltrona che - un tempo, ma forse anche oggi - si diceva valesse almeno un paio di ministeri. Prescrizione, il M5S tira dritto di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 1 dicembre 2019 Al momento, “c’è un piccolo cortocircuito nel dibattito”. Lo chiama così, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, lo stallo politico in cui si dibatte la maggioranza rispetto all’imminente entrata in vigore della riforma dell’istituto della prescrizione, che fermerà il decorso dei termini dopo la sentenza del processo di primo grado. Una modifica voluta fortemente da M5S, ma che non vede concordi Pd, Italia Viva e Leu, che continuano a invocare correttivi affinché la durata dei processi penali non venga prolungata in eccesso. Ma, nonostante gli ultimi vertici di maggioranza sulla giustizia abbiano registrato un impasse, il Movimento non intende retrocedere. Il Guardasigilli parla a Genova, durante il 43esimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati, in corso da venerdì. “La riforma è un primo passo di civiltà”, insiste, dicendosi certo che “si troverà una soluzione” con gli alleati di governo e assicurando che lavorerà a correttivi per ottenere “processi più brevi”. Ma il terreno resta accidentato se, da Milano, il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, suo predecessore in via Arenula, controbatte: “Bonafede dice “vi dovete fidare di me”. Ma quali sono i deterrenti al processo lungo? La proposta che ci è stata fatta è che, nel caso in cui il 20% dei procedimenti vada oltre i 4 anni, ci sarà un atto disciplinare nei confronti del magistrato. Se si ferma la prescrizione al primo grado, bisogna avere certezze su quanto dura un processo”. Nel rapporto con la magistratura, invece, alcune asperità paiono appianate. Nel dialogo con l’Anm, il Guardasigilli favorisce un clima disteso con l’annuncio di voler accantonare una proposta che preoccupava le toghe: “Non voglio sbilanciarmi, ma molto probabilmente nel nuovo sistema elettorale del Csm non ci sarà alcun meccanismo di sorteggio”, argomenta Bonafede. La nuova ipotesi è un “ballottaggio in collegi piccoli tra i magistrati con più voti” per mettere “fine alle degenerazioni del correntismo”. Il Guardasigilli ribadisce anche la contrarietà alla separazione delle carriere: “Non farei mai nessuna riforma punitiva”, rassicura, ma senza dimenticare come l’inchiesta di Perugia su nomine e corruzione abbia portato a una “crisi senza precedenti”, che impone di “ridare credibilità alla giustizia, lasciando al passato le degenerazioni correntizie”. Una vicenda evocata un po’ da tutti, a partire dal vicepresidente del Csm David Ermini, per il quale - dopo lo scandalo degli incontri per indirizzare nomine di alcune procure - “voltare pagina è un imperativo” e Palazzo dei Marescialli “deve restare “zona smilitarizzata”, estranea all’influenza delle correnti e dei partiti”, con nomine “per merito” e non “per lottizzazioni”. Ermini avanza dubbi sull’avvento della “nuova” prescrizione: “L’entrata in vigore senza provvedimenti che accorcino i tempi dei processi può creare squilibri”. Mentre le toghe non paiono eccessivamente inquiete: “Non è vero che dal 1° gennaio ci sarà la catastrofe - considera il presidente dell’Anm Luca Poniz. Non è una bomba atomica, ma una norma non retroattiva e produrrà effetti che speriamo siano accompagnati da una riforma del processo”. Valutazioni che il ministro ascolta con attenzione: “Mi sembra che siamo tutti d’accordo, ma che si continua a tenere in stallo la situazione. Vogliamo lavorare per migliorare la velocità dei processi? - conclude Bonafede. Da due mesi aspetto contributi. E sono disposto a lavorarci ancora di più”. Prescrizione, Zingaretti media: “tempi certi per i processi” di Giulio Seminara Il Riformista, 1 dicembre 2019 Ogni giorno di governo ha la sua pena, l’ultima si chiama “prescrizione”. Balla forte la maggioranza a trazione M5S-Pd sulla riforma Bonafede, conquista parecchio identitaria del Movimento, ottenuta durante lo scorso esecutivo gialloverde e che andrà in vigore dal 1 gennaio 2020. Il nodo della discordia è l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, misura che fa gonfiare il petto ai grillini ma che inquieta i democratici, convinti di entrare così in un’epoca in cui “i processi durano all’infinito”. Il Movimento teme fuoco amico in aula, magari il sostegno democratico al decreto-legge del forzista Enrico Costa che di fatto neutralizzerebbe la riforma Bonafede, recuperando la vecchia legge Orlando. A confermare la preoccupazione (e la poca fiducia verso gli alleati) l’interessata profezia di Luigi Di Maio: “La riforma della prescrizione entra in vigore il primo gennaio”. Con tanto di monito per Zingaretti e compagni: “Spero che nessuno in maggioranza voglia votare un provvedimento per farci tornare ai tempi berlusconiani”. Sulla stessa linea (nessuna concessione e tanto sospetto) il Guardasigilli Alfonso Bonafede: “Se il Pd in Aula fa asse con Forza Italia e Lega sulla prescrizione sarebbe grave”. Ma al Nazareno non mollano la presa, timorosi che la riforma Bonafede senza aggiustamenti sia pericolosa. I dem non si professano, almeno pubblicamente, ostili alla cancellazione della prescrizione ma temono che con l’entrata in vigore della riforma i processi diventeranno infiniti, instaurando di fatto un ergastolo psicologico. Il Pd vuole istituire delle misure a tutela della “ragionevole durata dei processi”, che Bonafede e il M5s vogliano o no. Il capogruppo democratico al Senato Andrea Marcucci ricorda a Di Maio e Bonafede che sono “ministri in una coalizione”. E l’ex Guardasigilli Andrea Orlando rincara “vogliamo fatti concreti sul processo penale”. Nicola Zingaretti a provare a mediare. “Noi diciamo che accanto alla prescrizione bisogna garantire i tempi certi e brevi del processo. Se questo si ottiene noi non facciamo nessun problema. Bisogna solo ascoltarsi che è la cosa più bella che si possa fare fra alleati”, dice il segretario Pd. Ma l’Aula è grande e sulla battaglia garantista si possono trovare nuovi alleati. Il deputato Alfredo Bazoli, capogruppo dem in Commissione Giustizia alla Camera, ci dà la linea, che non piacerà agli alleati grillini: “Il M5s deve accettare un compromesso politico e abbandonare i toni inaccettabili alla Di Battista. Attendiamo un segnale dal ministro Bonafede, finora troppo rigido”. Se no cosa succede? “Porteremo comunque avanti la linea a difesa della ragionevole durata dei processi. La soppressione della prescrizione senza regole sui tempi processuali rischia di originare processi infiniti. Lo dicono anche tanti magistrati”. Cosa proponete? “La via maestra oggi è il rinvio della riforma Bonafede per applicare la fine della prescrizione dopo il primo grado insieme alla riforma dei processi”. Ma il Guardasigilli non sembra d’accordo. “Allora faremo nostre proposte in Parlamento con chi ci sta, tese unicamente a dare tempi certi ai processi”. Anche con Forza Italia? “Si, chiunque voglia sostenere questa battaglia”. Sembra un fronte garantista. “Il Pd è un partito garantista equilibrato”. E il M5s? “Ogni tanto perde la frizione sul giustizialismo”. La prescrizione può provocare una crisi di governo? “Certamente se non arriviamo a una soluzione, e il tempo stringe, rischia di diventare un fatto deflagrante per il governo”. Potreste votare il decreto-legge Costa? “Così aboliremmo la riforma Bonafede e non vorremmo arrivare a tanto”. Intanto la proposta forzista resta lì, col consenso del centrodestra, in attesa di un fronte “garantista”. Bruti Liberati: “No alla riforma Bonafede, serve prescrizione per ogni grado del processo” di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2019 L’ex procuratore di Milano: “Il punto di partenza dev’essere l’eliminazione della legge ex Cirielli sulla prescrizione, una delle leggi ad personam di Berlusconi, tanto sgangherata da essere stata sconfessata persino dal suo promotore”. “Entrerà in vigore il primo gennaio 2020 la nuova prescrizione”. Davanti alle toghe dell’Anm il Guardasigilli Alfonso Bonafede conferma che non accetterà i rinvii chiesti dal Pd. L’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, presente in sala, gli suggerisce uno slittamento “brevissimo” e gli propone di aggiungere tempi bloccati per ogni grado di giudizio. La prescrizione divide il governo ma pure le toghe. Lei sta con Bonafede o col Pd... “Vorrei stare dalla parte della ragionevolezza: trovare un equilibrio evitando guerre di religione”. Molti suoi colleghi, anche assai autorevoli, qui a Genova hanno detto sì al blocco della prescrizione, dicendo che la Bonafede è giusta, soprattutto corrisponde a quello che Anm e Pd hanno sostenuto per anni... “Il punto di partenza dev’essere l’eliminazione della legge ex Cirielli sulla prescrizione, una delle leggi ad personam di Berlusconi, tanto sgangherata da essere stata sconfessata persino dal suo promotore, cioè Cirielli, che nessuno può sensatamente difendere”. Ammetterà che voi per anni avete chiesto lo stop della prescrizione perché è così in quasi tutti i paesi del mondo... “Con la ex Cirielli la possibilità, in non pochi casi, di raggiungere la prescrizione anche dopo la sentenza di primo grado sollecita impugnazioni puramente dilatorie. Ciò non è accettabile e non è consentito in nessun paese”. Calcolando che non ha avuto ancora effetti la riforma della prescrizione di Orlando (sospensione per 36 mesi dopo il primo grado) del 2017, anche se la Bonafede entrasse in vigore produrrebbe conseguenze nel 2023. C’è tutto il tempo di fare leggi per accelerare il processo penale. Quindi dov’è il problema? “Con la legge Orlando si era intervenuti per rendere difficile la prescrizione almeno per alcuni gravi reati come la corruzione. Una riforma utile, ma incompleta. Poi si è deciso, con la Bonafede, di passare all’estremo opposto del pendolo rispetto alla ex Cirielli. Ma occorre evitare i due estremi. Da un lato, prescrizione facile con effetti di incentivazione di impugnazioni strumentali, ingorgo dei giudizi in appello, ricadute di lungaggini su tutta la catena del processo. Dall’altro, blocco totale della prescrizione dopo il giudizio di primo grado con il risultato, negli uffici giudiziari meno efficienti, di una permanenza del processo oltre ogni limite della ragionevole durata stabilita dalla nostra Costituzione e dalle nonne europee”. Dopo oltre 40 anni di magistratura, lei cosa farebbe? “Ciò che si può fare subito è introdurre un sistema di prescrizione per gradi, come previsto in altri paesi: un tempo per le indagini preliminari, un tempo per l’appello, un tempo per la Cassazione. Vi sono da anni dettagliati progetti largamente condivisi dai giuristi”. Quindi lei propone la prescrizione cosiddetta processuale? “Per rispetto al Parlamento non do numeri, ma per ciascuna fase occorre un tempo adeguato. Non si faccia demagogia agitando la somma globale. Questo sistema, a regime, disincentivando impugnazione dilatorie, produrrà un effetto di accelerazione generale. Meno appelli significa che quelli veri residui saranno trattati più rapidamente”. Lei sposa la tesi del rinvio della Bonafede chiesto dal Pd? “Sono contrario a un rinvio puro e semplice. L’esame in commissione Giustizia di uno dei due rami del Parlamento potrebbe essere calendarizzato in tempi serratissimi e un rinvio brevissimo dell’entrata in vigore della legge Bonafede servirebbe non a bloccare una riforma, ripeto indispensabile, della ex Cirielli, ma per farne una tecnicamente semplice, equilibrata ed efficace. E potrebbe essere anche il terreno di incontro e di condivisione tra magistratura e avvocatura”. “Italiani ostaggio dei tribunali”. Avvocati da domani in sciopero Libero, 1 dicembre 2019 Proteste davanti alla Corte di Cassazione. A ottobre c’era stato il primo blocco di astensioni dalle udienze. Non è servito, visto che l’odiata riforma della prescrizione - almeno a sentire il Guardasigilli Alfonso Bonafede - entrerà in vigore all’inizio del 2020. Così l’Unione delle Camere penali, nel giorno in cui Associazione nazionale magistrati e governo suggellano l’intesa al congresso del “sindacato delle toghe”, si preparano a un’altra mobilitazione. Da domani a venerdì 6 dicembre, infatti, i penalisti diserteranno i palazzi di giustizia contro quella che ancora ieri il presidente Gian Domenico Caiazza ha definito la “barbarie dei processi infiniti”. Perché questo succederà, attacca il numero uno dell’Unione delle Camere penali, quando la riforma Bonafede che blocca la prescrizione dopo il giudizio di primo grado entrerà a regime. “I processi interminabili, che diventeranno infiniti, sono una barbarie”, dice Caiazza proprio a margine del congresso dell’Anm, a Genova. Oltre alla nuova ondata di astensioni dalle udienze, gli avvocati si renderanno protagonisti di una “maratona oratoria” in piazza Cavour, davanti al Palazzaccio, dove ha sede la Corte di Cassazione. Dal 2 al 7 dicembre, i penalisti racconteranno dal vivo “la verità sulle cause della durata irragionevole dei processi e su come diventeremo tutti ostaggi a vita dello Stato con l’abolizione della prescrizione”. Così “centinaia di avvocati da tutta Italia” si recheranno in piazza Cavour “per raccontare ai cittadini quello che realmente accade nei tribunali ogni giorni”. I magistrati, invece, non stanno nella pelle dopo le parole del Guardasigilli. Per loro la riforma della prescrizione “così com’è va benissimo, produrrà effetti positivi e renderà impossibile un uso strumentale delle impugnazioni”, esulta Luca Poniz, il presidente uscente dell’Anm. Le toghe incassano anche l’addìo all’ipotesi del sorteggio per eleggere i componenti togati del Csm. “Ormai è alle spalle”, assicura Bonafede. La psicanalisi di gruppo dei magistrati di Riccardo Ferrante* Il Secolo XIX, 1 dicembre 2019 Il 34° congresso della Associazione Nazionale Magistrati organizzato a Genova è stato necessariamente una sorta di psicanalisi di gruppo. Troppo recenti i fatti che hanno coinvolto - tra maggio e giugno scorsi - alcuni componente del Consiglio Superiore della Magistratura. La relazione del presidente Anm Luca Poniz non ha tradito pulsioni di rimozione. Se da una parte al magistrato non può essere negata una sana volontà di affermazione professionale, dall’altra il vero elemento di corrosione interna all’ordine giudiziario è quello del carrierismo, veicolato dalle correnti che con i loro rappresentati al Csm decidono le nomine. Che il vasto corpo della Magistratura si organizzi in tendenze culturali strutturate e che esse partecipino secondo un criterio di rappresentanza alla gestione dell’organo di governo autonomo, risponde pacificamente al principio democratico. La stessa Anm, sintesi unitaria delle diverse tendenze, ha storicamente svolto una funzione centrale. Fondata a Milano il 13 giugno 1909 come “Associazione Generale fra i magistrati d’Italia”, ha accompagnato le diverse fasi della storia nazionale, ma è col rifondante Congresso di Gardone (1965), che i giudici si sono collocati al centro del dibattito giuridico e politico, proponendosi, in quanto interpreti, come motore di progresso normativo. L’obbiettivo posto fu la concreta applicazione della Carta costituzionale, e dell’art. 3 in particolare (il principio di uguaglianza). Il ruolo centrale di Anm è riconosciuto puntualmente, in apertura di ogni suo congresso nazionale, conia presenza del Presidente della Repubblica. Questa volta era presente Sergio Mattarella che, in quanto presidente del Csm, a giugno scorso con un tono di gravità che non gli è usuale ha stigmatizzato quanto era emerso, e in particolare le collusioni tra politici sotto processo e giudici in carica al Csm, per indirizzare le nomine dei magistrati che di quei processi si sarebbero dovuti occupare. Il Csm va “smilitarizzato” politicamente, ha insistito il suo vicepresidente Davide Ermini ieri a Genova, e il ministro della giustizia Bonafede ha assicurato che nel progetto di riforma del Consiglio non ci sarà la nomina per sorteggio. Un tale sistema, sottraendo rappresentatività vanificherebbe in effetti buona parte del ruolo riservatogli negli equilibri costituzionali. Ugualmente rischiosa - lo ha sottolineato Poniz - sarebbe la presenza di due Csm distinti per giudicanti e requirenti. Il tema costante, in quasi tutti gli interventi di questa tre giorni congressuale, è stato rappresentato dai fatti degenerativi di maggio/giungo scorsi, e gli effetti deleteri di un sistema elettorale del Csm (con collegio unico nazionale) causa di un correntismo sfrenato. Spiace dover assistere in questo congresso a un, pur necessario, ripiegamento di Anm su se stessa, in un autoesame fatalmente autoreferenziale. Non per nulla “Gardone 1965” è stato richiamato così spesso; un evento che dimostrò la straordinaria vitalità progressiva della magistratura del secondo dopoguerra; “Genova 2019” risponde allo spirito dei tempi. Il crollo del viadotto Morandi è stato ricordato più volte, per dare il senso di una presenza solidale dei magistrati in città; in fondo è anche metafora del crollo drammatico di qualcosa che si pensava impossibile cedesse. Ecco, facciamo che le ricostruzioni siano davvero rapide, entrambe. *Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova Veneto. In arrivo centinaia di detenuti per mafia, è allarme sicurezza di Raffaella Ianuale Il Gazzettino, 1 dicembre 2019 Ai duecento già previsti a Vicenza se ne stanno aggiungendo altri cento a Rovigo. Tutti detenuti per reati di mafia destinati alle carceri venete. La metà di loro si è già insediata (un centinaio a Vicenza e una sessantina a Rovigo), ma è solo questione di settimane e poi tutti i posti di alta sicurezza delle due carceri verranno occupati da condannati per 416 bis, cioè associazione a delinquere di stampo mafioso. “Abbiamo ricevuto notizie dell’arrivo di alcuni famigliari dei detenuti, siamo preoccupati perché in Veneto ci sono già stati casi di infiltrazioni mafiose e non siamo strutturati per contrastare questo tipo di criminalità”. La premessa è dell’ex ministro e attuale senatrice della Lega Erika Stefani che ieri si è riunita a Vicenza con i rappresentanti dei diversi livelli di governo del suo partito per intraprendere un’azione trasversale perché non vengano sottovalutate le conseguenze che potrebbe avere l’arrivo in Veneto di un così elevato numero di condannati per mafia, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita. A partire dal Senato, passando per la Camera, la Regione Veneto e il Comune di Vicenza. L’azione comune - “Ho fatto un’interrogazione al ministro della Giustizia - prosegue Stefani - per chiedere quali iniziative intenda mettere in atto per garantire la sicurezza del territorio e evitare contatti tra l’interno e l’esterno del carcere. Quello mafioso è un reato frutto di relazioni, da qui nasce l’associazione a delinquere”. E cita l’esempio delle infiltrazioni ad Eraclea, nel Veneziano: l’inchiesta ha portato alla luce come la camorra si sia intrufolata nel tessuto economico del territorio. “Questi sono segnali che dimostrano che non siamo immuni alla criminalità mafiosa - prosegue la senatrice - il Veneto sta attraversando un momento delicato: le aziende sono in difficoltà, il sostegno bancario è venuto meno, quindi in una situazione di crisi come questa si possono aprire varchi per le organizzazioni criminali che offrono finanziamenti alle imprese per poi obbligarle alla sudditanza”. Da qui l’interrogazione al ministro in cui la senatrice chiede il perché si sia deciso di dirottare in Veneto un così elevato numero di condannati per mafia, e quali iniziative si intendano mettere in atto per controllare che non intacchino il tessuto economico. “Non siamo preparati a contrastare una criminalità di questo tipo - conclude - ci vuole potenziamento di personale, ma anche attività di intelligence”. Interventi a più livelli - Rientra nel fronte comune della Lega anche l’interrogazione urgente, sempre al ministro della Giustizia, dell’onorevole leghista Erik Pretto, componente della Commissione parlamentare antimafia, presentata assieme alla collega di partito Silvia Covolo. Per la Regione Veneto, ieri a Vicenza, il capogruppo della Lega Nicola Finco ha illustrato la mozione per giungere a un protocollo d’intesa tra istituzioni e forze politiche che assista le vittime di mafia anche attraverso l’attivazione di un numero verde. Fino al consigliere del Comune di Vicenza il leghista Filippo Busin e il segretario provinciale del partito Matteo Celebron. La denuncia degli agenti - A sollevare il caso era stato l’Uspp, il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria che aveva denunciato come nell’ala di alta sicurezza del carcere Filippo del Papa di Vicenza, inaugurata quattro anni fa, stessero arrivando detenuti per mafia. “Arrivi che necessitano di un potenziamento di personale e di un direttore in pianta stabile” aveva denunciato il segretario regionale del sindacato Leonardo Angiulli, che parlava di una carenza di almeno sessanta agenti e di un direttore, a scavalco con Padova, presente a Vicenza per due giorni alla settimana. Numeri e carenze confermate dallo stesso direttore del carcere Fabrizio Cacciabue. E ora al caso Vicenza si aggiunge anche quello di Rovigo. Napoli. Boss camorristi dissociati, il “no” del procuratore Melillo di Dario Del Porto La Repubblica, 1 dicembre 2019 “Dietro questa strategia c’è il tentativo di salvare le componenti più raffinate delle organizzazioni mafiose”. Ci sono “capi riconosciuti” di organizzazioni camorristiche che dal carcere “scrivono lettere per dissociarsi”, ammettendo cioè solo singoli delitti, senza chiamare in causa terze persone né contribuire ad alzare il velo sugli affari del clan, allo scopo di ottenere uno sconto di pena, soprattutto nei processi per omicidio. Dietro questa scelta, il procuratore Giovanni Melillo vede “il rischio concreto” di utilizzare questo strumento “a salvaguardia delle componenti più raffinate del sodalizio criminoso”. Il capo dei pm del Centro direzionale lancia l’allarme intervenendo al convegno della Camera penale sull’ergastolo ostativo e ribadisce la linea dell’ufficio inquirente dinanzi alla strategia, inaugurata agli inizi degli anni 90 da esponenti della famiglia malavitosa dei Moccia di Afragola in antitesi alla collaborazione piena con la giustizia, sulla falsariga di quanto accaduto negli anni del terrorismo, che oggi viene riproposta soprattutto da esponenti di primissimo piano degli Scissionisti di Scampia. “L’associazione mafiosa - argomenta il procuratore - mira anche ad obiettivi come la corruzione e il riciclaggio, non riesco a comprendere come ci si possa dissociare dalla corruzione o dal riciclaggio”. Condotte che, al contrario, rischiano di rafforzarsi grazie al silenzio dei boss dissociati. Ecco perché, secondo il procuratore di Napoli, “le dissociazioni verbali non bastano” ad aprire la strada ai benefici, neppure alla luce delle sentenze della Cedu e della Corte costituzionale sulla estensibilità dei permessi premio in caso di ergastolo per delitti di mafia anche in mancanza di una piena collaborazione. La decisione della Consulta, ragiona Melillo, “pone al centro il tema centrale della discrezionalità giudiziaria”, per la quale il capo dei pm auspica “una nuova configurazione complessiva”. Non è d’accordo con Melillo l’ex presidente della Camera penale Attilio Belloni che, nel corso del dibattito moderato dall’avvocato Marco Campora, obietta: “Se si dubita della dissociazione, si dubita che un mafioso possa emendarsi”. Ai lavori sono intervenuti anche il tesoriere dell’Unione nazionale delle Camere penali, Giuseppe Guida, il pg Luigi Riello, il garante per i diritti dei detenuti Samuele Ciambriello, il presidente della Camera penale Ermanno Carnevale, la presidente de Il Carcere possibile Anna Ziccardi e la presidente del tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia. Durante la discussione non è mancato un botta e risposta fra il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e il docente universitario di Diritto penale Sergio Moccia. “Il “fine pena mai” di fronte a soggetti che, durante la detenzione, sono cambiati, è in contraddizione con lo Stato di diritto. Non si può pensare di togliere a un uomo la speranza”, ha evidenziato Cafiero de Raho, ricordando però che “secondo le regole chi entra a far parte dell’associazione non ne esce più”. Oggi, ha rimarcato Cafiero, “le mafie cambiano pelle, studiano la strategia della sommersione, entrano nell’impresa. All’interno del carcere, il vero mafioso non dà alcun problema, rispetta le regole”. A questo punto, il professor Moccia è intervenuto: “Se fosse realmente un capo, farebbe di tutto per uscire”. E Cafiero ha replicato: “Professore, non dimentichi quello che è accaduto nel 1993, quando dopo le stragi i boss della ‘ndrangheta fermarono i delitti perché “stavano bene con le istituzioni”. Negare l’intelligenza delle mafie significa negare la realtà”. Nel suo intervento, Moccia aveva evidenziato di essere “contro l’ergastolo, non solo quello ostativo”. Senza risparmiare una stoccata a “quei politici che parlano a vanvera, quando usano espressioni come “buttare le chiave” o “marcire in galera”. Torino. Torture ai detenuti per reati sessuali: si allarga l’inchiesta di Giuseppe Legato La Stampa, 1 dicembre 2019 Altri dieci detenuti denunciano: botte in cella. L’inchiesta che ha portato all’arresto di sei agenti della Polizia penitenziaria del carcere Lo Russo e Cotugno di Torino accusati di tortura a danno di detenuti per reati a sfondo sessuale, è destinata ad allargarsi. Tra la sfilza di testimoni che nelle scorse settimane sono sfilati davanti al pm Francesco Pelosi, titolare del fascicolo di inchiesta, ve ne sono una decina che hanno denunciato - in alcuni casi - altri fatti gravi avvenuti nel penitenziario sul quale sono in corso accertamenti. L’inchiesta, nata dalla segnalazione qualificata di Monica Cristina Gallo, garante comunale dei diritti dei detenuti che aveva raccolto le confidenze di alcuni carcerati, tutti sotto i 40 anni, ristretti nelle quattro “sezioni incolumi”, nel padiglione C della casa circondariale, si arricchisce dunque di nuovi capitoli e registra - nella sostanza - una conferma dell’impianto accusatorio anche dai giudici del Tribunale del Riesame che si sono espressi sui ricorsi - contro la misura cautelare degli arresti domiciliari - presentata da quattro dei sei agenti indagati. Il dispositivo conferma gli arresti per due agenti e revoca l’ordinanza per altri due, uno difeso da Antonio Genovese. Il Riesame riconosce che nel carcere di Torino si sono verificati diversi pestaggi e che le vittime sono attendibili; ritiene però che, per configurarsi la contestazione del reato di tortura, è necessaria una pluralità di condotte; quindi più condotte violente oppure una condotta violenta e altre vessatorie. Nel caso dell’agente a cui sono stati revocati i domiciliari il fatto di reato è uno solo e quindi cade la contestazione di tortura. Resta “una condotta degradante consistita nel costringere la vittima a rimanere fermo nel corridoio in piedi rivolto verso il muro, per un tempo di circa 40 minuti squalificando la sua persona”, ma non inumana anche perché “non premeditata”. Questo - per senso contrario - è anche il motivo per cui gli altri due agenti indagati per almeno due episodi (tutti avvenuti tra Aprile 2017 e novembre 2018) si sono visti confermare il reato più grave e restano ai domiciliari. A uno avrebbero spruzzato detersivo per i piatti sul materasso e strappato le mensole dal muro, un altro sarebbe stato costretto a dormire sull’asse di metallo del letto, senza il materasso, un altro ancora ignorato quando ha chiesto una visita medica. Poi insulti e minacce. “Figlio di puttana, ti devi impiccare”, gli dicevano. Per un altro, il trattamento era costringerlo a ripetere “sono un pezzo di merda”. Torino. Tribunale del Riesame: “Il trattamento inumano e degradante non è tortura” ansa.it, 1 dicembre 2019 Chiudere un detenuto in uno stanzino dopo averlo costretto a stare in piedi faccia al muro per una quarantina di minuti, e quindi percuoterlo con calci e pugni, è sicuramente un trattamento “degradante”, ma da solo non basta per essere considerato “tortura”. È una delle ragioni per le quali il Tribunale del Riesame di Torino ha annullato gli arresti domiciliari per uno degli agenti di Polizia penitenziaria del carcere delle Vallette indagato con alcuni colleghi per episodi di violenza sui reclusi. I giudici hanno effettuato una panoramica sulla giurisprudenza in materia di “tortura” che nel corso degli ultimi decenni è stata composta a Strasburgo dalla Corte europea per i Diritti dell’Uomo, arrivando alla conclusione che esiste una differenza fra trattamento “degradante” e trattamento “disumano”. L’agente, assistito dall’avvocato Antonio Genovese, è stato indagato solo per un episodio. Il reato introdotto nel 2017 vuole che “a fronte di un’unica condotta il trattamento sia inumano e degradante”. Verona. “Braccialetti elettronici ai detenuti? In città neanche uno” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 1 dicembre 2019 Denuncia degli avvocati scaligeri: “Il carcere? Sia solo l’extrema ratio”. Braccialetti elettronici al posto della detenzione nei sempre più sopraffollati carceri, a cominciare da quello di Montorio? Secondo gli avvocati scaligeri un flop che rischia di rendere sempre più invivibili le già precarie condizioni e i già risicati spazi per i detenuti all’interno dei penitenziari. Perché i tanto reclamizzati dispositivi di controllo alternativi alla reclusione dietro le sbarre a Verona non sono disponibili. Braccialetti elettronici al posto della detenzione nei sempre più sopraffollati carceri, a cominciare da quello di Montorio? Un clamoroso bluff, un gigantesco flop che rischia di rendere sempre più invivibili le già precarie condizioni e i già risicati spazi per i detenuti all’interno dei penitenziari. Perché i tanto reclamizzati dispositivi di controllo alternativi alla reclusione dietro le sbarre, a vent’anni dalla loro introduzione sulla carta, restano ancora una rarità, se non addirittura introvabili. Un allarme che investe anche Verona, in prima linea nella protesta andata in scena 24 ore fa su scala nazionale. Ieri, in contemporanea con i colleghi avvocati di tutta Italia, la Camera penale veronese ha infatti celebrato la “giornata dei braccialetti elettronici”. È la quinta volta che ciò accade negli ultimi 5 anni, a dimostrazione che la situazione non si sblocca e le denunce finora sono cadute nel vuoto. Ma i problemi restano, come spiega senza mezzi termini la vicepresidente Barbara Sorgato: “Sempre più magistrati dispongono l’uso dei braccialetti, soprattutto per l’applicazione della misura cautelare, ma il numero dei dispositivi disponibili è insufficiente, nonostante sia stato aggiudicato il bando per la nuova fornitura di 12mila esemplari. Il servizio - denuncia la penalista veronese - sarebbe dovuto partire nell’ottobre del 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno nella nomina della commissione di controllo”. Il risultato? Nella teoria, “le procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici dei detenuti agli arresti domiciliari” risultano disciplinate da circa 20 anni e da 6 il Legislatore ne ha stabilito l’”uso prevalente”. Nella pratica, però, le cose anche a Verona stanno andando all’inverso, perché la richiesta di braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari ha ormai superato, da tempo, la disponibilità dei dispositivi. Per tale ragione, pur potendo usufruire della misura, alcuni detenuti restano in carcere. Tale circostanza, se da un lato dimostra come i magistrati stanno ricorrendo più frequentemente a questa misura di custodia cautelare, dall’altro crea enormi disparità di trattamento. Dunque la normativa ad oggi è rimasta poco meno che lettera morta: basti pensare che a Verona nessun dispositivo risulta in concreto non soltanto applicato, ma nemmeno disponibile. Uno “zero” che ha riflessi sull’intero sistema. “Il ricorso ai braccialetti elettronici contribuirebbe a mitigare il problema del sovraffollamento carcerario e concorrerebbe a realizzare l’obiettivo di un sistema più umano, nel quale il carcere si ponga come estrema ratio ha ribadito ieri con un sit in davanti al tribunale il direttivo dei penalisti scaligeri - obiettivo che sembra rimanere ai margini di logiche di natura economica che nulla hanno a che vedere con i valori, di rango costituzionale, della sacralità della libertà personale e della funzione rieducativa della pena”. Pisa. Salvini in visita al Don Bosco: “Sono qua per gli agenti, non per i detenuti” pisatoday.it, 1 dicembre 2019 L’ex ministro e leader leghista è stato in carcere per il suo tour elettorale in vista delle elezioni regionali 2020. “Oggi sono andato al carcere di Pisa, non per trovare i detenuti, ma per incontrare gli agenti della Polizia Penitenziaria”. Nel tardo pomeriggio di ieri, 29 novembre, l’ex ministro e leader della Lega Matteo Salvini ha visitato come annunciato il carcere Don Bosco di Pisa, sincerandosi delle condizioni difficili in cui versa la casa circondariale. “Gli uomini e le donne in divisa - ha detto - spesso vengono trattati peggio dei carcerati. Non sono torturatori, non sono delinquenti. Da ministro ha lavorato al loro fianco e contro presto di tornare al loro fianco per migliorare la qualità della vita delle donne e degli uomini della penitenziaria. Perché io sto sempre con le guardie e non con i ladri”. Nella visita Salvini è stato accompagnato dal sindaco di Pisa Michele Conti, il deputato Edoardo Ziello e l’europarlamentare Susanna Ceccardi, con poi presenti altri membri della giunta pisana e consiglieri comunali. “La Toscana ha bisogno di fatti - ha proseguito Salvini - Pisa ne è la dimostrazione”. Un riferimento poi all’evento di Firenze, dove al Tuscany Hall avrebbe poi incontrato i sindaci del centrodestra della Toscana, insieme a trovare le “Sardine” in piazza: “Ognuno è libero di fare quello che vuole, per noi avere 1.200 persone con cui ragionare del futuro di Firenze e della Toscana è fondamentale”. Nel dettaglio, sulla contestazione il leader leghista ha risposto “parliamo di vita reale. Qual è la loro proposta per la Toscana? Io ce l’ho. La protesta non è che costruisca molto. Tutti vanno ascoltati, prima o poi le incontrerò”. Sulle elezioni regionali: “Il nome - del candidato ndr - arriva alla fine. Prima ci sono programma e progetto. Stiamo lavorando a un progetto diverso da quello della sinistra degli ultimi anni. Si parla di sanità, di liste d’attesa, case popolari, sostegno alle imprese, alle famiglie, alle aziende agricole. Poi il nome del candidato arriva alla fine”. “Ho accompagnato Matteo Salvini in visita al carcere Don Bosco per ascoltare, direttamente dalla voce delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria, i problemi e le criticità della struttura. L’ho ringraziato per l’attenzione verso la casa circondariale della nostra città. Spero che le sue proposte per migliorare la condizione dei lavoratori siano accolte dal Governo”, ha commentato il sindaco di Pisa Michele Conti. Catania. Il boss Sebastiano Lo Giudice dal 41bis: “Giovani, non inseguite falsi miti” La Sicilia, 1 dicembre 2019 La missiva inviata tramite il legale dell’ergastolano al quotidiano La Sicilia, al sito LiveSicilia e all’Ansa. La lettera, come decine e decine di altre ogni giorno, è arrivata in redazione via mail. Ma questa non è una lettera qualsiasi. Arriva, per il tramite di un avvocato, Salvatore Leotta del Foro di Catania, dal carcere di Spoleto. A scriverla, con caratteri a stampatello, un uomo che si è macchiato dei delitti più efferati, un uomo che ha ucciso e fatto uccidere, un mafioso, un boss. Si chiama Sebastiano Lo Giudice, è ritenuto il capo spietato del clan catanese dei “Carateddi”. L’avvocato Leotta ha trasmesso la lettera del suo assistito a noi e ad altri due mezzi d’informazione. Lo Giudice è un detenuto sottoposto al 41bis, il regime detentivo più restrittivo, esemplificativo della pericolosità del soggetto. Abbiamo deciso di pubblicare il testo della lettera, con il conforto delle autorità competenti cui abbiamo sottoposto preventivamente lo scritto, perché Lo Giudice, da mafioso, ammette di avere bruciato la propria vita e invita i “giovani dei quartieri” a non fare altrettanto. A suo modo, e pur con le necessarie e scontate cautele del caso perché tra le righe potrebbe anche nascondersi altro, può comunque essere un messaggio importante per quei tanti, troppi ragazzi a rischio delle nostre città, lasciati dalla società “perbene” ai margini di una vita normale e quindi facilmente reclutabili dalle cosche. Questo, allora, deve restare della lettera che pubblichiamo in maniera testuale, errori compresi, per come ci è stata inviata: una vita da criminali, da mafiosi, non è vita. La lettera - “Mi chiamo Lo Giudice Sebastiano e mi trovo recluso nel carcere di Spoleto a regime di 41 bis da quasi 10 anni, oggi mi trovo a scrivere a questo giornale al fine di poter dare sfogo ai miei pensieri. Faccio presente che ho maturato la consapevolezza di prendere le distanze da tutto e tutti e rispettare le sentenze che mi sono state inflitte senza dare più la possibilità a venditori di menzogne di speculare sul mio nome. Mi rivolgo pure ai giovani che crescono nei quartieri come dove sono cresciuto io, di non prendere come esempio persone come me che si sono rovinati la vita, perché crescendo capirete che non c’è niente di vero e non gli si dà il giusto valore alla vita e quando ve ne renderete conto sarà troppo tardi e le sofferenze rimangono solo a voi e alle vostre famiglie che pagheranno conseguenze non loro; abbandonate la droga e l’alcool e godetevi la vita lavorando onestamente e con dignità e non dovete mai avere la paura di chi bussa alla vostra porta. Istruitevi, aprite gli occhi e lasciate perdere i falsi miti perché prima vi chiameranno amore e dopo vi addosseranno anche le loro responsabilità e potrete gridare quanto volete perché nessuno vi sentirà e nessuno vi crederà. Io ho perso la mia bella gioventù, ho perso l’amore dei miei figli e delle persone che mi amano veramente, per cui se avrò la possibilità mi voglio godere solo i miei nipotini, altrimenti accetterò di morire in carcere come la giustizia a deciso ma vorrei solo essere curato e scontare la mia con la mia dignità senza avere più problemi. Ho visto tanti bravi ragazzi perdersi senza capirne la motivazione e sono certo che se potrebbero tornare indietro non rifarebbero più gli stessi errori, per cui abbiate la forza di dare una svolta alla vostra vita e non date adito alle millanterie dei quartieri perché prive di fondamento e fine a se stessi”. Reggio Calabria. “Oltre i confini del carcere”, gli Stati generali dell’esecuzione penale lanuovacalabria.it, 1 dicembre 2019 Il prossimo martedì 3 dicembre, a partire dalle ore 9:30, nella Sala “Federica Monteleone” di Palazzo Campanella, avrà luogo la prima Conferenza regionale dal titolo “Stati generali dell’esecuzione penale in Calabria - oltre i confini del carcere: un corale focus operativo per una nuova governance della pena”. L’iniziativa, promossa dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia, d’intesa con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha registrato la piena condivisione da parte del Presidente del Consiglio regionale, Nicola Irto che, in occasione della conferenza di presentazione delle Linee Guida dell’attività istituzionale del Garante, aveva auspicato un momento di riflessione sinergico sul delicato tema della detenzione in Calabria. Saranno riuniti, per la prima volta, in tre diversi tavoli tematici, i vertici dell’amministrazione penitenziaria, della giustizia, della sanità e del welfare, oltre al variegato mondo del terzo settore e del volontariato sociale di tutto il territorio calabrese. L’obiettivo è quello di focalizzare l’attenzione sulle principali problematiche dell’esecuzione penale e del cosiddetto “pianeta carcere”, al fine di costruire e consolidare una piattaforma culturale e operativa in grado di favorire il recupero, la rieducazione e il reinserimento sociale di chi ha delinquito. Saranno presenti, tra gli altri, il Presidente del Consiglio regionale, Nicola Irto, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Liberato Guerriero, il sub commissario alla sanità Maria Crocco, oltre a magistrati, docenti universitari, dirigenti penitenziari, sanitari, regionali, esperti e rappresentanti del mondo delle professioni e del terzo settore, che porteranno il loro contributo qualificato, durante l’arco della giornata di lavori. Sono previsti, inoltre, interventi programmati di figure che interagiscono quotidianamente con le problematiche della detenzione ed uno spazio di dibattito. Reggio Calabria. “L’ergastolo ostativo alla luce del caso Viola”, dibattito al Digies di Giuseppe Abramo* cn24tv.it, 1 dicembre 2019 Lunedì 18 novembre, presso il “Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane” di Reggio Calabria, si è tenuto un arricchente dibattito promosso dal Movimento universitario “Contaminiamo i Saperi” e patrocinato dall’Ordine degli psicologi della Calabria, dal titolo: “Il diritto alla speranza. L’ergastolo ostativo alla luce del ‘caso Viola’ e della sentenza della Corte costituzionale”. Era fondamentale, in qualità di aspiranti operatori del diritto, organizzare un incontro di approfondimento e di analisi riguardante l’evoluzione giurisprudenziale in materia di ergastolo ostativo; ed è ancora più significativo che questa preziosa occasione si sia svolta all’interno dell’Università, luogo emblematico per la formazione dei protagonisti del futuro. A dare il via ai lavori è stato il Dir. del DiGiES, Prof. Massimiliano Ferrara, che ha accolto favorevolmente non solo l’iniziativa in corso d’opera ma soprattutto lo spirito d’intraprendenza degli studenti e dei vari gruppi associativi che animano la nostra realtà universitaria. Con una incoraggiante esortazione a prestare completo affidamento nel sostegno del Dipartimento per qualsiasi progetto di crescita culturale e professionale, ha poi annunciato l’apertura di un corso di diritto penitenziario per il prossimo anno accademico, che valorizzerà sensibilmente il corso di studi in riva allo stretto. Il Prof. Arturo Capone, associato di procedura penale presso l’Università Mediterranea, ha delineato il quadro giuridico e normativo in cui collocare l’argomento in questione, illustrando il tortuoso percorso dottrinale e giurisprudenziale che è culminato con la sentenza Viola della Corte EDU e con la sentenza della Corte costituzionale di alcune settimane fa. Le due Corti supreme hanno sostanzialmente sollecitato lo Stato italiano a prevedere che, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, il Tribunale di sorveglianza possa valutare la richiesta di accesso ai benefici penitenziari da parte dei condannati per i c.d. reati ostativi (tra cui l’associazione a delinquere di stampo mafioso), sempre alla luce dei percorsi trattamentali di rieducazione e di risocializzazione posti in essere dentro il carcere. È stata poi colta la pregevole opportunità di conversare con la Dott.ssa Antonia Sergi, psicologa e psicoterapeuta presso gli Istituti penitenziari G. Panzera di Reggio Calabria, nonché esperta in criminologia e sistema penitenziario, che ha permesso di scoprire come opera in concreto un professionista negli ambienti carcerari. L’ osservazione scientifica della personalità del reo, il concetto di revisione critica, le linee guida di valutazione in assenza di collaborazione del detenuto e poi l’approccio conoscitivo alla c.d. “psicologia mafiosa”, considerata anche la riproposizione in carcere delle condotte tipiche dei boss. Di particolare interesse la delucidazione relativa al trattamento degli affiliati alle organizzazioni criminali, anche perché - aspetto confermato dalla stessa dott.ssa Sergi - il mafioso è nella quasi totalità dei casi un detenuto modello, che si contraddistingue per il rispetto ossequioso del regolamento carcerario, perfettamente in sintonia con una forma di deontologia criminale. Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Avv. Agostino Siviglia, ha infine offerto degli efficaci spunti di riflessione critica, raccontando le numerose esperienze nelle carceri calabresi dove ha potuto, ad esempio, ammirare le opere di c.d. ingegneria carceraria, invenzioni e progettazioni di alcuni soggetti internati, utili e funzionali non solo per il trascorrere delle giornate in carcere ma soprattutto per conferire un barlume di umanità alla stessa detenzione. Dopo aver ripreso l’originale metafora proposta dal “Garante nazionale dei diritti dei detenuti” Mauro Palma, della dea della giustizia non bendata - appunto per soddisfare l’esigenza di guardare ogni singolo caso nella sua specificità, senza automatismi pregiudiziali -, ha citato l’esemplare gesto di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice palermitano, che ha chiesto di incontrare in carcere i fratelli Graviano (esecutori materiali dell’attentato di Via D’Amelio). Ha infine dichiarato che “deve essere lo Stato a nutrire il diritto alla speranza”. E questa affascinante attività di studio e di ricerca, indispensabile per la realizzazione della nostra tavola rotonda, ha generato delle stimolanti considerazioni che vengono riportate in questo umile contributo. Come spiegato in precedenza dal Prof. Pugiotto, Docente ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, “la Corte di Strasburgo non ha affatto bocciato la collaborazione come condizione per accedere ai benefici penitenziari, ma ha contestato l’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale del condannato, invitando il Legislatore italiano a prevedere anche per l’ergastolano non collaborante la necessità di accedere ai benefici penitenziari, se ha dato prova del suo ravvedimento. [...] Ecco perché deve essere la magistratura di sorveglianza a valutare caso per caso, alla luce dell’intero percorso trattamentale del reo, se sia ancora socialmente pericoloso, indipendentemente dalla sua collaborazione con la giustizia. [...] Caduto l’automatismo ostativo, si ritornerà alla regola della valutazione giurisdizionale individuale. Si chiama riserva di giurisdizione, ed è prevista dalla Costituzione a garanzia di tutti i cittadini, detenuti compresi”. Si tratterebbe quindi dell’imprescindibile restituzione alla magistratura di un potere di valutazione e di verificabilità, come costituzionalmente previsto nel nostro ordinamento. Sono state anche avanzate critiche legate a un’eventuale sovraesposizione dei giudici di sorveglianza alle ritorsioni del potere mafioso. Ma sorgono spontanei alcuni interrogativi: il pubblico ministero che chiede la condanna all’ergastolo ostativo, non è invece soggetto a questi rischi? E soprattutto, il giudice che emana la sentenza di condanna all’ergastolo ostativo, non rappresenta forse il grado decisionale più elevato in tal senso? Si tratta di un pericolo connaturato alla funzione stessa del magistrato, e risulterebbe pertanto inutile qualsiasi catastrofismo al riguardo. D’altronde, come spiegato da Fabio Gianfilippi - magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, che peraltro ha sollevato il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone -, “la magistratura di sorveglianza si occupa da molti anni di detenuti per reati gravissimi, anche di mafia, e già oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia. Analizzando poi un punto di vista requirente, è interessante menzionare alcune osservazioni rilasciate da un altro operatore pratico del diritto, da anni impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, come il procuratore della DDA di Reggio Calabria Stefano Musolino. Afferma il p.m. reggino: “Nonostante la scarsità di investimenti e di attenzioni, il sistema penitenziario e la magistratura di sorveglianza hanno già dimostrato un’efficace capacità di gestione di queste dinamiche. Gli allarmismi sul punto sono, perciò, del tutto infondati. Piuttosto, mi inquieta il tentativo di aggressione culturale alla capacità discrezionale del giudice. È come se si brandisse il manganello mediatico per indurre la magistratura a chiedere nuove e deresponsabilizzanti presunzioni normative. Ma noi siamo un potere dello Stato, non funzionari addetti allo smaltimento di pratiche burocratiche e ogni persona, ogni situazione sottoposta al nostro giudizio merita un’attenzione speciale che ci impone valutazioni verificabili e discrezionali, perché tarate sul caso specifico sottoposto alla nostra attenzione”. Significativa poi l’affermazione del magistrato antimafia: “direi che sia più accettabile (sul piano dei costi-benefici costituzionali) un errore, in buona fede, del giudice a favore di un detenuto immeritevole, anziché cento detenuti costretti a un generale regime deteriore che non tiene conto del loro percorso personale, per impedire che possa verificarsi il predetto errore”. Ma lo tsunami di polemiche sulla vicenda non si è per nulla limitato a valutazioni di natura tecnica, raggiungendo notevoli livelli di strumentalizzazione mediatica, attraverso ad esempio l’abuso del nome di Giovanni Falcone. Come spiegato dal Prof. Capone durante il nostro convegno, è vero che Giovanni Falcone - da Direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia - aveva contribuito alla stesura del d.l. 152 del 1991, che introdusse per la prima volta l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario; la prima versione, tuttavia, condizionava l’accesso ai benefici penitenziari all’esclusione di rapporti attuali con la criminalità organizzata. Solo dopo la strage di Capaci, sull’onda emergenziale, fu invece emanato il secondo decreto legge che introdusse l’attuale art. 4bis o.p., con l’ostatività della mancata collaborazione. La stessa Corte EDU ha rilevato, nella pronuncia sull’ergastolano taurianovese, che “il sistema penitenziario italiano si fonda sul principio della progressione trattamentale, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre degli effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Man mano che evolve la detenzione, ammesso che evolva, il detenuto si vede offrire dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale), destinate ad accompagnarlo nel suo cammino verso l’uscita”. E appare inoltre ancor più considerevole un dettaglio legato al procedimento dinnanzi alla Corte sovranazionale. L’art. 43 Cedu parla chiaro: “possono essere discusse alla Grande Camera soltanto le questioni che presentino seri dubbi interpretativi”. Sembrerebbe evidente, quindi, la netta presa di posizione di Strasburgo sulla controversia, manifestata appunto con il rigetto del ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza Viola, come a voler precisare che non esistesse alcun serio dubbio interpretativo tale da rimettere in discussione la pronuncia dello scorso giugno. Grazie a una formidabile squadra di professionisti, il corpo studentesco dell’Università “Mediterranea” e la società civile reggina hanno potuto cogliere la rivoluzione copernicana avvenuta nel mondo del diritto penitenziario, abbattendo quel muro di paura, di incredulità e di indignazione costantemente fortificato dalla disinformazione dilagante. Risulta, quindi, inderogabile una esortazione nel pieno rispetto di qualsiasi opinione sulla tematica: corre l’obbligo (non solo il dovere) morale di riempire la parola “intelligenza” del suo significato etimologico, “intus”-“legere”, “leggere dentro”, non fermarsi all’apparenza, alla copertina di un libro, alla descrizione di un articolo di giornale. Al titolo di un post Facebook. *Laureando DiGiES UniRC Rieti. La Comunità Emmanuel in carcere con un progetto contro la violenza sulle donne rietilife.com, 1 dicembre 2019 Prosegue l’attività prevista dal Progetto Limen-Oltre il Limite, proposto dalla Associazione Comunità Emmanuel di Rieti all’interno della Casa Circondariale di Rieti, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento Pari Opportunità, per progetti di contrasto alla violenza sulle donne. Il progetto, iniziato nel Novembre del 2018, prevede attività laboratoriali di arte, nonché colloqui individuali ed incontri di gruppo. L’arte, la scrittura, la creatività sono inevitabilmente connesse ai processi psichici di ciascuna persona e al rapporto con la propria dimensione emotiva e con le capacità empatiche. Alla soddisfazione delle psicologhe, dottoresse Chiaia e Mazzetti, si accompagna quella della popolazione carceraria interessata dal progetto che, nel complesso, mostra una progressiva e costante alfabetizzazione al linguaggio psicologico. “Abbiamo l’idea che si stia portando un poco di luce in un ambito penale che reca su di sé lo stigma di delitti che sconvolgono - queste le parole delle due psicologhe che ci fanno ben sperare sulla possibilità che individui con quelle fragilità possano divenire, nuovamente, membri produttivi di questa società. Questo può essere considerato un intervento progettuale come tanti altri già svolti? - Non abbiamo mai ritenuto, fin dall’elaborazione del progetto, che si sarebbe potuto trattare di un progetto come altri ne abbiamo e stiamo svolgendo - risponde la dottoressa Chiaia - C’è bisogno di particolare concentrazione ed attenzione nell’approcciarsi a questi detenuti, proprio per la tipologia di reati commessi. Ma non perdiamo mai di vista che anche loro sono persone con particolari sofferenze e disagi interiori”. “Non possiamo negare che il percorso di riabilitazione sia lungo e che vada ben oltre i limiti di tempo dati dal Progetto - aggiunge la dottoressa Mazzetti - ma crediamo di star dando l’avvio per quel processo. Gli obiettivi fin adesso raggiunti riguardano la creazione di un clima di accoglienza e supporto all’interno del quale i partecipanti possano sentirsi liberi di contattare, esprimere e imparare a gestire le proprie emozioni. Già, adesso, stiamo riscontrando maggiori capacità relazionali e comunicative”. Ci sarà ancora del tempo da poter investire con la prosecuzione del Progetto Limen-Oltre il limite, e per questo diamo appuntamento alle operatrici della Comunità Emmanuel per un altro incontro per poter avere ancora notizie che, come queste avute, possano confortare l’opinione pubblica. Cagliari. Dal carcere alla vela: il percorso riabilitativo promosso da New Sardinia Sail italiavela.it, 1 dicembre 2019 Hanno avuto problemi con la Giustizia ma sono pronti a virare verso acque più tranquille e navigare nel mare della vita rispettando le regole. Ad iniziare dalle regate del campionato invernale di vela. Debutto domenica 1 dicembre a Cagliari dove si inizia a regatare con due - 17 e 18 anni - dei sei ragazzi in affidato dal Dipartimento di Giustizia di Cagliari. Gli altri 4 ragazzi saliranno a bordo dalla prossima regata. “In questi anni abbiamo lavorato molto sulla formazione attraverso la partecipazione a diversi corsi, le lezioni e le esperienze con navigatori professionisti, la preparazione della barca per regate internazionali come la Middle Sea Rice e la partecipazione con qualche soddisfazione agonistica ad alcune regate - fa la cronistoria dei progressi dell’associazione il presidente di New Sardiniasail Simone Camba -. Ora è arrivato il tempo di affrontare la sfida del campionato”. Le regate si disputeranno tutte nelle acque antistanti la spiaggia del Poetto. “Dopo la Rolex Middle Sea Race Limafotodinamico, la barca dell’associazione, è stata preparata per queste regate alleggerendola di tutte quelle attrezzature necessarie per l’altura - sottolinea il presidente Camba -pertanto dovremmo avere una barca molto più reattiva e veloce”. C’è voglia di far bene e raggiungere un buon risultato. “Sono dei ragazzi molto motivati, hanno una gran voglia di imparare e crescere - conclude il presidente Camba. Per loro rappresenta l’opportunità di imparare uno sport di gruppo dove è fondamentale rispettare le regole, ma pure l’occasione per apprendere teoria e pratica professionale utili anche per trovare lavoro nel mondo della nautica”. L’associazione è supportata da Fotodinamico, Slam, Lega Navale Italiana sez. di Cagliari e ultimo ottimo arrivato Specialcar Group Spa, concessionaria in Sardegna per i marchi Bmw, Mini, Motorrad e Maserati e a Cagliari e Oristano per Mercedes-Benz, Smart e Volvo. Milano. Slam poetry sul populismo. Guerra di parole a San Vittore di Maria Cristina Fraddosio Il Manifesto, 1 dicembre 2019 Carcere e retorica. Nell’istituto penitenziario milanese i detenuti sfidano gli studenti a colpi di rap sui casi di cronaca. Stefania, la detenuta vincitrice: “Sono stata condannata prima dai giornali e poi da un giudice. Quando uscirò non sarò quella che sono diventata ma quella che sono stata”. Da Locke a Habermas, fino agli studi più recenti con l’avvento della rete, l’opinione pubblica è da secoli oggetto di riflessioni e critiche. Per un verso espressione intrinseca della società moderna e del sistema democratico, per l’altro tribunale insolente capace di violente manifestazioni d’odio. Chi sbaglia nella vita lo sa bene che potrebbe finire nel ciclone dei processi collettivi. E poco importa che li esercitino i propri familiari, poche centinaia di concittadini o irruenti leoni da tastiera. L’ostracismo che si innesca nuoce in egual misura. Quale sia la sua reale essenza, se sale della democrazia o dominio del populismo, se lo sono chiesti i detenuti del carcere di San Vittore, a Milano, assieme agli studenti dell’Università Statale. Lo hanno fatto per mezzo di un duello di parole, utilizzando la retorica e il rap per sostenere prima una tesi e poi il suo esatto contrario. Il progetto, giunto alla sua quarta edizione, nasce da un’idea di Flavia Trupia e Andrea Granelli, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione “Per la retorica”. “La retorica nasce in Sicilia nel V secolo a.C. ma, a differenza degli Stati Uniti, in Italia non viene insegnata come tecnica per imparare a comunicare meglio”, spiega Flavia Trupia impegnata da tempo a riportarla al centro della vita sociale “come cosa viva”. A questo scopo, tra i “dimenticati” dal nostro Paese, ha individuato due categorie a cui destinare gli strumenti dell’arte del discorso: gli studenti e i detenuti. Così è nata “Guerra di parole”, un’iniziativa sostenuta da Toyota Motor Corporation in partnership con la Crui, l’Unione camere penali, l’Osservatorio carceri Ucpi, la Federazione delle relazioni pubbliche italiana e alcune associazioni. Quattro lezioni preparatorie, con l’ausilio dell’attore Enrico Roccaforte e del rapper Amir Issaa, hanno preceduto l’evento svoltosi la scorsa settimana nell’istituto penitenziario milanese. Nella parte centrale dell’edificio da cui si diramano i sei raggi, quelli storici dove - come hanno ricordato i partecipanti - furono rinchiusi anche Indro Montanelli e Mike Bongiorno, le due squadre hanno affrontato due round da venti minuti ciascuno attraverso l’uso sapiente delle parole e del rap. Dalla piattaforma Rousseau ai No Tav, da Stefano Cucchi alle proteste ad Hong Kong, passando per Alan Turing, Greta Thunberg e Dj Fabo, i partecipanti hanno scandagliato l’essenza dell’opinione pubblica esibendosi in una sorta di poetry slam. “Guerra di parole” nel carcere di San Vittore Foto di Maria Cristina Fraddosio Il realismo delle riflessioni, misto a comicità e acutezza, ha tenuto col fiato sospeso il pubblico per un’ora piena. “La libertà d’espressione libera la ragione”, ha detto Manuel, uno dei detenuti, in apertura riferendosi al ruolo fondamentale dell’opinione pubblica nel caso Cucchi. E di contro Giorgio, studente universitario, gli ha risposto: “Non va dimenticato che i regimi totalitari si sono basati sulla manipolazione e che a volte è stata propria l’opinione pubblica a uccidere le persone”. Dalle fila degli ospiti di San Vittore un altro ha ricordato: “Noi siamo liberi di poter dire quello che vogliamo, questo è ciò che conta”. Eppure, secondo Alberto dell’Università Statale, “non siamo tutti uguali, se domattina Salvini dice che la cipolla è di sinistra, la casalinga di Voghera inizierà a fare il soffritto con l’aglio”. Frasi brevi e incisive, talvolta ironiche e talvolta pregne di verità e consapevolezza. “L’opinione pubblica - ha detto una detenuta - è quella che risolve tutto chiedendo di buttare la chiave delle nostre celle”. “Può succedere che sia inquinata come l’aria, non per questo però si può smettere di respirare”, le ha risposto la squadra avversaria rammentando come, anche nel caso di Liliana Segre, sia stata l’opinione pubblica, dopo le offese sui social, ad organizzare a Milano una manifestazione in favore della senatrice. “Certo - ha obiettato “San Vittore” - ma vogliamo parlare del potere che hanno i giornalisti di condizionarla? Loro sono i primi a manipolare la verità”. Attimi di verbosità concitata, silenzi e sospiri hanno animato l’atmosfera, proprio lì dove normalmente le giornate trascorrono tutte uguali, la luce non entra e il freddo è pungente. “Una grande occasione per incontrarsi, riflettere e imparare a utilizzare bene il tempo”, l’ha definita il direttore dell’istituto penitenziario, Giacinto Siciliano. “I ragazzi - ha detto - erano carichissimi nei giorni scorsi, in tanti hanno chiesto di esserci al di là del risultato”. Per la Camera penale di Milano “è importante che ci siano attività come queste di avvicinamento tra ciò che c’è dentro al carcere e ciò che c’è fuori, perché avvantaggiano tutta la collettività”. In giuria, oltre all’amministratore delegato della multinazionale automobilistica giapponese Mauro Caruccio che ha sottolineato l’importanza in questo momento storico di “andare oltre il pregiudizio”, c’erano Valeria Della Valle, Alessandra Carli, Maupal, Antonio Diodato e Fabio Novelli. Sono loro che hanno decretato i vincitori. Foto di Maria Cristina Fraddosio Quando i detenuti si sono aggiudicati il podio nella sala ha riecheggiato un enorme giubilo. “Speriamo - hanno commentato entusiasti - di aver lasciato qualcosa a questi ragazzi. A noi loro hanno dato tanto”. L’elmo come oratrice dell’anno è andato a Stefania. I giudici l’hanno scelta per la spontaneità, la sincerità e l’uso della lingua italiana. “Sono stata condannata prima dai giornali e poi da un giudice - ha detto - quando uscirò non sarò quella che sono diventata ma quella che sono stata”. Giovane, laureanda in giurisprudenza e con una pena ancora lunga da scontare. Parole taglienti le sue che hanno reso manifesto il lato oscuro dell’opinione pubblica. Il timore dell’onta che non va via. Neanche dopo anni di reclusione. Preoccupazione peraltro ribadita, nel corso della “guerra di parole”, anche da un altro detenuto: “La vostra opinione è la nostra esclusione”. Ma questa volta, per fortuna, non è andata così. Milano. “Dolci evasioni”, in tavola a Natale i prodotti preparati dai detenuti italiaatavola.net, 1 dicembre 2019 Sono sempre più numerose le esperienze all’interno degli istituti di pena, che mirano al reintegro dei detenuti. A Milano un punto vendita solidale con le eccellenze provenienti da tutta Italia. Dal panettone al cioccolato, dai taralli pugliesi alla passata di pomodoro, tanti prodotti sono biologici e artigianali. Il panettone Giotto sfornato dalla pasticceria “più ricercata” d’Italia oppure quello, pure lui rigorosamente artigianale, preparato nel laboratorio di Dolci sogni liberi. E poi i cookies al cioccolato o i baci di dama al farro o all’avena e cacao della Banda Biscotti. E poi gli ovetti, il torrone al cioccolato, i croccantini alla mandorla e la crema di nocciola di Sprigioniamo i sapori. Sono solo alcuni dei molti prodotti “made in carcere” dedicati al Natale e che popolano gli scaffali del Consorzio Viale dei Mille di Milano, luogo di incontro delle cooperative sociali e delle imprese che lavorano negli istituti di pena italiani. Si tratta di un negozio in cui si può trovare tutto quanto viene realizzato da detenuti e detenute nell’ambito di progetti di recupero che puntano ad abbattere la recidiva offrendo l’opportunità di imparare una professione anche per il “dopo” e cioè quando, a pena espiata, si ritorna liberi. In Italia i detenuti sono oltre 60mila; di questi circa duemila quelli che lavorano in coop e aziende esterne e interne tra i quali anche nel settore food. Ecco, quindi, che dietro il punto vendita milanese c’è un’iniziativa sociale che riguarda l’Italia intera: promuovere l’economia carceraria con l’obiettivo di aumentare la percentuale di coloro che lavorano dietro le sbarre dando così maggior respiro non a una speculazione finanziaria ma a un business virtuoso, pulito e solidale, nella convinzione che chi ha imparato un lavoro e lavora ha meno probabilità, una volta uscito di prigione, di ritornare a delinquere. Così il Consorzio, tra le altre cose, riserva ampio spazio al mondo del food, prodotti bio e artigianali, realizzati da uomini e donne detenuti o in semi libertà. Prodotti che in questo periodo possono essere una buona idea per Christmas Box, cesti natalizi disponibili già confezionati e in diverse taglie o che si possono comporre a piacere con una selezione delle eccellenze gastronomiche realizzate all’interno di alcune carceri italiane. Oltre il pluripremiato panettone Giotto e ai dolcetti preparati dalla Banda Biscotti dell’Istituto di Verbania, tante le specialità regionali: i taralli pugliesi Campo dei Miracoli realizzati a Trani o il caffè Hue Hue o Alte terre confezionato nella casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino e gli amaretti siciliani morbidi, i dolci alla pasta di mandorle, lo sciroppo di carrube Dolci Evasioni, marchio dell’istituto di pena di Siracusa. Delle donne detenute alle Lazzarelle di Pozzuoli (Napoli) ci sono invece le confezioni di tisane alla camomilla o alla liquirizia, mentre da Cremona arrivano le conserve Rigenera, dalla semplice passata di pomodoro, ai sughi per condire la pasta ai peperoni, alle melanzane o al soffritto, fino alla giardiniera. Dalla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Ippogrifo e la Casa Circondariale di Sondrio è nata la pasta fresca o secca gluten free di mais e riso e pure trafilata al bronzo ed essiccata lentamente che fa il paio con quella di semola di grano duro o integrale prodotta all’Ucciardone di Palermo. Infine, tra i molti prodotti esposti negli scaffali, vanno citati le birre ‘Vale la pena’ di Rebibbia e la ‘Malnatt’ di Opera (Milano) e i vini e le grappe della Coop agricola Il Gabbiano che in Valtellina si dedica anche al recupero dei detenuti. “Parole di vita nuova”, un libro sulla vita e il futuro dei carcerati Il Centro, 1 dicembre 2019 A Palazzo Fibbioni la presentazione di “Parole di vita nuova” del giornalista Orazio La Rocca. Martedì 3 dicembre, alle 17.30, a Palazzo Fibbioni, presentazione del volume “Parole di vita nuova”, curato dal giornalista Orazio La Rocca (Marcianum di Venezia), con prefazione di don Luigi Ciotti. Un libro dedicato agli elaborati - tesi di laurea, racconti, poesie, disegni - proposti alla II edizione del Premio nazionale Sulle Ali della Libertà, promosso dall’Isola Solidale e svolto tra gli istituti di pena italiani, che ha ottenuto la medaglia di rappresentanza dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Gli elaborati sono stati valutati da una commissione di esponenti del mondo della cultura, del giornalismo e del sociale presieduta da monsignor Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, e da Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio. L’iniziativa è stata patrocinata dal Miur, dai ministeri della Giustizia, Interni, Lavoro, Regione Lazio, dell’VIII Municipio di Roma Capitale, dalla Comunità ebraica di Roma, Acli Roma, Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle carceri italiane, Fondazione Ozanam, Associazione Antigone e Fidu (Federazione italiana diritti umani). La presentazione è promossa da Roccaraso Futura, in collaborazione con Isola Solidale e l’agenzia giornalistica Comunicatio. Intervengono, tra gli altri, il sindaco Pierluigi Biondi, il vice presidente vicario del consiglio comunale, Ersilia Lancia, Gianmarco Cifaldi, docente dell’Università D’Annunzio Chieti-Pescara e Garante dei detenuti della Regione Abruzzo; Barbara Lenzini, direttrice della Casa circondariale dell’Aquila; don Renzo D’Ascenzo, già cappellano del carcere dell’Aquila, Orazio La Rocca, autore del libro; Fabiana Gubitoso, dell’Osservatorio sul carcere della Camera penale dell’Aquila; Alessandro Amicone, presidente Roccaraso Futura, Alessandro Pinna, presidente Isola Solidale. Ture, dal carcere alla redenzione nel nome del figlio recensione di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 1 dicembre 2019 Il libro del giornalista Marco Gatti “Un padre da galera. La strada, il carcere, mio figlio” è la storia di un ex carcerato. La voglia di riscatto di un detenuto durante i suoi vent’anni in cella. “Io un sugnu nu cane malatu”, non sono un cane malato. È lo sfogo ripetuto da Ture, un ex galeotto (origini calabresi e sempre vissuto a Milano) di 46 anni, venti dei quali trascorsi in carcere per spaccio e rapine, al giornalista Marco Gatti che ha ascoltato la sua storia nella sala colloqui del penitenziario di Como, il Bassone. Circa 20 ore di registrazione, in diversi periodi sino alla scarcerazione, riversata in un libro - “Un padre da galera. La strada, il carcere, mio figlio”, Europa Edizioni - di 114 pagine durissime e toccanti. Qui non c’è happy end, c’è semmai un sentiero strettissimo costituito dalla speranza che Ture coltiva di diventare un buon padre per suo figlio, un bimbo che oggi ha 11 anni. E che l’ex detenuto non ha visto il giorno della nascita “perché la sera prima ero stato arrestato”. Poi è riuscito a stargli accanto per alcuni mesi, “quando le ho provate tutte per cercare un lavoro così come aveva fatto mio padre che, una volta uscito dal carcere, fu capace di dare un taglio netto al suo passato”. Per Ture è stato diverso. Rifiutato a ogni supplica di lavoro - appunto: come “nu cane malatu” - “e senza un centesimo per latte e pannolini, sono tornato a vendere droga e fare rapine e furti”. Ma poi è stato ancora arrestato: “Beccandomi 12 anni per cumuli di pena vari”. Dentro però si comporta bene, e spesso ha dei permessi premio per vedere il figlio - intanto all’asilo - a casa. Ma le domande del piccolo sono devastanti: “Papà perché mi hai lasciato? Dimmelo quando sparisci”. Gli incontri in carcere ricordano il film “La vita è bella”. Ture per un paio d’anni gli fa credere di lavorare nel penitenziario - quello di Opera, a Milano - con il compito di guidare il trattore in mostra dopo l’entrata della porta carraia. Un giorno però il bimbo “si presentò con un’affermazione che mi chiuse lo stomaco: “Papi, tu non sei al lavoro, tu stai in carcere. Cosa hai fatto? Hai rubato? Hai ammazzato qualcuno?”. Parole che spingono Ture a cambiare vita. Si mette a studiare, ottiene licenza media e diploma secondario. Al Bassone, dove viene trasferito, gli diagnosticano, e curano, il disturbo bipolare che in passato lo aveva reso irascibile e violento. Frequenta un percorso sulla genitorialità che lo riavvicina al figlio. “Da poco Ture è fuori ma la strada resta in salita”, racconta Gatti che lavora al “Settimanale della Diocesi” di Como. Il bimbo però è testardo e sa quello che vuole: tanto che si è sempre rifiutato di andare in bici, dice il giornalista, “perché sognava che fosse Ture a insegnargli a pedalare”. La memoria infinita ci bracca sui social di Massimiliano Panarari La Stampa, 1 dicembre 2019 E piovvero pietre. Dopo le rivelazioni di don Antonio Mazzi sul matrimonio di Erika De Nardo, i social media si sono prontamente riempiti di insulti e di un moto di ribollente “indignazione”. E hanno così riconfermato la loro discutibile vocazione di combinato disposto di tribuna e “tribunale del popolo”. Poco meno di vent’anni fa, la ragazza massacrò a coltellate, con la complicità del fidanzato, la madre e il fratellino. Un evento raccapricciante, che trasformò in un teatro dell’orrore la casa familiare di Novi Ligure in quel maledettissimo 21 febbraio del 2001. Un abominio - lo diciamo a scanso di equivoci - di cui abbiamo sentito e letto in tanti rimanendone spettatori attoniti. Che è precisamente la condizione che ci accomuna tutti di fronte a quella tragedia, compresi coloro che in queste ore si ergono invece a soloni e quelli che si comportano da leoni da tastiera infiammando la canea internettiana. Tutti quanti nulla più che osservatori, ai quali meglio risulterebbero confacenti il silenzio e il riserbo. Una considerazione che andrebbe applicata a ogni fattispecie complessa della vita associata, evitando che il “pensiero” corra alla velocità di un clic e si riduca a qualche riga schiumante rabbia od odio e consegnata a un post o un tweet. Altri sono i protagonisti, e dunque i soggetti titolati a esprimere un giudizio informato e consapevole a proposito di questa come di altre vicende. Sono i magistrati, che hanno pronunciato la sentenza, e gli apparati sociali e giudiziari, che hanno supervisionato il comportamento della ragazza successivamente all’omicidio. Sono don Mazzi, che l’aveva presa in carico per il percorso di riabilitazione e il padre, evocato nelle parole del fondatore della comunità Exodus come figura centrale nell’iter di recupero e ravvedimento. Quella che è stata una giovane matricida è degna di poter ricominciare un’esistenza? O deve rimanere identificata per sempre con quel gesto disumano? Non spetta appunto a noi stabilirlo, ma alle figure tecniche e specialistiche a cui la società e le istituzioni - prima di venire messe costantemente sotto attacco dall’isterismo dell’”uno vale uno” - hanno attribuito nel corso del tempo questo compito delicato. La civiltà giuridica dell’Occidente ha archiviato da qualche secolo la legge del taglione, e lo Stato di diritto contempla la funzione rieducativa della pena insieme alla possibilità del recupero del colpevole. Malauguratamente, invece, un certo spirito dei tempi sembra avere riesumato il “codice di Hammurabi”, e lo sta veicolando proprio via Internet. Il premoderno e il postmoderno si trovano, dunque, ancora una volta a braccetto, alleati in questo caso contro Cesare Beccaria e la riscrittura illuministica dei meccanismi di valutazione e riparazione “dei delitti e delle pene”. Nello scomposto assedio al principio di competenza e nell’esaltazione narcisistica del soggettivismo oggi ci risvegliamo così anche tutti giudici e inquirenti, essendo già stati, a seconda delle volte, ingegneri strutturisti (come in occasione del crollo del ponte Morandi), costituzionalisti, epidemiologi, allenatori della Nazionale di qualsivoglia sport, editorialisti (e chi più ne ha più ne metta) in servizio permanente effettivo. È l’opinionismo integrale - e integralista - come malattia non infantile, ma gravissima del totalitarismo social (e del suo modello di comunicazione istantanea). Il web non riconosce il diritto all’oblio, e non tollera il dovere del silenzio. Ma facendo in questo modo finiamo tutti condannati a una deriva inarrestabile verso quello che Geert Lovink ha chiamato il “nichilismo digitale”. Un ecosistema mediale dove la vendetta celebra la sua rancorosa vittoria ai danni della giustizia, e rischia di mettere sotto scacco la stessa convivenza civile. Come, infatti, già accade abbondantemente nello sfogatoio social. Migranti. Chi semina armi, raccoglie profughi di Alex Zanotelli Il Manifesto, 1 dicembre 2019 Le parole di Bergoglio e le bombe nucleari. Le parole del papa risvegliano i laici dal “sonno della ragione” e i cristiani dal tradimento del Vangelo: ci siamo arresi alla necessità di una difesa atomica sotto l’egida Nato. “Desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso tempo è immorale il possesso delle armi atomiche. Saremo giudicati per questo. Come possiamo proporre pace se usiamo continuamente l’intimidazione bellica nucleare come ricorso legittimo per la risoluzione dei conflitti?”. Sono le parole profetiche pronunciate pochi giorni fa a Hiroshima e Nagasaki da Papa Francesco. Parole che vengono a risvegliare i laici dal “sonno della ragione” e i cristiani dal tradimento del Vangelo. Infatti ci siamo tutti arresi alla necessità di una difesa atomica sotto l’egida della Nato. Il governo gialloverde ha dato il suo beneplacito alle nuove bombe atomiche, le micidiali B61-12 che l’anno prossimo rimpiazzeranno la settantina di vecchie bombe atomiche B61 a Ghedi e ad Aviano. Altrettanto l’Italia, come membro Nato, ha approvato la decisione di Trump di cancellare il Trattato Inf del 1987, che aveva permesso di smantellare tutti i missili nucleari a gittata intermedia con base a terra, come quelli piazzati a Comiso, per intenderci. E lo scorso anno l’Italia ha approvato altresì che gli Usa possono collocare nel nostro paese i nuovi missili nucleari. Il governo gialloverde (5S e Lega) poi si è rifiutato di firmare il Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari. (Eppure durante la campagna elettorale sia Di Maio che Fico avevano firmato l’Ican Parlamentary Pledge). Non solo, ma il governo gialloverde ha deciso di continuare con l’acquisto e la produzione degli aerei F-35 attrezzati per portare proprio le nuove bombe atomiche in arrivo in Italia: le B61-12. (Eppure i Cinque Stelle li avevano definiti “strumenti di morte”!) Siamo prigionieri di un sistema di difesa basato sulla Bomba atomica che per Papa Francesco è “immorale e criminale”. “Nella società odierna la base della violenza è data dalla nostra intenzione di utilizzare l’arma nucleare - afferma il noto teologo Usa, R. McSorley - ma una volta accettato questo, qualsiasi altro male è un male minore. Fin quando non ci poniamo di fronte al nostro consenso all’utilizzo delle armi atomiche, ogni speranza di un miglioramento generalizzato della moralità pubblica è condannata al fallimento”. Questo Papa Francesco, con quei discorsi a Hiroshima e Nagasaki, l’ha sbattuto in faccia sia alla chiesa che ai popoli del mondo. Davanti a una presa di posizione così netta sulla Bomba Atomica da parte di un Papa, i vescovi italiani (Cei) e le comunità cristiane non possono rimanere in silenzio. Quando avremo da parte dei vescovi una presa di posizione sulle Bombe presenti nel nostro territorio, sull’arrivo dei missili nucleari, sulle basi Nato, su Sigonella (Sicilia) capitale mondiale dei droni? (L’abbattimento di un drone italiano nei cieli della Libia conferma che l’Italia è coinvolta in azioni belliche in quel paese). È mai possibile che i nostri vescovi non abbiano nulla da dire sulle politiche sempre più militariste dei nostri governi? È mai possibile che tutto questo non ci ripugni più, né come cittadini, la cui Costituzione “ripudia la guerra”, né come cristiani, per i quali la guerra dovrebbe essere in orrore? Il governo gialloverde ha approvato: le missioni militari all’estero per un costo di 1.100 milioni, mentre ha stanziato solo 100 milioni per la cooperazione (altro che aiutiamoli a casa loro!); 50 accordi di cooperazione militare bilaterale incluso il Niger e la Corea (aggirando così la legge 185); l’aumento della spesa in difesa, dall’attuale 1,2% al 2% del bilancio, come Trump chiede(così spenderemo 100 milioni di euro al giorno in armi!); il mantenimento della nostra presenza militare in quella guerra ingiusta in Afghanistan; la vendita di armi a paesi in guerra e nei quali sono violati i diritti umani(in barba alla Legge 185!), come in Arabia Saudita. Sappiamo che la Lega ha uno storico e costante legame con la lobby italiana delle armi, ma mi meraviglia la disinvoltura con cui i pentastellati hanno ripudiato quello che avevano promesso in campagna elettorale. Ora i pentastellati pensano perfino di modificare la Legge 185 (vedi la proposta del senatore G. Ferrara), una legge che invece ha bisogno solo di un decreto attuativo. Inoltre i 5S hanno lasciato cadere il Disegno di Legge (2013) firmato dalla Montevecchi e da tanti illustri senatori 5S per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse con il commercio delle armi, soprattutto nel governo e nei partiti. Un disegno di legge questo, quanto mai opportuno oggi che si sta parlando dell’approccio “governo a governo” ossia la trasformazione del ministero della Difesa nell’autorità proposta a stipulare direttamente controlli per la fornitura di tecnologia militare con paesi terzi! Con questo nuovo meccanismo, quanto andrà ai partiti al governo in tangenti alle armi? Quand’ero direttore di Nigrizia negli anni Ottanta, sapevo da fonti sicure che, ai partiti al governo, andava dal 10 al 15%. Davanti a tutto questo mi stupisce il silenzio della cittadinanza attiva che è sempre stata molto efficace in Italia. Poche anche le azioni provocatorie al riguardo tranne quelle dei lavoratori portuali di Genova e Cagliari per essersi rifiutati di caricare armi su navi dell’Arabia Saudita! Mentre esplode tra i giovani la mobilitazione per salvare il pianeta (e le armi pesano nel disastro ambientale), noi rimaniamo quasi in silenzio. Mi meraviglia ancora di più il silenzio dei vescovi italiani e delle comunità cristiane dove il tema della pace (il cuore del Vangelo!) sembra sia sparito. Come fa la Chiesa italiana a stare zitta davanti a politiche governative sempre più fiorenti sia in armi pesanti che leggere che producono sempre più guerre e come conseguenza sempre più profughi? “Gridano le persone in fuga ammassate sulle navi- sottolinea Papa Francesco- in cerca di speranze, non sapendo quali porti potranno accoglierli, nell’Europa che però apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti. Questa ipocrisia è peccato”. Diamoci tutti da fare perché vinca la Vita. Migranti. Mezzo milione di nuovi cittadini, oppure mezzo milione di fantasmi pericolosi di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 1 dicembre 2019 Gli immigrati si possono trovare e mandare via, mettere in regola o aspettare che diventino fantasmi. Ma i fantasmi disperati possono costituire un pericolo. Qualche numero, poi ragioniamo. Sono circa 81.000 i migranti e rifugiati arrivati in Europa attraverso il Mediterraneo da gennaio a ottobre 2019. Dato in diminuzione, ma aumenta la percentuale dei morti/dispersi: da 1 ogni 40 nel 2016 a 1 ogni 18 nel 2019. E in Italia, quest’anno? A fine ottobre, 9.648 sbarchi, e 5.526 persone arrivate in Friuli-Venezia Giulia, provenienti dai Balcani. Le domande d’asilo? Su circa 72.500 domande esaminate nel 2019, 80% sono state respinte, 11% hanno ottenuto lo status di rifugiato, 7% la protezione sussidiaria, l’1,5% la protezione umanitaria. 71.000 nuovi immigrati sono scivolati nella irregolarità fra giugno 2018 e giugno 2019, anche a causa del Decreto Sicurezza. Il numero degli irregolari in Italia è oggi stimabile in 620mila persone. I dati sono stati diffusi venerdì dalla Fondazione Migrantes. Il numero che mi ha colpito di più? I morti annegati, cui ci stiamo abituando, come se una famiglia scomparsa in mare fosse una nuvola di passaggio nel cielo. E il totale dei clandestini: 620mila, uno ogni cento abitanti. Un altro istituto serio - Ismu, Iniziative e Studi sulla Multietnicità - parlava di 533mila persone (al 1° gennaio 2018). A questo punto, una domanda al tonitruante Matteo lombardo (anche il Matteo toscano produce un certo fracasso, ultimamente: ma su altre questioni). Senatore Salvini, il governo in cui lei era ministro dell’Interno non doveva risolvere il problema? Il contratto di governo Lega-M5S parlava di “circa 500mila migranti irregolari sul territorio”. Li espelleremo tutti!, aveva assicurato. Poi, in primavera, ha cominciato a dire che i clandestini erano solo 90mila (forse gli sbarchi tra gennaio 2015 e aprile 2019?). Evidentemente suonava meglio. Che dite, proviamo a essere seri? Tra gli irregolari in Italia non ci sono solo i migranti del mare cui è stato rifiutato l’asilo o la protezione, ma anche stranieri con visti turistici scaduti e altri rimasti senza permesso di soggiorno. Con queste 600mila persone si possono fare tre cose: trovarle e mandarle via (come?), metterle in regola o aspettare che diventino fantasmi. Ma i fantasmi disperati - criminalità e terrorismo insegnano - possono diventare pericolosi. È un rischio che vogliamo correre? Terrorismo. “Allarme carceri, sono una fabbrica di jihadisti” ilsussidiario.net, 1 dicembre 2019 È allarme terrorismo: dopo i combattenti di al Qaeda, stanno uscendo dalle carceri o tornando in Europa quelli dello stato islamico. C’è grande confusione e soprattutto allarme, come non accadeva da tempo, dopo l’episodio di terrorismo di marca jhadista accaduto a Londra. Ne fanno le spese i media, che forse dovrebbero distinguere meglio le notizie in questione rischiando di generare un clima di paura. La notizia diffusa nelle ultime ore per cui l’Italia sarebbe nel mirino del terrorismo jihadista insieme ad altri paesi europei, con allarme per possibili attentati a stazioni di rifornimento benzina e luoghi pubblici, ci spiega Stefano Piazza, esperto di terrorismo e sicurezza, in realtà è un comunicato risalente a qualche tempo fa e già verificato dalla nostra intelligence. In Italia non c’è un allarme terrorismo. Ma è anche vero, ci dice, che siamo ancora in pieno clima di attacchi, nonostante si sia pensato che il peggio è passato. Cade anche la vecchia teoria dei “lupi solitari”, personaggi spesso con disturbi mentali che subiscono la propaganda islamista e da soli si lanciano a fare stragi. Il protagonista di Londra infatti ha una lunga storia alle spalle e soprattutto faceva parte di una cellula con più componenti, spiega Stefano Piazza, nota alla polizia. “Conosco Usman Khan, l’attentatore del London Bridge, è nel mio database di migliaia di possibili terroristi. Sospettato di far parte di gruppi islamisti radicali già nel 2010, era stato arrestato nel 2013 perché appartenente a una cellula di nove persone che stavano progettando piani importanti, come una attentato alla borsa di Londra, l’omicidio dell’allora sindaco di Londra Boris Johnson, far saltare in aria delle sinagoghe. A 17 anni era già nei radar dell’antiterrorismo. Una volta in carcere, come succede sempre, si era radicalizzato ancora di più e quindi è uscito dopo aver scontato solo metà della pena, pochi anni”. Facciamo notare a Piazza che Khan aveva un braccialetto elettronico, dunque era monitorato dalla polizia, ma questo non gli ha impedito di tentare una strage: una falla dei servizi di sicurezza inglese? Anche Boris Johnson lo ha detto: “Il killer di London Bridge, Usman Khan, aveva scontato solo metà della sua pena, è chiaro che il sistema non funziona”. risponde Piazza che “è impossibile monitorare i loro spostamenti, i sospetti o i condannati come Khan in Inghilterra sono tantissimi, sono migliaia. Sono originari del Pakistan, dell’India, del Bangladesh. Per monitorare una persona 24 ore su 24 ci vogliono 20 agenti. Negli ultimi tempi la polizia inglese ha subito il taglio di almeno 20mila agenti per via della spending review, non sono in grado di controllarli tutti”. Un’altra cosa drammatica, ci dice ancora, è che Usman Khan faceva parte della prima ondata di terrorismo islamico, quella ancora appartenente ad al Qaeda, non allo stato islamico. “Adesso faremo i conti con l’ondata dello stato islamico. Sono usciti i primi condannati come Khan e considerando che le carceri sono una fabbrica di jihadisti, ben presto avremo in giro una secondo ondata di potenziali terroristi. È un quadro allarmante”. L’Italia però ha dimostrato che è possibile reagire, ogni volta che un sospetto terrorista è stato arrestato, è stato espulso: “L’Italia infatti è all’avanguardia in Europa. Quando viene fermata una persona con la cosiddetta binazionalità, in questo caso un inglese con passaporto pachistano, viene immediatamente rimandato al suo paese d’origine. È quanto è stato inserito nel secondo decreto sicurezza e che paesi come Belgio, Germania e Olanda ci stanno copiando. È l’unico modo per difendersi”. Concludendo l’episodio di Londra ha colpito la reazione dei cittadini inglesi, che hanno fermato e disarmato il terrorista prima dell’arrivo della polizia: “La gente ne ha abbastanza, è stufa di essere minacciata e aggredita, stufa di vivere in un clima di terrore. Anche rischiando la vita, la gente comincia a reagire”. Dieci cose da sapere sulla cannabis terapeutica di Marta Musso La Repubblica, 1 dicembre 2019 A dieci anni dall’introduzione della cannabis a uso medico in Italia, un riassunto in dieci punti su tutto quello che c’è da sapere sulla sostanza. Per fugare dubbi ed evitare disinformazione. In Italia la cannabis terapeutica viene prescritta per curare e gestire i sintomi di molte patologie, tra cui il dolore nella sclerosi multipla o nelle lesioni del midollo spinale, il dolore cronico di origine neuropatica o oncologica, per il glaucoma e per la sindrome di Tourette. E ancora: per nausea causata da chemioterapia, radioterapia, terapie per l’Hiv, anoressia. Eppure, sebbene siano passati dieci anni dalla sua introduzione, ci sono ancora molte difficoltà per l’accesso al farmaco, dalla prescrizione da parte del medico alla possibilità di reperirla in farmacia. Se ne è parlato al 39esimo Congresso nazionale della Società italiana di farmacologia (Sif), tenuto nei giorni scorsi a Firenze, durante il quale è emerso come permanga ancora oggi una alta variabilità tra le farmacie, anche della stessa Regione, nella preparazione galenica del prodotto finale. Sebbene infatti esistano linee guida ministeriali, infatti, quello che ancora manca è uno standard di produzione per cui il rapporto tra i due componenti principali, ossia il Thc e il Cbd, sia sempre lo stesso. Ma chi può prescrivere la cannabis terapeutica e dove può essere reperita? E ancora: come si assume? Per fare un po’ più di chiarezza su queste e altre domande, ecco un vademecum con tutte le informazioni da sapere, stilato con l’aiuto di Alfredo Vannacci, professore associato di Farmacologia e Tossicologia dell’Università di Firenze e membro della Società italiana di farmacologia. 1. Per il trattamento di quali patologie è stata autorizzata? “I derivati della cannabis non sono allo stato attuale una vera e propria terapia farmacologica, non hanno uno specifico bersaglio molecolare e non curano una malattia, nel senso in cui generalmente si intende l’azione di un farmaco convenzionale”, racconta Vannacci. “Sono invece a tutti gli effetti prodotti fitoterapici ad azione sintomatica potenzialmente utili in diversi quadri patologici”. In particolare, prosegue l’esperto, il loro utilizzo è autorizzato per il trattamento del dolore cronico (oncologico, neuropatico o associato a spasmi muscolari in patologie neurologiche), per il controllo di nausea e vomito da chemioterapici, per la cachessia e l’anoressia causate da tumori o HIV, per il controllo dei movimenti muscolari involontari in alcune patologie neurologiche e per la riduzione della pressione endooculare nel glaucoma. “In tutti questi casi - avverte l’esperto - non deve essere utilizzata come prima scelta, ma solo in caso di fallimento (o eccessivi effetti avversi) della terapia farmacologica standard”. 2. Da dove proviene? I derivati della cannabis disponibili in Italia provengono sia dall’estero che da una produzione nel nostro Paese. “La materia prima di provenienza estera è stata la prima ad essere disponibile in Italia, e si tratta attualmente di prodotti provenienti soprattutto dall’Olanda, con proporzioni diverse di principi attivi”, spiega Vannacci. “Più recentemente è stata introdotta la materia prima italiana, realizzata ad opera dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze e nota con la sigla FM2”. 3. Chi la può prescrivere e dove si recepisce? Le preparazioni a base di cannabis possono essere prescritte da qualsiasi medico abilitato, mediante prescrizione magistrale non ripetibile (Rnr). Tuttavia, se vengono prescritte a carico del Ssn, a seconda della Regione in cui si è residenti, è possibile che solamente alcuni medici o alcune strutture siano abilitati a prescriverla. “C’è da dire che nella nostra esperienza il loro utilizzo avviene soprattutto in ambiente ospedaliero da parte di reumatologi e terapisti del dolore, specialmente anestesisti e rianimatori”, spiega Vannacci. “Una volta ricevuta la prescrizione, la preparazione magistrale può essere fatta preparare in qualsiasi farmacia dotata di un laboratorio di galenica”. 4. Come si prepara e come si ottiene dal farmacista? Le farmacie, prosegue l’esperto, non possono distribuire la cannabis direttamente nei flaconi originali ottenuti dai produttori. Il farmacista, quindi, può dispensare la cannabis al paziente solo dopo averla ripartita nelle dosi indicate in ricetta. “Non è possibile dare più cannabis di quella prescritta dal medico e non è possibile ripartire la cannabis in dosi diverse da quelle indicate in ricetta”, sottolinea Vannacci. 5. Come si assume? “Le preparazioni possibili sono molte, ma allo stato attuale quelle principalmente utilizzate sono le cartine per decozione in tisana e le cartine per vaporizzazione mediante vaporizzatori”, spiega l’esperto. Di recente, alcuni medici preferiscono prescrivere l’estratto di cannabis in olio di oliva, in modo che possa essere assunto in gocce, ma, riferisce Vannacci, la sua azione è al momento discussa. 6. Quali sono i livelli di Thc e Cbd raccomandati? I rapporti tra Thc e Cbd cambiano a seconda della materia prima di partenza: esistono prodotti con rapporto Thc : Cbd 1:1, altri con rapporto 20:1 a favore del Thc e altri con rapporto 1:9 a favore del Cbd. “Ovviamente gli effetti terapeutici sono differenti”, continua l’esperto, “ma la attuale ricerca sulle prove di efficacia non è ancora in grado di stabilire se esista effettivamente un rapporto ideale per le diverse indicazioni”. 7. Quali sono i suoi principali effetti? L’effetto principale è quello analgesico, unito a un effetto miorilassante. Inoltre, sembra essere piuttosto rilevante anche l’effetto ansiolitico, che sarebbe soprattutto a carico della componente Cbd. “Oggi non esistono piani terapeutici basati sulle prove di efficacia per le varie patologie, anche se appare plausibile che indicazioni diverse possano giovarsi di preparazioni con una proporzione differente dei principi attivi”, spiega Vannacci. In linea generale, suggerisce l’esperto, indicazioni quali anoressia e nausea/vomito necessitano di dosi più basse (soprattutto di Thc), dosi maggiori per gli spasmi muscolari e dosi ancora più alte, ma variabili da persona a persona, per la terapia del dolore. “Non è poi da sottovalutare il fatto che le concentrazioni di principi attivi sono molto variabili e risentono anche della preparazione, del tempo di infusione, della temperatura e delle modalità di assunzione”, spiega Vannacci. 8. Ci sono limiti di età? Per l’assunzione della cannabis terapeutica non ci sono limiti di età definiti. “Ma ovviamente l’utilizzo nei pazienti pediatrici e negli adolescenti deve essere condotto con estrema cautela”, spiega Vannacci. Come ricorda l’esperto, inoltre, di recente un farmaco a base di Cbd è stato approvato proprio per l’utilizzo in alcune forme di epilessia infantile e dovrebbe a breve essere disponibile anche in Italia. “I derivati della cannabis - avverte Vannucci - non dovrebbero essere usati in gravidanza e allattamento, dal momento che ci sono dimostrazioni del passaggio dei principi attivi attraverso la placenta e nel latte materno”. 9. Quali sono gli effetti collaterali? Una dose eccessiva di Cannabis può causare uno stato depressivo o ansioso e può provocare attacchi di panico o psicosi. “Nella nostra esperienza gli effetti avversi non sono molto frequenti e sono generalmente lievi, tuttavia possono manifestarsi disturbi soprattutto a carico del sistema nervoso (disturbi dell’umore, stordimento, stato soporoso), allergie o reazioni gastrointestinali”, spiega Vannacci. 10. Può dare dipendenza? “Come è noto, la cannabis stimola il sistema cerebrale di gratificazione, per cui il rischio che possa indurre un abuso è sempre presente”, spiega Vannacci. Tuttavia, se viene utilizzata con le modalità e le dosi previste, in genere non si verificano problemi. “Sicuramente - conclude l’esperto - i preparati a base di Cannabis sono controindicati in pazienti con disturbi psichiatrici e in individui con una storia pregressa di tossicodipendenza e/o abuso di sostanze psicotrope e/o alcol”. Libia. “Un piano internazionale per salvare gli immigrati africani dai Centri di detenzione” corrierepl.it, 1 dicembre 2019 L’appello di padre Zerai. Nei centri di detenzione libici le condizioni di vita di centinaia di africani sono disumane. Molte vite sono a rischio, mentre in Libia si continua a combattere, se non vi sarà un piano o un intervento internazionale per salvare i detenuti, poveri e inermi. Lo conferma all’Agenzia Fides abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni impegnato nel sostegno agli immigrati. Il sacerdote ha raccolto alcune testimonianze dal campo di Zawiya, dove “circa 650 persone, donne e uomini di diverse nazionalità di cui 400 eritrei ed etiopi vivono costantemente nella paura. Si avvertono spari nelle vicinanze ma i detenuti sono chiusi lì, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco, rischiano la vita”. Afferma padre Mussie: “Lanciamo un appello a tutte le istituzioni europee e delle agenzie per i diritti umani. Si mobilitino per mettere in atto un piano straordinario di evacuazione di questi fratelli e sorelle che oggi si trovano in queste condizioni. Ogni rinvio mette in pericolo la vita di centinaia di vite umane”. Le condizioni di vita nei centri di detenzione libici, rileva, sono al limite dell’umano. Nelle testimonianze raccolte da don Zerai a condivise con l’Agenzia Fides, i detenuti affermano: “Sono mesi che non riceviamo nulla per l’igiene personale, siamo costretti a bere acqua salata della quale non sappiamo la provenienza. Problemi di salute sono all’ordine del giorno, i più gravi sono i malati di Tubercolosi: circa 40 persone, di cui 10 non hanno mai avuto nessuna assistenza, tre sono in condizione gravissime, con il grave rischio di trasmettere a tutti noi la malattia”. Le organizzazioni internazionali sembrano disinteressarsi di questi migranti africani interni, che raccontano: “Operatori della Ong Medici senza Frontiere si sono presentati un mese fa, poi non li abbiamo più visti. I membri di Acnur (Alto Commissariato Onu per i rifugiati) sono passati alcuni giorni fa, si sono limitati a prelevare le impronte digitali di 34 persone, ignorando le persone malate da tempo, cosi come le persone che sono in attesa di reinsediamento dal febbraio del 2018”. Spiega padre Zerai che i migranti si sentono abbandonati, molti sono caduti in depressione, altri tentano la fuga per prendere la via del mare, in preda alla disperazione. “Si registrano sette casi di tentato suicidio tra coloro che sono nel campo da un anno e più, costretti a spostarsi da un lager a un altro, senza vedere uno spiraglio per il loro futuro. Poche settimane fa una donna nigeriana malata che non ha trovato le cure è morta. Anche una bambina di tre anni ha perso la vita dopo una caduta, per la mancanza di un tempestivo soccorso”. In questa situazione e in uno scenario segnato dalla persistente conflittualità interna, conclude don Zerai, “è quanto mai urgente un serio impegno e un intervento dei governi europei e delle istituzioni internazionali per cambiare le sorti e ridare una speranza concreta a questi fratelli”. Svizzera. Sempre più anziani nelle carceri di Mauro Spignesi caffe.ch, 1 dicembre 2019 Il “nonno” delle prigioni ticinesi ha 72 anni. È il detenuto più anziano fra i 234 che in media occupano giornalmente le strutture carcerarie cantonali. Negli altri 66 istituti di detenzione a livello nazionale ci sono in tutto 44 anziani over 70. Ma in particolare ci sono 325 reclusi, condannati o in attesa di giudizio, che hanno oltre 60 anni. Perché la popolazione carceraria invecchia rapidamente. Un fenomeno che tuttavia non è legato a un incremento della criminalità che vede responsabili persone di questa fascia di età ma piuttosto da sentenze particolarmente dure e dalle difficoltà di ottenere la libertà condizionale o trattamenti alternativi, soprattutto per chi è recidivo. Una tendenza riportata in uno studio condotto a livello nazionale dal Centro svizzero di competenze in materia d’esecuzione di sanzioni penali e realizzato da due criminologi, Holger Stroezel e Christoph Urwyler, che hanno cercato di mettere insieme una istantanea per capire come si evolverà la situazione per questi detenuti. Una fascia ritenuta particolarmente fragile in un ambiente difficile, in particolare sotto il profilo dell’assistenza sanitaria, visto che a loro si dedicano in media circa 20 minuti al giorno. O meglio, nel dettaglio, in quasi un terzo dei casi monitorati dallo studio si arriva sino a 40 minuti per i prigionieri più anziani. I responsabili degli istituti, peraltro, hanno affermato che ciò non implica “ulteriori oneri amministrativi”. Una parte, ma solo una parte, di questa fascia della popolazione carceraria può svolgere attività sportive, lavorare e avere pasti personalizzati. “Da noi ci sono persone anziane detenute, ma bisogna dire che non hanno mai dato problemi e noi peraltro riusciamo agevolmente a garantire loro tutta l’assistenza necessaria”, spiega il direttore delle Strutture carcerarie cantonali, Stefano Laffranchini. In Ticino ci sono attualmente sei detenuti che hanno un’età compresa fra i 60 e i 65 anni, altrettanti che hanno fra i 65 e 70 anni, e appunto uno solo che ha 72 anni. A livello nazionale la situazione è più variegata. Al momento dello studio erano 369 le persone di oltre 60 anni in carcere. Per loro non sono previsti trattamenti particolari, come celle singole. Ci sono poi i reclusi che hanno bisogno di assistenza medica e sono 530. Sono ospitati soprattutto in ospedali, cliniche psichiatriche o altre strutture protette. “Si tratta - spiega Laffranchini - in particolare di detenuti affetti da patologie particolarmente gravi, come ad esempio quelli che soffrono di Alzheimer, che hanno quindi bisogno di una cura attenta e costante che difficilmente si può garantire in un istituto penitenziario”. Sono invece parecchi i reclusi nelle 66 strutture prese in considerazione dallo studio che hanno bisogno di cure continue. Inoltre, a livello nazionale è stato accertato che quasi un istituto su due dispone di attrezzature tecniche per l’assistenza ai reclusi over 60 e riesce a mettere in campo misure per prendersi cura di loro. Infine, la tendenza, secondo i ricercatori, è un invecchiamento della popolazione carceraria. Insomma, il “nonno” della Stampa sarà una normalità. Messico. “Primera brigada” pronta per l’esordio nella cura del verde di Mexico City di Marco Belli gnewsonline.it, 1 dicembre 2019 Sono 20, per lo più giovani adulti. In carcere stanno scontando pene brevi per crimini non gravi. E sono stati scelti proprio per questo motivo, oltre che per le loro attitudini lavorative e la buona condotta. Sono i 20 detenuti del Centro penitenziario “Ceresova” di Città del Messico, selezionati per sperimentare il progetto di lavori di pubblica utilità che le autorità statali, su impulso del locale Ufficio delle Nazioni Unite per la Lotta alla droga e al crimine, hanno voluto implementare nel sistema penitenziario messicano ritagliandolo sul modello italiano “Mi riscatto per…”. Qui tutti li conoscono come “la primera brigada”, una denominazione che ricorda una certa cinematografia di ambientazione bellica. Ma che tuttavia vuole sottolineare, fin dal nome, l’importanza e la responsabilità che pende su questi ragazzi. Saranno loro infatti a realizzare la prima uscita in assoluto a Città del Messico di detenuti ammessi ai lavori di pubblica utilità. In questi ultimi due mesi sono stati adeguatamente formati professionalmente alla cura e alla manutenzione di giardini e orti e fra meno di un mese usciranno dal carcere, accompagnati da una pattuglia di poliziotti, per occuparsi di alcune aree verdi della capitale messicana. Sarà la prima volta che con il loro lavoro totalmente gratuito e volontario, come previsto dal modello italiano di riferimento, restituiranno qualcosa alla collettività in termini di impegno sociale. La delegazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che in questi giorni si trova nuovamente in Messico per offrire il proprio contributo alla fase esecutiva di realizzazione del progetto, li ha incontrati ieri nel Centro penitenziario “Ceresova”. Agli ospiti hanno voluto mostrare il bellissimo orto urbano da loro realizzato e curato con maniacale attenzione; altri erano impegnati a perfezionarsi nello sfalcio e nella rasatura dell’erba. Tutti sfoggiavano le loro divise verdi, sulle quali campeggiava, nella parte posteriore e all’altezza delle spalle, la scritta “Empleos de Pùblica Utilidad”. Una scritta che in poco più di sei mesi è passata dall’essere soltanto una ambiziosa idea, al farsi importantissima realtà del sistema penitenziario messicano. I venti de “la primera brigada” hanno concluso la fase formativa e sono pressoché pronti a uscire per le strade di Città del Messico. Le autorità carcerarie stanno soltanto aspettando che i giudici della magistratura messicana sottoscrivano le linee guida per la definizione dei requisiti giuridici per la selezione dei detenuti da immettere nel progetto a pieno regime, una volta superata la fase sperimentale. Non appena saranno consegnate al sistema penitenziario statale della capitale messicana, le porte di “Ceresova” si apriranno e “la Primera Brigada” potrà finalmente uscire per lavorare sul territorio. Marocco. La rivolta è a ritmo di rap: il cantante in cella sfida il potere di Chiara Clausi Il Giornale, 1 dicembre 2019 Gnawi condannato per una hit contro la violenza della polizia. Già 16 milioni di ascolti. E il governo teme l’effetto boomerang. L’atmosfera è grigia, triste, le voci arrabbiate, dolenti, le parole forti di chi è senza scampo. E il video della canzone del rapper Gnawi, 31 anni, vero nome Mohammed Mounir, condannato ad un anno di prigione per aver insultato la polizia. Il pubblico marocchino ha reagito all’arresto con un atto di amore e indignazione. Ha scaricato in massa la canzone considerata offensiva nei confronti delle forze dell’ordine, “Aasha chaab”, cioè “Viva il popolo”. La hit ha raggiunto i 16 milioni di ascolti, un record in Marocco. Ma oltre la musica, c’è la politica. E questo preoccupa le autorità del Regno. Gnawi, interpreta la rabbia delle regioni più povere, il Sud che si rifà alle tonalità musicali africane, e il Rif berbero, aspro e indomabile. Il processo è diventato così un atto di accusa contro il potere. “Sono un artista, il mio compito è difendere i miei diritti e i diritti delle persone - si è difeso in aula Gnawi. Questa non è la prima volta che mi umilia la polizia. Da quando sono nato, ho continuato a subire umiliazioni”. La sua hit è anche un messaggio rivolto ai giovani marocchini disillusi. “Dimmi, staremo davvero zitti per questa umiliazione?”, è l’attacco di un testo che denuncia torture, abuso di droghe, corruzione e suggerisce che la povertà sarà eliminata entro il 2020 “perché tutti avranno lasciato il Paese”. Gnawi si rivolge poi agli abitanti della regione montuosa del Rif del Marocco che “sognano una terra meravigliosa” ma possono soltanto scappare, e ancora a una madre che ha visto i figli annegare in mare nel tentativo di emigrare in Europa. Alcuni versi sono dedicati ai giovani rovinati dall’hashish, dalle pillole e dalle droghe pesanti. E arriva poi la denuncia di chi ha spremuto le ricchezze del Paese “ma vuole sempre di più”. E le richieste sue e della popolazione: “Voglio solo eguaglianza e cibo”, “non c’è niente da mangiare, né vestiti da indossare”, “ci hanno succhiato il sangue”. Secondo il suo avvocato, Gnawi è principalmente perseguito per questa sua canzone. I testi attaccano anche il re Mohammed VI, una “linea rossa” nel Paese. Il rapper è stato anche multato per mille dirham, circa 94 euro. In risposta, uno dei coautori del controversa canzone, Lz3er, ha pubblicato una nuova hit che spiega “cosa ha fatto uscire Gnawi dai suoi cardini” e ha raggiunto già 750mila visualizzazioni su YouTube. “Non abbiamo fatto questo per puntare il dito o creare polemiche. Abbiamo espresso ciò che la maggior parte dei marocchini sente ma ha paura di dire”, ha spiegato Lz3er. Amnesty International ha definito le accuse contro il rapper come “assurde” e ha detto che dovrebbe essere liberato immediatamente. Ma la situazione in Marocco è una polveriera già da tempo. Dalle proteste della primavera araba del 2011 il sovrano ha cercato di scendere a compromessi. Ma il malcontento ha continuato a ribollire e il governo ha cercato di mantenere il controllo sui disordini reprimendo sempre più. Già nel 2011 ad un altro rapper era capitata la stessa sorte. Mouad Belrhouate è stato incarcerato per due anni, e ha poi chiesto asilo politico in Belgio. Le parole di Belrhouate sulla sua esperienza sono molto tristi. “Anche se amo molto il mio paese, mi ha soffocato. Mi sono sentito in prigione fuori dalla prigione, eppure sogno il giorno in cui ritornerò nel mio piccolo bunker nel quartiere di Casablanca”. Non meno malinconiche le parole di Gnawi nella sua hit tanto discussa: “La nostra estate si è trasformata in un autunno”. E poi il rapper chiede: “Mamma, sono arrabbiato, perché dovrei stare zitto?”, “mettono i nostri sogni in manette così rimarremo i loro schiavi”. Il Sahel, l’oro e la sua maledizione di Bruna Sironi* La Repubblica, 1 dicembre 2019 Il ricco filone aurifero che nutre milizie armate e traffici illeciti, dispensando sfruttamenti, inquinamenti. I minatori artigianali e gli abusi sulla popolazione civile dei soliti janjaweed. Il 2012 segna l’inizio della corsa all’oro nell’Africa saheliana - è l’incipit del bel reportage di Bruna Sironi, pubblicato da Nigrizia - quell’anno fu infatti scoperta una ricca vena aurifera che si estende dal Sudan fino alla Mauritania, passando per Niger, Mali e Burkina Faso. Con quella scoperta iniziò un rapido processo di cambiamento nei rapporti di forza e nella sicurezza dei paesi dell’intera regione. Il primo giacimento fu trovato quasi per caso da un piccolo gruppo di minatori artigianali nell’aprile del 2012 sulle alture del Jebel Amir, nel Nord Darfur in Sudan. Una delle miniere si rivelò così ricca da aver fruttato milioni di dollari ai suoi proprietari nel giro di pochi anni. Fu soprannominata “Svizzera”. Si aprì la caccia per 100 mila ricercatori d’oro. Appena la notizia si diffuse, nella zona arrivarono cercatori d’oro da tutto il Sudan, ma anche da altri paesi della regione: dal Ciad, dalla Repubblica Centrafricana, dal Niger e perfino dalla Nigeria. Stime credibili dicono che in breve affluirono nella zona mineraria almeno 100mila cercatori d’oro. Ora, secondo diversi analisti, sarebbero addirittura più di un milione, mentre il Sudan è ormai diventato il secondo produttore africano del prezioso metallo. Minatori artigianali che producono tra l’85% e il 90% dell’oro estratto. Sono state 93 tonnellate nel 2018, secondo dati ufficiali - lavorando con strumenti manuali, senza nessuna garanzia di sicurezza, né personale né per il metallo estratto, a rischio della stessa vita. Con il loro arrivo, come nelle corse all’oro del passato, si sono rapidamente diffuse nella zona armi, droga, alcool, prostituzione. Insomma ogni genere di traffico illegale che ha finito per incrementare la già drammatica insicurezza e conflittualità dell’area. Secondo una ricerca del Sudan Democracy First Group (Gruppo per la democrazia prima di tutto in Sudan) intitolata The politics of mining and trading of gold in Sudan: challenges of corruption and lack of transparency (Le politiche dell’estrazione e del commercio dell’oro in Sudan: le sfide della corruzione e della mancanza di trasparenza), chi ha approfittato della situazione fornendo controllo del territorio e protezione in cambio di una forzata partecipazione all’affare, sono state le milizie già operanti nell’area. Gli onnipresenti Janjaweed. Dapprima furono quelle di Musa Hilal, cioè i janjaweed, tristemente famosi per gli abusi sui civili perpetrati durante il conflitto in Darfur. Secondo un rapporto commissionato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Musa Hilal ricavava annualmente 54 milioni di dollari dal controllo del traffico dell’oro nel Jebel Amir. Poi l’affare passò alle Rapid Support Forces di Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti. L’oro di Hemeti. Dopo aver spazzato via dall’area il suo ex comandante - Musa Hilal è da qualche anno in carcere a Khartoum - Hemeti nel giro di pochi anni è diventato uno degli uomini più ricchi e potenti del paese. Ora è membro del Consiglio Supremo, l’organo di presidenza transitorio, emerso dopo la caduta del regime dell’ex presidente Omar El-Bashir, ed è considerato da diversi esperti il vero uomo forte del Sudan odierno. Al potere un miliziano senza scrupoli. La versione online di African Business gli dedica un articolo, Sudan’s gold: Hemeti’s untold power (L’oro del Sudan: il potere non dichiarato di Hemeti). Vi si sostiene che ha investito la fortuna ricavata dal controllo dell’oro, venduto in gran parte di contrabbando agli Emirati Arabi Uniti, per reclutare giovani darfuriani disoccupati, facendo delle Rsf una milizia di fatto interetnica forte di 40mila uomini, strettamente controllati da comandanti a lui legati da legami tribali e familiari. Dunque, in Sudan la scoperta dell’oro ha finito per portare al potere un miliziano senza scrupoli. Sahel: armi, droga e terrorismo. Anche nei paesi dell’Africa Occidentale in questo periodo si gioca una partita non troppo dissimile. In un rapporto pubblicato il 13 novembre, intitolato Getting a grip on central Sahel gold rush (Un’infarinatura sulla corsa all’oro nel Sahel centrale), l’International Crisis Group, autorevole centro studi sulle dinamiche dei conflitti, dice che in Mali, Burkina Faso e Niger, “fin dal 2016 gruppi armati hanno preso il controllo dell’estrazione dell’oro nelle zone dove le istituzioni statali sono deboli o assenti”. Anche in questi paesi i gruppi armati, compresi quelli jihadisti, si sono avvantaggiati della mancata regolamentazione dell’estrazione del prezioso metallo fatta con metodi tradizionali. Il rapporto dice che almeno 2 milioni di persone sono impegnate in un settore in cui il 50-60% della produzione non è regolamentata e avviene in zone remote. Secondo valutazioni credibili, sarebbe tra le 20 e le 50 tonnellate in Mali, tra le 10 e le 30 in Burkina Faso, tra le 10 e le 15 in Niger, per un valore complessivo stimato tra 1,9 e 4,5 miliardi di dollari. Il controllo dei gruppi terroristici sotto lo sguardo dell’Onu. Gli stati saheliani rischiano di veder crescere in numero e in forza i gruppi armati che già agiscono sul loro territorio se non saranno in grado di regolamentare in modo stringente l’estrazione dell’oro e il suo commercio. È prevedibile inoltre che aumentino i traffici criminali - di armi e di droga soprattutto - che le risorse ricavate dal prezioso metallo possono facilmente alimentare. Particolare attenzione va riservata all’uso che ne potranno fare i gruppi terroristici che agiscono ormai sempre più impunemente nei paesi della regione saheliana, nonostante la presenza delle forze dell’Onu e di vari stati occidentali. Potrà essere incrementato il reclutamento, garantendo salario e benefit a giovani che non hanno altro modo per lavorare. Potrà anche essere perfezionato l’addestramento, con l’utilizzo degli esplosivi necessari al lavoro minerario. Le responsabilità degli importatori d’oro. Ma un ruolo fondamentale nello stroncare il traffico hanno anche gli importatori d’oro dalla regione. I maggiori sono Dubai, la Cina e la Svizzera. A loro in particolare l’ICG chiede di rafforzare l’impianto legislativo che regolamenta l’importazione del metallo nei loro paesi, in modo da contribuire a tagliare le risorse dei gruppi armati e di quelli jihadisti che sono un pericolo crescente per la sicurezza di una vasta regione dell’Africa e, si può a ragione dire, del mondo intero.