Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio Quotidiano, 19 dicembre 2019 Sono giorni in cui si affollano le richieste di sottoscrivere per cause diverse. Desidero ospitare quella di “Ristretti Orizzonti”, illustrata dalla direttrice, Ornella Favero. “… da anni cerchiamo di garantire un’informazione approfondita e puntuale sulle pene, sul carcere, sulla giustizia, e lo facciamo gratuitamente, perché ci interessa arrivare a più persone possibile, e conquistarle non alle nostre idee, ma a una visione più critica dei temi che ci sono cari. Noi facciamo un lavoro di prevenzione per la collettività e alla sicurezza pensiamo davvero, incontrando migliaia di studenti che si confrontano con le persone detenute su come si può scivolare in comportamenti a rischio, e finire per rovinarsi la vita. Questo può essere un modello di educazione alla legalità per tanti ragazzi: i ‘cattivi’ che mettono a disposizione le loro testimonianze, un allenamento a ‘pensarci prima’ di fare una scelta sbagliata e a diventare adulti responsabili. Oggi i ‘buoni’ pensano di essere tranquillamente e sicuramente buoni e di potersene fregare dei ‘cattivi’, e magari di lasciarli ‘marcire in galera’, e così poi, per chi come noi è impegnato con tutte le sue energie e le sue risorse in questo ambito, arriva un momento in cui le risorse si esauriscono e non ce la facciamo più: non per responsabilità nostra, ma perché attendiamo pagamenti da enti e istituzioni, che si dimenticano che noi dobbiamo retribuire lavoratori detenuti o che hanno finito di scontare la pena, che non possono permettersi il lusso di aspettare mesi lo stipendio per lentezze burocratiche. Ci sono migliaia di persone che leggono il nostro Notiziario quotidiano dal carcere e pensano sia uno strumento utile, che utilizzano il nostro sito e ne apprezzano la ricchezza e che partecipano alle nostre iniziative. Molti si sentono partecipi quando esprimiamo queste difficoltà e ci sostengono come possono e li ringraziamo di cuore. Chiediamo uno sforzo anche agli altri, a chi magari rimanda da tempo la sottoscrizione di un abbonamento o l’invio di una offerta, perché pensa che non cambino la situazione. Ecco: invece noi contiamo proprio sul vostro appoggio. Aiutateci a sopravvivere, al servizio di chi vuole rendere le pene più sensate e più utili alla società tutta. L’obiettivo economico è importante: per non chiudere abbiamo bisogno di raccogliere 1.000 abbonamenti, o l’equivalente in donazioni. Conto corrente postale 1042074151 intestato all’Associazione di volontariato Granello di Senape Padova. O Iban: IT44X0760112100001042074151”. L’ergastolo e il regime ostativo, ovvero la speranza presa sul serio, di Davide Galliani di Davide Galliani Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2019 1. Dopo la pubblicazione del libro “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”, scritto con Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Paulo Pinto de Albuquerque, Andrea Pugiotto e Mauro Palma, molte persone mi hanno chiesto: “di preciso, cosa è la speranza?”. Provo, da parte mia, a sviluppare qualche riflessione. 2. È speranza che, quando è nata l’Europa, quasi tutti gli Stati fondatori avevano la pena di morte, mentre oggi più nessuno. E siamo passati da 6 a 28 nella piccola Europa e da 10 a 47 nella grande Europa. 3. È speranza che, se è vero che pochi Stati al mondo hanno abrogato l’ergastolo (35 su 216, il 15%), è però vero che, tra gli Stati mantenitori, il 70% prevede la possibilità della liberazione condizionale (135 su 183). Dopo differenti periodi di detenzione, con la competenza in capo a diversi organi, ma esiste la possibilità di ritornare un giorno in libertà, mai automaticamente, ma se sulla bilancia la rieducazione pesa più della pericolosità. Parliamo di persone: su quasi 300.000 ergastolani al mondo, in 230.000 (il 78%) hanno oggi la possibilità, almeno in teoria, di ottenere la liberazione condizionale (e dei rimanenti 70.000, ben 50.000 sono tutti negli Stati Uniti d’America). 4. E la casa della speranza è il continente europeo. Gli Stati della Convenzione europea dei diritti umani sono 47. Tra questi, in 11 presentavano l’ergastolo senza speranza: uno, il Regno Unito, si è salvato, per ora; tre non sono ancora stati giudicati: Malta, Svezia, Slovacchia; i sette rimanenti, tutti, sono stati condannati: l’ergastolo senza speranza è inumano e degradante: Turchia, Bulgaria, Paesi Bassi, Ungheria, Lituania, Ucraina e Italia 5. L’Italia, dunque. È speranza che l’attività investigativa si deve arrestare fuori dalle porte di un carcere, dentro il quale si rieduca e non si fa “una sorta di scambio” tra la propria libertà e la detenzione altrui (sono parole della Consulta, sent. n. 253 del 2019, § 8.1 cons. dir.). È sicuramente speranza cancellare il regime ostativo riferito ai permessi premio, non solo rispetto alla partecipazione e all’agevolazione mafiosa, ma anche in riferimento al diluvio di reati nel tempo inseriti nel I comma dell’art. 4 bis ord. pen. E cosa è, se non speranza, affermare che esiste per tutti i detenuti la libertà di non collaborare, sorella del diritto al silenzio? Infine, è speranza che la pena abbia solo due scopi, entrambi comunque di prevenzione speciale, negativa e positiva. 6. La speranza, pertanto, non è vincere questa o la prossima battaglia. Il suo cuore è convincere. La vera liberazione non è tanto vincere una sfida, ma combatterla, con le armi della ragione. Fai quel che devi, accada quel che può: questo è speranza. E quindi. Cerchiamo ora di convincere i magistrati che il “pericolo di ripristino” dei collegamenti con la criminalità organizzata non può diventare un onnivoro contenitore, una sorta di “imprevedibile trita-speranza”, non fosse altro per il fatto che il giudice è obbligato a dare conto, quindi a motivare, cosa che non può fare se, ad es., vi sono informazioni secretate. Cerchiamo, ancora, di tornare presto alla Consulta, portando questa volta la liberazione condizionale. E non sottovalutiamo nemmeno che i terzi intervenienti sono stati tutti dichiarati inammissibili, ma le acque alla Consulta si sono mosse. 7. Ho praticamente finito. Anzi, in realtà, non si finisce mai. I dubbi di costituzionalità sono ovunque. La perdita automatica della potestà genitoriale per tutti i condannati alla pena dell’ergastolo. L’automatica libertà vigilata di cinque anni per tutti gli ergastolani ottenuta la liberazione condizionale. L’automatica imposizione dell’isolamento diurno, nel caso di condanna per due o più delitti puniti ciascuno con la pena dell’ergastolo. Se si vuole, ce ne sono moltissimi altri. La riduzione fissa di pena di un giorno per ogni dieci di trattamento inumano e degradante, così come gli otto euro fissi in caso di impossibilità di riduzione di pena. 8. Dove vi è un automatismo, dove vi è fissità, lì si nega la speranza, baluardo della individualità. Ma soprattutto è il modo di stare al mondo, mai rassegnati, pieni di dubbi. Come i palombari, in equilibrio instabile costante. E la speranza la merita, nonostante tutto, anche il legislatore, il vero sconfitto alla Consulta, anche rispetto alla sciagurata estensione del regime ostativo ai minori (sent. n. 263 del 2019). Un minore al carcere duro è la negazione della speranza, oltre che un favore alla mafia. Legislatore che, in ogni caso, la sentenza n. 253 della Consulta prende in giro: il regime ostativo per reati mono-soggettivi? Un legislatore che proprio non sa né quello che fa (appunto, il peculato al pari della mafia) né quello che dovrebbe fare (i nuovi permessi al magistrato o al tribunale?). Imbarazzante, incosciente, superficiale, fa della ignoranza il suo punto di vista: sono finiti gli aggettivi, ma qui sta il bello della speranza, non la si può negare a nessuno…nemmeno al legislatore. Riconoscerti la speranza, però, non significa essere fessi: rielezioni automatiche non esistono, esattamente come le liberazioni condizionali. 9. E sarà la speranza la bandiera che sventolerà alla marcia contro l’ergastolo, minoritaria ma persuasiva. In cognizione, una pena fissa, per definizione non ragionevole e non proporzionale. Una pena che, in fase di esecuzione, non regge: fino a quando nelle carceri italiane la pena non contraria al senso di umanità non sarà la realtà, va rigettata la tesi di chi sostiene che “prima o poi” si può uscire. La si dica ai detenuti del carcere di Taranto: dovrebbero essere 300, sono 600, per loro ho letto che non ci sono i letti, si dorme a terra. La rieducazione è morta, viva la rieducazione! 10. Cosa è allora la speranza? Forse altro non è che la concretizzazione della dottrina più radicale e rivoluzionaria mai concepita, quella cristiana, che impone di trattare il prossimo come tratteresti te stesso: ripercorrendo criticamente la propria esistenza egli potrà diventare costruttore di città. Da non credente, non posso fare a meno di crederci. E credo veramente che buttare via le chiavi per far marcire le persone in galera non serva proprio a nessuno, meno che mai alle vittime e ai loro parenti, che meritano molto e molto di più. Per prima cosa, di essere considerati al pari di singoli individui, non massa informe da usare e strumentalizzare alla bisogna. Ministero Giustizia ed Enel siglano intesa per formazione professionale detenuti Il Messaggero, 19 dicembre 2019 Promuovere il lavoro penitenziario attraverso l’istruzione e la formazione professionale dei detenuti nell’ambito del progetto “Mi riscatto per il futuro”. È l’obiettivo del Protocollo d’intesa che il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e l’Amministratore Delegato di Enel, Francesco Starace, hanno siglato oggi in via Arenula. Il progetto punta a realizzare un programma formativo qualificante in favore dei detenuti, finalizzato all’acquisizione di competenze spendibili nel mondo del lavoro. In particolare negli istituti penitenziari saranno attivati percorsi, modulari e flessibili per contenuti e durata, per favorire il recupero e l’acquisizione di abilità e competenze individuali e individuare possibili inserimenti lavorativi professionalizzanti per i detenuti. L’intesa trova fondamento, da una parte, nella vasta esperienza di Enel nel campo della formazione, dall’altra nell’impegno del Ministero della Giustizia verso attività lavorative a favore dei detenuti. L’accordo prevede inoltre la possibilità di sviluppare ulteriori progetti congiunti, anche in campo internazionale. Saranno individuate, inoltre, aree di intervento per rendere più sostenibili le strutture penitenziarie attraverso soluzioni di efficientamento energetico e lo sviluppo di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. “Oggi si concretizza - ha affermato il Guardasigilli - un importante impegno preso, un percorso virtuoso di collaborazione che mi auguro possa diventare un modello da ripetere. Il nostro impegno non mira solo alla rieducazione del detenuto ma comprende anche la sicurezza della collettività, perché quando un detenuto esce dal carcere, grazie a progetti come questo, difficilmente torna a delinquere”. “Siamo particolarmente orgogliosi di aver sottoscritto un accordo che permetta un più rapido abbandono della ‘zona grigia’, quella tra l’uscita dal carcere e il reinserimento nella società civile, favorendo l’ingresso dei detenuti nel mondo del lavoro per ridurre il rischio di incorrere negli stessi errori del passato. - ha commentato l’Amministratore Delegato di Enel Francesco Starace - l’obiettivo è proporre una formazione professionale in linea con la rapida evoluzione del mondo del lavoro. I progetti che saranno sviluppati grazie al protocollo confermano l’impegno che Enel si è assunta per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite; in particolare per una crescita e una istruzione eque e inclusive”. Così la polizia stana i jihadisti. L’allarme terrorismo nelle carceri italiane di Giuseppe De Lorenzo Il Giornale, 19 dicembre 2019 Nei penitenziari l’attività di monitoraggio delle forze dell’ordine. Ecco come funziona. Vedi il carcere e pensi che il problema, quella struttura, dovrebbe risolverlo. Invece spesso si trasforma in una sorta di megafono per jihadisti, l’humus perfetto per reclutare terroristi. Anis Amri, il killer di Berlino, era tra questi. Dopo un periodo al fresco in Italia, dove si è radicalizzato, ha preso la via della Germania e con un tir ha fatto strage di “infedeli”. Il sistema Italia conosce il problema. Ed è forse grazie alla nostra capacità investigativa se il Belpaese non è ancora stato vittima di sanguinosi attentati. La lotta al terrorismo inizia proprio in carcere, lì dove si pensa - a torto - che il fenomeno venga arginato e circoscritto dalle sbarre. Su 62mila detenuti, 20mila sono stranieri e circa 8mila si professano musulmani. Di questi, 478 sono già monitorati dalla polizia penitenziaria. L’allarme maggiore riguarda 66 detenuti imputati o condannati per reati afferenti al terrorismo internazionale di matrice islamica. Alloggiano in tre sezioni dedicate degli istituti di Rossano, Nuoro, Sassari e L’Aquila (le donne) e sono catalogati AS2. Soggetti a rischio. I più pericolosi, certo. Ma per impedire che il morbo si allarghi non è sui “terroristi” già affermati che ci si concentra, quanto sui carcerati “normali” che rischiano di cedere alle sirene del proselitismo. Il servizio investigativo della polizia penitenziaria mette gli occhi in particolare su quei “detenuti di media sicurezza” che “abbiano mostrato segni di radicalizzazione”. La prima relazione la redige la direzione dell’Istituto detentivo che ospita il soggetto da monitorare. Ci si concentra sulla storia personale, su 44 indicatori di comportamento, sulle dimensioni emotive e quelle ideologiche. In caso di sospetti, l’informativa sale la scala gerarchica fino al Nucleo Investigativo Centrale (Nic) che svolge le dovute verifiche: aggrega i dati, consulta le banche dati, indaga sul soggetto. E poi gli attribuisce uno dei tre “livelli di analisi”. Una sorta di schedatura. Il primo livello, classificato “alto” raggruppa soggetti AS2 detenuti “per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento”; il secondo, classificato “medio”, contiene “i detenuti che all’interno del penitenziario hanno posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadiste e quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento”; al terzo livello, quello “basso”, finiscono gli ospiti che “per la genericità delle notizie fornite dall’Istituto meritano approfondimento”. Sulla base del livello attribuito al singolo detenuto, tutti gli operatori dell’Istituto penitenziario continuano l’osservazione sulla “vita intramuraria” per registrarne il comportamento, le eventuali infrazioni disciplinari e le relazioni con l’esterno (lettere, danaro inviato e ricevuto, colloqui visivi e telefonici, pacchi postali). Una volta raccolti i dati, il Nic li analizza periodicamente e li condivide con la Direzione Nazionale Antimafia, con i magistrati e con il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (Casa). La trafila sembra lunga, ma è fondamentale per tenere sotto controllo i soggetti che escono dal carcere dopo aver scontato la pena. In passato, - si legge nel rapporto del ministero della Giustizia - “non di rado venivano scarcerati detenuti pericolosi senza l’opportuna notizia agli organi preposti al controllo del territorio”. Oggi, invece, il Casa, la questura e le forze di polizia vengono informate preventivamente in modo da permettere l’adozione dei provvedimenti necessari, come la “riservata vigilanza”, l’avvio di “attività tecniche preventive” e, se necessario, l’espulsione. “I soggetti sottoposti al monitoraggio - si legge nel documento - alla data del 19 ottobre 2018 sono complessivamente 478, di cui 233 sottoposti al 1° livello, 103 al 2° livello e 142 al 3° livello”. A questi vanno aggiunti 193 individui già scarcerati che erano stati oggetto di osservazione e altri 137 in fase di valutazione. Un numero consistente e potenzialmente pericoloso. Pranzo d’Amore per 2mila detenuti in 12 carceri italiane di Alessia Guerrieri Avvenire, 19 dicembre 2019 Sesta edizione dell’evento di Natale organizzato da Rinnovamento nello Spirito Santo con chef stellati in cucina e vip come camerieri. Martinez: aggiungiamo sapore alla giustizia con la solidarietà. Uno spicchio di normalità racchiuso in un pranzo “al sapore di misericordia”. C’è molto di più dei piatti pur elaborati, in quei dodici menù da ristorante di lusso che altrettanti chef stellati hanno preparato per più di 2mila detenuti che ieri, da Nord a Sud, si sono seduti ad una tavola imbandita a festa. Non solo perché a servirli sono stati più di 50 personaggi del mondo dello spettacolo e del cinema insieme a 600 volontari. L’altra cucina... per un pranzo d’Amore, il consueto appuntamento che ormai da sei anni Rinnovamento nello Spirito Santo organizza insieme a Prison Fellowship Italia e Fondazione Alleanza Onlus sotto il patrocinio del ministero della Giustizia, è il segno concreto che ci può essere un Natale senza sbarre, anche se si vive in cella, che si può essere operatori di umanità condividendo del cibo con chi ha davanti un orizzonte meno “libero” del nostro. Milano (Opera), Roma (Rebibbia femminile), Torino (Le Vallette), Palermo (Pagliarelli), Massa Carrara, Salerno, Siracusa, Trani, Aversa, Eboli, Castelfranco Emilia, Ivrea. Le porte delle carceri di queste città si sono aperte dapprima per far entrare cuochi e volontari di eccezione tra i fornelli e poi i vip per un giorno camerieri, tra cui Pupi Avati, Maria Grazia Cucinotta, Teresa De Sio, Beatrice Bocci, Alessandro Greco, Nino Taranto, Sebastiano Somma, Suor Cristina. “C’è una società civile che, fuori, si attrezza per aggiungere ulteriore sapore alla giustizia attraverso la solidarietà”. Mentre infatti, ricorda il presidente di Rns Salvatore Martinez alla vigilia dell’appuntamento, durante la presentazione dell’iniziativa al Consiglio di Stato, “le nostre società stanno perdendo il gusto di essere benevole, oggi vengono aperte le porte a quel supplemento di misericordia di cui il nostro tempo ha bisogno”. Così “toccando il cuore ammalato del nostro fratello”, non si fa altro che fare “un gesto di restituzione di umanità e dignità”. Liberando noi per primi il cuore. “I prigionieri siamo noi - ricorda infatti Martinez - quando perdiamo la libertà di vincere il male con il bene, quando perdiamo il coraggio di dire e dare un volto alla fraternità umana”. Negli anni la staffetta di generosità nata dal L’altra cucina...per un pranzo d’Amore ha portato a migliorare la vita in alcuni istituti penitenziari, come la nuova cucina arrivata quest’anno a Trani grazie ad alcuni noti chef oppure la nascita di tre scuole di cucina dietro le sbarre con diplomi riconosciuti che i detenuti potranno spendersi una volta saldato il proprio conto con la giustizia. “Questa per noi è una speranza concreta di recupero”, ricorda Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, sottolineando che “tutti gli chef oltre alle loro competenze hanno messo a disposizione qualcosa di proprio ed ogni anno ci chiedono di tornare”. Ecco che quindi “da un pranzo che può sembrare fine a sé stesso, vediamo aprirsi strade di solidarietà inimmaginabili che ci fanno sperare in bene”. Risotto con cozze e limone candito, spigola, tortino con ricotta di bufala cioccolato e frutto della passione. Non è semplice seguire tutti gli ingredienti che compongono il menù che verrà servito oggi a pranzo ai cento ospiti del carcere di Aversa. Certo è che qui, come altrove, i commensali si sono “leccati i baffi”. A realizzarlo la chef Marianna Vitale, proprietaria del “Sud Ristorante”, che spiega come “attraverso questa esperienza così particolare in carcere ho compreso che non si oltrepassa un ponte, ma diventiamo noi per primi ponti di normalità e semplicità per il prossimo”. Ministro Bonafede, chiediamo trasparenza sui dati sulla prescrizione di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 19 dicembre 2019 Sappiamo che ogni anno si prescrive grossomodo il 10% del totale complessivo dei procedimenti penali, ma veniamo tenuti all’oscuro di quali siano i reati che si prescrivono, ed in quale percentuale ciascuno di essi. Vi sentiamo ripetere che questa riforma sarà una svolta di civiltà perché abolirà questo odioso strumento di privilegio dei ricchi e dei potenti, che la “fanno franca” dai reati di grave allarme sociale che essi commettono in tal modo impunemente, frustrando le aspettative di Giustizia delle parti offese e di tutti i cittadini. Bene. Abbiamo il diritto di verificare questa affermazione con i numeri, con le statistiche? Noi avvocati penalisti - ed anche i Magistrati, ci creda signor Ministro! - sappiamo perfettamente che la prescrizione è l’istituto più democratico, popolare, interclassista che esista nel nostro codice, e che sono centinaia di migliaia ogni anno (su milioni di procedimenti penali) i cittadini di ogni censo, ceto e professione a beneficiarne, ad onta della storiella dei potenti “impuniti”, utilissima ad alimentare fortune editoriali e politiche ma frutto della più colossale opera di mistificazione alla quale si sia potuti assistere in questi ultimi anni. Ci metta a tacere una volta per tutte, Signor Ministro! Certifichi questa pretesa verità con la forza invincibile delle statistiche che tuttavia solo Lei - il suo Ministero, intendo - possiede. Ordini all’Ufficio Statistica di mettere a disposizione di tutti i Parlamentari, e di tutti i cittadini, i dati -degli ultimi dieci anni, diciamo- che ci consentano di sapere quali siano i reati falcidiati dalla vituperata prescrizione, e dunque a vantaggio di quali soggetti o categorie sociali ed in danno di quali. In poche ore il Suo Ministero è nelle condizioni di fornire questa fondamentale informazione, che consentirà a tutti di formarsi una opinione consapevole e fondata sui fatti, non sulle formule o sugli slogan. Siamo certi che in questa nostra richiesta di trasparenza e di accesso ai dati della Pubblica Amministrazione. Lei - che ha voluto presentarsi come il Ministro che apre le stanze delle Istituzioni ai cittadini - non vorrà e non potrà deluderci. Intercettazioni, oggi il vertice. M5S e Pd più vicini di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2019 Ma è impasse totale sulla prescrizione. L’Anm: nessun effetto dirompente. Si accorciano le distanze sulle intercettazioni. Ma sulla prescrizione la tensione resta alta. Oggi pomeriggio a Palazzo Chigi, un nuovo vertice tra le forze di Governo, con il premier Giuseppe Conte, dovrebbe contribuire a smarcare almeno il tema delle intercettazioni sul quale resta in piedi l’ipotesi di presentare un decreto legge già domani in consiglio dei ministri, l’ultimo dell’anno. Bonafede sottolinea un ottimismo di fondo sul pacchetto di correzioni alla riforma Orlando che dovrebbe permetterne un’entrata in vigore rivista sì, ma ampiamente digeribile anche dal Pd. Nel merito l’intervento messo a punto dal ministero disciplinerà la fase transitoria, prevedendo l’applicabilità del nuovo regime di svolgimento delle operazioni, indirizzato a elevare il livello di tutela della privacy, solo alle intercettazioni autorizzate per il futuro. In questo modo si eviterebbe una delle maggiori criticità segnalate dai capi delle principali Procure, l’assenza di una disciplina esplicita della fase transitoria. Ma tra le modifiche più sostanziali entrerà anche un peso accresciuto del pubblico ministero nella selezione del materiale rilevante per lo svolgimento delle indagini, accantonando quello inutile nell’archivio riservato. Tutte modifiche che, sottolineano anche i dem, non stravolgono l’impianto originario della riforma e ne renderebbero più agevole il varo. Quanto allo strumento, in alternativa al decreto legge, per il quale le ragioni di necessità e urgenza coinciderebbero in larga parte con quanto segnalato dai capi procuratori, ci sarà il canonico decreto “Mille Proroghe” di fine anno, sempre al consiglio dei ministri di domani, al quale agganciare un ulteriore slittamento di 6 mesi del blocco della Orlando in attesa di perfezionare un eventuale disegno di legge. Impasse totale invece sul fronte della prescrizione. Dove a questo punto anche nel Pd si dà per scontato il debutto al 1° gennaio del blocco dei termini dopo il giudizio di primo grado voluto e difeso a oltranza da Bonafede. La contromossa è già pronta: un disegno di legge da presentare in Parlamento nei primi giorni della prossima settimana, nel quale saranno tradotte tutte le proposte fatte dai dem e mai recepite dalla Giustizia. Un testo sul quale, più che sul ddl Costa, destinato ad andare in Aula alla Camera nella seconda metà di gennaio, sul quale anche le opposizioni potrebbero dimostrare un’apertura. E ieri, in audizione in commissione Giustizia alla Camera intanto, dall’Anm è arrivato un sonoro via libera alla riforma Bonafede che “va nella direzione giusta”. Per l’Associazione nazionale magistrati nessun effetto immediato dirompente si produrrà sui processi in corso: proprio per la natura sostanziale dell’istituto, la nuova disciplina si applicherà solo ai reati commessi dopo il i° gennaio 2020, e dunque i relativi effetti si verificheranno al momento del giudizio di primo grado, “naturalmente variabile nel tempo, ma anche, potenzialmente, tra alcuni anni”. L’Anm “smonta” poi anche la critica sull’impatto immediato che la riforma avrebbe sui casi di arresti in flagranza e relativi riti direttissimi: “È evidente che l’eventuale stato cautelare conseguente costituisce una causa tipica di speditezza del processo, che dunque, anche conia nuova disciplina prescrizione, non rimarrebbe certo “galleggiante” all’infinito”. I Cinque stelle danno la colpa al Csm per i loro ritardi sulla giustizia di David Allegranti Il Foglio, 19 dicembre 2019 Dopo settimane di traccheggiamenti, il ministero della Giustizia ha fornito finalmente delle risposte alle questioni poste dal Foglio - grazie a un’interrogazione del deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin - sulla mancata assunzione dei 251 magistrati che hanno vinto il concorso bandito nel 2017. Non male, si fa per dire, la giustificazione dei Cinque stelle: secondo il dicastero di Alfonso Bonafede, i rallentamenti sono responsabilità del Csm. Ma andiamo con ordine. “Nell’anno 2019 si è verificata una particolare contingenza temporale per cui si sono sovrapposti gli esiti di due procedure concorsuali”, ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. La prima indetta con decreto ministeriale il 19 ottobre 2016 e l’altra indetta il 31 maggio 2017. “I vincitori del primo dei due concorsi indicati sono stati già regolarmente assunti grazie alla copertura finanziaria che ha trovato spazio nella legge di bilancio dello scorso dicembre”. Il concorso bandito nel 2017, ha detto Ferraresi, “ha risentito di rallentamenti che risalgono alla fase relativa all’approvazione della graduatoria. In particolare, dopo la pubblicazione con riserva della prima graduatoria lo scorso 24 luglio, il Consiglio Superiore della Magistratura, il successivo 16 ottobre ha pubblicato la graduatoria definitiva”. Insomma, secondo il ministero della Giustizia, la colpa del rallentamento dell’assunzione è del Csm, che però aveva espresso una riserva solo su un candidato, non su tutta la graduatoria. “Ne è conseguita una inevitabile dilatazione temporale malgrado la quale, essendo ormai prossima l’approvazione della legge di bilancio per le coperture finanziarie dell’anno venturo, mi sento di rassicurare gli interroganti sulla speditezza dell’ulteriore corso della procedura con l’imminente assunzione dei vincitori”. Il decreto di nomina però, stando alla legge, sarebbe dovuto avvenire entro 20 giorni dalla pubblicazione della graduatoria. Se anche prendessimo per buona la data del 16 ottobre - quando il Csm ha pubblicato la nuova graduatoria sciogliendo la riserva su una candidata - i giorni di ritardo sarebbero molti di più, visto che sono già passati oltre sessanta giorni. Comunque, ha detto Ferraresi, “nel disegno di legge di bilancio per il 2020 è prevista l’autorizzazione di spesa destinata all’assunzione dei magistrati ordinari vincitori del concorso bandito con decreto ministeriale il 31 maggio 2017 e la provvista finanziaria risulta già inserita nello stato di previsione del ministero della giustizia con decorrenza 1 gennaio 2020. Del resto, con lo storico incremento del ruolo organico della magistratura di 600 unità, questo ministero ha già dato ampia dimostrazione, nei fatti, della particolare attenzione con cui guarda alle politiche assunzionali del personale giudiziario, in linea con la ferma convinzione che l’efficienza della giustizia passa innanzitutto attraverso un significativo rafforzamento organico di chi l’amministra quotidianamente”. Naturalmente, questo ampliamento è ancora tutto da verificare ma i Cinque stelle lo spacciano già per fatto, osserva il deputato Zanettin: “Abbiamo capito che evidentemente si trattava di un problema di copertura. Le assunzioni avranno luogo a partire dal primo gennaio prossimo però dobbiamo rilevare che c’è stato uno svarione: il ministro Bonafede s’era dimenticato di appostare nella legge di bilancio 2019 i fondi necessari per assumere i magistrati vincitori del concorso 2017. La considero una sciatteria imperdonabile e senza precedenti. Il ministro Bonafede in ogni occasione parla con toni trionfalistici di un aumento epocale dell’organico dei magistrati frutto del suo impegno. Però come dimostra questo episodio la sua narrazione molto distante dalla realtà dei fatti”. La legge “spazza-corrotti”, la prescrizione e il contrappasso delle carceri di Paolazzurra Polizzotto ecointernazionale.com, 19 dicembre 2019 Sono giornate molto intense e tese per la giustizia penale italiana, a seguito delle diverse astensioni proclamate dall’Unione Camere penali, a causa della riforma della giustizia operata dal Ministro Alfonso Bonafede in tema di Prescrizione. La riforma è la c.d. “legge spazza-corrotti” che, nel corso dei lavori parlamentari, per effetto di un emendamento presentato dai relatori di maggioranza (Movimento Cinque Stelle), è diventata anche, almeno nelle intenzioni, una legge spazza-prescrizione. Tale legge è destinata ad avere effetti significativi, per quanto limitati a una parte soltanto (circa un quarto) del complessivo numero dei procedimenti che, annualmente, vengono definiti con la declaratoria di prescrizione del reato. Il punto dolente di questa legge è contenuto nell’art. 1, lett. d), e), f) della legge n. 3 del 2019, disposizioni che entreranno in vigore il 1° gennaio 2020. La legge preannuncia una soluzione ben più radicale: il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado (o il decreto di condanna), indipendente dall’esito, di condanna o di assoluzione. È proprio questa, in sintesi e nell’essenza, la novità con la quale i penalisti sono chiamati a confrontarsi: una prescrizione del reato che non potrà più maturare in appello o in cassazione. Questa riforma chiama in causa la funzione della pena e la sua concezione orientata anche alla riabilitazione e al reinserimento sociale del reo. La prescrizione è un principio del nostro stato di diritto molto importante ed è evidente, infatti, come una soluzione del genere - che dovrebbe dispiegare i propri effetti dal gennaio 2020, ma che si spera venga modificata entro la scadenza - sia assolutamente inadeguata ed inadatta a diminuire i tempi dei processi e, anzi, pregiudichi irrimediabilmente la posizione giuridica della persona sottoposta a processo penale. Non è, in altre parole, colpendo un istituto quale la prescrizione, prerogativa necessaria all’interno di uno Stato democratico e di diritto, che va trovata la soluzione in relazione ai tempi della Giustizia. Per completare il quadro, il ministro Bonafede durante un’intervista al programma Rai Porta a Porta, ha impropriamente dichiarato: “Quando per il reato non si riesce a dimostrare il dolo, e quindi diventa un reato colposo, ha termini di prescrizione molto più bassi” un’affermazione quanto mai errata, che ha spinto il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo a chiedere le dimissioni del Ministro. La gravità di un’affermazione risiede nel fatto che può indurre l’opinione pubblica a una scorretta e pericolosa visione della distinzione tra dolo e colpa nel nostro ordinamento e creare un grande confusione anche in tema di prescrizione. Infatti, dolo e colpa sono definiti giuridicamente “elementi soggettivi del reato”: un fatto commesso con dolo è commesso intenzionalmente, e l’autore del reato quindi è cosciente delle conseguenze della sua azione; nel fatto commesso con colpa, invece, chi commette il reato non lo fa intenzionalmente e non ha preso coscienza delle conseguenze del suo gesto. Il dolo, secondo il codice penale italiano, rappresenta il criterio tipico di imputazione, mentre la colpa rappresenta l’eccezione, con la conseguenza che di colpa si risponde solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Inoltre, per determinare la prescrizione, in linea generale, si deve fare riferimento alla pena massima prevista per quel reato. Il ministro Bonafede sembra invece confondere reato colposo e reato doloso e sembra suggerire che il reato colposo sia una versione “tenue” del reato doloso, alla quale si ricorre quando non si può dimostrare l’intenzione: sembra cioè che dica che un reato colposo sia in ogni caso un reato in cui non si riesce a dimostrare il dolo. Ma se volevamo cadere più in basso, ci siamo già riusciti. A coronare queste drammatiche vicende per la giustizia penale italiana, non sono solo gli strafalcioni del ministro Bonafede, ma anche l’approvazione del Decreto Legislativo correttivo del riordino delle carriere delle Forze di Polizia, avente come relatore Emanuele Fiano ed attualmente sottoposto all’esame delle commissioni parlamentari. La vicenda. Un tema molto delicato e complesso che va avanti da diversi anni, quello del riordino delle carriere delle Forze di Polizia. Questi decreti attuativi sono finalizzati a modificare i compiti e i ruoli che fino ad ora spettavano ai direttori delle carceri e ai comandanti con la qualifica di dirigente. Infatti, attualmente, il direttore del carcere è il Capo gerarchico della struttura e coordina tutte le aree cooperative presenti all’interno degli istituti di pena, ma se venissero approvati questi decreti, il rapporto tra direttore e comandante cambierebbe da gerarchico a funzionale, attribuendo al comandante - che sia sempre primo dirigente - la gestione della sicurezza all’interno del carcere. Al momento, il direttore del carcere si occupa della gestione contabile, ha competenza circa le sanzioni del richiamo e della ammonizione (art. 40 o.p.) ed a lui spetta l’ultima valutazione nei casi di impiego della forza ed uso dei mezzi di coercizione (art. 41 o.p.). Qualora questi decreti venissero approvati, al direttore del carcere verrebbe sottratto anche il potere disciplinare, con la conseguenza - a tratti paradossale - che il direttore di un istituto di pena, pur restando sempre responsabile della struttura da lui diretta, non solo non è più il capo gerarchico di quell’istituto, ma non può neanche sanzionare chi lavora per lui e magari ha violato una normativa. Dunque, lo spettro del populismo giudiziario è sempre presente. Tra le proposte contenute all’interno del decreto correttivo del riordino delle carriere delle Forze di Polizia, è stato avanzato il timore che la riforma possa comportare un ritorno al passato, con una “militarizzazione” del carcere. ?Oggi i direttori che gestiscono gli istituti di pena sono dei civili, ricoprendo un ruolo super partes tra le diverse figure che cooperano all’interno degli istituti e garantendo l’equilibrio tra le istanze di sicurezza e la funzione rieducativa della pena. Anche il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams) ha espresso non poche perplessità e preoccupazioni in merito a questi decreti correttivi, ed infatti Antonietta Fiorillo, Presidentessa del Conams ha dichiarato: “Con una prima lettura in attesa di possibili ed eventuali modifiche che con questa doppia dirigenza che si andrebbe a creare, le difficoltà non sono poche, perché occorre una tale unità d’intenti e la nostra preoccupazione è che tutto questo refluisca in maniera non positiva sull’andamento generale del carcere, sia per quanto riguarda la sicurezza ma anche la parte trattamentale del carcere”. Insomma, non sono pochi i problemi che il sistema giudiziario, e anche quello penitenziario, stanno affrontando in questo periodo. Sicuramente questo cambio di gerarchia all’interno degli istituti di pena non contribuisce a migliorare la situazione attuale che versa sempre di più in una fase emergenziale. A prendere parte di questo dramma non è solo l’Italia - che rischia una Torreggiani Bis - ma anche altri paesi europei come Francia, Macedonia, Romania e Ungheria. La situazione delle carceri europee, è più grave di quanto possiamo immaginare, e non abbiamo bisogno di un cambio di gerarchia con annessa militarizzazione dei direttori e delle direttrici, ma semplicemente di iniziare a fare ordine con gli strumenti che la nostra legge sull’ordinamento penitenziario ci offre. Europa, armi spuntate contro le mafie: manca il coordinamento di Massimiliano Nespola Il Dubbio, 19 dicembre 2019 Solo in Italia esiste il reato di associazione mafiosa: difficile interfacciarsi con gli altri stati membri e non far arenare le indagini. nei paesi dell’est il riciclo dei capitali. Le mafie in Europa esistono. Alcune volte, i segnali della loro presenza sono stati evidenti, come quando la strage di Duisburg del 2007 portò allo spargimento di sangue tra cosche rivali della ‘ndrangheta insediatesi in Germania. O come quando si parla di riciclaggio: le indagini effettuate spesso mostrano un legame tra la circolazione di consistenti capitali internazionali e attività illecite. Si pensi alle fatturazioni per operazioni inesistenti, cioè al transito di capitali che avviene per una supposta vendita di beni o di servizi, solo apparente, che serve a celare la reimmissione nel circuito legale di soldi ottenuti attraverso il compimento di reati. Come avviene, più concretamente? In un incontro con il generale della Guardia di Finanza, Ciro De Lisi, se n’è avuta una spiegazione chiara: poniamo che un imprenditore si presti a compiere tale illecito, per favorire la circolazione di denaro che deve essere trasferito ad una banca. Si sa che spesso nei Paesi dell’Est europeo vengono costituite delle società cartiere, che emettono fatture per operazioni inesistenti, per occultare quindi una movimentazione di capitali. Se si ha un conto bancario estero sul quale depositare i soldi, questi ultimi possono essere resi disponibili per l’acquisto di beni, attraverso tale strumento. Non si è svolta davvero una prestazione lavorativa, non si è realizzato nulla; ciò nonostante si è avuto uno scambio di denaro che in realtà potrebbe essere stato utilizzato per la compravendita di sostanze stupefacenti. Un processo del genere, in Europa, in questi ultimi anni ha trovato terreno fertile. Grazie all’ingresso di nuovi Paesi, dal 2004, le frontiere si sono ridotte. Ecco perché è molto importante disporre di informazioni sulla circolazione di beni, persone, merci e capitali. L’Unione Europea, spesso, è stata ritenuta solo parzialmente in grado di rispondere a questo compito. Come ha affermato il prof. Antonio Nicaso, uno dei principali esperti al mondo di ‘ ndrangheta, docente presso la Scuola Italia del Middlebury College a Oakland, California, dove è anche direttore associate, alla Queen’s University a Kingston, e alla St. Jerome University a Waterloo, in Canada: “Da molti anni, a parole, tutti si dicono favorevoli, poi nei fatti, manca la coerenza. Le proposte restano lettera morta”. Anche oggi si avverte tale carenza e le istituzioni europee, recentemente rinnovate dal voto di maggio, partiranno in questi giorni con i nuovi programmi pluriennali. Sembra si sia puntato molto sull’ambiente, che può essere un tema connesso anche a quello della lotta alle mafie, considerate le attività illecite svolte dalle organizzazioni criminali anche in tale ambito. Da questo punto di vista, il principale problema che si pone è quello di un coordinamento che possa fornire le opportune informazioni e creare un contesto di cooperazione tra le autorità, pur tenendo conto di tradizioni giuridiche differenti. È questo il cuore del problema: per poter collaborare, servono gli strumenti. Bisogna per esempio considerare il fatto che il reato specifico di associazione mafiosa esista in Italia, ma non in altri Paesi. Così un’inchiesta per reati simili che parta nel nostro Paese rischia di arenarsi nel momento in cui ci si interfaccia con altri Stati membri. C’è un grande lavoro da fare, sotto questo aspetto: basti ricordare che, fino al Trattato di Lisbona, l’Unione Europea è stata ideata secondo il principio dei tre “pilastri”. Uno di essi, è stato proprio la costruzione di uno Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. E, considerati gli avvenimenti di questi ultimi anni, connessi anche all’escalation del terrorismo internazionale di matrice jihadista, c’è ancora molto da fare. Rischia il carcere chi non presenta la dichiarazione dei redditi di Andrea Pegoraro Il Giornale, 19 dicembre 2019 Per chi presenta una dichiarazione infedele si potranno applicare gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio e altre misure coercitive. È quanto prevede la legge di conversione del decreto fiscale, approvata dal Senato. Arresti domiciliari, divieto di espatrio sono alcune delle misure punitive applicabili per chi presenta dichiarazioni dei redditi e dell’Iva infedeli. Potrà essere disposta anche la custodia cautelare in carcere per l’omessa dichiarazione. È quanto prevede la legge di conversione del decreto fiscale, approvata ieri in via definitiva dal Senato. Il testo sarà quindi votato da Montecitorio lunedì 23 dicembre. Diventerà quindi operativo il nuovo regime penale tributario che avrà l’effetto di aumentare le pene e sarà caratterizzato da nuove regole procedurali. In futuro, infatti, gli indagati del reato di dichiarazione infedele potranno scontare una pena da due anni a quattro anni e sei mesi di reclusione, e non più come in precedenza da un anno a tre anni. Le misure coercitive per questo tipo di reato potranno prevedere il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, gli arresti domiciliari e le altre misure coercitive differenti dalla custodia cautelare in carcere. Il pubblico ministero avrà dunque la possibilità di richiedere al giudice per le indagini preliminari una di queste misure repressive. Inoltre, per la dichiarazione infedele sono state abbassate anche le soglie di punibilità. Come riporta Norme e Tributi del Sole 24 Ore, il rilievo penale della condotta viene quindi esteso, comprendendo illeciti che finora erano considerati solo violazioni amministrative. Il reato scatterà quando l’imposta evasa supererà la soglia di 100 mila euro e non più di 150 mila euro. Bisogna precisare che il limite si intende per ciascuna imposta e per ciascun periodo di imposta. Lo stesso reato scatterà anche quando gli elementi attivi sottratti a imposizione saranno superiori a due milioni di euro, e non più tre milioni di euro come prima. In base all’articolo 266 del codice penale, le intercettazioni di conversazioni telefoniche sono consentite nei procedimenti per delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni. Così vale anche per i delitti di omessa e infedele dichiarazione. In sede di conversione in legge, la reclusione massima è stata ridotta rispetto alla previsione iniziale ed è stata fissata in 5 anni per l’omessa dichiarazione e in 4 anni e 6 mesi per l’infedele dichiarazione. Restano gli stessi del passato i delitti per i quali si potranno svolgere intercettazioni telefoniche. Si tratta in particolare della dichiarazione fraudolenta con documenti per operazioni inesistenti e mediante altri artifici, dell’emissione di false fatture, dell’occultamento e distruzione di scritture contabili, della sottrazione fraudolenta del pagamento delle imposte nella forma aggravata e dell’indebita compensazione con crediti inesistenti. Il diritto all’oblio e i complessi rapporti cronaca-storiografia di Francesco Barra Caracciolo Il Mattino, 19 dicembre 2019 Le Sezioni Unite si sono pronunciate con una recentissima sentenza, la numero 19681/2019, sul tema del diritto all’oblio e dei controversi rapporti con la cronaca e la storiografia. Sul tema vi è ampia giurisprudenza sia Italiana che delle Corti Europee e Statunitense. Ma il dibattito è lungi dall’essere sopito. Infatti si è dovuto ricorrere alle Sezioni Unite della Cassazione per dirimere un contrasto tra sezioni della medesima Corte. La sentenza ha statuito vari principi. Il primo è che: “L’attività storiografica non può godere della stessa garanzia costituzionale che è prevista per il diritto di cronaca...omissis”. Molto discutibile è l’affermazione che la tutela costituzionale della storiografia sarebbe affievolita rispetto a quella del diritto di cronaca: entrambi, a mio avviso, sono parimenti tutelati dall’art. 21 Costituzione. Per le Sezioni Unite tale tutela “limitata” si rende necessaria ancorché l’attività storiografica (cioè la rievocazione dei fatti ed eventi che hanno segnato la vita di una collettività) fa parte della storia di un popolo e ne rappresenta l’anima, ed è attività “preziosa”. Le Sezioni Unite ritengono che vi sia differenza ontologica e di livello di tutela tra il diritto di cronaca e diritto di rievocazione storiografica, per soggetti che non hanno rivestito o rivestono tuttora un ruolo pubblico. Ovvero per i fatti che per il loro stesso concreto svolgersi non implichino il richiamo necessario al nome dei protagonisti. In questi casi la ricostruzione deve svolgersi in forma anonima, non ravvisandosi particolare utilità, per chi fruisce di quell’informazione, dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto. Di qui l’obbligo di anonimato a tutela della persona “una volta che il tempo sia trascorso e i fatti, anche se gravi, si siano sbiaditi nella memoria collettiva”. Nutro forti dubbi anche su tali affermazioni. Invero sia il “tempo trascorso” che “i fatti sbiaditi nella memoria” sono concetti molto evanescenti. Numerosi dubbi sulla “bontà” di tale sentenza sorgono poi in relazione alla difficoltà d’applicazione ai casi concreti. Invero alla luce della sentenza lo storico di epoche “vicine” non può indicare nominativamente le persone che spesso sono le fonti! Con ciò violando un principio base della storiografia. Altri dubbi sorgono in relazione alla rievocazione di efferati crimini come avviene oggi, sempre più frequentemente (e con ogni mezzo: televisivi, librari, teatrali, cinematografici, giornalistici). Vi sono vicende tragiche che producono un grave impatto sull’opinione pubblica che le ricorda solo con il nome del protagonista. Emblematico per tutti è il caso di “Erika”, da giorni all’attenzione dell’opinione pubblica per il ruolo, eccezionale, svolto dal padre nel percorso riabilitativo della ragazza. Ma v’è di più. Dall’obbligo di anonimato discende, quale logico corollario (non esplicitato ma inevitabile), che se è vietato l’uso del nome è anche vietata l’identificabilità della persona. Ora l’identificabilità si determina con il ricostruire il contesto sociale, economico, etc., che è un’opera necessaria per lo storico. Né è condivisibile la pretesa di fissare una linea netta di demarcazione tra cronaca e attività storiografica, linea che è molto labile. Pardolesi (in Foro It., ottobre 2019) ricorda giustamente Benedetto Croce che in “Teoria e storia della storiografia” affermò che la storia è destinata a divenire cronaca quando non è più pensata, il che implica che “deve sempre rigorosamente giudicare e deve essere soggettiva” (Bari 1966, 10 s.145). E ricorda il passo crociano: “la cronaca, arida e smorta, a fronte della storiografia vivida ed appassionata”. Concludo chiedendomi (con Pardolesi): “Qual è il limite temporale che separa cronaca e storia?”. Quale criterio adottare? Soggettivo o oggettivo? E quale sarebbe quello “oggettivo”? “Ciò che è fuori dalla memoria dell’osservatore, col rischio per chi è avanti negli anni di vivere una cronaca, che per altri è già storia. Due anni e mezzo bastano a scavare il solco?”. Toscana. Il Cesvot pubblica una guida sulla messa alla prova e i lavori di pubblica utilità di Simone Pitossi toscanaoggi.it, 19 dicembre 2019 Il nuovo ebook Cesvot “Messa alla prova e Lavoro di pubblica utilità. Vademecum per la collaborazione tra Uepe ed enti del terzo settore”, frutto della collaborazione con l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna Toscana e Umbria (Uiepe), è una preziosa guida per conoscere le misure alternative al carcere, in particolare le sanzioni e misure di giustizia di comunità. La pubblicazione, curata da Filippo Daidone, Elisabetta Dani e Susanna Rollino, nasce all’interno del percorso di orientamento e formazione promosso da Cesvot nell’ambito di un protocollo triennale con Uiepe. Tramite la messa alla prova le persone sono vincolate ad un programma di trattamento che prevede, tra le attività obbligatorie, lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso istituzioni o enti del terzo settore. L’ebook pubblicato da Cesvot offre agli enti del terzo settore informazioni utili su modalità di accesso e buone pratiche sulla messa alla prova e il lavoro di pubblica utilità: attivazione di un programma di trattamento, convenzione con il tribunale, compiti dell’associazione ospitante (assicurazione, tutor, relazioni periodiche), soggetti che si possono accogliere. Secondo la banca dati Cesvot, in Toscana le associazioni attive nel cosiddetto “volontariato di giustizia” sono 148 (94 organizzazioni di volontariato, 54 promozione sociale) ma qualunque ente del terzo settore può attivare una misura di comunità. Ad oggi, infatti, gli enti toscani che hanno convenzioni per l’inserimento di soggetti in lavori di pubblica utilità sono 454, la gran parte dei quali enti del terzo settore (dati Uepe Toscana). Complessivamente le persone sottoposte a sanzioni di comunità sono 4.672, a misure alternative 2.737, alla messa alla prova 1.693. In Italia le persone in carico agli Uffici per l’esecuzione penale esterna sono 102.326, di cui 25.939 in messa alla prova e lavoro di pubblica utilità, 29.200 in misure alternative alla detenzione e 42.992 per indagine e consulenze ai tribunali - ordinari e di sorveglianza - e agli istituti penitenziari (dati Ministero della Giustizia). Negli anni si è registrato un notevole aumento della messa alla prova: secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antigone si è passati da 804 nel 2015 a 14.980 misure nel 2018. Il 71% delle persone impegnate in lavori di pubblica utilità ha svolto la propria attività presso strutture o servizi socio-assistenziali alla persona, il 20% nella manutenzione del verde pubblico, il 6% nel segretariato sociale e il 3% nell’ambito della protezione civile. I reati maggiormente rappresentati sono quelli contro il Codice della strada. Trento. Niente casa popolare ai parenti di chi è stato in carcere di Giulia Merlo Il Dubbio, 19 dicembre 2019 Approvata la norma che “punisce” i familiari dei condannati. Niente casa popolare per i parenti di chi ha e chi ha in prima persona una condanna penale alle spalle. La norma a prima firma del governatore leghista Maurizio Fugatti è stata approvata definitivamente dal consiglio provinciale di Trento, senza alcuna modifica - nonostante la dura opposizione delle minoranze che hanno fatto ostruzionismo in aula e anche di una parte della maggioranza - al disegno di legge provinciale 36/ 2019, che prevede “l’assenza da parte del richiedente e dei componenti del nucleo familiare, nei dieci anni precedenti la data di presentazione della domanda, di condanne definitive per i delitti non colposi per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, nonché per i reati previsti dall’articolo 380, comma 2, del codice di procedura penale”. Il che comporta l’impossibilità di chiedere un alloggio popolare per chi è stato condannato per reati con pena edittale di almeno 5 anni, oltre che per reati come il furto aggravato, la rapina, tutti i reati che riguardano sostanze stupefacenti. Non solo, la stessa esclusione pesa anche su chi, da richiedente, ha un membro della famiglia condannato per uno di questi reati nei dieci anni precedenti alla domanda. Infine, la sopravvenienza di una condanna all’assegnatario o a uno dei suoi familiari provoca la revoca della casa popolare o, nel caso, il mancato rinnovo dell’assegnazione. L’unica correzione accettata ha riguardato l’eliminazione dal novero dei reati quello di maltrattamenti in famiglia: le inquiline Itea vittime di violenza non perderanno più la casa (come da previsione iniziale) se denunciano il coniuge e questo viene condannato. La previsione normativa aveva immediatamente sollevato polemiche, soprattutto in merito alla sua potenziale incostituzionalità rispetto all’articolo 27 della Costituzione, sia in base al principio della personalità della responsabilità penale (l’articolo farebbe ricadere su genitori, figli o coniugi gli effetti negativi di una condanna penale), che in base al terzo comma, che prevede la funzione riabilitativa della pena (che verrebbe meno nel caso in cui, a condanna scontata, i suoi effetti continuassero a prodursi indirettamente sul cittadino che ha esaurito il suo debito con lo Stato, incidendo un diritto come quello alla casa). Dopo l’approvazione, tuttavia, lo stesso Fugatti ha annunciato che sono previste “una serie di deroghe” caso per caso, “di più, rinviamo a un regolamento di Giunta, che indicherà altre eccezioni alla regola”. Proprio questa iniziativa ha fatto andare su tutte le furie il centrosinistra: “Il presidente vuole pure arrogarsi il diritto di derogare caso per caso alla cacciata dei parenti del reo, autoassegnandosi non solo il potere di graziare i colpevoli, come il presidente della Repubblica, ma anche il potere di assolvere, come i giudici”, ha tuonato il consigliere Paolo Ghezzi. Insomma, dopo la tempesta mediatica per l’approvazione di una norma con la ratio conclamata di “privilegiare i cittadini onesti” (penalizzando chi ha già, però, scontato la condanna e i suoi familiari), la Giunta potrebbe tentare di rimediare in sordina alle previsioni più evidentemente controverse. Al netto dell’idoneità della questione a finire davanti a un giudice nel momento in cui venisse applicata, la legge provinciale è stata avversata anche dai sindaci di alcuni Comuni della Provincia, pronti a opporsi e a non recepire le nuove regole. Del resto, dubbi di opportunità erano stati sollevati anche in seno alla stessa maggioranza con il consigliere Claudio Cia che aveva presentato un emendamento che puntava a superare le ricadute sui familiari innocenti attraverso l’introduzione del principio di connivenza o complicità della famiglia: “Si deve consentire ai conviventi stessi di fornire una prova liberatoria, nel senso di dimostrare di non aver agevolato né partecipato, neppure omissivamente, alla realizzazione di condotte antisociali”, aveva spiegato Cia. La Lega, però, ha tirato dritto (mentre Cia si è astenuto sul voto finale). Ora la norma è legge della Provincia: tutte da verificarsi, invece, sono le conseguenze reali e giuridiche per gli inquilini delle case popolari. Taranto. Il carcere “scoppia”: 640 detenuti a fronte di 310 posti totali borderline24.com, 19 dicembre 2019 Il carcere di Taranto “ha raggiunto quota 640 detenuti a fronte di 310 posti regolamentari e per questo ci sarebbero difficoltà anche a reperire letti e materassi, per cui il carcere di Taranto il più affollato della nazione, non può più ospitare detenuti, se non facendoli dormire per terra”. Lo rende noto la segreteria regionale del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. In tutta la Puglia la situazione è di sovraffollamento tanto che continua “a macinare record negativi di sovraffollamento dei detenuti, quasi il 70% a fronte di una media nazionale di circa il 20%”. Il Sappe ne chiede le ragioni al Dap e mette a confronto i dati di Calabria e Puglia. Nel primo caso, Cosenza 232 detenuti a fronte di 218 posti; Paola 229 a fronte di 182; Rossano 296 a fronte di 263; Catanzaro 682 a fronte di 633; Reggio 302 a fronte di 337; Vibo 319 a fronte di 407 posti. In Puglia, invece, Bari 461 detenuti per 299 posti; Trani 364 per 227 posti; Foggia 623 per 365 posti; Lecce 1099 per 610 posti e Taranto con circa 640 detenuti con 310 posti. “Pure altre regioni limitrofe come la Campania e l’Abruzzo - sostiene il Sappe - potrebbero tranquillamente accogliere detenuti provenienti dalla nostra regione poiché rientrano nella media nazionale. Questi non sono numeri al lotto ma dati curati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 novembre 2019”. Per il sindacato ciò dipende dal criterio della territorialità della pena (i detenuti devono scontare la pena in carceri prossime alla residenza dei familiari) ma così “la Puglia può scoppiare, violare tutte le leggi e le sentenze della Corte di Giustizia europea mentre nelle altre regioni limitrofe si potrebbero, secondo questo principio, chiudere le carceri per mancanza di detenuti”. Firenze. Sollicciano, le coperte per il freddo: una notizia vecchia di un anno Corriere Fiorentino, 19 dicembre 2019 Il direttore del carcere Fabio Prestopino ha precisato che il riscaldamento “è normalmente funzionante”. Il comunicato risale all’anno scorso, quando il fatto è davvero accaduto. Guasto del riscaldamento a Sollicciano: 400 coperte inviate da Regione e Misericordie per alleviare il disagio dei detenuti. La notizia rimbalza sui media, peccato non sia vera. Una vera e propria fake news, che però ha fatto il giro del web e dei giornali. Un cortocircuito partito domenica scorsa, quando sul sito della Regione “Toscana Notizie” compare questa notizia sotto forma di comunicato stampa. Il comunicato risale però all’anno scorso, quando il fatto è davvero accaduto. La notizia è stata ripresa dal sito specializzato sul carcere “Ristretti”. Inoltre la Camera Penale ha fatto un comunicato stampa denunciando la gravità del riscaldamento guasto, facendo rimbalzare ulteriormente la notizia su molti media fiorentini e non solo. La stessa Camera penale in serata ha precisato che non corrisponde al vero, diversamente da una prima comunicazione, che oggi siano state consegnate coperte ai detenuti. Il direttore del carcere Fabio Prestopino ha precisato che il riscaldamento “è normalmente funzionante”. A confermare che si tratta di fake news, anche il fatto che alla fine della notizia è scritto che “il presidente Rossi ha inoltre annunciato che sabato prossimo, 22 dicembre, farà visita al carcere fiorentino insieme al garante regionale per i diritti dei detenuti”. Peccato che il prossimo 22 dicembre non caschi di sabato, come invece l’anno scorso. Parma. Quando il promotore della salute entra in carcere parmatoday.it, 19 dicembre 2019 Bilancio di un anno di attività del progetto. A un anno dall’avvio del progetto della Regione Emilia-Romagna “La promozione della salute in carcere”, l’Azienda USL fa un primo bilancio dell’attività svolta negli Istituti penitenziari di Parma, a partire dagli obiettivi raggiunti, per arrivare alle future iniziative. l lavoro di una trentina di persone del circuito alta sicurezza, alcune gravemente malate, su 3 temi: le emozioni; come avere un sistema sanitario più efficiente in carcere; quali strategie e risorse per una detenzione più attenta alle condizioni di salute. Gli esiti del lavoro, gli spunti di riflessione scaturiti insieme a nuove progettualità, sono stati presentati nei giorni scorsi nel teatro degli Istituti Penitenziari di via Burla, alla presenza, tra altri, per l’Ausl di Elena Saccenti, direttore generale; Faissal Choroma, responsabile U.O. Salute negli Istituti Penitenziari, Catia Boni, referente del progetto e le promotrici della salute Anna Ceci, Gokce Hazal Karabas e Marisa Iannucci; per gli Istituti Penitenziari, di Tazio Bianchi, direttore e Domenico Gorla, comandante. Presente anche il Garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Marcello Marighelli, mentre il Garante di Parma Roberto Cavalieri non ha potuto partecipare per impegni improrogabili. Tanti i percorsi di miglioramento portati all’attenzione dell’Azienda sanitaria e dell’Istituto di pena, alcuni dei quali hanno già avuto avvio. Milano. Nessuno tocchi Caino torna a Opera per essere (ancora) speranza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2019 Domani e sabato nel carcere milanese si svolgerà il congresso dell’associazione. “Spes contra spem”, in riferimento al passaggio dell’Apostolo Paolo di Tarso sull’incrollabile fede di Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli”, è un motto che in questi anni Marco Pannella ripeteva con insistenza. “Essere Speranza”, cioè vivere come attore della speranza, essendo noi stessi prova e corpo del cambiamento, contro l’“Avere Speranza”, ovvero le speranze semplicemente intese come qualcos’altro da noi, di cui si aspetta il verificarsi. E sono proprio i detenuti, soprattutto quelli condannati a fine pena mai, ad essere loro stessi speranza. Oramai è una tradizione per l’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino tenere il Congresso in un carcere, quest’anno nuovamente a quello milanese di Opera (venerdì e sabato), dove, nel dicembre 2015, si era svolto l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella e da cui ha tratto ispirazione la campagna con il nome, appunto, di “Spes contra Spem” per il superamento dell’ergastolo ostativo ed il 41 bis. Ora però - grazie alla perseveranza di questi anni c’è la prova che “essere speranza” dà i suoi frutti, visto la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e poi della Corte Costituzionale sul tema dell’ergastolo ostativo. “Successi che abbiamo potuto cogliere - spiegano in un comunicato stampa i dirigenti dell’associazione, Sergio d’Elia segretario, Rita Bernardini, presidente ed Elisabetta Zamparutti, tesoriere - perché ha con- vinto Spes contra Spem, motto di una vita di Marco Pannella, che ci ha animato in questi anni e perché hanno convinto i detenuti di Opera protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem - Liberi dentro” che contro ogni speranza sono stati speranza, determinando con il loro cambiamento anche l’orientamento dei giudici delle più alte giurisdizioni nazionali e sovranazionali”. Due le sessioni di dibattito: la prima dedicata al tema “Il Diritto alla Speranza: l’ergastolo ostativo alla luce delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale”; la seconda dal titolo “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Nella mattinata del 20 dicembre, dopo i saluti di accoglienza del direttore di Opera Silvio Di Gregorio e del Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia Pietro Buffa, sono previsti quelli introduttivi di Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Andrea Giorgis, sottosegretario ministero della Giustizia e Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Dopo le relazioni introduttive degli organi dirigenti, vi saranno gli interventi programmati di Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale e di Stefano Castellino, sindaco di Palma di Montechiaro, città di origine di alcuni ergastolani detenuti ad Opera con testimonianze di detenuti condannati all’ergastolo. Nella sessione di dibattito di venerdì 20 dicembre sulle sentenze contro l’ergastolo ostativo interverranno, tra gli altri: l’avvocato Antonella Mascia, che ha patrocinato il caso Viola vs Italia alla Cedu; il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida; i professori Pasquale Bronzo, Davide Galliani e Andrea Pugiotto; il presidente del Consiglio Nazionale Forense Andrea Mascherin e Riccardo De Vito, magistrato di Sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica. Infine, nella sessione di dibattito di sabato 21 dicembre interverranno tra gli altri il professor Luciano Eusebi, Gherardo Colombo e lo scrittore Gioacchino Criaco. Venezia. Il patriarca ai carcerati: “La città conta anche su di voi” di Daniela Ghio Il Gazzettino, 19 dicembre 2019 “Voi potete aiutare a ricostruire un tessuto cittadino”. I carcerati possono divenire tessuto attivo e vitale della città per un suo rilancio. Nella consueta visita natalizia al carcere di Santa Maria Maggiore il patriarca Francesco Moraglia ha esortato i coscritti ad essere più grandi dei loro errori passati. Guardando il presepe tradizionale con montagne e capanna costruiti con bottiglie di plastica, un veliero e un cartello con la scritta Mose? il patriarca ha spiegato come i carcerati fanno parte del tessuto cittadino e che anche da loro può arrivare la speranza per una rinascita di Venezia. “Nella vostra rappresentazione - ha affermato Moraglia - avete messo in luce la fragilità di Venezia che non riesce a trovare la forza perché non sia violentata da presenze eccessive e invadenti. Ha bisogno di un tessuto che voi potete aiutare a ricostruire se usciti dal carcere volete fare la vostra parte. Guai se i nostri errori diventassero la nostra persona. Sbagliare è di tutti, ma non rimaniamo fermi nel nostro sbaglio. Siete dei valori, persone capaci che, se cambiate marcia, ci darete una bella lezione”. A conferma della capacità dei ristretti il patriarca ha sottolineato la bellezza dei prodotti di serigrafia della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri e delle maschere in cartapesta, tessuti Rubelli e foglie d’oro del laboratorio di maschere del carcere guidato da Mauro Mabo. “Tra un mese uscirò dal carcere - ha detto Mabo - e riprenderò l’attività di mascarero nella mia bottega. Spero che ciò che abbiamo fatto non vada perso e che anzi i laboratori del lunedì crescano di spazio e ore sotto la guida di chi prenderà il mio posto”. In tutte le testimonianze dei detenuti il desiderio del riscatto e la responsabilità degli atti sbagliati compiuti. Ad ascoltarli con il patriarca la direttrice del carcere Immacolata Mannarella, la presidente della Corte d’Appello Ines Maria Luisa Marini,il presidente del Tribunale Salvatore Laganà e il viceprefetto Sebastiano Cento. Prima della messa il patriarca con i suoi accompagnatori ha visitato il braccio di destra della struttura carceraria dove ha potuto sentire le storie degli ospiti con più profondità. “Ci ha colpito qualche ragazzo di 19-20 anni che trova con qualche compagno di stanza anche un cammino di recupero - ha raccontato Moraglia. È stato bello questo momento aggiuntivo che fa seguito anche alla visita pastorale dove avevamo potuto stare anche un’ora con gli operatori di polizia penitenziaria e con i volontari. Ho visto il loro desiderio di venire incontro, in un contesto non facile, a certe situazioni dove il comportamento delle persone è legato a stati di salute”. Milano. Il Cardinale Parolin tra i detenuti di Opera, per portare la vicinanza di Francesco di Adriana Masotti vaticannews.va, 19 dicembre 2019 Una giornata a Milano per il cardinale Pietro Parolin, trascorsa tra i detenuti del carcere di Opera, nella periferia della città, e poi a Quarto Oggiaro dove il segretario di Stato vaticano ha inaugurato una struttura che ospiterà alcuni nuclei di mamme con bambini fuggiti da guerre e violenze. Un messaggio di solidarietà che contrasta con la globalizzazione dell’indifferenza, ha sottolineato. “Mi avete accolto come una persona importante, ma io vi porto la vicinanza di una persona più importante di me, di Gesù prima di tutto e poi di Papa Francesco”. Lo ha detto il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin nella sua visita, ieri, al carcere di massima sicurezza di Opera, nella periferia di Milano, che conta 1300 detenuti. A riceverlo la vice direttrice dell’Istituto, Mariantonietta Tucci, il comandante del reparto della polizia penitenziaria, Amerigo Fusco e il cappellano, don Francesco Palumbo e poi i volontari e gli agenti. “Il senso del pane”: un’opportunità di riscatto - Il cardinale Parolin ha visitato i diversi laboratori sorti all’interno del carcere e parlato con i detenuti presenti, in particolare si è recato a vedere il laboratorio “Il senso del pane” che, allestito dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dal 2016 produce ostie destinate alle parrocchie di tutto il mondo. Benedicendo il laboratorio Parolin ha osservato che con questo lavoro, i detenuti collaborano con il Signore perché Lui possa dare la vita a tante persone. “Con questo lavoro - ha spiegato il presidente della Fondazione, Arnoldo Mosca Mondadori - vogliamo offrire un riscatto spirituale, umano e sociale a ragazzi che hanno compiuto reati, ma hanno intrapreso un percorso di cambiamento interiore”. Laboratori simili in diverse parti del mondo - Un’esperienza, quella milanese, che è già stata esportata in altre parti del mondo dove a produrre le ostie per la messa sono persone in condizione di marginalità: in Mozambico sono ex detenuti, in Spagna donne vittime della tratta; a Pompei persone con disabilità della Comunità Giovanni XXIII, in Sri Lanka giovani ragazze e prossimamente altri laboratori apriranno in Etiopia, con i bimbi di strada di Addis Abeba, in Ruanda e a Buenos Aires. Tra i presenti anche padre Giannicola Simone, barnabita, che ha confidato a Parolin l’intenzione di aprire un laboratorio analogo nel carcere di Merida in Messico, dove operano i suoi confratelli. Un gemellaggio eucaristico tra Opera e Merida, ha commentato il cardinale. A Natale Cristo viene per ridarci la speranza - Prima di recarsi nel reparto del carcere che ospita i laboratori artistici delle persone in Alta Sicurezza, il cardinale Parolin, ha fatto tappa nella cappella per un momento di preghiera con i detenuti. Stringendo loro le mani, li ha ringraziati per l’accoglienza semplice e fraterna e ha portato a tutti i saluti di Papa Francesco che, ha ricordato, ha a cuore la situazione di quanti vivono nelle carceri. Il segretario di Stato ha sottolineato che la vicinanza della Chiesa ai detenuti non è solo di un atteggiamento umano, ma un dovere se si vuol essere veri discepoli di Gesù. A Natale festeggiamo la nascita di Cristo, ha ricordato, e Gesù si è fatto vicino a noi, è venuto per condividere tutto di noi e per aprirci alla speranza. Il mistero del Natale è proprio questo, ha proseguito, un Dio che si è fatto vicino a noi, che fa sue le nostre sofferenze per darci la speranza di diventare persone nuove. E proprio ad Opera è stata lanciata ieri la proposta, ed è il primo carcere in Italia a ideare una iniziativa simile, di ritrovarsi in preghiera un giorno a settimana per il Papa. L’inaugurazione del progetto di Arché, luogo di relazioni - La giornata del cardinale Parolin a Milano ha visto un altro momento significativo. Al termine della visita all’istituto di pena, il segretario di Stato ha voluto inaugurare il borgo solidale “La Corte di Quarto”, una casa per mamme e bambini con fragilità, aperta da Arché, Onlus nata nel 1991, a Quarto Oggiaro. Il progetto intende accompagnare per un periodo donne in fuga da violenze e dalle guerre. Padre Giuseppe Bettoni, fondatore e presidente di Arché, ha presentato il progetto dicendo che “questo non è solo un tetto ma è un luogo di condivisione e di relazioni, perché le relazioni curano e aiutano moltissimo queste mamme a recuperare la voglia di futuro”. Il cardinale Parolin ha sottolineato l’importanza che lo Spirito del Signore continui a suscitare uomini e donne che sanno intercettare i bisogni e dare risposte. Tra gli ospiti donne e bambini con fragilità - La palazzina prevede 14 unità abitative per accogliere mamme con i loro bimbi, singoli o coppie che scelgono di vivere un’esperienza di vicinato solidale e una piccola fraternità di religiosi e laici. Allestito anche uno spazio aperto alla cittadinanza, dove sono previste varie iniziative tra cui un servizio di counseling per i genitori del territorio. Un messaggio di solidarietà per tutta Milano, ha detto il cardinale Parolin, perché testimonia che, di fronte a tante difficoltà e tanti disagi, non bisogna chiudere gli occhi. Ferrara. La Messa del Vescovo in carcere coi detenuti lavocediferrara.it, 19 dicembre 2019 Svoltasi nel pomeriggio di mercoledì 18 dicembre, alla presenza della Direttrice e della Comandante. Nel pomeriggio di mercoledì 18 dicembre, la palestra/sala polifunzionale della Casa Circondariale di Ferrara ha ospitato la tradizionale Santa Messa di Natale presieduta dall’Arcivescovo. La liturgia è stata celebrata anche dal cappellano p. Tiziano Pegoraro, dall’ex cappellano mons. Antonio Bentivoglio, da don Giacomo Granzotto e don Paolo Cavallari. Un’ottantina i detenuti presenti, oltre alla direttrice della Casa Circondariale Maria Nicoletta Toscani, alla Comandante Annalisa Gadaleta, e a una decina di volontari. I parrocchiani dell’Unità Pastorale di Borgovado (tre dei quali erano presenti) hanno realizzato e donato a ogni detenuto dell’Arginone un ciondolo natalizio da appendere, raffigurante una natività “originale”, intitolata “Lasciamo riposare mamma” (nella quale Giuseppe tiene fra le sue braccia il bambin Gesù, mentre Maria si riposa distesa; papa Francesco l’ha citata nell’udienza la mattina stessa). Durante l’offertorio, invece, due detenuti hanno donato all’Arcivescovo un leggìo in legno con raffigurata una natività (foto), realizzata nel progetto di artigianato denominato “Artenuti”. P. Pegoraro, a nome anche dei detenuti, nel saluto iniziale ha spiegato, rivolto all’Arcivescovo, come “la Sua visita ci stimola bontà e serenità, ci ricorda che non siamo soli”, “in questo luogo che oltre a noi ospita anche la nostra sofferenza”. Nell’omelia, mons. Gian Carlo Perego ha riflettuto su come “il Natale sia una festa importante soprattutto dal punto di vista famigliare” e ha invitato i presenti a concentrarsi - come spesso non si fa - sulla figura di San Giuseppe, un uomo che “ha dubbi, fatica a capire ma vive con intensità questa venuta di Dio fra di noi” e per questo “dev’essere considerato un giusto”, vale a dire una persona “capace di leggere i fatti della vita, tanto quelli lieti quanto quelli difficili, attraverso la fede”. Non solo a Natale, ma sempre, “il Signore non scavalca la nostra vita ma entra in essa, una vita fatta di gioie e dolori”. Dopo aver accennato alle recenti riflessioni del Santo Padre sull’importanza del Presepe (quello interno al carcere, come l’albero, anche quest’anno realizzato dai detenuti), l’Arcivescovo ha auspicato come il Natale, quindi la presenza di Dio nella nostra vita, sia “davvero un’occasione per ritrovare il Signore e per recuperare relazioni importanti per la nostra vita”. Alla fine della liturgia, la direttrice Toscani ha riflettuto su come il Natale significa “la rinascita dell’innocenza”: “ognuno di noi - che spesso ha, come anche me, la propria famiglia lontana - deve cercare questa rinascita”. Roma. Successo dei mercatini di Natale di Economia carceraria di Valentina Stella Il Dubbio, 19 dicembre 2019 Iniziativa dell’Anm, Dap e Ordine degli avvocati di Roma. I taglieri della Comunità Alloggio Alto Molise, gli oggetti di arredamento di Villa Armonia, la pasta della casa di reclusione dell’Ucciardone sono alcune delle tante altre idee regalo, realizzate per la maggior parte dai ragazzi degli Istituto penale per minorenni di Roma, al “Mercatino di Natale di Economia carceraria” allestito presso i tribunali civile e penale di Roma. L’iniziativa è promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati di Roma, con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, del Dipartimento della Giustizia minorile e il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma. L’evento costituisce l’occasione per una raccolta di fondi il cui ricavato sarà destinato all’acquisto di attrezzature sportive da impiegarsi negli Istituti Penali per Minorenni. Come ci hanno raccontato i giovani ospiti della cooperativa Arca di Noè che hanno realizzato dei centritavola natalizi “abbiamo cercato di trasferire il senso del rigenerarsi e dell’avere nuove opportunità, usando oggetti in disuso a cui è stata data nuova forma”, lo stesso percorso - in senso metaforico - che compiono coloro che hanno sbagliato e che grazie al lavoro diventano altro dal loro passato. Per Emilia Conforti, Presidente della sezione romana dell’Anm, “lo spirito di questa iniziativa è quello di sensibilizzare sul tema del lavoro in carcere, del recupero dei detenuti, dell’affrancamento da percorsi problematici. Sono momenti di incontro necessari soprattutto per gli addetti ai lavori”. E proprio “avvocati e magistrati - dice Claudia Terracina dell’Anm - hanno lavorato insieme per il secondo anno consecutivo per questa importante iniziativa”. Concorda l’avvocato Irma Conti, coordinatrice della commissione diritto penale dell’Ordine degli avvocati di Roma: “Trovo che sia una opportunità per i detenuti e le detenute di rendersi utili e collegarsi con l’esterno. Per noi tutti una occasione per riflettere sulla funzione rieducativa della pena che esercitano negli Istituti Penitenziari i Direttori. Mi piacerebbe - conclude - che le occasioni di lavoro fossero di più senza passare per il percorso carcerario”. A guidarci tra i vari stand Oscar La Rosa, fondatore di Economia carceraria, che ci racconta la genesi della due giorni: “Tutto è nato un anno fa quando abbiamo organizzato il Festival dell’Economia carceraria durante il quale abbiamo riunito una ventina di cooperative di tutta Italia. Poi, essendo diventati un aggregatore di queste realtà, siamo stati invitati dall’Anm a realizzare questa iniziativa”. Per tutte le info è possibile consultare il sito: economiacarceraria.it Roma. Il presepe dei detenuti a Rebibbia, perché c’è sempre una capanna da aggiustare di Matteo Leonardi L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2019 È dal 1995 che, a partire da novembre, i detenuti di Rebibbia dedicano il meglio del loro tempo libero al presepe. È da quando don Roberto, lo storico cappellano, si è inventato il concorso dei presepi tra i reparti. E così, tu vedi degli omoni che gli anni di galera li contano a mazzi di decine, che lesinano sullo stuzzicadenti che servirà per una capanna, sul cartone per fare le montagne, e che si chinano a raccogliere sassetti all’ora d’aria, per costruire il greto di un fiumiciattolo. Perché don Roberto, con i pochi generosi che lo aiutano, regala agli ospiti del carcere qualche sfondo, le statuine, e qualche Sacra Famiglia, ma il resto poi è dei singoli, anzi delle singole celle. Nella recente lettera apostolica Admirabile signum, Papa Francesco ha chiesto di rimettere il presepe nelle scuole e nelle piazze: ed è quello che da anni accade nella patria galera sita nella periferia della capitale. Lì le piazze e le strade sono i corridoi e l’atrio dei vari piani, e lì nessuno si è mai lamentato o ne ha fatto una questione politica. In carcere, anche se sei musulmano o Testimone di Geova, sai che il presepe è sempre il presepe, e che all’Epifania una commissione premia il migliore. L’anno scorso, se non sbaglio, aveva vinto un piano che aveva fatto nascere Gesù sotto il Ponte Morandi. A Rebibbia tutti sanno che la frase: “Natale si festeggia perché è il compleanno di Gesù Bambino”, non può essere contro nessuno. Chiunque le si avvicini, anche se non ci trova tutta la verità cristiana, di sicuro tutto quel che ci trova è vero. Anche se un carcerato non crede al Dio Uno e Trino o alla verginità di Maria, comunque, tutto quello che vede nel presepe lo riconosce come proprio e capisce che è vero. Non sarà tutta la verità dogmatica forse, ma intanto è tutto vero. Lì ci sono un papà e una mamma con un bimbo, emarginati da tutti ma con gli animali che li aiutano a fare casa. E chi di loro non ha qualcosa in comune con tutto ciò? E chi, se ne sa qualcosa in più, perché per esempio crede che una Vergine ha dato alla luce un figlio, non si incoraggia, e ci crede anche lui che quella parte della sua vita che non funziona, può cambiare ed essere feconda? Questo è Natale e questo è il presepe. Non sarà tutto, ma è tutto vero. Non tutti crederanno a tutto quello che credono tutti gli altri, ma quando si parla di Presepe e di Natale tutto quello che ciascuno crede è vero. Perché il mistero del Natale è che divino e umano si fondono, e ci confondono. E se non capisco Dio e però un bambino lo capisco, forse un giorno avrò voglia di chiedermi se Dio c’entra in particolare con quel bambino. Ma queste sono storie che vengono dopo. Prima viene quello che mi dicono i sensi. Non solo quelli interiori. Anche quelli degli occhi e della bocca. Le lucette, il panettone regalato da buone persone che mandano il pacco senza dire chi sono, annunciano che è arrivata la festa. E in questa lettura non c’è nulla di buonista. Al limite, questo sì, possiamo dire che è una lettura un po’ forzata. Sì, “forzata”, va bene. Va bene sia perché chi sta in carcere, magari condannato all’ergastolo, sta dentro per forza; sia perché chi collabora a costruire il presepe, si sforza. Perché il Natale, che ci insegna a tenere assieme le cose altissime con quelle piccolissime, perché ci insegna a fare come il festeggiato che per i cristiani è assieme Dio onnipotente e uomo neonato, ai detenuti di Rebibbia insegna a fare le statuine del presepe con la stessa pasta, lo stesso materiale, dell’impasto della loro vita di ogni giorno. Il Presepe, proprio a Rebibbia, proprio tra gente di diverse religioni e di molteplici razze, ti spiega che la storia è sempre la stessa. Che tu sia Dio o che tu sia uomo, che tu sia ricco come i magi o povero come i pastori, che tu sia bue o asinello: gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. A Natale, anche per chi è libero, capita spesso di dover fare i conti con le relazioni che non funzionano. Quelle persone moleste con le quali le cose non vanno e che lungo l’anno abbiamo fatto di tutto per evitare, quelle saranno al nostro cenone. Non sto pensando solo alla suocera o al cognato ma anche, è difficile dirlo, alla moglie o al figlio. Dico moglie, non ex-moglie; e dico figlio, non ex-figlio. Perché spesso sono proprio le persone sulla carta più intime, quelle che lungo l’anno con mille stratagemmi abbiamo evitato; e sono loro che il giorno di Natale, per mille motivi, ci ritroveremo a fianco mentre mangeremo i tortellini o il capitone. E allora non possiamo svicolare ma dobbiamo imparare a sfruttare l’occasione. In carcere la possibilità di scappare non c’è perché non scegli tu con chi condividere la stessa cella: ma anche per questo il Presepe ti dà qualcosa in più, ti offre un luogo per comporre la diversità. Perché Maria e Giuseppe hanno festeggiato la nascita del figlio con i pastori, ovvero con gente che non conoscevano e non avevano invitato a casa a loro. E allora impari. L’autoritarismo nel pregiudizio di Nunzio Smacchia* Gazzetta del Mezzogiorno, 19 dicembre 2019 La società attuale e il pensiero moderno sono attraversati da un sentimento molto forte che è la paura, rappresentata e vissuta in tutte le sue forme e in tutti i suoi contesti. L’idea della funzionalità sociale scevra da crisi, trasformazioni e identità è alla ricerca di un concetto unitario, garante e rassicurante, che possa dare nuovi modelli interpretativi in una dinamica psichica e mentale, che confluiscano nel pensiero-azione e attuino una sinergia sociale. La paura ha accompagnato l’uomo da sempre, segnalandogli pericoli e stati d’animo di fronte all’inconoscibile e oggi è un grave motivo di ansia e di preoccupazioni esistenziali costituite da catastrofi, malattie e crimini sempre più efferati. L’uomo ingaggia con la paura lotte distruttive e riesce, poi, a emergere da forze contrarie. Si ritiene che il razzismo sia un modo per negare diritti, per distruggere persone e popolazioni in nome di un’ideologia e lo si alimenta in maniera inconscia, senza sapere riconoscerlo e soprattutto senza rendersi conto del perché si hanno queste reazioni negative; non sempre il termine razzismo è esplicitato chiaramente, ma spesso è accompagnato da stati emotivi che racchiudono disapprovazione e odio per persone ed etnie. In questo modo si formano nell’individuo sacche di ozio intellettuale, che distraggono e allontanano dalla conoscenza, dalla riflessione, dal confronto e dalla comprensione dell’altro. E questo processo si chiama pregiudizio, che diventa ideologico quando nega cose diverse. Il razzismo, quello antropologico e culturale, si presenta con modelli stereotipati, sotto mentite spoglie, alle volte come “differenza culturale” che si ha quando si sostiene una visione etnocentrica, per le accezioni ideologiche, complesse e molteplici. In sostanza, il razzismo è “l’atteggiamento di esclusione che assume il carattere di permanenza” (Colette Guillaumin), di chi si presenta come altro. La segregazione è un modo di essere, di pensare e di comportarsi, escludendo qualcuno o qualcosa in modo definitivo; va ricercata nei concetti e nei fenomeni di etnicismo, di religione e di genere, termini che hanno in comune una connotazione di fondo: la paura. Questo sentimento di brivido racchiude la paura dell’altro, di ciò che non si conosce, che può in qualche modo limitare il proprio esistere. La mentalità che è alla base del razzismo criminoso è la filosofia della paura e, in casi più estremi, la logica del terrore. La concezione del razzismo isola chi è diverso, non favorendo la conoscenza. Questa negazione porta all’ignoranza e alla formazione di stereotipi, cioè quelle cognizioni che sono già patrimonio degli altri e che da questi sono condivise. La paura, quindi, non riesce a vedere al di là del naturale dell’Altro, non distingue le differenze culturali, fisiche, morali e reali; si crede vero ciò che è approvato dalla generalità e si respinge, e quindi non si accetta, quanto non rientra in essa. Al razzismo si associa l’idea di razza, facendone esclusivamente un fatto sociale. In questo rientra il termine pregiudizio, ossia un assunto che non viene esposto ad una giusta fase di riflessione. Se ci sono forme codificate di tradizione e di pensiero di un certo tipo di cultura che non si confronta con altre, questa diventa una sorta di gabbia da cui non è facile uscirne, senza forzarsi: diventa pregiudizio. Il preconcetto, avvalorato da diverse considerazioni psico-sociali, determina manifestazioni d’intolleranza e di discriminazione, a volte criminali, come il negare i più elementari diritti umani. Nel pregiudizio è radicata la rigidità tipica del soggetto psicologicamente autoritario, anche se non sempre questi è un individuo che ricorre ai pregiudizi; può essere intollerante, ma non per questo una persona piena di pregiudizi. I Governi cambiano, le proibizioni restano identiche di Marco Cappato e Marco Perduca* Il Riformista, 19 dicembre 2019 Sembrava che la maggioranza del governo Conte 2 fosse meno ideologizzata, invece non ha toccato le politiche proibizioniste dei governi precedenti che minacciano il carcere contro libertà e scienza. Sono passati quattro mesi dalla formazione del Governo Conte 2 e, malgrado la composizione della maggioranza che lo sostiene potesse lasciar intendere atteggiamenti meno ideologizzati, nessuna delle leggi e politiche proibizioniste adottate dai Governi che lo hanno preceduto in materia di scienza e libertà individuali è stata messa in discussione. Allo stesso tempo il Parlamento, anche quando espressamente tirato in ballo dalla Corte Costituzionale, non ha esercitato alcun tipo di autonomia riformatrice: dalle decisioni necessarie per definire quali tutele occorra garantire per il cosiddetto “fine vita” fino al più recente blocco dei chiarimenti necessari per poter consolidare il commercio di “cannabis light”, passando per le dotazioni alla ricerca scientifica, sia in termini di risorse che di regole, niente è stato fatto. Eppure non passa giorno che non si venga informati di vertici, summit o riunioni notturne dei Consigli dei Ministri o di abbandoni di gruppi, scissioni o accese assemblee parlamentari. Tutto continua a ruotare attorno a dinamiche interne ai partiti, o comunque si chiamino oggi. Mentre c’è chi, giustamente, si scaglia contro il cosiddetto populismo penale, che ritiene di dover affidare all’indurimento delle pene il governo di vari tipi di comportamenti, dai reati più gravi al piccolo spaccio, molte delle norme proibizioniste e anti-scientifiche degli anni scorsi restano in vigore con le drammatiche conseguenze che provocano in termini di libertà individuali e di progresso scientifico. Leggi e politiche eredità di Governi di centro-destra e centro-sinistra. Resiste la pena fino a sei anni di carcere per chi vuole far ricerca sugli embrioni umani; le pene relative a reati (non gravi) connessi alle droghe illecite possono arrivare fino 6 anni per la cannabis - addirittura sette per coltivazione! - se invece si tratta di altre sostanze più “pesanti” la galera può arrivare fino a 20 anni. Carcere da 3 mesi fino a 10 anni, a seconda dei ruoli, per medici, coppie e gestante per una gestazione solidale; fino a 12 anni di carcere per i medici che accogliessero la richiesta di malati terminali sottoposti a sofferenze insopportabili e non tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale di porre fine alla propria esistenza. Per non parlare di un apparato di segnalazioni prefettizie o sanzioni amministrative che, nel caso di uso personale degli stupefacenti illeciti, nella “seconda repubblica” ha interessato oltre un milione di persone! E se in un paio di occasioni non fosse intervenuta la Corte Costituzionale la situazione sarebbe ancora peggiore. Nel 2014 infatti la Consulta ha reso incostituzionale buona parte delle norme contenute nella legge sulle droghe del 2006, la cosiddetta legge Fini-Giovanardi, consentendo una sostanziale (anche se non formale) depenalizzazione almeno dell’uso personale sporadico; nell’ottobre scorso invece, ha chiarito che in alcuni casi l’aiuto al suicidio non dev’esser necessariamente punito, come lo era indiscriminatamente con una reclusione da cinque a 12 anni dal 1930. Nella sua sentenza relativa al caso Cappato-Dj Fabo, la Consulta non ha potuto fare a meno di ribadire, e “con vigore”, che “la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”. Nel settembre del 2018 la Corte aveva concesso 11 mesi al Parlamento per poter discutere e individuare una riforma in tema di fine vita nel solco dei principi costituzionali. Sebbene l’iter legislativo fosse iniziato nella primavera scorsa, la mancanza di consonanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega fece bloccare il tutto. Quell’inazione ha regnato e continua a regnare sovrana. Archiviata l’anti-politica, passata di moda la rottamazione, scomparse le ideologie del secolo scorso cosa resta? Il sovranismo? Il populismo? L’europeismo? Resta sicuramente la Costituzione che prevede, tra le altre cose, che i cittadini si possano fare legislatori nell’abrogare leggi dello Stato per via referendaria oppure nel presentare alle Camere proposte di legge d’iniziativa popolare. Strade che abbiamo percorso in passato e che, ancora oggi, vedono l’Associazione Luca Coscioni, assieme ad altre associazioni, a partire da Radicali Italiani, tra i pochi soggetti organizzati che attivano quanto previsto dalla Carta. Anche in questo caso, in questa legislatura nessun gruppo politico si è adoperato per corrispondere a questa volontà popolare. Come ci insegna la storia delle riforme strutturali nel nostro Paese, dal divorzio all’aborto passando per l’obiezione di coscienza, là dove non arriva la politica ufficiale possono - devono? - arrivare i cittadini che, disobbedendo leggi ingiuste, cercano di far scaturire modifiche nei codici per ampliare, tutelandole, le libertà che devono essere informate dal confronto e confortate da evidenze frutto della ricerca. La partecipazione diretta delle persone può fare la differenza. Questi sono i temi che affronteremo nel Consiglio generale pubblico dell’Associazione Luca Coscioni che si terrà oggi pomeriggio a Roma all’Hotel Bernini. I lavori saranno preceduti al mattino da un Seminario giuridico su “Libertà fondamentali alla fine della vita: Il caso Cappato” presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati. *Associazione Luca Coscioni Diritti umani. Il premio Sakharov al detenuto uighuro: ecco chi è di Daniele Zappalà Avvenire, 19 dicembre 2019 Il riconoscimento per la libertà di pensiero è stato assegnato dal Parlamento Ue al professore condannato all’ergastolo da Pechino per “estremismo” e tenuto in carcere in una località segreta. All’ergastolo da cinque anni. Economista e militante per i diritti del popolo uighuro e delle altre minoranze in Cina, Ilham Tohti ha appena superato in prigione la soglia dei 50 anni, dopo la condanna all’ergastolo nel 2014 che gli è stata inflitta dalle autorità cinesi, con l’accusa di “separatismo”. Come accademico, si è in particolare occupato delle relazioni fra uighuri e etnia Han. Gli sono già stati conferiti, a testimoniare il ruolo che sta assumendo, il Premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani (2016), così come, lo scorso settembre, il Premio Vaclav Havel, da parte del Consiglio d’Europa. Al centro dell’emiciclo blu in silenzio, una sedia nera vuota. Poi, da ogni parte, scrosciano gli applausi, tanto dagli eurodeputati in piedi, quanto dalle tribune superiori gremite pure di studenti. Al cinquantenne Ilham Tohti, condannato all’ergastolo dalle autorità cinesi e rinchiuso in cella nello Xinjiang del popolo uighuro martoriato, o forse a Pechino, o in un’altra località tenuta segreta, l’eco calorosa della cerimonia di ieri del Premio Sakharov per la Libertà di pensiero giungerà con un ritardo impossibile da prevedere. Ma è chiaro a tutti i presenti, a cominciare dalla figlia neolaureata Jewher Ilham, giunta dagli Stati Uniti per ritirare il riconoscimento, che l’emiciclo si è trasformato ancora una volta in megafono: grazie al premiato assente, un apprezzato professore universitario d’economia divenuto il simbolo dei diritti umani uighuri calpestati, è ormai presente sotto gli occhi degli europei, se non del mondo, un dramma la cui ampiezza è stata a lungo negata o minorata. Adesso, quale sarà il destino di Tohti? “Il Parlamento europeo chiede la sua liberazione immediata e incondizionata”, ha lanciato il presidente David Sassoli, tratteggiando il percorso di un uomo ammirato, oltre che per le convinzioni di ferro, anche per la prospettiva non violenta abbracciata negli anni, contraddicendo l’etichetta ufficiale di “estremista” incollata da Pechino sul capo del cinquantenne: “Da oltre vent’anni, lavora instancabilmente per promuovere il dialogo e la comprensione reciproca tra gli uighuri e gli altri popoli cinesi. Ciononostante, è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di separatismo”. In direzione di Pechino, il presidente dell’Europarlamento ha rivolto parole di fermezza: “Vorrei che la parola del Parlamento Europeo venisse presa sul serio da parte delle autorità cinesi e credo che sia saggio per loro ascoltare la voce del Parlamento Europeo”. Con un’attenzione alla libertà delle persone, la Cina “sarà ancora più importante”, ha aggiunto. Un’occasione colta da Sassoli anche per evocare i precedenti vincitori del Premio Sakharov anch’essi reclusi e isolati da sistemi repressivi, come il cineasta ucraino Oleg Sentsov, premiato l’anno scorso e liberato da Mosca lo scorso settembre, nel quadro di uno scambio di prigionieri. Il megafono democratico di Strasburgo può dunque talvolta contribuire a propiziare esiti insperati almeno su scala individuale, se non collettiva. Magari attraverso il sostegno attivo delle diplomazie degli Stati europei e al ruolo dell’Alto rappresentante Ue (presente ieri a Strasburgo), ai quali Sassoli ha chiesto “di prestare molta attenzione ai diritti umani nelle relazioni fra l’Ue” e le altre cancellerie planetarie. Visibilmente emozionata, Jewher Ihlam ha ringraziato tutti calorosamente, confermando di non sapere dove si trova il padre, di cui la famiglia non riceve notizie dal 2007. Il nome di Tohti era stato proposto dal gruppo liberale “Renew Europe”, ma la giornata di mercoledì ha offerto una preziosa vetrina anche ai finalisti del premio, scelti da altri gruppi all’interno dell’emiciclo. Fra questi, “The Restorers”, ovvero cinque adolescenti keniote che hanno creato un’App rivolta alle coetanee che intendono opporsi alla piaga ancora estremamente diffusa dell’infibulazione. In risalto anche la battaglia per preservare la foresta amazzonica, con la presenza a Strasburgo di un rappresentante del celebre capo indigeno Raoni, ma anche della militante Claudelice Silva dos Santos. Per la stessa causa, a titolo postumo, è stata premiata pure un’altra brasiliana, Marielle Franco. Migranti. Mercantili usati per i respingimenti. Italia denunciata all’Onu di Marina Della Croce Il Manifesto, 19 dicembre 2019 In un rapporto del Forensic Oceanography il caso della nave Nivin che a novembre dell’anno scorso riportò 93 persone a Misurata. La tecnica era semplice. Per aggirare il divieto di respingimento imposto dal diritto internazionale l’Italia affidava ai mercantili il compito di intervenire in soccorso dei barconi carichi di migranti ordinando poi di coordinarsi con la Guardia costiera di Tripoli per riportarli in Libia, Paese dal quale erano fuggiti. Un modo per “privatizzare i respingimenti” svelato dal Forensic Oceanography, centro di ricerche della Goldsmith University di Londra, e che è costato all’Italia una denuncia al comitato per i diritti umani delle Nazioni unite. Il caso preso in esame riguarda il mercantile Nivin. Il 7 novembre 2018 la nave, battente bandiera panamense, riceve dal Centro nazionale di coordinamento marittimo italiano la richiesta di intervenire in aiuto di un’imbarcazione con 93 migranti in difficoltà nel Mediterraneo. In seguito al soccorso, al Nivin viene detto di contattare la Guardia costiera libica che, a sua volta, ordina di riportare i migranti in Libia. Una volta arrivati nel porto di Misurata, però, i migranti rifiutano di lasciare la nave sapendo che sarebbero stati riportati nei centri di detenzione. La resistenza dura dieci giorni, al termine di quali le forze di sicurezza libiche intervengono con lacrimogeni a pallottole di gomma per costringere i migranti alla resa. Migranti che poi vengono imprigionati nei centri, dove sono in molti quelli che subiscono violenze e torture. A rendere noto quanto accaduto è un cittadino sud-sudanese oggi residente a Malta ma all’epoca dei fatti tra i migranti costretti con la forza dai libici a scendere dalla Nivin. L’uomo ha raccontato ai volontari di Medici senza frontiere che lo hanno incontrato a Malta di “essere stato colpito con una pistola a una gamba, arrestato malmenato, costretto al lavoro forzato e privato di cure mediche per mesi”. A presentare la denuncia alle Nazioni unite è stato il Global Legal Action Network (Glan), che punta il dito sulle responsabilità italiane: “I respingimenti delle persone che l’Italia ha rimandato in Libia erano illegali” scrive l’organismo in una nota ricorda anche come i “respingimenti privati” siano aumentati in modo significativo dal giugno del 2018, con gli Stati che hanno utilizzato sempre più i mercantili per “cercare di aggirare i loro obblighi verso i migranti”. E a proposito della Nivin il rapporto di Forensic Oceanography aggiunge che l’operazione venne “coordinata” dalla Guardia costiera libica che era “in comunicazione” on una nave della Marina italiana ormeggiata a Tripoli. E ancora: “Sebbene gli attori coinvolti possano dare l’impressione di un coordinamento tra attori statali europei e la Guardia costiera libica, il controllo e il coordinamento rimasero costantemente nelle mani di attori europei e in particolare italiani”. “La nostra denuncia - conclude il responsabile del Glan, Gearoid O’Cuinn - si rivolge al tentativo dell’Italia di abdicare alle sue responsabilità nel rispetto dei diritti umani, privatizzando i respingimenti i migranti riportati in una situazione di incubo in Libia”. La denuncia rappresenta il ruolo attivo svolto dall’Italia nel respingere i migranti in Libia, e che non si limiterebbe alla sola fornitura di motovedette e assistenza tecnica alla Guardia costiera libica. “Il nostro Paese, con i nostri soldi, ha fatto questo”, ha contato l’ex sindaco di Lampedusa, oggi europarlamentare, Pietro Bartolo. “Da rapporto emerge la pratica di arrivare a rivolgersi ai mercantili privati, laddove la Guardia costiera libica non poteva prendere in carico le persone che cercavano di arrivare in Italia. Mi auguro soltanto che le responsabilità vengano individuare prima possibile”. Migranti. Di Maio dà il via libera al processo contro Salvini: oggi previsto il primo voto Corriere della Sera, 19 dicembre 2019 Lo prevede l’atto di accusa del tribunale dei ministri di Catania (a sinistra la foto) contro l’ex titolare del Viminale. La replica del leader leghista: “È una vergogna”. Matteo Salvini “ha abusato dei suoi poteri privando della libertà personale 131 migranti a bordo dell’unità navale Gregoretti della guardia costiera italiana alle 00,35 del 27 luglio 2019”. Eccolo l’atto di accusa del tribunale dei ministri di Catania contro l’ex titolare del Viminale, che ha già replicato: “Rischio fino a 15 anni, una vergogna”. La richiesta di autorizzazione a procedere è stata inviata al Senato e ora dovranno essere i parlamentari a decidere se concedere il via libera. Un “via libera” che si fa molto probabile dopo che in serata, a “Porta a porta” Luigi Di Maio ha annunciato il sì del M5S all’autorizzazione a procedere. Domani, giovedì, primo banco di prova: sull’argomento è convocata la giunta per le autorizzazioni a procedere. Salvini è accusato di aver “determinato consapevolmente l’illegittima privazione della libertà dei migranti, costretti a rimanere in condizioni psico fisiche critiche a bordo”. Adesso bisognerà vedere che cosa decideranno di fare i 5 Stelle che all’epoca governavano con Salvini e dunque condivisero la sua linea. La vicenda riguarda la nave Gregoretti: il pattugliatore della Guardia Costiera era stato fermo nel porto militare di Augusta (Siracusa) dalla notte del 27 luglio con a bordo oltre 100 migranti soccorsi in mare fino al 31 luglio quando era arrivato il via libera allo sbarco. La Procura a settembre aveva ufficializzato la richiesta di archiviazione, ma aveva comunque trasmesso gli atti al Collegio per i reati ministeriali del Tribunale di Catania. Migranti. Migliaia di vite a rischio lungo la frontiera orientale europea di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 dicembre 2019 Lungo la rotta dei Balcani occidentali, migliaia di migranti e rifugiati in cerca di salvezza in Europa stanno affrontando rischi mortali mentre nevica e le temperature scendono sotto lo zero. A causa del comportamento illegale della polizia della Croazia, che continua a respingere con estrema violenza coloro che cercano di entrare nell’Unione europea attraverso i suoi confini, in Bosnia ed Erzegovina è in corso una grave crisi umanitaria. Nella prima settimana di dicembre, è iniziato uno sciopero della fame dei migranti e dei rifugiati del campo di Vucjak. Prima che ne venisse annunciata la chiusura, quasi 800 persone vivevano in una tendopoli situata su terreni contaminati di una discarica senza acqua corrente e privi di servizi igienico-sanitari e fonti di riscaldamento sufficienti. Circa 3.000 degli 8.000 migranti e rifugiati che si trovano in Bosnia non riescono a trovare un posto nei campi, a causa del sovraffollamento, e dormono a cielo aperto affrontando temperature sotto zero. Altre migliaia di persone vivono altrove nella regione, come in Serbia, in condizioni di permanente incertezza. Rischi enormi corrono anche le persone che cercano di entrare nell’Unione europea attraverso la frontiera settentrionale tra Turchia e Grecia, segnata dal fiume Evros. Il loro numero aumenta di anno in anno: da 4000 nel 2016 a 14.000 nel 2019. Conseguentemente, aumentano le prassi violente di respingimento. Negli ultimi giorni sei persone sono morte di ipotermia nel percorso tra il fiume Evro e l’interno della Grecia. Le autorità di Atene hanno annunciato il rafforzamento delle misure di deterrenza, anche attraverso l’installazione di sistemi di sorveglianza. La maggior parte delle persone che, nel 2019, hanno raggiunto la frontiera orientale dell’Unione europea, più di 70.000, resta trattenuta sulle isole greche di fronte alla Turchia. Si stima che vi si trovino attualmente, in condizioni spaventose, oltre 40.000 persone di cui 13.800 minorenni. Molte di esse dormono in tende precarie o in container dalle pareti sottili che non forniscono protezione rispetto al clima invernale. L’estremo sovraffollamento ha causato molte vittime. Il 6 dicembre una donna è morta nell’incendio del suo container nel campo di Kara Tepe, sull’isola di Lesbo. Secondo Medici senza frontiere sull’isola di Moria, da agosto, sono morti tre bambini, uno dei quali (appena nato) per disidratazione.